Febbraio 12 2024

Gaza: la soluzione é il cessate il fuoco?

Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.

A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché c che ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.

Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.

Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.

In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.

Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.

In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.

In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.

I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.

Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.

In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.

A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.

Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.

Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.

Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.

Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.

Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.

Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.

Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Settembre 4 2023

Africa: il punto di flessione degli Stati Uniti e della Cina

Africa flessione

A Washington avvertono che la Cina, con i suoi finanziamenti dei maggiori progetti infrastrutturali, sta sovraccaricando i Paesi africani di debiti. Questa affermazione non ha necessariamente un fine indagatore, ma sottolinea come le relazioni Stati Uniti – Cina stiano diventando sempre di più acrimoniose. L’Africa è diventata la nuova arena per la rivalità strategica.

Algeria

Aspetta, non leggere, riguarda la mappa. Dedica un minuto in più di attenzione dove si trova geograficamente l’Algeria con chi confina.

A metà luglio, il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha condotto una visita di Stato di cinque giorni in Cina, dove ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e altri funzionari chiave. La delegazione di uomini d’affari che lo accompagna evidenzia il desiderio di Tebboune di sostenere i legami economici dell’Algeria con la Cina. Tebboune ha dichiarato nel giorno finale della visita: «vogliamo cooperare con la Cina perché è un grande Paese con enormi mezzi.»

Tebboune ha anche dichiarato il motivo per cui il modello di partnership di Pechino è cosi allettante: « la Cina non emette restrizioni politiche, non appone condizioni. In breve la Cina rispetta gli altri Paesi».

Algeri, ricordiamolo, si prepara ad occupare il suo seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2024-2025 ed ha bisogno di Pechino più che mai.

Nel viaggio da e di ritorno dalla Cina, Tebboune si è fermato in Qatar e Turchia. Agli inizi di quest’anno ha visitato la Russia, nel più ampio sforzo di ri-impegnare diplomaticamente Algeri dopo anni di isolamento.

Il collasso dei prezzi del petrolio nel 2014 ha condotto ad anni di sofferenza finanziaria, quasi al punto di richiedere finanziamenti esterni. Il conseguente taglio negli alti livelli di spesa sociale dell’Algeria ha aiutato ad alimentare il movimento di protesta Hirak, un’espressione su scala nazionale di malcontento popolare che ha spinto l’allora presidednte Abdelaziz Bouteflika a dimettersi nel 2019. Sebbene ora moribondo, il movimento ha contrassegnato la più grande sfida al potere autocratico del regime in decadi.

Gli impegni di politica internazionale dell’Algeria hanno tre principali obiettivi:

  1. contrastare la crescente influenza regionale del vicino Marocco;
  2. rafforzare la sua posizione tra le potenze crescenti di un mondo multipolare;
  3. attrarre più investimenti per diversificare la sua economia.

Allinearsi con la Cina calza a pennello in tutti questi obiettivi.

Negli anni passati, il Marocco ha rafforzato le sue rivendicazioni di sovranità sul Sahara Occidentale – una fonte importante di tensioni con l’Algeria – procurandosi il riconoscimento da un crescente numero di Paesi, incluso gli Stati Uniti. Nel fare ciò, ha spostato con successo la questione fuori dal reame della soluzione mediata dalle Nazioni Unite basata sul diritto internazionale. L’Algeria che sostiene l’indipendenza del territorio, potrebbe utilizzare la sua presenza nel Consiglio di Sicurezza per cercare di rallentare il momentum del Marocco e riportare la disputa territoriale sotto gli auspici delle Nazioni Unite.

Una Cina compassionevole potrebbe aiutare.

Il valore di Pechino come alleato è specialmente cruciale per raggiungere gli ultimi due obiettivi. Negli anni recenti l’Algeria ha intensificato la sua campagna di lobby per entrare nel gruppo BRICS, che comprende il Brasile, la Russia, l’India, la Cina ed il Sud Africa. Argomento centrale di discussione durante la visita di Tebboune in Cina e Russia. Entrambi i Paesi hanno pubblicamente sostenuto la candidatura dell’Algeria. Unirsi al BRICS concederebbe all’Algeria una solida impronta in un’organizzazione chiave per le potenze economiche non-occidentali, solidificando le sue relazioni con altri Paesi del Sud Globale. Concederebbe anche più influenza nel navigare i legami con i Paesi europei, i quali spesso appongono pressioni all’Algeria per il suo continuo imprigionamento di attivisti e giornalisti.

In particolare, essere parte del New Development Bank, fornirebbe una qualche sicurezza per un prezzo più basso, nel futuro, del petrolio e del gas: Algeri non dipenderebbe dal Fondo Monetario Internazionale o altre organizzazioni multilaterali dominate dall’occidente per un salvataggio nel caso una improvvisa discesa nelle entrate energetiche metta in pericolo ancora una volta la sua posizione relativa al bilancio. Sarebbe una sorpresa se l’Algeria fosse ammessa nel gruppo a breve, giacchè la sua economia resta sotto sviluppata e statica, dominata da esportazioni di idrocarburi. La scena degli affari è opaca e ostile all’investimento estero. Manca di una base manifatturiera competitiva e diversificata.

Algeri ha le sue carte da giocare.

Tebboune ha offerto 1.5 miliardi di dollari della sua nuova ricchezza energetica per diventare un azionista nella banca di sviluppo BRICS.

La crescente vicinanza dell’Algeria con la Cina sarà vantaggiosa al di là dell’appartenenza a BRICS. La visita di Tebboune a Pechino ha condotto alla firma di 19 accordi di cooperazione e progetti per 36 miliardi di dollari in investimenti cinesi nei prossimi anni. Le industrie cinesi hanno aiutato a costruire molte delle case e delle infrastrutture di trasporto su cui l’Algeria ha investito durante i precedenti supercicli di prezzi del petrolio.

La storia gioca un ruolo in questa relazione bilaterale. La Cina è stata la prima nazione non-araba a riconoscere il primo governo provvisorio algerino nel 1958, quattro anni prima che vincesse l’indipendenza dalla Francia.

Probabilmente il più grande fattore che guida il corteggiamento algerino alla Cina può essere rinvenuto nelle difficoltà della Russia sui campi di battaglia dell’Ucraina.

Mosca è stato un sostenitore politico tradizionale dell’autocrazia di Algeri e un fornitore chiave per le sue forze armate. Tuttavia le autorità algerine comprendono che l’influenza globale russa ora è in diminuzione. Quale che sia il risultato in Ucraina, è quasi certo che il regime del presidente russo Vladimir Putin apparirà economicamente più debole e politicamente più instabile una volta che il conflitto sarà terminato.

Ciò non vuol dire che la forte relazione dell’Algeria con la Russia terminerà. Tebboune e gli alti ufficiali dell’Algeria – il vero potere nel Paese – continueranno ad evitare di criticare la guerra di aggressione di Putin. Neppure avranno come obiettivo quello di sostituire il loro amico a Mosca con uno a Pechino.

Hanno compreso la necessità di diversificare il loro portfolio di alleanze e sembrano contenere un risultato negativo per la Russia in Ucraina assicurandosi un’altra base di sostegno chiave al di fuori dell’influenza occidentale.

Al momento l’Algeria sembra ben lontana dal guadagnare un gruppo di nuovi alleati attraverso il BRICS, ma converge volentieri per un nuovo amico super potente: la Cina.

La strategia degli Stati Uniti in Africa è articolata attraverso un programma obsoleto (ancora quello)

Il vice Presidente Kamala Harris ha svolto recentemente un viaggio di nove giorni in Africa, iniziato in Ghana, Tanzania e concluso in Zambia. La sua visita segue quella di Janet Yellen, Segretario del Tesoro, Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, la first lady Jill Biden e il segretario di Stato Antony Blinken.

La selezione di tre Paesi di lingua inglese i cui governi sono favorevoli agli interessi americani e sistemi politici stabili, è intesa a dimostrare la capacità di Washington di esibire la sua agenda continentale lavorando con alleati che la pensano come loro. Cionondimeno il viaggio della Harris dimostra diversi limiti profondamente radicati nell’impegno americano con i Paesi africani.

La vasta impronta della Cina nei tre Paesi che ha visitato è ineluttabile, dal momento che le imprese cinesi hanno investito vaste somme nello sforzo di accrescere lo sviluppo infrastrutturale in tutti i Paesi. In un momento storico in cui Washington ha diretto decine di miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina sin da quando è stata invasa dalla Russia, l’annuncio di Harris di 100 milioni di dollari dagli Stati Uniti per gli Stati dell’Africa occidentale – 20 milioni di dollari ciascuno – è un indicazione delle sue priorità.

Molti hanno visto con favore l’impegno della Harris con i creativi ghanesi, ma la sua diffusione di una playlist Spotify con la partecipazione di artisti del Ghana, Tanzania e Zambia così come il suo invito agli attori di Hollywood Idris Elba e Sheryl Lee Ralph di accompagnarla durante la sua visita agli studi musicali, è stata considerato emblematico della superficialità con cui i funzionari americani si coinvolgono con gli africani.

