Dicembre 30 2015

L’ISIS ha realmente ambizioni su Israele?

Israele

La diffusione del primo video in ebraico può far pensare che l’ISIS abbia ambizioni su Israele. Rovesciare il governo d’Israele non è una priorità dell’ISIS.

Il 23 ottobre 2015 l’ISIS diffonde il suo primo video in ebraico rivolgendosi agli “ebrei che occupano le terre musulmane”, le frasi più significative sono qui sotto riportate:

Israele

Retorica o strategia?

Nel luglio 2015 l’affiliato egiziano dell’ISIS: Wilayat Sinai, rivendica la responsabilità del lancio di 3 missili esplosi nel sud d’Israele. L’organizzazione jihadista basata a Gaza: Hadid Brigade, capeggiata dallo Sceicco Omar, che potrebbe avere dei legami con l’ISIS, lancia un attacco missilistico nella città portuale d’Israele, Ashod, nel maggio del 2015.
Tornando un po’ indietro nel tempo, nel febbraio del 2008, Abu Omar al – Baghdadi, poi leader del’Islamic State of Iraq (ISI), predecessore di Abu Bakr al – Baghdadi, annuncia la sua intenzione di sovraintendere la liberazione della moschea di Al – Aqsa asserendo: “abbiamo chiesto a Dio e speriamo che l’ISI sarà la prima pietra per il ritorno a Gerusalemme”. Recentemente l’ISIS ha diffuso una serie di video messaggi che incoraggiano i palestinesi ad impegnarsi in attacchi dei così detti “lupi solitari” contro gli ebrei: “riportate l’orrore agli ebrei con esplosioni, incendi e accoltellamenti”. Video che circolavano con l’hastag #the_slaughter_of_Jews (il massacro degli ebrei). Malgrado queste minacce, i carrarmati dell’ISIS non attraverseranno la Terra Santa nell’immediato futuro e neanche tanto presto. Rovesciare il governo israeliano non è una priorità pressante per l’alto comando dell’ISIS. L’organizzazione terroristica transnazionale è più interessata nel conquistare le terre sunnite dove l’autorità statuale è gravemente compromessa. Dabiq, la rivista in inglese dell’ISIS, sintetizza la strategia dell’organizzazione così: “indebolire i governi musulmani attraverso il terrorismo in  modo da creare un vuoto di sicurezza (letteralmente caos o tawahhush). I combattenti dell’ISIS si muoveranno in quei luoghi per stabilire strutture di un nuovo stato (idarat). Fino ad ora l’ISIS si è mantenuta stretta a questo piano: i suoi combattenti sono stati più attivi e vincenti in aeree dove c’è un vuoto di sicurezza.

Israele, che ha una delle più potenti forze militari nel Medio Oriente è sicuramente l’opposto di un “vuoto di sicurezza”.

Anche dal punto di vista teologico, la sconfitta di Israele ha bassa priorità. Pur non essendo usuale per un gruppo sunnita, l’ISIS è motivato da profezie islamiche sulla fine dei tempi. Queste profezie immaginano la conquista di Gerusalemme ed una guerra con gli ebrei come atto finale del melodramma della fine dei tempi. Tuttavia l’ISIS si trova ancora al primo atto di quel melodramma, cioè al ripristino del califfato. Inoltre, deve ancora diffonderlo nel mondo e sconfiggere gli infedeli cristiani. Per cui, malgrado i video ed i messaggi che incitano ad un combattimento aperto con Israele, le minacce dell’ISIS contro Israele sono vuote. Non vuol dire che siano vuote di contenuti o irrilevanti, ma che sono rivolte soltanto al reclutamento di musulmani irati dalle occupazioni di Israele, piuttosto che configurarsi come il segnale di un’invasione.

L’ISIS è focalizzato sul consolidamento del suo stato e la sua espansione nelle terre sunnite. Anche se lo sguardo dell’organizzazione terroristica transnazionale rimarrà fisso su Gerusalemme non cercherà di piantarci la sua bandiera nell’immediato futuro.

Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.

Dicembre 23 2015

L’Egitto di oggi è poi così cambiato?

Egitto oggi è cambiato?

L’Egitto del dicembre 2015 assomiglia molto all’Egitto degli ultimi mesi del 2010 e alla fine del dominio di Mubarak, durato tre decadi.

L’ Egitto di oggi assomiglia molto all’Egitto del tardo 2010 e ai mesi finali del dominio di Hosni Mubarak durate tre decadi. Il presidente militare non era affatto un sofisticato politico ed oggi come allora ci sono le lotte per il potere economico e politico tra i militari e gli uomini d’affari, abusi dei diritti umani, sofferenza economica,  gruppi jihadisti nel Sinai.  Significativo è il fatto che oggi queste situazioni appaiono più pronunciate.

La familiare “manipolazione esecutiva” della legislatura

I membri e la missione dell’eletta House of Representative con 598 seggi ci svela diverse somiglianze con il parlamento scelto qualche mese prima delle rivolte del gennaio 2011. La composizione del nuovo parlamento non rappresenta tutti gli egiziani, pochi dei quali si sono recati alle urne per il voto, che sia stato per scelta o per varie forme di esclusione, tutto ciò riflette lo stato della politica formale. Le forze di sicurezza e i militari sono invischiati nella politica più che mai. Sono ricomparsi sulla scena uomini d’affari molto ricchi e rampolli di vecchie famiglie.

I generali in pensione sia dell’esercito che della polizia hanno conquistato circa il 13% dei seggi in parlamento. Gli uomini d’affari hanno preso il 25% dei seggi, nel 2010  si attestavano ad un massimo del 20% , nel 2012 al 15%.
I Fratelli Musulmani, che nel 2012 hanno vinto circa la metà dei seggi in parlamento, sono stati esclusi. Il Salafi Nour Party, l’unico partito islamista che partecipava alle elezioni di quest’anno, ha vinto solo 12 seggi, il 2%, in netto calo rispetto al 2012 quando si attestava attorno al 25%. Molti dei partiti orientati verso i giovani che zampillarono nel 2011 si sono sciolti o sono stati marginalizzati; un nuovo partito, Future of the Homeland, che ha vinto sorprendentemente 50 seggi, guidato da un 24enne sostenitore del presidente Abdel Fattah al Sisi, sinistramente rievoca il Future Generation Foundation capeggiato dal rampollo dell’ex presidente Mubarak.
Il nuovo parlamento egiziano è stato chiamato a fornire il suo imprimatur alle azioni del tutto non democratiche iniziate dalla presidenza, come lo furono i parlamentari dell’era Mubarak, anche se le nuove azioni sono molto più estreme. Il primo compito dell’House of Representative è stato di approvare 260 leggi passate con decreti dal colpo di stato del 2013 che portò al potere al Sisi. La costituzione adottata nel 2014 sancisce che la validazione deve avere luogo nell’arco di 15 giorni da quando il parlamento si riunisce, non lasciando alcuno spazio per la revisione ed il riesame dei decreti. Per gli egiziani, questa sorta di “manipolazione esecutiva” della legislatura è un’altra condizione del tutto familiare.

