Gennaio 7 2016

Libia: lo scandalo ONU che nessuno racconta

Libia

Libia martoriata da un guerra civile, dallo scellerato intervento del 2011, viene mortificata ancora dallo scandalo del rappresentante ONU. Non ricercate le colpe nei libici, ma nei carrozzoni burocratici occidentali.

Certo l’ISIS che diffonde le foto dei suoi raid sulle infrastrutture petrolifere libiche non è il massimo, aver ottenuto dei successi a Sirte e aver preso il controllo di due città nell’area: Bin Jawad e Nawfaliyah, preoccupa. Preoccupa perchè il vuoto politico non si colma ed anzi si colora di ombre gettate proprio dalle Nazioni Unite. Passato del tutto inosservato dal mondo intero, perchè fa comodo pensare che la colpa sia dei terroristi.

La Libia mortificata dal funzionario corrotto delle Nazioni Unite

Il rappresentante speciale per le Nazioni Unite in Libia, Bernardino Leon, ha negoziato un lavoro per 35000 sterline al mese con gli Emirati Arabi Uniti (UAE),che supportano una delle parti in lotta nella guerra civile in Libia, come direttore generale della sua “accademia diplomatica”. Fatto poi annunciato ufficialmente da UAE.

Leon se la cava dicendo che non è affatto un conflitto di interessi perché voleva lasciare il suo ruolo il 1 settembre 2015. Le email diffuse dal The Guardian mostrano che l’incarico fu offerto a Leon a giugno 2015 e che ad agosto 2015 proprio Leon aveva già intenzione di andare con la sua famiglia ad Abu Dhabi. L’ONU lo rimuove e manda Kobler, un tedesco ed il fatto viene chiuso, archiviato, mai accaduto.

Le mail che fanno più orrore di un bombardamento

Erano passati 5 mesi da quando era stato nominato mediatore in Libia e la prima mail che Leon invia risale al 31 dicembre 2014 indirizzata al ministro degli esteri UAE, Sceicco Abdullah bin Zayed, dalla sua casella di posta privata.

Leon dice che, “siccome ci sono progressi molto lenti nei colloqui di pace, l’Europa e gli Stati Uniti chiedono un piano B, una classica conferenza di pace“. Secondo Leon è una pessima opzione perché tratterebbe le due parti come attori uguali. Continua dicendo che il suo piano è quello di rompere un’alleanza pericolosa tra i mercanti benestanti di Misurata e gli islamisti che tengono a galla  il GNC (la formazione politica con sede a Tripoli). Dice che vuole rinforzare l’HOR (l’altra formazione politica con sede a Tobruk), l’apparato supportato dall’UAE e dall’Egitto. Dichiara che non sta lavorando ad un piano che includa tutti, che ha una strategia che delegittima completamente il GNC. Ammette che tutti i suoi movimenti e le sue proposte sono state prese in consultazione e, in molti casi direttamente con l’HOR e l’ambasciatore UAE in Libia Aref Nayed e l’ex primo ministro libico che sta in UAE, Mahmud Jibril.

Prima di firmare e spedire l’email, Leon afferma che lui può aiutare e controllare il processo mentre è li. Che tuttavia non ha pianificato di starci molto. Che ha avvertito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Europa di lavorare con l’UAE.

Leon insiste che le mail sono state manipolate che stava considerando di dimettersi dal suo ruolo in Libia già a gennaio 2015. L’ambasciatore libico alle Nazioni Unite accusa i servizi d’intelligence britannici di aver dato le mail al giornale britannico. Al-Dabbashi aggiunge che questo dimostra il desiderio degli americani e degli inglesi di far scivolare il paese nel caos fino a quando i loro cittadini che hanno origini libiche abbiano l’opportunità di governare la Libia oppure di dividerla in mini stati.