Essenzialmente, il viaggio di Harris ha compiuto poco per cambiare le percezioni tra molti africani che Washington vede il Continente principalmente come una serie di problemi da essere gestiti, alleggerendo il tutto con un cenno di assenso ad esso come fonte di intrattenimento. I funzionari americani così come coloro che difendono l’impegno di Washington in Africa regolarmente respingono le critiche alle politiche sottolineando le donazioni di miliardi di dollari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono in assistenza allo sviluppo. Come prova dell’effettivo impegno americano, evidenziano le alleanze bilaterali e multilaterali nel Continente; programmi popolari come l’Emergency Plan for AIDS Relief, African Growth and Opportunity Act che fornisce accesso duty-free al mercato americano; il sostegno degli Stati Uniti alla promozione della democrazia, la leadership americana nelle organizzazioni internazionali per cui i Paesi africani beneficiano considerevolmente.

Il problema con queste narrative non è tanto che sono false, ma che i loro limiti rafforzano le esatte argomentazioni che compiono le critiche alla politica americana. Alcuni programmi di vanto americano sono ora quasi due decadi vecchi e miseramente adatti alle realtà moderne.

Le alleanze di sicurezza americane hanno fatto poco per fermare l’ondata di violenza estremista nella regione del Sahel o aiutare gli Stati fragili a costruire capacità addirittura rafforzando gli incentivi negativi che consolidano il ruolo dei militari negli Stati coinvolti.

La retorica di Washington sulla democrazia scarsamente si accorda con il suo comportamento, come dimostrato nelle recenti elezioni in Nigeria, quando l’amministrazione Biden ha rapidamente avallato il risultato di elezioni profondamente viziate dalla violenza e dalle irregolarità.

Anche se gli Stati Uniti non scatenano lo stesso tipo di reazione aspra che suscita la Francia, molti nel Sahel percepiscono le preoccupazioni americane per la democrazia come un’offerta per imporre e mantenere l’influenza straniera.

Per molti di coloro che vivono in questi Paesi, i colpi di Stato sono espressioni del volere popolare ed è molto difficile sapere, conoscere, quanto ampi siano tali sentimenti. Il fatto che la difesa americana della democrazia significhi così poco nella regione suggerisce che posizioni di principio possono ottenere poco al momento.

Eppure gli Stati Uniti hanno assunto posizioni “più flessibili” in passato, come nel caso dell’Egitto. Quando Abdel Fatah el-Sisi ha preso il potere attraverso un coup nel 2013, gli Stati Uniti sono andati avanti con gli affari come al solito, perché il Cairo è considerato un alleato strategico che Washington non può permettersi di perdere. Questa sorta di flessibilità dovrebbe essere impiegata nel Sahel.

I Paesi africani temono una decade perduta

Una delle cattive abitudini dei funzionari americani, che hanno continuato a sostenere fin dal lancio della strategia americana in Africa lo scorso anno, è la tendenza a caratterizzare le relazioni dell’Africa con la Cina in termini paternalistici, particolarmente riguardo al debito cinese, riferendosi a Pechino: «accordi luccicanti che possono essere opachi e fondamentalmente falliscono nel portare beneficio alle persone per cui sono stati presumibilmente progettati.»

La supposizione implicita tra americani e europei è che i governi africani mancano dell’astuzia necessaria per comprendere lo scenario della politica internazionale e navigarlo nel perseguimento dei loro interessi.

Peggiori sono le rivendicazioni di una “trappola del debito cinese” organizzata per gli africani. I prestiti cinesi, sebbene una proporzione crescente del debito dei Paesi africani, sono fondamentalmente sovrastati dall’onere del debito creato dai prestatori privati occidentali.

Come spesso fanno notare i governi africani, essi si sono rivolti a Pechino per lo sviluppo finanziario non perché non comprendono ciò che è offerto, ma per le condizioni del prestito relativamente favorevoli rispetto ai creditori occidentali.

Washington elargisce delle “somme di facciata” all’industrializzazione africana e allo sviluppo del settore privato, ma ha per la gran parte fallito nell’offrire alternative sostenibili al più conveniente credito cinese. Il ministro delle finanze congolose Nicolas Kazadi ha dichiarato che se la Cina è un così importante alleato dei Paesi africani, è perché non è facile mobilitare gli investitori americani.

I funzionari americani e i commentatori spesso si riferiscono ai governi africani come “sedotti” dai prestiti cinesi e dal sostegno per i regimi autoritari nel Continente. In questo modo essi semplicemente sottolineano la loro mancanza di familiarità con le aspirazioni delle popolazioni africane, che li lascia incapaci di comprendere perché i rivali di Washington stanno guadagnando terreno con il pubblico africano.

Parimenti significativa la circostanza per cui esagerano le capacità della Cina, sottovalutando i considerevoli spazi vuoti che vi sono nell’impronta di Pechino in Africa, spazio che molti governi nel Continente e molti dei loro elettori vorrebbero che Washington riempisse.

Se gli Stati Uniti vogliono diventare il partner di scelta degli africani devono iniziare ad ascoltare i loro interlocutori africani e considerare seriamente le loro argomentazioni e aspirazioni.

I governi africani regolarmente dichiarano di non voler schierarsi da alcuna parte tra le Grandi Potenze nel contesto geopolitico. In più, sebbene molti di loro ora guardino la Cina come il loro principale partner diplomatico, non considerano i loro legami con la Cina come la somma totale delle loro relazioni internazionali. È certamente una relazione cruciale, anche la più importante, ma in nessun modo la sola.

Vi sono aree di tensione nelle relazioni della Cina con gli africani, inclusa una crescente percezione che Pechino si stia tirando indietro e riducendo la sua impronta in Africa. Questi timori potrebbero essere fondati. Al Forum sulla Cooperazione Cina – Africa (FOCAC) del 2021, la trattazione principale era la riduzione di un terzo degli impegni finanziari di Pechino in Africa nei successivi tre anni. Alcuni analisti hanno asserito che questa mossa era più sfumata rispetto al commento, argomentando che le altre iniziative annunciate da Xi puntavano ad un chiaro segno che il settore privato é posizionato in modo da guidare la fase successiva delle relazioni tra Paesi africani e che Pechino si muove gradualmente lontano da progetti di infrastrutture di larga scala attuati da imprese statali verso lo sviluppo di un settore a guida privata. Le ragioni di questo spostamento sono varie e dibattute, ma si è senz’altro d’accordo che la Cina sta cercando di minimizzare i suoi rischi – anche di reputazione – in alcune aree e cercando di creare spazio per consegnare parte della sua impronta all’estero alle imprese del settore privato.

Alcuni analisti asseriscono che Pechino ha maturato più esperienza e prudenza come donatore ed investitore e perciò più cauta, specialmente data l’incertezza economica domestica. A prescindere dalle ragioni dell’evoluzione dell’attività cinese in Africa, i governi africani nondimeno si preoccupano che il loro principale partner economico sia meno desideroso di distribuire finanziamenti e progetti rispetto a quanto lo fosse tempo fa.

Tutto ciò ci suggerisce che gli africani vedono e comprendono i meriti e i lati negativi dei metodi degli Stati Uniti e della Cina. Così come vi sono dei timori su alcune parti dell’impegno cinese, vi sono elementi della cassetta degli attrezzi di Washington che sono popolari tra gli africani. Ad esempio il PEPFAR, il piano di emergenza del Presidente degli Stati Uniti per l’AIDS Relief autorizzato dall’allora presidente George W. Bush nel 2003, è ampiamente considerato dai governi africani, dai gruppi della società civile e dai professionisti sanitari come fattore trasformativo nel Continente, malgrado le critiche all’iniziativa. La considerevole diaspora Africana negli Stati Uniti e la loro crescente prominenza in molti settori così come nel Continente sostiene la diplomazia culturale e i legami tra gli africani e i cittadini americani. In un continente dove milioni, particolarmente giovani, hanno capacità creative ed imprenditoriali, aspirazioni, gli Stati Uniti e i marchi popolari tecnologici, la moda, l’intrattenimento e l’ingegneria continuano ad essere visti come un centro nevralgico di innovazione.

Pur tuttavia molti africani, in linea generale, percepiscono che solo una parte – la Cina – compie uno sforzo credibile nel migliorare il suo modo di operare ed è possibile distinguere le vie tangibili dell’attività cinese nelle loro comunità che ha innalzato gli standard di vita e migliorato la qualità della loro vita.

I Paesi africani ora sono in un punto di flessione nella traiettoria del loro rapporto con le potenze mondiali, con sostanziali incertezze rispetto a tali relazioni.

Queste potenze esterne farebbero bene a riflettere come dimostrare meglio il loro desiderio dichiarato di migliorare le relazioni con gli africani. Allo stesso modo, i governi del continente dovrebbero considerare come trarre il meglio delle opportunità che possono derivare dalla competizione per l’influenza in Africa.