Al di là dei trucchetti politici, l’inflazione che fa salire il prezzo dei beni di prima necessità, le proteste dei lavoratori per i salari bassi, ricordano molto la fine del 2010.

Lo sdegno pubblico per le morti causate dalla brutalità della polizia è un’altra triste somiglianza con quegli ultimi mesi del 2010. Diversamente dal 2010, tuttavia, non c’è un movimento giovanile dinamico che guida un più ampio ed articolato movimento di protesta: gli ex leader o sono in prigione o in esilio.

Invece quello che l’Egitto ha nel 2015 é una crescente ribellione, violenta e sfaccettata, composta e sopportata da islamisti e altre figure alienate dalla limitata politica formale mostrata nel nuovo parlamento, che minaccia di trascinare il paese in acque inesplorate.

Gli amici ritrovati

L’Egitto e l’Arabia Saudita verosimilmente, sono i due stati più influenti del mondo arabo e continuano ad esprimere la loro determinazione per rafforzare un’alleanza che è cresciuta sotto il presidente egiziano Abdel – Fattah al Sisi. Nel tardo luglio di quest’anno, Al Sisi, il ministro della difesa saudita e il vice erede al trono Mohamed bin Salman hanno firmato un accordo chiamato Cairo Declarationun progetto strategico per accrescere la cooperazione bilaterale in diverse aree, specialmente nell’ambito della difesa e dell’economia.

E’ dal 2013 che l’Arabia Saudita e altri stati del Golfo Arabo hanno aiutato il regime di al Sisi con miliardi in aiuti economici. L’Egitto, in cambio, è stato un partner della guerra guidata della monarchia saudita, contro i ribelli Houthi in Yemen e proprio la scorsa settimana hanno inviato 800 truppe di terra in quel paese.
L’obiettivo centrale della dichiarazione del Cairo, di creare una forza militare araba congiunta, semplicemente reitera una decisione presa durante il summit della Lega Araba in Egitto lo scorso marzo. Bizzarra una parte della Dichiarazione in cui si chiama ad una maggiore cooperazione economica facendo finta che l’Arabia Saudita non sia già la maggiore fonte di investimento arabo: 10 miliardi di dollari nel 2014. L’unico elemento nuovo di questa dichiarazione è la promessa di demarcare le frontiere marittime tra l’Egitto e l’Arabia Saudita, questo permetterebbe ai due governi di risolvere una disputa di sovranità su le isole di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso, amministrate dall’Egitto ma rivendicate dai sauditi. Cosa che però non ha mai veramente minacciato i legami bilaterali tra i paesi.
La cooperazione tra l’Egitto e l’Arabia Saudita potrebbe permettere agli Stati Uniti di diminuire i suoi sforzi e allontanarsi da interventi nel Medio Oriente costosi, di larga scala, pericolosi e lavorare in maniera più diretta attraverso i suoi alleati.
Diplomaticamente il dialogo strategico tra gli Stati Uniti e l’Egitto, che è stato congelato dal 2009 a causa della violazione sistematica dei diritti umani e dei disordini politici in Egitto, sono ripresi quest’estate. Washington ha l’opportunità di ingaggiare l’alleanza egiziana – saudita strategicamente per massimizzare il coordinamento di alto livello politico e diplomatico tra i tre governi.
Un più grande coinvolgimento americano servirà anche per controbilanciare alcune sensibilità geopolitiche che circondano una più grande integrazione economica nella regione del Mar Rosso. Ad esempio Washington potrebbe esplorare vie per sostenere la costruzione del progetto di rete elettrica saudita – egiziana che permetterebbe ai due paesi di generare e condividere 3000 megawatt addizionali di elettricità durante le ore di punta attraverso un cavo di 12 miglia sotto il golfo di Aqaba.
Vale la pena di chiedersi se Washington possa capitalizzare l’attuale amicizia tra il Cairo e Riyadh e allineare le aperture egiziane e saudite con interessi regionali americani di lungo termine, cosa che potrebbe non essere nelle mani di Obama, ma in quelle del suo successore.

Dicembre 19 2015

Qatar e Turchia: alleanza strategica

Turchia e Qatar

Il Qatar e la Turchia costruiscono un’alleanza strategica per definire un nuovo equilibrio di potere nel Medio Oriente favorevole ai propri interessi.

Il viaggio di Erdogan in Qatar circa due settimane fa è il suo secondo viaggio nel piccolo stato arabo ricco di petrolio e gas da quando è stato eletto presidente della Turchia. La visita riveste un’importanza estrema perché inaugura il primo incontro del Consiglio di Cooperazione strategico di alto livello tra i due paesi: meccanismo creato lo scorso anno per intensificare la cooperazione bilaterale in settori strategici.
Durante la visita di Erdogan sono stati firmati 16 distinti accordi che regolano diversi settori, dall’educazione agli affari marittimi, ai viaggi e all’energia. Alcuni degli accordi sono di natura puramente tecnica come quelli concernenti la cooperazione sugli archivi, le credenziali di riconoscimento nell’industria marittima e nella gestione della finanza pubblica. Altri, di alto livello, come l’addestramento per protocolli di sicurezza e l’accordo per promuovere legami energetici, non includono molti dettagli.

La cooperazione bilaterale Qatar – Turchia diventa alleanza de facto

Questa recente visita di Erdogan in Qatar ha un doppio ruolo: da un lato istituzionalizzare la cooperazione bilaterale tra la Turchia ed il Qatar e, dall’altro, inviare segnali strategici di quella che è diventata una alleanza de facto.
Negli anni recenti c’è stato un livello di coordinazione senza precedenti tra Ankara e Doha soprattutto sulle questioni di politica estera. I due stati hanno hanno intrapreso senz’altro una posizione decisa contro il blocco di Gaza da parte di Israele; si sono opposti al colpo militare (sponsorizzato dall’ Arabia Saudita) dei Fratelli Musulmani in Egitto; espliciti oppositori di Bashar al Assad. A sottolinerare questo fronte comune è il loro supporto per le fazioni islamiche nella regione, a capo delle quali troviamo i Fratelli Musulmani e le organizzazioni affiliate.
Tuttavia questa alleanza ha causato problemi su numerosi fronti per entrambi i paesi. La Turchia ed il Qatar sono stati accusati dai paesi occidentali di tacita cooperazione, o almeno tolleranza passiva, degli estremisti che operano nella loro sfera d’influenza, specialmente i gruppi ribelli radicali in Siria.