La Libia e i libici ne pagano le conseguenze

La risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza sulla Libia viene adottata il 23 dicembre 2015 e tutti applaudono alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale, pace e stabilità, evviva! La realtà non è affatto così. L’azione scellerata di Leon ha gettato una grande ombra di legittimità sulle Nazioni Unite. Si crede in Libia che ci sia un gruppo politico a Tripoli, uno a Tobruk ed un terzo a New York. La sensazione per alcuni, la certezza per altri, che il governo sia stato paracadutato dall’occidente non aiuta per nulla. Il fatto che si sia approvato un piano scritto da un funzionario corrotto non fa altro che inasprire la situazione.

I bombardamenti diretti allo stato islamico in Libia forse aiuteranno gli interessi occidentali ma non aiutano affatto la Libia.

Un esempio su tutti. Il movimento politico Tabu ha reiterato che il non riconoscimento della tribù Tabu da parte dell’assemblea costituente viola l’art. 30 della dichiarazione costituzionale ad interim. L’art. 30 obbliga l’assemblea a considerare i punti di vista degli Amazigh, Tabu e Tuareg circa le leggi da adottare nella bozza della costituzione. Il 5 gennaio 2016 l’HOR non si riunisce ufficialmente a causa della mancanza di quorum. I membri dovevano incontrarsi per votare l’accordo politico firmato a Skhirat e il suo Faiez Serraj Government of National Accord  (GNA).

Certo è colpa dei libici che non si mettono d’accordo, in fondo è loro il paese perché non si danno una mossa a mettersi d’accordo? Ed è la fulminante dichiarazione del capo della politica estera europea: Mogherini, che richiama all’unità. Certo è ovvio: la colpa è dei libici. Come se la transizione politica di un paese si potesse fare dall’oggi al domani.

Punti deboli dell’Accordo Politico

Secondo l’accordo il 26 gennaio tutte le posizioni come il governatore della banca centrale libica e il comandante in capo dell’esercito nazionale libico andranno per default al GNA. Sempre in questa data la comunità internazionale dovrà e potrà indirizzarsi unicamente al GNA escludendo ogni contatto con i due governi precedenti.

Come già anticipato in un precedente post l’accordo politico ha molti punti critici che non fanno presagire un buon risultato. La procedura di selezione del primo ministro del governo di unità e dei suoi due deputati è il punto più critico per l’implementazione dell’accordo. Insieme queste tre posizioni formeranno il Consiglio Presidenziale, ognuno con un uguale potere di vero su decisioni governative chiave, soprattutto per il settore sicurezza. A loro verrà anche dato il compito di proporre una linea di governo. Altro limite: l’accordo di Skhirat non prevede una procedura concordata su come queste figure chiavi verranno scelte.

Il piano delle Nazioni Unite assume che ci siano solo due parti che combattono l’un altro, ma ci sono una moltitudine di differenti milizie di cui peraltro non è chiara quale sia la reazione dopo il 26 gennaio 2016.

Resta assente di un binario parallelo che si occupi soltanto di questioni legate alla sicurezza che avrebbe potuto creare un punto comune e quindi un ponte tra i gruppi armati rivali.

Nell’accordo non si menziona affatto il sistema giudiziario. L’ultima riforma della Corte Suprema risale al 1969. Numerosi sono stati i richiami di alcune organizzazioni internazionali al rispetto dei diritti umani nelle prigioni libiche. Il sistema carcerario nessuna menzione. La tortura: nessuna menzione.

Sì, continuiamo a dare la colpa ai libici perché in questa situazione l’occidente ha fatto molto bene: nel 2011 li ha bombardati, ha rimosso il leader (l’ha ucciso così per stare più tranquilli) e poi nel 2015 ha dato in mano le sorti del paese ad un funzionario delle Nazioni Unite corrotto. Ottimo lavoro! Sicuramente la colpa è dei folletti o negli unicorni!

Dicembre 31 2015

I quesiti lasciati in sospeso dal 2015

2015

Il 2015 ci lascia con questioni in sospeso: i giochi delle potenze a spese delle popolazioni già dilaniate da guerre civili. Africa, Medio Oriente, Europa, auguriamoci che il 2016 porti qualche risposta efficace.