Riconoscendo lo squilibrio di potere intrinseco al sistema internazionale, i governi africani devono dimostrare un approccio preciso, puntuale delle loro relazioni con Pechino e Washington per trarne vantaggio. Ciò deve assicurare che questo impegno corrisponda a strategie locali che non duplichino sforzi – o li sprechino su progetti e iniziative che portano pochi benefici alle popolazioni del Continente. Sebbene il Giappone non possa realisticamente competere sulla stessa scala della Cina o degli Stati Uniti per l’influenza in Africa, il suo modello di cooperazione, che tende ad essere caratterizzato da un approccio multilaterale e multisettoriale che unisce una molteplicità di voci e alleati su una vasta gamma di questioni, è valutato positivamente da molti governi africani e potrebbe essere uno da emulare.

Per tutta l’onnipresenza e abilità cinese in Africa, le sfide del Continente e le aspirazioni sono troppo vaste e varie perché Pechino possa soddisfarle tutte realisticamente. I sondaggi hanno dimostrato in maniera consistente che gli africani conservano delle visioni positive sia degli Stati Uniti che della Cina e preferiscono mantenere delle relazioni vantaggiose con entrambi piuttosto che dover scegliere tra loro.

Pochi africani sono ingenui nel non comprendere il significato relativamente basso che Washington accorda al Continente paragonato alle priorità centrali in Europa e nella regione Asia-Pacifico, ma ciò non è visto come necessariamente un ostacolo ad un’alleanza produttiva – anche se modesta.

Agosto 3 2023

Niger: le minacce alla sicurezza

Niger

Quando indosso una lente di ingradimento difficilmente posso cogliere ciò che non è ingrandito dalla lente. Il mio sguardo è circoscritto, vedo solo quel Paese. Così spesso accade quando si cerca di comprendere uno sviluppo politico, come per il Niger, si traslascia il contesto che invece è essenziale per inquadrare l’evoluzione politica, ma anche sociale, economica. Anche il tempo è importante. Ci si ferma all’oggi ma i cicli politici non accadono in un giorno. Quello che osserviamo è il risultato di ciò che si è sviluppato nel corso degli anni in un ambiente locale e regionale complesso.

Proviamo a viaggiare dal Niger verso l’Africa Occidentale costiera ed il Sahel e cerchiamo di comprendere cosa accade.

Febbraio 2022: il presidente francese Emmanuel Macron annuncia che le truppe dell’operazione francese Barkhane così come quelle nella Task Force EU Takuba saranno ritirare dal Mali. Il presidente del Niger Mohamed Bazoum dichiara che il Niger accoglierà volentieri le truppe francesi e dell’Unione Europea nel suo territorio. Da allora i legislatori nigerini hanno approvato una legge che autorizza il governo ad ospitare più truppe europee come parte delle operazioni di controterrorismo regionali a guida francese.
Questa mossa ha provocato una opposizione piuttosto robusta da una vasta gamma di nigerini, incluso personaggi dell’opposizione politica, gruppi della società civile e cittadini ordinari, che affermano che la presenza delle truppe europee minaccia la sovranità nazionale e potrebbe rendere il Niger un obiettivo più grande della violenza estremista. Queste obiezioni sono comprensibili in un Paese dove l’ostilità popolare verso la Francia è diffusa e lo scenario di sicurezza è peggiorato negli anni recenti, malgrado la presenza di un dispiego militare straniero già esistente.
Lo strategemma di Bazoum punta il riflettore sullo scenario politico del Niger, così come sulle percezioni della leadership del Paese e la sua comprovata esperienza nel combattere la violenza e l’instabilità nel Sahel.

Il Niger è spesso preso ad esempio per i Paesi confinanti nel Sahel. Come molti dei suoi vicini regionali, il Niger è caratterizzato da alti livelli di povertà estrema e una lunga storia di coup militari. Dal ritorno del Paese al governo democratico nel 2011, il Niger ha compiuto grandi passi verso il raggiungimento di stabilità socio-politica.
Ha ricevuto il plauso internazionale nel 2021 per il completamento del primo trasferimento di potere pacifico tra leader democraticamente eletti dall’ottenimento della sua indipendenza dalla Francia nel 1960, quando l’ex Presidente Mahamadou Issoufou si è dimesso dopo aver completato due incarichi consecutivi. Issoufou è stato elogiato per aver compiuto passi sostanziali per migliorare l’istruzione e sviluppare infrastrutture, investendo nella costruzione di nuove strade, centrali elettriche, elettrificazione rurale e la modernizzazione dell’aereoporto di Niamey.


Il quadro istituzionale del Niger concentra ampiamente il potere nelle mani del Presidente, ma incorpora anche le autorità tradizionali nello sforzo di rafforzare la capacità statuale. Ad esempio, il sistema locale dei capi tribù collabora con lo Stato su una gamma di questioni che vanno dalla riscossione delle tasse, all’amministrazione della giustizia alla mediazione nei conflitti e agli affari religiosi, da una parte all’altra del Paese come la regione occidentale Tillaberi, la regione a sud Diffa, o Agadez nel nord.

Come il Mali, il Niger ha avuto la sua quota nelle ribellioni Tuareg. Molti osservatori ritengono che abbia intrapreso dei passi più significativi anche se imperfetti ed insufficienti per affrontare le recriminazioni Tuareg cosi come quelle dei gruppi di minoranza.
I partneriati di sicurezza nigerini con la Francia e gli Stati Uniti hanno per la maggior parte permesso alle élite politiche e di sicurezza di consolidarsi, radicarsi al potere a spese di un compito di lungo termine vale a dire la governance democratica.
Per questo non sorprende che il Niger è diventato rapidamente riconosciuto come un alleato occidentale chiave nel combattere la violenza estremista.

Niger
Fonte: Mappr


Un Paese senza sbocchi sul mare che condivide le sue frontiere con sette Paesi incluso Nigeria, Mali, Chad, Algeria e Libia, occupa una posizione strategica sulla mappa dell’Africa, siede all’incrocio tra il Nord Africa, il Sahel e il bacino del Lago Chad. Il governo nigerino ha regolarmente affermato che la sua posizione geografica spiega il deterioramento delle sue condizioni di sicurezza nel corso del tempo, attribuendo la causa della propria instabilità alle ripercussioni dei conflitti nei Paesi vicini. Subito dopo i ritiri francesi e dell’Unione Europea dal Mali, Bazoum ospita personaggi di alto profilo incluso il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, suggerendo l’importanza degli interessi occidentali di sicurezza nel Sahel.
Negli anni recenti, combattenti dal Mali e dal Burkina Faso si sono spinti sempre di più nella regione Tillaberi, che è nel triangolo tra Niger Mali e Burkina Faso. La regione Diffa, vicino alla frontiera nigeriana, ospita centinaia di migliaia di nigeriani che sono scappati dalla violenza di Boko Haram e gli attacchi transfrontalieri sono aumentati. All’aumentare delle tensioni tra il Mali e la Francia negli anni recenti ed il collasso della relazione tra i due Paesi, il Niger ed il Burkina Faso hanno puntato nell’altra direzione, muovendosi rapidamente per rassicurare Parigi della loro volontà di sostenere i loro partneriati sulla sicurezza.

Ciò che sarebbe necessario è una concettualizzazione più ampia di cosa costituisce la Sicurezza.

L’inizio delle ribellioni che hanno minato la sicurezza nel Sahel nella passata decade, è coinciso con un accordo diffuso e condiviso che la violenza avrebbe avuto delle ramificazioni socio-economiche, politiche ed umanitarie significative per i Paesi della sub-regione. Molti osservatori hanno creduto che la minaccia posta dai militanti delle organizzazioni violente islamiche, dalle reti di criminali e da altri gruppi armati sarebbe stata confinata al Sahel, senza espandersi al sud verso il Golfo di Guinea.

L’Africa occidentale costiera, incluso le regioni litoranee della Nigeria, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, si presumeva fossero sicure dall’espansione delle organizzazioni estremiste violente.

Queste supposizioni contengono delle imperfezioni, incluso una concettualizzazione limitata di sicurezza e una errata diagnosi della violenza estremista islamica come causa piuttosto che come sintomo di problemi più profondi di governance, legittimità e nation-building.

Questa supposizione è coincisa con una risposta militarizzata alla violenza estremista da parte dei governi regionali e dei partner internazionali, che hanno concentrato i loro sforzi di contro terrorismo a spese di altre minacce alla sicurezza, incluso il brigantaggio, la pirateria, il crimine transnazionale, le tensioni inter e intra comunitarie così come i traffici illegali.

Queste supposizioni imperfette hanno iniziato a collidere con la realtà diversi anni fa.