Gli interessi turchi

Essenzialmente la Turchia vede il Qatar come un trampolino di lancio per espandere la sua impronta militare nel Golfo. L’emiro Tamin bin Hamad bin Khalifa al Thani riafferma le posizioni “costanti ed identiche” dei due paesi su le questioni regionali e esprime gratitudine per le posizioni ferme e decise della Turchia verso la causa araba, particolarmente la questione palestinese, e la crisi siriana. Tuttavia le dichiarazioni di al Thani non includono la parola “alleanza” per se, presumibilmente per la sensibilità con le relazioni del Qatar con l’Arabia Saudita e il resto del GCC.
Il vecchio equilibrio di potere nel Medio Oriente si è sbriciolato, i turchi sono determinati ad agire per assicurare che la transizione al nuovo equilibrio sia favorevole ai loro interessi.
I protocolli di sicurezza firmati da Erdogan con il Qatar s’inseriscono in un accordo militare iniziato nel dicembre del 2014 che permetterà ad ogni paese di impiegare le proprie forze militari nel territorio dell’altro. L’accordo comprende l’uso dei porti, degli aeroporti, dello spazio aereo e delle infrastrutture militari, incluso maggiore condivisione di informazioni di intelligence e cooperazione nel contro – terrorismo.

Come parte dell’accordo, la Turchia sta stabilendo una base militare in Qatar che vedrà lo stazionamento di personale militare che va dalle 3000 alle 5000 unità, principalmente per addestramento militare congiunto e, usando le parole dell’ambasciatore turco in Qatar, “per confrontarsi contro i nemici“.

La presenza della base manda un forte messaggio: la Turchia si sta muovendo verso il voler assumere il ruolo di robusta potenza  nella regione. Una base operativa avanzata in Qatar da alle forze armate turche un elemento di profondità strategica che non hanno nella penisola araba da più di 100 anni, da quando le ultime truppe ottomane lasciarono il territorio del Qatar nel 1915.

Al di là dei legami militari, la Turchia sta anche cercando di espandere le esportazioni di difesa nel Golfo. Per i turchi, il Qatar non è solo un cliente di valore per l’industria di difesa turca, ma anche una porta per il resto del GCC, che la Turchia ha identificato come priorità per la crescita del suo mercato.
Due mesi fa, un gruppo di 67 imprese di difesa turche, ha organizzato un’esibizione a Doha per mostrare i loro più nuovi prodotti, incluso l’elicottero ATAK, il TRJet ed  una vasta gamma di veicoli armati. L’esposizione si è conclusa con accordi per un valore di circa 500 milioni di dollari.

Il Turkstream e la Russia versus il Qatar e l’LNG del Qatar

Il viaggio di Erdogan in Qatar si colloca anche in quella che oramai è diventata una seria crisi tra Ankara e Mosca. Quello che preoccupa di più i turchi è la decisione dei russi di sospendere i colloqui per TurkStream, un gasdotto che porterebbe il gas naturale dalla Russia attraverso il Mar Nero alla Turchia e ai mercati europei.  Lo scorso anno, la Russia rappresentava 27.4 miliardi di metri cubi, circa il 55%, delle importazioni totali di gas naturale della Turchia. La Russia non ha dato nessuna indicazione che siano disposti, o che ci stiano pensando, alla riduzione dei flussi esistenti di gas verso la Turchia previsti da un accordo decennale tra i due paesi.  Tuttavia visto che il TurkStream  è accantonato, almeno per adesso, i turchi stanno seriamente considerando il futuro dei loro legami energetici con la Russia.
Non sorprende che il Qatar veda il deteriorarsi delle relazioni turco – russe come un’opportunità d’oro per espandere la sua posizione globale come massimo esportatore di gas naturale liquefatto (LNG). A seguito della visita di Erdogan, l’ambasciatore del Qatar ad Ankara, el – Shafi, ha espresso la prontezza di fornire alla Turchia “qualsiasi quantità” di gas naturale “che richieda”. Malgrado lo scetticismo circa la circostanza che le esportazioni di gas del Qatar possano rimpiazzare i flussi di quello russo nel breve termine, in parte perché la Turchia manca di infrastrutture per LNG e di depositi, Erdogan presumibilmente continuerà a mandare a Mosca messaggi di attenzione sulla possibilità di perdere un cliente energetico di lungo corso.

Dicembre 16 2015

Come riconoscere una strategia efficace contro l’ISIS

Strategia efficace

Una strategia efficace contro l’ISIS: come riconoscerla in 5 punti.

In Italia sentiamo dichiarazioni come queste: “no intervento senza strategia“, oppure: “la cultura è la risposta al terrorismo“. Nel nostro paese, nessuno si sbilancia a mettere nero su bianco una strategia efficace e con un chiaro obiettivo finale, per combattere l’ ISIS. Il ministro della difesa ci ripete come una poesia imparata a memoria: “l’Italia addestra i peshmerga e usa i droni“. Vorrei aprire una brevissima ed essenziale parentesi sul recente annuncio di Renzi: “450 militari italiani a difesa della diga di Mosul“. I 450 militari italiani aiuteranno un’impresa italiana, che si è aggiudicata l’appalto per la diga di Mosul, a proteggere l’infrastruttura. Mi pongo una domanda: se l’appalto per la diga l’avesse vinto un’impresa polacca, Renzi avrebbe mandato i nostri soldati a Mosul?”.

Il Presidente Obama dal canto suo e in maniera meno teatrale, burlesca del nostro premier,  insiste che la sua amministrazione ha una strategia effettiva basata su 4 componenti: attacchi aerei contro gli obiettivi dello stato islamico, supporto alle forze di sicurezza irachene e alle milizie irachene che combattono l’ISIS; miglioramento delle operazioni di contro – terrorismo e aiuti umanitari ai civili che sono scappati dal conflitto nell’est della Siria e nell’ovest dell’Iraq.

La verità è che questa potrebbe essere il contorno di una strategia, ma non una vera e propria strategia che includa tutti gli aspetti del problema, compresi i dettagli.

Allo stesso tempo, nessuno ha suggerito una strategia comprensiva alternativa; si fa affidamento sempre di più alle banalità e ad aforismi. Spesso i dibattiti più accesi raccomandano una più feroce aggressione senza spiegarne la finalità, i mezzi e il significato.
Il fallimento di sviluppare una strategia comprensiva contro l’ISIS è debilitante.

I 5 punti per riconoscere una strategia efficace

Prima di tutto, è necessario porsi questa domanda: “qual è l’obiettivo finale accettabile e fattibile?”. Sì, giacché un obiettivo finale, l’endstate,  deve essere sia accettabile che fattibile e i dettagli sono importanti. Il diavolo si nasconde nei dettagli! Non è abbastanza dire: l’obiettivo è di “sconfiggere” o “eradicare” lo stato islamico, una strategia coerente deve spiegarci cosa vuol dire: l’organizzazione non avrà più il controllo effettivo di qualsiasi porzione di territorio, cioè non sarà più un “califfato”? Resterà in vita nella forma di una rete terroristica sotterranea come ha operato tra il 2008 e il 2014? Oppure non ne rimarrà traccia in nessuna forma?