I quesiti che il 2015 lascia aperti, sono purtroppo tanti. Alcuni più pressanti.

La Russia trionferà o sarà un epic fail in Siria?

Quest’anno il presidente Putin ha deciso di intervenire in Siria e questo avrà necessariamente un effetto di lungo termine sulla risposta che le grandi potenze daranno nelle prossime crisi. Se Mosca riuscirà ad aggiudicarsi un accordo di pace congeniale ai suoi interessi, i falchi dalla Cina e dagli Stati Uniti diranno che la forza militare è ancora un efficace mezzo nell’arte di governare mettendo una grande ombra sulle lezioni che si dovrebbero apprendere dal fallimento degli Stati Uniti in Iraq.
A Washington gli analisti invece prevedono che la Russia finirà per restare intrappolata in un pantano creato da essa stessa. Se questo sarà il caso allora le maggiori potenze diventeranno riluttanti nell’intervenire nelle nuove guerre.

Le coalizioni arabe sunnite riusciranno ad assumere il ruolo di “stabilizzatori” del Medio Oriente e del Nord Africa, minando ogni intervento esterno?

Uno degli interventi militari più significativi di quest’anno è stato l’incursione guidata dall’Arabia Saudita per cacciare i ribelli Houthi dallo Yemen. Riyadh è riuscita a mettere insieme una coalizione di alleati arabi sunniti, supportati da mercenari ben pagati. Questo intervento non è proprio andato liscio come l’olio, ha finito per rafforzare il potere dell’affiliato locale di Al Qaeda e gli arabi potrebbero rivolgersi alle Nazioni Unite per mandare i peacekeepers nel 2016. Tuttavia se i sauditi e i loro alleati concludono che malgrado i costi l’operazione in Yemen sia valsa la pena, potrebbero lanciare queste “missioni di stabilizzazione” nel Medio Oriente, Nord Africa negli anni a venire, minando i tentativi di incursione esterni nella regione.

L’Unione Europea sarà finalmente pronta per la gestione delle crisi?

L’Unione Europea si è sforzata di diventare una forza militare convincente per due decadi. Un po’ meglio è andata nel 2015, con le opzioni navali per gestire il traffico di migranti nel Mediterraneo. Tuttavia la crisi dei rifugiati, gli attacchi di Parigi, il disordine in Nord Africa gradualmente hanno spaccato l’Unione in cui ogni stato membro ha fatto i propri giochi di potere. Potremmo augurarci che il 2016 sia finalmente l’anno della serietà dell’Unione Europea nelle questioni di sicurezza.

Le potenze africane riusciranno a controllare il loro continente?

L’Unione Africana sta lavorando su piani di intervento per fermare la discesa verso il caos del Burundi. Se avesse successo potrebbe essere un buon passo verso la costruzione di qualcosa di meglio che le improponibili ed inefficaci missioni di stabilizzazione in Somalia ed il dispiegamento confuso nella Repubblica Centrafricana.

Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Kabila, riuscirà ad umiliare le Nazioni Unite?

Kabila sta cercando con grande determinazione e tenacia di aggirare la costituzione per vincere il terzo mandato al comando del più grande paese dell’Africa sub – sahariana, che ha ospitato i peacekeeper per 15 anni. Questo potrebbe rivelarsi un’enorme crisi di reputazione per le Nazioni Unite per aver “costruito” stati funzionanti che alla fine si rivelano dei grandi danni essi stessi. Tuttavia se Kabila decidesse di farsi da parte, sarebbe un segnale di successo per i caschi blu dopo le recenti battute d’arresto in Sud Sudan e Mali.

Riusciranno le grandi potenze ad eleggere come segretario generale delle Nazioni Unite, un vero manager delle crisi?

Nel 2017 ci sarà l’elezione del nuovo segretario generale ONU, in questo anno riusciranno a trovare uno diverso da Ban Ki – moon che ha sempre preferito stare nelle conferenze diplomatiche?

Ci auguriamo che il 2016 porti risposte concrete efficaci. BUON ANNO!

Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.