Nel 2016, la città di Grand-Bassa, circa 35 km ad est di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio è attaccata da un uomo armato affiliato con Al Qaeda nel Maghreb Islamico

Nel 2019, ufficiali della sicurezza burkinabe intercettano comunicazioni tra militanti all’interno del Paese e altri in Benin, Ghana e Togo. L’anno successivo il Burkina Faso e la Costa d’Avorio conducono l’operazione congiunta Comoe un’operazione militare che ha come obiettivo i militanti islamisti nelle aree di frontiera tra i due Paesi, uccidendone 8 e catturandone 38 distruggendo i campi di addestramento.

Nel 2021 un posto di sicurezza nel nord del Togo, vicino alla frontiera con il Burkina Faso è attaccato da banditi armati.
Anche in Ghana, a lungo considerato da molti il pilastro regionale della stabilità e della governance democratica, i funzionari lanciano l’allarme per il crescente numero di attacchi e di sviluppi nefasti vicino alle sue frontiere, sebbene non vi sia un importante primato di attacchi nel Paese.
Per non parlare della Nigeria, l’egemone dell’Africa occidentale, ma verosimilmente il vettore regionale di instabilità. La ribellione da 13 anni di Boko Haram nel nord est è ben nota, ma ha visto diverse evoluzioni, incluso la crescita dello Stato islamico – ISWAP, dopo la morte del leader di Boko Haram Abubakar Shekau nel 2021 e la rinascita della fazione Ansaru affiliata di Al Qaeda. Il numero di attacchi terroristi è aumentato del 49% tra il 2020 ed il 2021.

Dipingere la minaccia degli estremisti violenti islamici come l’unica o la più importante espressione di instabilità nell’Africa occidentale si è provato controproducente.

Molti nigeriani per molto tempo hanno creduto che non era probabile che Boko Haram e i suoi affiliati potessero ottenere un punto d’appoggio a sud della confluenza Lokoja, considerata come la linea di divisione tra il nord ed il sud della Nigeria. Tuttavia, i funzionari della sicurezza hanno avvertito dei tentativi di Boko Haram di espandere le sue attività a sud, incluso nel Lagos il centro economico nevralgico del Paese. Recenti attacchi nello stato di Kogi, di cui Lokoja è la capitale sembrerebbero indicare un altro esempio di attività dell’estremismo violento che si diffonde verso la parte litoranea dell’Africa occidentale. Insicurezza e morti violente nella costa a sud della Nigeria – nelle parti centrali – presumibilmente tra agricoltori e mandriani si sono intensificati negli anni recenti. Nella regione del delta del Niger le sfide alla sicurezza si sono similmente intensificate: vandalismo, furto di petrolio, attività di gang, rapimenti e violenza comunitaria schiacciano le forze di sicurezza impiegate nella regione nei vari Stati. Mentre questi sviluppi non hanno una connessione dimostrata con ISWAP o Boko Haram, sono giudati in larga parte da attori non statali la cui capacità di impiegare la violenza e contestare l’autorità dello Stato non è meno spaventosa.

Questi esempi mettono in luce la vulnerabilità della costa dell’Africa occidentale alle ripercussioni dell’attività estremista da parti remote del Sahel. Essi indicano anche alle imperfezioni nelle supposizioni che hanno influenzato la risposta di sicurezza da parte di governi regionali e dei loro partner internazionali.

Dipingere la minaccia dei militanti islamici come l’unica o anche la più importante espressione dell’instabilità dell’Africa occidentale – per non dire la sola ed unica causa – si è provato controproducente. Così come affidarsi unicamente ad una robusta risposta del controterrorismo e ad operazioni militari, affrontando poco le questioni più profonde di debolezza della governance, ineguaglianza socio-economica e marginalizzazione.

Concentrarsi esageratamente sull’attività militante islamica devia anche dalle vulnerabilità locali che l’estremismo violento ha sfruttato in tutta l’Africa occidentale, mentre ha ignorato l’intersezione dell’estremismo violento con altre minacce alla sicurezza, incluso il traffico illecito di umani e beni, il crimine violento, il conflitto inter-comunitario, la pirateria marittima, il banditismo e i rapimenti.

In esempi dalla Nigeria al Niger al Burkina Faso e al Mali, le condizioni che hanno reso possibile la crescita delle organizzazioni estremiste violente hanno anche permesso la proliferazione di queste altre forme di violenza.

I conflitti locali nelle aree litoranee dell’Africa Occidentale possono servire come punti di entrata per gruppi estremisti violenti, che sfruttano le divisioni comunitarie parteggiando per una parte, quindi ottenendo sostegno in cambio di servizi vitali come la sicurezza, il trasporto e le infrastrutture pubbliche, una tendenza comune nelle comunità di frontiera nella Regione.


Gli Stati costieri dell’Africa occidentale mostrano quasi tutti le stesse vulnerabilità locali come le loro controparti del Sahel, incluso istituzioni statali deboli, frontiere porose, alti livelli di povertà, ineguaglianze economiche, divisioni rurali-urbane. Tutti questi fattori possono facilitare la diffusione dell’attività estremista mentre rendono le attività criminali attrattive. I gruppi estremisti violenti islamici collaborano direttamente o indirettamente con altri gruppi criminali, incluso i minatori illegali di oro, i bracconieri, i trafficanti che condividono i loro interessi nell’assenza o debolezza della presenza dello Stato e delle sue istituzioni.


Gli estremisti islamici in Niger, Mali e Burkina Faso utilizzano il Benin, la Costa d’Avorio, il Ghana, il Togo come risorse o zone di transito per finanziamento e logistica. Il bestiame rubato dal Mali e dal Burkina Faso, ad esempio è venduto regolarmente in Benin, Costa d’Avorio e Ghana, con i profitti che passano attraverso una vasta rete di complici per raggiungere una vasta gamma di gruppi armati che includono, ma non sono limitati a, estremisti violenti. Il petrolio rubato dalla Nigeria è venduto lontano dalla Costa d’Avorio, creando una rete transnazionale di petrolio rubato.


Sebbene l’estremismo violento sia significativo, vi sono altre minacce alla sicurezza che si sono rivelate destabilizzanti per la stabilità regionale ma non hanno avuto lo stesso grado di attenzione da parte dei governi.

Un serio tentativo di affrontare l’instabilità dell’Africa occidentale deve lottare con l’intersezione tra l’estremismo violento e altre minacce alla sicurezza, invece di vederle diverse.

Deve anche vederle non come cause di instabilità, ma come sintomi di lacune socio-politiche profonde che realisticamente non possono essere risolte soltanto da un approccio di sicurezza. Inoltre deve essere consapevole che l’Africa Occidentale costiera è adesso parte del nesso di insicurezza che molti hanno presunto che in Sahel sarebbe stato contenuto.

Ritorniamo in Niger

Il poco tempo in carica di Bazoum è stato caratterizzato da un approccio duro alla governance. Avendo svolto una campagna elettorale promettendo di eradicare la corruzione nel governo, ha compiuto sforzi in questo senso, ma essi sono stati vagliati molto attentamente; molti nigerini sospettano che le ondate di arresti di ufficiali della sicurezza e funzionari governativi di alto grado siano state meramente un pretesto per disfarsi di coloro che Bazoum percepiva come rivali o oppositori.
Le forze di sicurezza nigerine, che sono considerate meno brutali e complici di abusi dei diritti umani rispetto alle loro controparti maliane e burikinabe, hanno giocato un ruolo significativo nello sforzo di controterrorismo nel Sahel. Pur tuttavia anche loro sono stati invasi dalla piaga di alti livelli di corruzione e facilmente cooptati dai criminali delle reti di trafficanti. Accuse di corruzione hanno a lungo piagato il Ministero della difesa nigerino.
Nel 2020 un audit governativo ha rivelato perdite per milioni di dollari in accordi di corruzione per commercio internazionale di armi. Rivelazione che ha portato in piazza a Niamey i manifestanti a cui il governo ha risposto con una repressione e l’arresto di molti attivisti.
Le partnership di sicurezza con le potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti hanno permesso alle elite di sicurezza e politiche di consolidarsi al potere a spese del compito di fornire una governance democratica di lungo termine, piuttosto che contribuire alla stabilità nazionale e regionale o migliorare la qualità delle istituzioni nigerine.

La strategia della Francia nel Sahel

Il governo francese ha lanciato l’operazione Barkhane, di controterrorismo regionale e counter insurgency, nel 2014 per combattere i gruppi estremisti islamici violenti che avevano preso il controllo di vaste porzioni di territorio nel nord del Mali diffondendosi anche in Burkina Faso ed in Niger.