La fattibilità di un obiettivo finale strategico deve riflettere una seconda questione chiave: quali sono i costi strategici? Questi costi includono il denaro, le truppe, la perdita di focus da qualche altra parte. Incorrere in questo tipo di costi è accettabile? È di vitale importanza ricordare che ogni assetto strategico, che sia militare o di intelligence, devoluto al combattimento dello stato islamico non è utilizzato per altre situazioni che restano pressanti e importanti. Una strategia inclusiva, poi, deve spiegare se il conflitto con lo stato islamico giustifica lo spostamento di risorse dall’Asia, dall’Europa o da qualche altra parte e accettare che ci sia minor deterrenza in questi posti. Il conflitto con il gruppo legittima il crescente sforzo sulla componente militare (soprattutto in relazione agli Stati Uniti) con ulteriori impegni sul campo, posponendo l’addestramento e l’ammodernamento della forza?

Il terzo punto è: chi pagherà il conto? Le guerre non sono gratis. Non si può pensare che dispiegare delle forze sul campo, piuttosto che l’uso della componente marittima o dell’aviazione sia gratis, che ci sia un grande pozzo di denaro da dove si attingono queste risorse. Ritenere ingenuamente che gli aerei volino senza carburante che non si usurino, che le navi vadano a vapore. Tutti, in ogni paese del mondo evitano accuratamente di affrontare questa complessa faccenda. Una strategia coerente deve essere chiara sui finanziamenti: le tasse verranno innalzate? Questa guerra è importante a tal punto da aggiungerla al debito nazionale? Se la strategia è basata sull’ assunto che altre nazioni affronteranno porzioni dei costi, quali sono? Chi mette cosa? Dov’è il prospetto di ripartizione finanziaria dei costi?

La quarta questione è l’arco temporale della strategia. Se qualcuno ci dice teneramente: “eh ci vorrà molto tempo”, come il Presidente degli Stati Uniti, o peggio si ometta proprio di fornire un cronogramma, beh non stiamo parlando di strategia inclusiva. Una strategia coerente divide le azioni a breve, medio e lungo termine: dove sono queste ripartizioni?

Ultimo punto: i limiti.  Quali sono i limiti spaziali? Combatteranno lo stato islamico solo in Iraq e in Siria o anche in Libia, in Afghanistan in Yemen in Somalia in Nigeria ovvero ovunque?

L’esempio fallimentare della Francia

Diamo un’ occhiata ad una strategia fallimentare: la Francia nel Sahel. La punta di diamante della politica di sicurezza francese in Africa è l’Operazione Barkhane, una missione di combattimento di  anti – terrorismo. Si configura come l’attuale operazione militare francese più ampia, con circa 3,500 soldati stazionati in 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. L’operazione Barkhane ci dice chiaramente che Hollande ha posizionato la stabilità regionale in cima alle priorità di politica estera, disposto a mettere soldati francesi sul terreno e supportarli. In totale circa 8,000 soldati francesi sono stati impiegati in Africa.
Contrasto assoluto con la politica di Sarkozy che nel 2008 dichiarò che la Francia non deve giocare il ruolo di poliziotto in Africa e per questo motivo ridusse la presenza militare francese nel continente è s’impegnò a ridurre l’ intenso coinvolgimento nella politica di quei paesi.
Il collasso del governo del Mali nel 2012 precipita gli avvenimenti. Prima della guerra civile e dell’avvento dei gruppi estremisti islamici in Mali, gli interessi francesi nel continente giravano attorno ad affari economici, influenza politica e sicurezza energetica. Il Niger è la principale fonte di uranio per gli impianti nucleari della Francia. Ma con il collasso del Mali subito dopo la Libia, la Francia ha paura di un’implosione dell’intero continente che può quindi minare i suoi interessi diretti. Operation Serval che dispiegò 4,000 soldati francesi in Mali nel gennaio 2013 per cacciare i militanti islamici che avevano preso il controllo del nord del paese, inizialmente fu un successo, liberando tutto il territorio in mano ai gruppi estremisti. Tuttavia quando Serval si aggiunge al più ampio dispiegamento caratterizzato da Barkhane, getta le fondamenta per un’altissima presenza militare francese in tutta la regione. Il grande problema è che la Francia non ha una strategia di uscita nel Sahel. Il focus sul contro terrorismo ha messo le truppe francesi in prima linea nella battaglia sia contro gli estremisti sia contro le reti di traffici di armi e droga nella regione (per contro i militari statunitensi per la maggior parte si limitano all’ addestramento e all’ equipaggiamento delle forze locali, così come a fornire intelligence delle comunicazioni). Con l’esercito del Mali ancora nel caos e le forze governative in Niger ed in Ciad occupate dalla minaccia di Boko Haram ora affiliato e provincia dello stato islamico, sulle loro frontiere sud, i militari francesi hanno effettivamente preso il controllo delle remote frontiere del Sahel che legano la regione alle zone di guerra in Libia.
Tuttavia l’area di operazioni dei gruppi estremisti è aumentata nei recenti mesi con attacchi di alto profilo nella capitale del Mali, Bamako. Attacchi che hanno raggiunto la frontiera con la Costa d’Avorio nel sud.
Se, uccidere i sospettati di terrorismo potrebbe essere un veloce miglioramento che soddisfa gli strateghi militari e i portavoce di governo, l’approccio potrebbe rivelarsi fatale nel lungo termine.
L’ex diplomatico francese Laurent Bigor, scrivendo su Le monde, chiama l’operazione Barkhane una “licenza per uccidere nel Sahel” che minaccia di alienare la popolazione locale. I crimini come il traffico, che sono inestricabilmente connessi al terrorismo nel Sahel, sono anche semplicemente un’alternativa alle difficili condizioni socio – economiche. Le questioni di governance e corruzione non sono affrontate, perché la priorità è la risposta militare e di sicurezza.
“Prioritizzare” la sicurezza rispetto alle riforme presenta un enorme rischio, non da ultimo per i costi di questa nuova politica estera “muscolosa”. In risposta agli attacchi di Parigi, l’ operazione Sentinelle, il dispiegamento dei soldati francesi in Francia per la sicurezza nazionale è stato aumentato a 10,000 mentre l’aviazione militare francese ha espanso le sue operazioni in Iraq e in Siria. Fatti concreti che richiedono la sostenibilità dei costi.
Se questo modus operandi decadesse, sia perché la Francia non può più permetterselo oppure perché un’altra amministrazione ha altri interessi, il Sahel diventerà quello che la Francia voleva inizialmente prevenire: un assortimento di stati fragili dove gruppi estremisti e reti criminali possono cooperare liberamente, non molto lontano dall’ Europa.

Questo è appunto l’esempio di come quei 5 punti non sono stati per nulla tenuti in considerazione e come l’effetto di azioni non coerenti tra loro, parte di una strategia più ampia senza un chiaro obiettivo finale, possano causare dei danni molto più gravi e duraturi del problema iniziale.

Dicembre 14 2015

COP21, accordo di Parigi: capirci qualcosa

accordo _ COP21

COP21: accordo di Parigi, cerchiamo di capire cosa significa questo accordo e se è così “storico” come ci vogliono far credere.