Fonte: rawpixel

Nella decade seguente, l’insicurezza nel Sahel ha ucciso e ferito migliaia e dislocati milioni di più. La crisi di sicurezza nel Sahel è alimentata dall’instabilità politica, dalla governance debole, da torti storici così come la povertà della Regione. La Regione è una delle più povere del mondo, con condizioni meteorologiche estreme, bassa produttività agricola e accesso limitato ai servizi essenziali. La violenza intercomunitaria, in crescita, è alimentata dalla competizione per la terra e le sue risorse tra gruppi etnici, che conduce ad ulteriore dislocazione e alla rottura della coesione sociale nella regione, particolarmente in Mali, Burkina Faso e Niger.
Nel corso degli anni, l’Operazione Barkhane ha affrontato critiche per i suoi alti costi, così come le sue implicazioni coloniali, la sua “mano pesante”, il suo fallimento nel migliorare la sicurezza nelle aree dove operava e la sua inefficacia nell’affrontare le cause sottostanti alla crisi. Le tensioni che sono emerse tra la Francia e la junta militare che governa ora il Mali hanno condotto Parigi a ritirare le sue truppe dal Paese a seguito della richiesta di Bamako nel novembre dell’anno scorso.
Le forze francesi si sono anche ritirate dal Burkina Faso nel gennaio del 2023 a causa di tensioni con la junta militare, sebbene non sia stata una rottura definitiva della loro relazione diplomatica.
Vi è una crescente sensazione che la relazione ha bisogno di essere rivalutata per assicurare che essa sia basata sul rispetto reciproco e su obiettivi condivisi.
L’efficacia degli sforzi di miglioramento della sicurezza dipendono dagli sviluppi politici più ampi nella Regione, iniziando proprio dalle relazioni tra Mali e Niger. Dal colpo di stato militare in Mali guidato dal colonnello Assimi Goita nel maggio del 2021, il Presidente del Niger Mohamed Bazoum ha ripetutamente criticato le azioni dell’esercito del Mali, in talune occasioni utilizzando un linguaggio tutt’affatto diplomatico. Le tensioni sono aumentate nel settembre del 2022, quando il Niger ha sospeso il transito dei prodotti petroliferi verso il Mali, citando delle presunte ragioni di sicurezza a causa della minaccia jihadista. In risposta il primo ministro ad interim del Mali, il colonnello Abdoulaye Maiga, ha utilizzato ciò che è stato definitivo come un linguaggio provocatorio “pas être nigérien” riferito a Bazoum durante un suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo stesso mese.
Gruppi armati non statali hanno sfruttato e sfruttano la frontiera porosa tra i due Paesi per condurre attacchi, mentre i conflitti intracomunitari hanno causato violenza e dislocazione in entrambi i Paesi. Malgrado sforzi congiunti le operazioni militari di entrambi i Paesi contro questi gruppi sono state complicate da risorse, addestramento e coordinazione inadeguati.
Le recenti tensioni tra il Niger ed il Mali hanno iniziato a minare il quadro del G5 Sahel Joint Force, creato nel 2014 per migliorare la collaborazione tra i cinque Paesi regionali: Burkina Faso, Chad, Mauritania in aggiunta al Mali e Niger, per affrontare le condivise sfide di sicurezza. Il quadro ha ricevuto un sostanziale sostegno dai partner internazionali come la Francia, l’Unione Europea, le Nazioni Unite. Per essere efficace, esso conta sulla fiducia e sulla coooperazione entrambe limitate, negli ultimi mesi, tra Mali e Niger. Detto ciò il G5 Sahel Joint Force ha limiti suoi propri, incluso le sfide logistiche e la mancanza di risorse e le sue operazioni congiunte sono state accusate di compiere abusi di diritti umani. Tutto ciò evidenzia il fatto che qualsiasi soluzione efficace per la crisi di sicurezza nel Sahel richiederà più di una risposta unicamente militare.
Per migliorare la sicurezza nel Sahel, gli Stati regionali e i loro partner internazionali devono affrontare le cause sottostanti la crisi. Ciò implica affrontare la povertà, l’ineguaglianza, la governance, che alimentano le ideologie estremiste e le attività criminali. Inoltre, sarà necessario per gli Stati regionali e le organizzazioni lavorare in maniera collaborativa con le comunità locali e le organizzazioni della società civile, che possono fornire delle comprensioni di valore circa i bisogni e le preoccupazioni della popolazione ed aiutare a costruire la fiducia e la legittimità per gli interventi di sicurezza.
In breve, il miglioramento del coordinamento di sicurezza nel Sahel richiede un approccio complesso, vario, sfaccettato che affronta le cause alla radice dell’insicurezza mentre fa leva sui punti di forza delle operazioni militari congiunte, sulla condivisione di intelligence e sul coinvolgimento della popolazione. Nessuno di questi sarà possibile, tuttavia, se la mancanza di fiducia ed il risentimento (tra la Francia e gli Stati regionali) e tra gli Stati regionali stessi mutila la comunicazione e la cooperazione necessarie perché un tale sforzo sia di successo.
Nella misura in cui le partnership europee di sicurezza in Mali e Burkina Faso sono state terminate dalle junta militari i cui ufficiali sono stati addestrati attraverso i programmi di assistenza degli Stati Uniti ha condotto ad una rivalutazione a Bruxelles e a Washington a proposito del loro coinvolgimento strategico con la regione. Già prima del coup in Niger, il governo francese aveva deciso di tagliare massicciamente il numero delle sue truppe in Gabon, Senegal, Costa d’Avorio.

Russia e Cina – come dicono gli inglese in a nutshell

Mentre la Russia ha la capacità militare di essere a “prova di coup” dei regimi autoritari e sfruttare le industrie di esportazione basate sulle risorse, come le miniere, l’incapacità dei mercenari russi di ridurre l’espansione jihadista nel Mali indica che Mosca non ha la capacità di sconfiggere gli estremisti violenti vicino alle frontiere.

E mentre l’investimento cinese ha avuto un grande impatto sullo sviluppo delle economie attraverso tutta l’Africa, Pechino ha mostrato poco interesse nel creare delle strutture strategiche di cui avrebbe bisogno come garante della sicurezza nel continente.

Maggio 17 2023

I jihadisti contemporanei

Chi sono, come comunicano, dove sono e le strategie per contrastarli

La minaccia internazionale dei gruppi salafiti – jihadisti che utilizzano la tecnica del terrorismo – è mutata, si è trasformata. Ciò di cui abbiamo bisogno per comprendere il rischio della violenza estremista islamica sono nuove lenti. Per programmare punti di intervento attuali e progettare schemi di prevenzione efficaci dobbiamo necessariamente considerare i jihadisti come giocatori consapevoli e ponderati. Essi dedicano molto tempo ed energie a coltivare il loro sistema di convinzioni e nuovi modelli di pensiero per validare la loro violenza estrema come un imperativo ideologico e legittimo. L’intenzione di uccidere o mutilare per lo scopo di una causa, di un obiettivo, è spesso il risultato di un processo di trasformazione: la decisione stessa è valida perché è fondata su argomenti e ragioni morali e religiose. Se ci concentriamo unicamente sul risultato di eventi terroristici, ricaviamo una visione non corretta e corriamo il rischio di considerare il comportamento del jihadista anomalo. Attraverso la profilazione del jihadista presentata in questo testo, è possibile ampliare le opzioni per contrastare questo tipo di minaccia e comprendere come la percezione delle crisi sia il punto critico che guida la mobilitazione del collettivo carismatico della militanza jihadista. Il tentativo di comprendere le organizzazioni jihadiste all’interno del continente africano volge lo sguardo alle dinamiche locali. Le guerre civili contemporanee sono spesso plasmate dalla politica identitaria e quando la comunità degli affari è tenuta in ostaggio da politiche tribali ed etniche costose, i gruppi jihadisti appaiono un’opzione conveniente e comoda. Essi profittano degli anni di fiducia tra la classe degli uomini d’affari e le istituzioni islamiche, imponendo una nuova soluzione fondamentalista. L’alleanza estremisti-affaristi, che ne risulta, catalizza una rapida catena di reazione. Le reti di tali organizzazioni operano attraverso teatri regionali di guerra, utilizzando operativi non affiliati nei Paesi vicini. I teatri sono legati attraverso una rete aggregata di attori e organizzazioni. Questo libro vuole essere dunque un contribuito alla trasformazione della più ampia relazione tra oppositori nel più intricato dei conflitti.

I jihadisti contemporanei. Chi sono, come comunicano, dove sono e le strategie per contrastarli. Morlacchi University Press 2023.

In vendita sul sito Morlacchi Editore

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Aprile 24 2023

Sudan: il triste addio della diplomazia

Le diplomazie hanno deciso di abbandonare il Sudan. Hanno lasciato dietro di loro i sudanesi che attraverso i loro comitati di resistenza urbana offrono aiuto a chi è rimasto e a chi ha deciso di attraversare le frontiere. Questa è una ulteriore analisi di come si è arrivati fin qui in Sudan. Uno strumento in più per comprendere anche il ruolo della comunità internazionale.

Perchè ci sono le milizie in Sudan

A partire dagli anni 1970, lo Stato sudanese ha fornito assistenza sanitaria ed istruzione gratuita. Pur tuttavia l’accesso era ineguale, ma a quel tempo lo Stato era impegnato ad espandere i propri servizi. Poi arriva la crisi africana del debito, l’austerità, la privatizzazione, e i servizi solo per i ricchi. Il carico dell’austerità cade pesantemente sulle spalle dei più poveri. Il governo ha bisogno di spingere il lavoro nelle fattorie commerciali, nelle città, nelle miniere dove ha investito per profitto, senza offrire incentivi. Ciò di cui aveva bisogno erano forze di sicurezza a basso costo così inventa le milizie, che possono forzare il Sudan rurale a rinunciare al suo lavoro e al benessere.

Le milizie “esternalizzate”, privatizzate diventano il sistema della governance rurale e una risorsa di estrazione, diventano IL sistema sudanese.

Ora l’uomo della milizia esternalizzata sfida l’uomo al governo

Gen. Abdel Fattah al-Burhan presidente del Consiglio Militare di Transizione, comandante delle Sudan Armed Forces (SAF). Non fa segreto del suo modello di leader al potere: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Egli considera l’esercito come una istituzione di potere sovrano al di sopra della sfera politica, giustificando in questo modo la motivazione per cui l’esercito deve essere incaricato del proprio settore di riforma di sicurezza.
Gen. Mohamed Dagalo Hamdan detto “Hemedti”. Guida le Rapid Support Forces, un uomo che si è fatto da se. Le RSF sono state formalizzate come componente paramilitare sotto il suo comando ben 10 anni fa, in riconoscimento della sua bravura nello sconfiggere gli insorti in Darfur. Le RSF hanno combattuto in Yemen ed hanno contatti con il Wagner Group. Hemedti e la sua famiglia controllano un impero commerciale di commercio in oro ed altri beni.
Dagalo si presenta come il protettore della rivoluzione e come amico dei rivoluzionari civili. Alcuni dei leader civili sono inclini a sostenerlo perchè lo vedono come la sola forza credibile che può contrastare la linea di al – Burhan nel creare una nuova dittatura.

Dagalo della tribù Rezeigat, vice presidente del Consiglio militare di transizione e arbitro della transizione. Ha iniziato come commerciante di bestiame e supervisore dei convogli commerciali tra il Sudan occidentale, il Chad e l’est della Libia.
Dagalo è diventato il principale attore dell’apertura del regime alla scena internazionale dopo la gestione della questione migratoria e del controllo delle frontiere. Con al – Burhan è stato anche il promotore dell’impegno di un contingente sudanese in seno alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita nelle guerra in Yemen dal 2015. Ha conquistato una forma di legittimità internazionale davanti alle telecamere con Jean – Michel Dumond, rappresentante dell’Unione Europea, gli ambasciatori di Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e dei rappresentanti della diplomazia americana. Si è anche recato il 24 maggio del 2019 in Arabia Saudita colloquiando con il principe Mohamed Ben Salman.
A partire dal 2010, si è progressivamente imposto come una soluzione di cambiamento contro l’ex uomo forte della guerra in Darfur, suo lontano cugino Moussa Hilal. Questo capo anziano Janjaweed*


*Nell’espressione colloquiale araba, significa “un uomo con un fucile ed un cavallo”. I miliziani janjaweed sono membri fondamentali delle tribù arabe nomadi che sono state a lungo in lotta contro i contadini “africani” del Darfur, dalla pelle nera. Il termine Janjaweed è stato per anni sinonimo di bandito, come combattenti con cavalli o cammelli noti per piombare nelle fattorie non-arabe e rubare bestiame. Le etichette arabe ed africane sono fuorvianti, data la complessità della storia etnica della regione.
I Janjaweed hanno iniziato ad assumure delle caratteristiche più aggressive nel 2003, dopo che due gruppi non arabi, Sudan Liberation Army e Justice and Equality Movement, imbracciano le armi contro il governo sudanese, accusandolo di essere maltrattati dal regime arabo a Khartoum. In risposta alla rivolta, le milizie Janjaweed hanno iniziato a depredare villaggi e città abitate dalle tribù africane da cui gli eserciti dei ribelli traevano la loro forza: le tribu Zaghawa, Masalit, Fur.

Nota bene. Questo conflitto è totalmente separato dalla Guerra civile di 22 anni che ha visto contrapposto il governo musulmano contro i ribelli cristiani ed animisti nella parte a sud del Paese. I Janjaweed che abitano la parte occidentale del Paese non hanno nulla a che fare con questa guerra.


Consigliere del president Omar Al – Bashir e capo della guardia di frontiera è stato ostracizzato dopo l’epurazione interna e catturato da Dagalo stesso nel novembre del 2017.
Diventa quindi nuovo capo del RSF, una forma mutante dei janjaweed, riconosciuta forza nazionale dall’agosto del 2013 sotto il patrocinio del National Intelligence and Security Service (NISS) e collegato alla presidenza. Il modo di comando e controllo delle RSF è relativamente opaco; le loro prerogative hanno sorpassato definitivamente quelle dell’esercito quando il RSF si è rafforzato nuovamente grazie alla legge frettolosa e contestata del gennaio del 2017 votata dal parlamento. Rapid Support Forces Act trasforma le RSF in un’entità semiautonoma collegata all’esercito regolare e beneficiaria di un budget considerevolmente aumentato, sotto il controllo diretto del Presidente.
All’interno del regime di al Bashir Dagalo accumula numerose funzioni; si è imposto come governatore dei margini del Paese, attraverso un controllo brutale del Darfur, dei campi di dislocati interni e rifugiati e di luoghi come Jabal Marra e altri punti chiave del Nilo azzurro e Mont Nouba. Si è imposto come prima guardia di frontiera nella regione della zona regionale con l’Eritrea e l’Etiopia. È diventato il promotore ambiguo della lotta contro il traffico di esseri umani in Sudan.
Combattente nella guerra in Yemen a fianco dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti è diventato anche magnate di una compagnia di sfruttamento delle miniere d’oro a Jabal Amir nel nord del Darfur, e ciò gli ha permesso di aumentare la potenza delle sue truppe.

fonte: Enciclopedia Britannica

SAF e RSF: similitudini

Si cerca di capire le differenze tra SAF e RSF, ma è molto più utile comprendere le loro similarità.

  • Entrambe hanno investito nel sistema sudanese;
  • entrambe hanno utilizzato e utilizzano la violenza per mantenere o accrescere la loro sfera di influenza.
  • Entrambe sanno che possono, alla fine, contare sul sostegno dei sistemi regionali dittatoriali che vogliono anche loro porre fine alla politica civile.


Al Burhan rappresenta la cleptocrazia dell’apparato militare – commerciale e del National Congress Party: un sistema oligarchico con molti e differenti elementi con interessi in comune. Molti islamisti che hanno conservato i loro affari o connessioni sono allineati con loro. I finanziamenti politici arrivano da imprese anche dei settori delle telecomunicazioni e del petrolio.
Al Burhan vuole guidare il Sudan come una cleptocrazia militare centralizzata.

Hemedti è un commerciante, possiede un impero famigliare d’affari centrato sul commercio dell’oro. Sebbene tali affari non siano grandi tanto quanto quelli della rete di al-burhan, Hemedti ha una capacità di spesa politica più grande e più discrezionale.

I riavali spenderanno più delle loro risorse per avere militari subordinati, attori politici e commerciali dalla loro parte. A sua voltà ciò intensificherà il loro incentivo all’accumulazione primitiva, estorsione saccheggio, promesse di futuri pagamenti a padroni esterni.

Al Burhan e Hemedti alternano collusione a rivalità. Essi colludono di fronte ad una minaccia comune: governo civile che si muove seriamente lungo l’agenda di esporre i loro accordi corrotti e smantellare il complesso militare – commerciale. Diventano aspri rivali su chi controlla il processo di reintegrazione militare e la riforma del settore di sicurezza.


Anatomia del fallimento della transizione


Stabilizzazione economica

Era essenziale fermare la crisi economica, guadagnare la credibilità popolare e concedere ai tecnocrati civili qualche potere rispetto ai militari.

Il ritardo dei donatori nel rimuovere le sanzioni e fornire aiuti per il debito hanno annientato Hamdok – ex Primo ministro – come attore politico serio e credibile.


Settore Riforma Sicurezza.

Un compito vasto e complicato che include la riduzione della dimensione e dei costi immensi del settore difesa, integrazione e professionalizzazione delle forze armate. Quando i civili hanno iniziato a compiere dei seri sforzi per esporre le reti commerciali militari, i soldati hanno organizzato un coup.


Peace negotiation

Un tavolo negoziale senza i gruppi armati. I gruppi armati hanno dunque compreso che i civili non avevano né il denaro né il controllo del settore sicurezza, hanno concluso l’accordo di Pace di Juba con i militari e si sono uniti al governo su queste basi.


Costruire le istituzioni democratiche.

Esercizio di retorica del tutto inutile e futile. Quando il Primo ministro civile lavorava come cassiere in un negozio che vendeva saponi, i signori della guerra si accordavano per la vendita della droga. Alcuni civili tra cui il Sudan Communist Party si sono rifiutati di impegnarsi in un lavoro politico di democratizzazione
Dopo il coup dell’ottobre del 2021, lo sforzo di mediazione del Tripartito si è concentrato sul riparare una formula di power-sharing nella speranza che le questioni più profonde fossero poi affrontate in rapida successione. Quando le negoziazioni si avvicinavano alla fine, i messaggi ottimisti del mediatore non sono stati sufficienti: la questione del controllo dell’esercito non è stata mai affrontata.