Innanzitutto liberiamoci degli acronimi e vediamo cosa significa COP. COP = Conference of the Parties. E’ un organo decisorio dell’ UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate Change).  Quest’ultimo è un trattato internazionale che riunisce 195 paesi con l’obiettivo di gestire la sfida globale del cambiamento climatico. Ogni stato che è parte del UNFCCC è rappresentato nella COP. Le negoziazioni possono abbracciare qualsiasi tematica ricada nello scopo del UNFCCC, ma in pratica esse seguono l’agenda formale che è determinata attraverso le decisioni del COP. L’UNFCCC opera secondo consenso, questo vuol dire che ogni stato/parte può bloccare una decisione. La COP si incontra annualmente. La prima COP si è svolta a Berlino nel 1995, durante la COP 3 fu adottato il Protocollo di Kyoto. Nella COP11 fu prodotto il piano di azione di Montreal, nella COP15 a Copenhagen non fu possibile raggiungere un accordo che potesse succedere al Protocollo di Kyoto. Nella COP17 a Durban fu creato il Green Climate Fund. Nel 2014 la COP20 si tenne a Lima.

Come dovremmo valutare l’ Accordo di Parigi?

E’ un accordo storico, come è stato detto in tutte le conferenze stampa di tutto il mondo? Se ci si focalizza sul contenuto modesto, non sembra affatto qualcosa di storico. L’accordo prevede situazioni positive: richiede ai paesi di presentare “contributi nazionali determinati”, cioè l’impegno circa quello che faranno per ridurre le emissioni; prevede trasparenza e revisione così da rendere i paesi responsabili per ciò che dicono. Prevede una catalogazione globale ogni 5 anni e un processo per aggiornare i contributi nazionali determinati, allo scopo di aumentare le ambizioni nel corso del tempo.

Tuttavia è un errore spacciare questi risultati come “grandiosi”. I contributi nazionali determinati presentati prima di Parigi sono immediatamente falliti nel porre il mondo nelle condizioni di tenere la temperatura al di sotto dei 2° C.  E’ essenziale tenere presente che i contributi nazionali determinati dei paesi non sono vincolanti legalmente.

C’è poco di nuovo nell’ accordo circa l’adattamento ed il finanziamento. In più le clausole che riguardano la trasparenza e la revisione sono scheletriche ed avranno bisogno di essere arricchite da decisioni successive. Malgrado la sua relativamente modesta sostanza, l’accordo di Parigi è potenzialmente cruciale perché completa lo spostamento di paradigma dal mondo biforcato del Protocollo di Kyoto il quale distingueva rigidamente tra i paesi dell’ annesso I e quelli del “non annesso I”, verso un quadro comune globale emerso nell’ accordo di Copenhagen.

La criticità forse più significativa dell’accordo di Pargi è ancora il “sistema volontario”: non ci sono meccanismi vincolanti o chiare vie di applicazione affinché gli stati si conformino ad esso.  L’accordo di Parigi, pur basandosi sull’ ambizioso obiettivo di tenere il riscaldamento sotto i 2° C,  lascia il pianeta ancora vulnerabile a maggiori impatti. Monbiot afferma che l’accordo è “comicamente sbilenco”, soprattutto per ciò che concerne il consumo di combustibile fossile, ignorando la parte della produzione di quest’ultimo: “ fino a quando i governi prometteranno di tenere i combustibili fossili sotto terra, continueranno a minare l’accordo che hanno appena siglato”.  Questo è probabilmente il compito più difficile per l’umanità: tenere 4/5 delle riserve conosciute di petrolio nella terra, il carbone nelle cavità e il gas sotto l’erba. Malgrado qualche dichiarazione sulla “giusta transizione” per i lavoratori e la “diversificazione” per le nazioni che eccessivamente sono dipendenti dai combustibili fossili, l’accordo ci fornisce poche indicazioni su come le nazioni, le comunità e i lavoratori si staccheranno definitivamente dalla fonte di guadagno che giace sotto i loro piedi. Come le potenti compagnie di combustibili fossili saranno reindirizzate verso un’economia a zero carbone? Questo resta un mistero, e non rende certo questo accordo in nessun modo “storico”.

Dicembre 11 2015

L’ Arabia Saudita tra petrolio e fondamentalismo islamico

Arabia Saudita

L’ Arabia Saudita ed il suo petrolio sono troppo importanti per gli Stati Uniti. La vendita di armi all’ Arabia Saudita ammonta a circa 1 miliardo di dollari al mese. L’unica monarchia assoluta al mondo che si muove sui dettami del fondamentalismo islamico.

Per molti anni, troppi, gli Stati Uniti ed in generale l’Occidente, hanno chiuso un occhio sul supporto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita ai gruppi estremisti di matrice islamica. Il petrolio era, ed è, troppo importante per l’economia globale, e non solo. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti hanno esportato 934 milioni di dollari in armi all’Arabia Saudita dal 2005 al 2009. Dal 2010 al 2014 hanno esportato 2.4 miliardi di dollari in più. Questo mese hanno approvato un’altra spedizione di 1 miliardo di dollari. Gli Stati Uniti forniscono addestramento, condividono intelligence e danno supporto logistico all’apparato militare saudita.

La monarchia stringe un patto con il diavolo: Muhammad Ibn al – Wahhab

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Nel 1744 un predicatore itinerante chiamato Muhammad Ibn Abd al- Wahhab si unisce alle forze di coloro che crearono il primo regno saudita. Mentre i sauditi fornivano leadership militare e politica, Wahhab e i suoi discendenti fornirono legittimazione e leadership religiosa. Wahhab e i suoi discepoli praticavano una versione settaria e puritana dell’Islam sunnita che chiamava ad un ritorno al fondamentalismo letterale e intolleranza per ogni forma di deviazione dalla loro linea conservatrice di quello che costituiva l’originale fede del profeta Maometto.
L’attuale re Salman ha spostato il regno ancora più vicino, se possibile, all’establishment wahhabita. Salman, immediatamente dopo essere salito al trono, licenza l’unica donna ministro; l’inizio di una linea sempre più conservatrice.

L’Arabia Saudita e il supporto agli estremisti islamici

Sia il governo che individui all’interno dell’Arabia Saudita sono stati una delle maggiori fonti di supporto per gruppi estremisti internazionali ben prima dell’11 settembre 2001  ed hanno continuato nel corso degli anni. Si tende a dimenticare che molti degli attentatori dell’ 11 settembre venivano dall’ Arabia Saudita. Nel 2012, l’ambasciatore saudita in Pakistan ebbe contatti multi – livello con la rete Haqqani autrice degli attacchi del 2011 all’ ambasciata americana a Kabul. L’attuale re Salman, che era stato il governatore di Riyad, era incaricato di aumentare i finanziamenti privati per i mujahedeen dalla famiglia reale e da altri sauditi facoltosi. Incanalò decine di milioni di dollari ai mujahedeen e più tardi fece lo stesso per le cause dei musulmani in Bosnia ed in Palestina.
Questo supporto per il fondamentalismo islamico all’estero non dovrebbe sorprenderci più di tanto  dato che lo stato islamico abbraccia nella sua ideologia gli elementi chiave della setta estremista wahhabita sponsorizzata dall’Arabia saudita. La monarchia saudita ha speso più di 10 miliardi di dollari per promuovere il wahhabismo nel mondo attraverso organizzazioni caritatevoli come il World Assembly of Muslim Youth. 