Uno sguardo al breve e medio periodo


Gli analisti dei conflitti spesso compiono l’errore di asserire che le vittorie e le sconfitte tattiche determineranno il risultato.

Al Burhan e le SAF detiene vantaggi di breve termine, e con molta probabilità esagererà come i suoi predecessori. Al Burhan muoverà contro le RSF assetti commerciali e finanziari, le SAF vogliono il controllo delle miniere d’oro e delle rotte di traffico illegali.

Le RSF vogliono interrompere le arterie di trasporto principali incluso la strada da Port Sudan a Khartoum.
Le risorse materiali ed organizzative per sostenere uno sforzo di guerra intenso saranno velocemente esaurite. La fase odierna può essere sostenuta per mesi, ma si trasformerà velocemente in un conflitto meno intenso, ma più diffuso con parti frammentate che si contendono il controllo di differenti luoghi, molte delle quali cambieranno casacca a seconda dell’opportunità. Emergerà una milizia locale rurale, i comitati di resistenza urbana potrebbero imbracciare le armi. Emergeranno fattori etnici, anche se ora la divisione è regionale e non etnica anche questa dinamica potrebbe trasformarsi.

Che fare?


Concentrarsi sui due attori principali per ragioni di semplicità e velocità o includere altri?
Concentrarsi sui generali rischia di consolidare il dominio dei cleptocrati armati. Sarebbe il tradimento finale ai rivoluzionari civili sudanesi. Sarebbe di poca utilità per affrontare le sfide del SSR e sdradicare i signori della guerra che hanno depredato lo Stato sudanese.
L’inclusione di altri gruppi armati crea il problema perverso dell’incentivo di incoraggiare fratture e nuovi gruppi armati. La strategia diplomatica di rappacificazione non ha prodotto niente se non calamità.
L’avidità e la crudeltà dei due generali è senza limiti, e se non vengono dissuasi in termini di giorni, i prospetti di una pace in Sudan sono sottili e per la democrazia ancora più remoti.

Scappare evidentemente non è una soluzione, ma la dimostrazione del fallimento della diplomazia in Sudan. Grazie a chi ha voluto scrivere consapevolmente questa triste pagina.

Aprile 20 2023

Sudan, quo vadis?

Sudan

Come siamo arrivati ad oggi?

2019: Transizione. Che vuol dire? Ricostruire un intero sistema politico e sradicare l’eredità di al-Bashir.

Con la dissoluzione del Partito del Congresso nazionale la necessità era quella di creare un nuovo partito e di elaborare un nuovo sistema elettorale.

Il conflitto si è intensificato dopo mesi di tensione tra il Consiglio al potere, dominato dall’influenza dell’esercito sudanese del Generale Abdel Fattah al-Burhan ed il generale Mohammad Hamdan Dagalo (aka Hemedti) il vice comandante del Consiglio e comandante del Rapid Support Forces (RSF), una organizzazione paramilitare composta principalmente dalle milizie Janjaweed che hanno combattuto in vece di Khartoum durante la guerra in Darfur.

Né la leadership militare né l’opposizione hanno una chiaro programma per affrontare la grave crisi economica, pur tuttavia ritornare ad un governo civile potrebbe attrarre nuovi ingenti aiuti.

Ibril Ibrahim, ex leader ribelle ed odierno ministro delle finanze, ha pianificato di compensare il deficit finanziario attraverso la tassazioni e i profitti derivanti dall’oro. La Banca Centrale del Sudan indica dei progressi in relazione all’aumento delle esportazioni d’oro, ma è troppo presto per capire se ciò bilancerà la perdita di introiti dei donatori internazionali. Dopo il coup del 2021, gli Stati Uniti, la Banca Mondiale, la Germania e altri alleati americani hanno congelato i pacchetti di aiuto a Khartoum. Il rilascio di fondi é condizionato al ripristino del governo civile. Realizzare l’accordo quadro sbloccherebbe molti aiuti necessari per far fronte al rapido aumento dei prezzi del cibo, alla caduta della moneta sudaneseed anche alla scarsità di elettricità.

L’esercito sudanese guidato da al-Burhan che ha condotto il coup militare nel 2021 ha fermato la transizione democratica.


Anche se Dagalo e le RSF prevalessero nel conflitto, è probabile che si apra un lungo periodo di instabilità che posticiperà la transizione pianificata.

Tale accadimento avrà presumibilmente la conseguenza di proteste di massa tra la popolazione a cui è stata promessa la democrazia dalla caduta di Bashir nel 2019.
I leader militari che hanno deposto Bashir nel 2019 dapprima hanno condiviso il potere con i leader civili, poi sia al-Burhan che Dagalo al tempo uniti, riprendono il potere attraverso un altro coup militare nell’ottobre del 2021 e cancellano il trasferimento di potere promesso. Le proteste pubbliche hanno come risultato una negoziazione verso un accordo che prevede che i militari si ritirino dalla politica e banditi da affari non – militari. L’accordo quadro firmato nel dicembre del 2022, include una revisione dell’apparato di sicurezza che alla fine conduca ad un esercito nazionale professionale unito e la nomina di un Primo Ministro che formerebbe un governo per condurre il Paese alle elezioni in un termine di due anni. L’11 aprile 2023 era la data prevista per l’avvio del piano di transizione democratica, quarto anniversario della caduta di Bashir. Al-Burhan ha esitato nella realizzazione del piano, tensioni, e minacce tra lui e Dagalo si sono intensificate fino allo scoppio della violenza del 15 aprile.

La situazione del Sudan inserita nel quadro Regionale ed Internazionale

La violenta lotta di potere è manovrata dai vicini del Sudan, dall’Occidente e dalla Russia.

Il principale vicino del Sudan, l’Egitto vede al-Burhan come una forza stabile ed il Cairo lo sostiene militarmente. La Libia attraverso Haftar – che sappiamo essere sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Russia – ha già inviato munizioni al Gen. Dagalo.
Mosca si pone come obiettiv: l’accesso ai porti del mar rosso dal Sudan per le sue navi da guerra e le miniere d’oro. Il Wagner è a capo delle attività russe in Sudan offrendo addestramento ed armi al RSF. Dalgado e il suo RSF controllano la maggior parte delle miniere d’oro.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato un valore pari a 1.77 miliardi di dollari di importazioni di oro dal Sudan nel 2020 e tanto quanto il 90% dell’oro del Sudan è trafficato illegalmente fuori dal Paese e spesso convogliato attraverso gli Emirati.
Il leader del Wagner Evgeny Progozhin è proprietario di un’entità (oggetto di sanzioni degli Stati Uniti) M Invest e la sua società sussidiara Meroe Gold opera in Sudan.
Abu Dhabi ha mantenuto delle strette relazioni con Dagalo il quale può contare anche su legami con elementi al di fuori del Paese, incluse le unità del Wagner presenti nella Repubblica Democratica del Congo, dove la PMC russa cerca accesso alle risorse naturali.
Fin dallo scorso anno sono stati compiuti tentativi di mediazione di un nuovo accordo tra i militari e le Forces of Freedom and change – FFC – , il gruppo di opposizione civile creato durante le proteste del 2018-2019.
L’iniziativa principale guidata dalla missione UN a Khartoum, UNITMAS di dialogo indiretto tra FFC e i militari sudanesi ha avuto scarso successo. Prima del coup del dicembre del 2021, si verifica inoltre, una divisione interna al FFC, disaccordo che si amplia quando i gruppi ribelli sostengono la presa al potere da parte dei militari.

Sicurezza transfrontaliera

I conflitti transfrontalieri hanno ripreso il loro ciclo di violenza con scontri tra le milizie etiopi Amhara e le forze sudanesi lungo la frontiere ad est del Paese, che è diventata più sicurizzata dalla guerra nel Tigray.

Quindi?

I leader politici che arrivano al potere attraverso coup militare con maggiore probabilità usciranno di scena attraverso coup. Fondere le RSF con l’esercito sudanese ridurrebbe questo tipo di rischio da coup.

Non vi sono vincitori. Né al-Burhan nè Degalo posso sopravvivere politicamente da sé stessi.

Aprile 17 2023

Le guerre proxy: il Wagner

Wagner

I private military security contractors (PMCs) russi sono giocatori cruciali nelle attuali guerre proxy nel Medio Oriente, nella sua periferia e nel continente africano. Forniscono informazioni precise su obiettivi, addestramento, sostegno logistico, protezione di infrastrutture e una rete di protezione per le milizie proxy ed i gruppi paramilitari in Ucraina, Siria, Libia, Sahel, Mozambico, Repubblica Centrafricana.

Le loro operazioni segrete – reali o immaginate – sono anche cruciali nel plasmare la strategia russa di gestione dell’intensificazione, così come le relazioni con avversari ed alleati.