L’uomo “americano” al potere: Muhammad Bin Nayef (MBN)

Principe ereditario ed erede al trono di re (il secondo in linea al trono).Studia all’FBI verso la fine degli anni ottanta e all’istituto di antiterrorismo di Scotland Yard dal 1992 al 1994. Tra il 2006 ed il 2009 l’ Arabia Saudita diventa un vero e proprio campo di battaglia giacchè Al Qaeda attacca obiettivi nel regno, incluso il quartier generale del ministero dell’interno a Riyadh. MBN lancia la controffensiva: il ministero dell’interno divulga una lista dei most wanted di Al Qaeda e poi procede alla loro caccia per poi ammazzarli. Le sue operazioni erano estremamente precise e senza vittime civili. MBN diventa il simbolo del regno contro il terrorismo, apparendo continuamente in tv.
MBN sembra essere il principe più pro – americano ad essere in linea per il trono. E’ probabilmente l’ufficiale di intelligence più capace nel mondo arabo oggi. Tuttavia Washington non si deve fare illusioni sul fatto che MBN possa prendere da conto il consiglio occidentale di riformare il regno. I sauditi aiutarono ad organizzare il colpo di stato del 2013 in Egitto e ripristinarono il regime militare nel paese arabo più grande.

Il futuro dell’Arabia Saudita

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L’Arabia Saudita è l’ultima monarchia assoluta che per questo riveste un enorme significato da un punto di vista geopolitico.

La famiglia reale non perderà il controllo della nazione, neppure perderà i suoi legami con i wahhabiti e il loro credo. Il re Salman, il principe ereditario MBN e il vice principe ereditario Muhammed bin Salman e virtualmente il resto dell’establishment saudita credono fermamente di essere sopravvissuti per due secoli e mezzo nella politica confusa del Medio Oriente non per la loro determinazione nel rimanere una monarchia assoluta, ma perché alleati con i religiosi wahhabiti.  Alcuni funzionari occidentali sostengono di imporre all’Arabia Saudita delle sanzioni per fermare il finanziamento ai gruppi estremisti di matrice islamica. Pur tuttavia ritengo che imporre un embargo sulle esportazioni di petrolio saudite come quello imposto all’Iran per il suo programma nucleare avrà sicuramente un effetto drammatico sul prezzo globale del petrolio almeno nel breve periodo.

Dicembre 8 2015

Le elezioni in Venezuela e in Francia: il populismo non dura per sempre

populismo

Le Pen, come Chavez prima di lei, nutrono la speranza che elettori ansiosi siano la facile risposta per tutti i problemi. Le elezioni in Venezuela ci servono come promemoria: la governance populista alla fine delude e raramente fa sopravvivere il suo leader carismatico.

In Venezuela, l’ opposizione vince le elezioni parlamentari. In Francia, il partito di Marine Le Pen, il National Front  (FN) arriva al punto più alto nel primo round delle elezioni, per i governi regionali, confermando l’ingresso del partito nella tradizione della politica francese.

Cambiamenti storici

Questi risultati riflettono, tuttavia, cambiamenti storici, non solo in politica, ma anche nello stile della politica. La sconfitta del PSUD in Venezuela, che viene dopo l’elezione di Mauricio Macri a presidente dell’Argentina, ci rivela la fine di 15 anni di dominazione della sinistra in Sud America.

L’impressionante risultato ottenuto da FN può essere visto sia come un segno di attenzione per la Francia che per l’Europa: i loro partiti tradizionali di centro – sinistra e centro – destra sono attaccati al respiratore ed hanno disperatamente bisogno di nuove idee e nuovi approcci. Pur tuttavia, laddove il Venezuela ha votato per cambiare pagina rispetto allo stile populista di Chavez, l’ascesa di Le Pen in Francia ci illustra il grado in cui il populismo ora pone una seria sfida all’ortodossia del liberalismo politico che è emerso nel periodo immediatamente successivo alla Guerra Fredda.
In questo, Chavez fu come un precursore, irrompendo nella scena politica nel 1998, come una caricatura dell’anti – liberale, uomo forte anti – americano, in un tempo in cui la democrazia liberale e l’ordine globale unipolare guidato dagli Stati Uniti, erano in ascesa. Successivamente scrisse diverse pagine di politica che descrivono come abbinare la “cattura” di uno stato alle riforme costituzionali graduali per raggiungere un insidioso autoritarismo democratico, un modello che fu copiato con successo in Boliva, in Ecuador e in Nicaragua.
Il suo modello di riduzione della povertà, tuttavia, faceva affidamento troppo sull’intervento dello stato, piuttosto che su riforme strutturali e una durevole redistribuzione della ricchezza. Questo modello diventato insostenibile ebbe la conseguenza di una frattura profonda nell’ economia del paese che diede il via ad una disaffezione popolare. E’ proprio quest’ultima che ha deciso il risultato delle elezioni del 6 dicembre 2015.
Il successo di Chavez ha cambiato le vite e migliorato il benessere sociale, al prezzo del liberismo politico. Il suo fallimento è utile per imparare la cautela nell’adozione di modelli alternativi di sinistre regionali, particolarmente per gli approcci più riformisti adottati in Brasile, Cile ed Uruguay.

Il rebrand di Marine Le Pen

In Francia, il partito socialista perde gli elettori della classe lavoratrice che si uniscono al FN, cosa che fa porre interrogativi sull’etichetta del partito come di “estrema destra”. Populista sarebbe una descrizione più adatta per Marine Le Pen, segnalando che, se la politica di Chavez è declinata, lo stile politico di Marine ci sembra essere passato sotto la ceretta di una bravissima estetista. Tuttavia anche la sua vittoria ci svela il declino verso l’ irrilevanza di partiti stagnanti, non solo di centro sinistra, ma anche di centro – destra. Entrambi hanno fallito nel fornire agli elettori i concreti benefici dell’Unione Europea così come è attualmente configurata. Non hanno neanche fornito l’Unione Europea di strumenti in grado di fronteggiare le crisi che hanno colpito il continente negli ultimi 6 anni. E’ la combinazione di questi fallimenti che spiega il successo del FN nelle recenti elezioni francesi e di partiti simili in tutta Europa negli anni recenti.
Il rimarchevole risultato del FN ha beneficiato dell’impatto degli attacchi terroristici del 13 novembre. Il FN si è sottoposto gradualmente e con successo ad un rebrand come un partito tradizionale in tutti i precedenti cicli elettorali.  Il primo turno elettorale per i governi regionali ha visto la sua vittoria; il secondo turno presumibilmente terrà il partito fuori dalla scena, eccetto che per qualche roccaforte. Per contro la vittoria di FN rivela molto circa le profonde fratture sociali ed economiche della Francia che la rendono quindi così vulnerabile agli appelli di demagoghi di tutti i generi, che sostituiscono facili panacee in un lento annoiarsi alla politica piuttosto che affrontare i difficili temi e l’assunzione di responsabilità compiendo azioni efficaci che la politica richiede.
Non soprende che Le Pen abbia usato una delle sue ultime dichiarazioni per avvertire che il FN è l’ultimo baluardo contro l’avvento della Shari’a in Francia. Dopo tutto il suo appello, come quello dell’ISIS in riferimento all’Islam, è alla nostalgia per la purezza di un passato inventato che è più come un mito che una vera storia. Se la Francia fosse una religione, Le Pen sta offrendo quello che sarebbe l’equivalente della sua Shari’a, una chiusura ortodossa della mente che inevitabilmente conduce alla chiusura delle frontiere. Le implicazioni per l’Europa sono ovvie.

L’Unione Europea è inadeguata.

L’inabilità dell’Unione Europea nel dirigere le crisi: dal debito greco alle ondate di rifugiati che arrivano sulle sue coste, riflette il fatto che esso è un edificio che era stato costruito per la pace e la prosperità, inadatto per un momento in cui piccoli e grandi conflitti letteralmente bussano alle sue porte. Invece di continuare a creare pazientemente i necessari meccanismi per la governance fiscale e monetaria, l’Unione dovrebbe  mettere in campo una sorta di meccanismo di gestione delle crisi che acceleri il processo decisorio quando si verificano eventi urgenti che hanno implicazioni per l’intero continente. La natura della politica dell’Unione Europea è laboriosa quando tutto va benissimo, per via dell’architettura istituzionale dell’Unione stessa. Gli svantaggi sono esacerbati nelle situazioni di crisi, dove la politica del rischio calcolato come tattica negoziale crea l’incentivo per fare leva sulle crisi per tornaconto politico piuttosto che risolverle.

Il populismo non dura per sempre

Le elezioni in Venezuela e in Francia sottolineano anche che le strategie adottate sia in Sud America che in Europa hanno fallito nel trarre vantaggio dagli anni di crescita e prosperità per prepararsi all’inevitabile declino dell’economia di cui fanno esperienza ora. Ci mostrano soprattutto che il populismo, il nutrire la speranza che gli elettori siano sempre guidati dall’ansia, dall’incertezza, che si sentano minacciati, non dura per sempre ed anzi la frustrazione che si genera successivamente proprio in questi stessi elettori, condannerà il populismo sacrificando proprio il suo leader carismatico.  Far leva sul senso di insicurezza delle popolazioni non risolve i problemi strutturali di uno stato, ed è questo che condanna il populismo.

Dicembre 3 2015

La Gran Bretagna, i bombardamenti illegali in Siria e l’ordine internazionale

Gran Bretagna

L’ordine internazionale si mantiene con le regole che gli stessi stati hanno stabilito anche attraverso la carta Nazioni Unite. Far diventare il mondo il Far West nuoce soprattutto ai cittadini.

Forse l’attimo di una telefonata, neanche il tempo di uscire dall’aula del parlamento inglese, che i tornado della RAF si sono alzati in volo dalla base aerea a Cipro per ottemperare alla decisione della Gran Bretagna: bombardare la Siria. Gli attacchi avevano come obiettivi i giacimenti petroliferi di Omar in mano all’ISIS nell’ est della Siria.

Le armi della Gran Bretagna

I tornado inglesi sono equipaggiati con quelle che vengono chiamate le Paveway bomb. I tornado della RAF posso portare fino a 5 Paveway IV bomb. Sono moderne e accurate munizioni che comunemente vengono usate contro obiettivi statici. I tornado hanno anche i missili Brimston che hanno un radar e un laser guida con due testate che possono essere usate contro veicoli e obiettivi multipli. Sono conosciuti come “scarica e dimentica”. La Gran Bretagna attraverso il suo ministero della difesa ha dichiarato che 93 missili Brimstone, ognuno dei quali costa più di 100,000 sterline, sono stati usati da gennaio a settembre nelle operazioni militari in Iraq.

Il dibattito nell’ House of Commons

Nel dibattito durato una decina di ore i parlamentari inglesi hanno anche sollevato la legalità di questi bombardamenti dal punto di visto di diritto internazionale. Soprattutto alla luce dell’ultima risoluzione del consiglio di sicurezza: UNSC n. 2249.
Cameron, nel suo discorso, argumenta che gli attacchi contro le forze dell’ISIS in Siria sarebbero un esercizio di legittima difesa indivuale e collettiva (facendo finta di niente sul punto che comunque c’è bisogno dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza). Egli fa leva su aspetti della risoluzione 2249 quali la circostanza che la risoluzione sia stata adottata unanimemente dal Consiglio di Sicurezza (e quindi?) e cita il passaggio in cui si richiamano gli stati a “take all necessary measures” per eradicare i safe heaven dell’ISIS e restringere le loro attività. Camoron prosegue dicendo che la risoluzione asserisce che l’ISIS è: “unprecedented threat to international peace and security”. (ancora: e quindi?)
Ascoltando solo Cameron, uno potrebbe avere l’impressione che un Consiglio di Sicurezza quanto mai unito ha autorizzato carta bianca per attaccare le forze ISIS in Siria.
Non è così. La risoluzione 2249 non autorizza chiaramente ed inequivocabilmente all’uso della forza armata in Siria.

Le regole stabilite dalla Carta ONU

Partiamo innanzitutto dal fatto che l’art. 2, 4 della Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza, corrisponde al diritto internazionale generale, valevole quindi per tutti gli stati e non solo per i membri delle Nazioni Unite, appartenente allo jus cogens e contemplante un obbligo erga omnes. La carta delle Nazioni Unite contiene due espresse eccezioni: a) l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ottemperanza agli articoli 39 e 42 e, b) legittima difesa, con l’art. 51, che deve avere i requisiti di proporzionalità, necessità e immediatezza.
Un’eccezione extra carta Onu all’uso della forza in uno stato sovrano è quella che deriva dal consenso dello stato, un esplicito consenso a che la comunità internazionale aiuti lo stato nell’eradicazione della minaccia. Cosa avvenuta in Iraq. Il consenso dell’Iraq all’uso della forza da parte di altri stati sul suo territorio è espressamente dichiarata in una lettera datata 20 settembre 2014 dal governo iracheno indirizzata al presidente del Consiglio di Sicurezza. In questo caso lo stato che non è in grado di controllare il proprio territorio chiede assistenza alla comunità internazionale.  Di contro, Assad  ha inviato due lettere, la prima datata 16/9/2015 e l’altra 17/9/2015 in cui contesta l’interpretazione dell’art. 51 ONU da parte degli stati che intervenivano. Nella seconda lettera ufficialmente avverte che “se qualsiasi stato invoca la scusa del counter – terrorism per essere presente sul territorio sovrano siriano, sia terra, aria e acque territoriali, le sue azioni devono essere considerate una violazione della sovranità siriana”. La Russia è stata invitata da Assad nell’eradicazione dell’ISIS, pertanto legittimata dal consenso dello stato territoriale.

La risoluzione n.2249

Al punto 5, chiama tutti i membri, che hanno la capacità di farlo, a prendere tutte le misure necessarie, in ottemperanza al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite, al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale umanitario. Autorizza le misure lecite che potrebbero essere adottate senza rendere lecite quelle che non lo sarebbero. La risoluzione 2249 non fa riferimento al Capitolo VII della Carta ONU che disciplina il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite insieme al Capitolo VIII. Per intenderci il Capitolo VII all’ art. 39 regola le raccomandazioni; art. 40 misure provvisorie; art. 41 misure non implicanti l’uso della forza; art. 42 misure implicanti l’uso della forza.

Quando si parla di questa risoluzione NESSUNO legge cosa c’è scritto dopo il punto 5 e cioè  che la situazione in Siria continuerà a deteriorare ulteriormente in assenza di una soluzione politica al conflitto siriano ed enfatizza la necessità di implementare l’annesso II alla risoluzione 2118 (2013) – principi concordati e linee guida per una transizione a guida siriana. Il punto 9 ha come titolo: “Passi chiari nella transizione”.
a) Stabilire un ente/organo di transizione che può stabilire un ambiente neutrale in cui la transizione possa avere luogo. L’organo/ente di transizione deve esercitare pieni poteri esecutivi. Potrebbe includere membri del governo presente, l’opposizione e altri gruppi, ma che sia formato su base di mutuo consenso
b) Tutti i gruppi e segmenti della società devono partecipare al processo di dialogo nazionale
c) Su queste basi ci potrebbe essere una revisione dell’ordine costituzionale e del sistema legale. Il risultato della bozza costituzionale sarebbe soggetto ad approvazione popolare.

Ignorare le regole è pericoloso

Lo scopo del diritto internazionale è quello di rendere possibile la convivenza di tutti gli esseri umani e le comunità in un mondo privo di un’autorità universale. Ignorare questo vuol dire scavalcare le regole, vuol dire costruire un ponte verso il caos.

Gli stati esercitano, ciascuno, la propria autorità sugli individui che nel suo territorio, ed esiste un diritto che è comune a tutti gli stati: il diritto internazionale.

Tutti coloro che asseriscono senza ombra di dubbio che l’ONU sia inutile, che le regole siano inutili, evidentemente sono disposti ad andare in giro a farsi giustizia da soli. Molto probabilmente sono quelli che non rispettano le regole della vita quotidiana. Le azioni hanno delle conseguenze, non si può pensare che sia possibile agire unilateralmente senza peraltro una strategia a lungo termine, soltanto perché vittime della ricerca di consenso per le prossime elezioni.

La Gran Bretagna ha trovato la sua soluzione interna, almeno nel parlamento, leggendo la risoluzione 2249 come le faceva più comodo. Per la serie: “io ho bombardato il giacimento petrolifero dell’ISIS” e la mia coscienza è salva. Ahimè non risolverà la minaccia anzi avrà messo un mattoncino in più per il ponte verso il caos.

Dicembre 2 2015

La Russia e il petrolio

Russia petrolio

La Russia cerca un accordo con l’Arabia Saudita per alzare i prezzi del petrolio, ma la questione siriana rischia di rovinare i suoi piani.

L’economia russa è in caduta libera. La concomitanza delle sanzioni occidentali, i prezzi bassi del petrolio, un debole rublo hanno contribuito alla contrazione dell’economia russa del 3.4 % nella prima metà del 2015.

Non è la guerra in Siria, in se stessa, che manderà Putin in bancarotta. Anche ad un costo stimato di 4 milioni di dollaro al giorno, l’intervento in Siria sarebbe coperto da ingenti somme di denaro confluite nel budget della difesa russo. Secondo un calcolo fatto dal Financial Timesanche se la Russia continuasse i suoi attacchi aerei per un anno completo, userebbe meno del 3% dei fondi del budget della difesa nazionale nel 2016.

 

L’accordo con l’Arabia Saudita

Il problema economico russo potrebbe venire da un’altra parte. In estate, Mosca si è mossa per  raggiungere un accordo con l’Arabia Saudita e altre nazioni OPEC per far alzare i prezzi del petrolio. Tuttavia l’impegno russo in Siria e il suo focus su operazioni militari su gruppi che sono sostenuti da Riyadh rendono molto più difficoltoso il raggiungimento di un accordo. Considerando che la Russia fa affidamento su ricavi derivati dal petrolio per metà del suo budget nazionale, le speranze di Putin di far risalire l’ economia domestica non saranno positive se non ci sarà un aumento dei prezzi del petrolio. Inoltre, la Russia è già coinvolta in una “guerra dei prezzi” con l’Arabia Saudita, dal momento che entrambi i paesi stanno cercando di vendere il greggio a prezzi molto molto scontanti all’ Europa per catturare quote di mercato lì.

La Russia nel labirinto siriano

Al di là del “fronte petriolio” è verosimile che i sauditi e gli stati del golfo risponderanno alle strategie della Russia in Siria aumentando il loro supporto ai ribelli siriani. L’Arabia Saudita e gli stati del golfo, presenti sulla scena internazionale per arginare la Russia, avevano messo la Turchia in ultima fila, ed è questo il motivo per cui Erdogan ha deciso di abbattere l’aereo russo. La Turchia voleva disperatamente essere protagonista nelle vicende della regione già all’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, ma non ci è mai riuscita. La questione dei curdi è un tarlo per Erdogan ed è disposto a tutto, anche ad un gesto azzardato come quello di abbattere un aereo russo, pur di non riconoscere neanche una zolla di terra ai curdi. La Russia ha risposto accusando la Turchia di voler proteggere il suo mercato illecito di petrolio con l’ISIS.

E’ difficile leggere questa situazione come qualcosa di positivo per Mosca, piuttosto la strada che pare stia intraprendendo la Russia sia più verso un isolamento nel Medio Oriente che verso una sua espansione. Malgrado si sia sforzata di dipingersi come il “mediatore” della questione siriana.
Il ruolo della Russia in Siria, come è spesso il caso negli interventi in Medio Oriente, potrebbe essere molto più lungo di pochi mesi.
Le ricadute dai primi due mesi di combattimenti in Siria per la Russia sono state: i civili russi morti nell’attentato in Sinai, aumento delle tensioni con gli stati del golfo o ora con la Turchia. Tutto ciò rischia di fare di Mosca un prigioniero degli eventi sul terreno in Siria e delle negoziazioni di Vienna sul futuro della Siria. Una volta entrati in questo tipo di guerre è difficile uscirne.