Mosca nega qualsiasi collegamento al Wagner Group e resta aperta la domanda sul grado di controllo che il Cremlino esercita su di esso. Sono semplicemente dei volontari patrioti, come rivendica il Cremlino? Sono mercenari, guerrieri aziendali, soldati in prima linea?

Le relazioni del Wagner con i proxies locali sono una forza moltiplicatrice che permette al Cremlino di estendere la sua influenza al di là del territorio russo.

Molti confondono le operazioni dei PMCs russi con una nuova formula di guerra ibrida, ma nei fatti loro rappresentano più continuità che novità con gli sforzi dell’era sovietica di nascondere l’assistenza militare a insorti paramilitari che operano ben oltre le linee avversarie.

Le PMCs sono, in teoria, un modo attrattivo di abbassare i costi di intervento, mentre si estende la portata russa.

La Russia accorda alta qualità al controllo della narrativa. La narrativa del Wagner Group di “guerrieri fantasma” su vasti campi di battaglia, oscura gli obiettivi operativi, le tattiche, la diversità degli agenti a lavoro.

Separare il mito dalla realtà sui PMCs russi è cruciale per comprendere le strategie proxy russe.

PUNTI CHIAVE

  1. I PMCs russi sono ideati, progettati per l’inganno strategico (strategic deception).

Scappatoie legali permettono ai PMC russi di adottare espedienti per evitare i divieti nazionali ed internazionali contro l’attività mercenaria:

Ai cittadini individuali è vietato dalle leggi russe l’attività mercenaria, ma leggi promulgate dall’amministrazione Putin facilitano le imprese statali a formare degli eserciti privati con un ampio spazio operativo di manovra .

Diversi PMC russi operano come team congiunti con l’esercito russo secondo accordi contrattuali speciali tra ministeri del governo e imprese statali strategiche.

Le norme internazionali ed i protocolli sulla condotta dei PMSC (Private Military Security Companies) hanno fallito di affrontare i vuoti giuridici che permettono alla Russia una eccessiva ed ampia interpretazione dei principi di difesa collettiva.

2. Le PMC russe sono prodotti della privatizzazione post sovietica del compromesso militare – industriale russo e del riconsolidamento dello stato di sicurezza nell’era Putin. Le loro strutture riflettono la cultura e la gerarchia dei servizi di sicurezza russi, ma sono stati anche plasmati dalle fasi disgiunte della modernizzazione militare.

Le imprese statali hanno reclutato primariamente i loro eserciti privati da un surplus di presenza di veterani delle forze speciali resi ridondanti dalla riduzione dell’esercito post-sovietico.

Molti gruppi PMC sono unità ricostruite formate dai servizi di sicurezza come FSB (Federal Security Service), GRU (Main Intelligene Directorate), VDV – airborne troops, forze di intervento molto equipaggiate addestrate con operazioni speciali che conducono operazione militari full-scale.

Essi hanno importato in toto le strutture organizzative e la cultura operativa di queste istituzioni.

Le imprese statati strategiche costituiscono una parte sostanziale della clientela dei PMC russi, rendendole integranti ed essenziali alle reti informali che plasmano le politiche domestiche e la politica estera di Putin.

3. La Russia utilizza le PMSC per perseguire fini strategici che dimostrano la continuità con le azioni strategiche del Cremlino. I cardini della Dottrina Primakov di multipolarità e proiezione di potenza nel fianco sud della Russia restano un quadro chiave della strategia russa. La guerra proxy è un mezzo per questi fini.

Molte delle stesse imprese che sono servite come principale strumento del Cremlino per influenzare i proxies, gli alleati, nell’era sovietica, servono ancora oggi come la base delle operazioni delle PMSC russe.

Le PMSC rafforzano gli interessi di sicurezza nazionali russi in aree del mondo dove non può permettersi che l’instabilità politica abbia degli effetti negativi sull’energia, sull’esportazione di armi.

IL PUZZLE DELLA STRATEGIA RUSSA DI GUERRA PROXY

Nei conflitti contemporanei, i conflitti proxy devono essere compresi in termini di relazioni incastonate all’interno di complesse reti di potere ed influenza.

Il VEGA , un altro distaccamento con legami con Wagner, è attivo in Siria dal 2013 nella protezione di progetti energetici, industria estrattiva e addestramento di forze locali.

Il Cremlino ha creato un regime di licenza quasi legale che permette alle PMSC con contratto di assicurare un passaggio sicuro per le maggiori imprese statali come Rosoboronexport.

Libia – Arab Spring 2011, le PMSC russe si riversano nella Regione per mettere al sicuro gli assetti russi, fornire protezione ai personaggi di spicco ed assicurare il trasferimento di armi. L’instabilità nella Regione presenta anche un’opportunità per le industrie russe, in particolare la Rosoboronexport, il braccio di esportazione della Rostec. Quando gli Stati Uniti congelano fuori dai mercati globali la Siria e la Libia e temporaneamente chiudono il rubinetto degli aiuti militari all’Egitto, creano uno spazio per l’aumento dell’influenza russa. La pressione per domare l’instabilità in tutti e tre i Paesi conduce ad un’alta richiesta di armi e li spinge più vicini alla sfera di influenza del Cremlino.

L’intersecazione del collegamento tra individui affiliati con vari contingenti delle varie PMSC russe, milizie separatiste, associazioni militari russe, organizzazioni di veterani, comunità online e offline di auto-proclamati mercenari rafforzano la nozione che il Cremlino segretamente attiva, sostiene ed incoraggia la loro attività. È necessaria una sostanziale quantità di prove da fonti primarie, testimoni per formulare il caso che il Cremlino mantiene il controllo effettivo su questi PMSC nel classico top down sense ed è proprio questo il punto della strategia.

Dal momento che l’obiettivo fondamentale della guerra proxy è di accrescere l’abilità di proiettare potere espandendo influenza, mentre riduce il rischio di rappresaglia, la strategia dipende dalla sua tattica di aumentare l’ambiguità attorno alla natura della relazione sponsor-proxy.

Un’accresciuta ambiguità può garantire agli sponsor proxy, anche se alle volte di breve durata, vantaggi che permettono alla tattica “salami slicing” di non essere notata dai rivali (coniata dal leader ungherese Rakosi come modo per descrivere di dividere e isolare i partiti di opposizione negli anni 1940) “nascondendo il reale” e “mostrando il falso”.

Nel caso del Wagner, il Cremlino ottiene tre distinti, ma importanti, vantaggi tattici.

  1. La distrazione attorno agli schemi strategici di dispiegamento di migliaia di russi operativi manifesta la sorpresa di forza moltiplicatrice;
  2. La mobilitazione a sorpresa dei PMSC in Crimea ha guadagnato tempo per dispiegamenti segreti nel Donbass ed in Siria, accelerando il controllo territoriale e aumentando i vantaggi militari russi;
  3. Almeno inizialmente, la sorpresa e la velocità sia in Ucraina che in Siria ha alimentato la narrativa che la Russia era preparata a cambiare i fatti sul terreno, concedendogli più spazio di manovra a livello diplomatico nelle prime fasi di entrambi i conflitti;

Il controllo dell’informazione è una caratteristica intrinseca della gestione dell’intensificazione e seminare confusione è parte del lotto delle strategie proxy. Le narrative che gli sponsor promuovono sui loro proxies sono importanti nella proiezione di potenza tanto quanto lo sono per la gestione dell’intensificazione.

Il Wagner e l’Africa

Il Wagner nel mondo

Le forze del Wagner soffrono di significative perdite nei combattimenti in Ucraina, Prigozhin, il capo del Wagner ha dunque abbassato gli standard di reclutamento a tal punto che accoglie nei suoi ranghi personaggi che provengono direttamente dalle prigioni russe.

Le relazioni transnazionali del gruppo con i governi del Sahel delegittimano ulteriormente questi regimi agli occhi della popolazione. Nel corso degli scorsi anni in cui vi sono stati coup militari in Mali, Burkina Faso e Chad, i governi legittimi mantengono il monopolio dell’uso della violenza, applicano e fanno rispettare le regole di legge, forniscono servizi di base ai loro cittadini. I Paesi dove il Wagner Group opera non mostrano nessuna di queste caratteristiche; tale situazione incoraggia gli estremisti religiosi violenti – i gruppi jihadisti, a cercare di soppiantare il governo e ad operare in parallelo. L’assistenza del Wagner arriva senza alcuna condizione, cosi i dittatori africani non hanno bisogno di preoccuparsi di lezioni magistrali sui diritti umani, delle iniziative di anti-corruzione e della good governance.

I diplomatici russi hanno interferito e si sono immischiati nelle politiche dei Paesi dove il Wagner è impiegato. Nella Repubblica Centrafricana, i funzionari governativi russi hanno insistito che il Presidente Faustin – Archange Touadéra abolisse le restrizioni costituzionali sul limite del termine presidenziale. Le campagne di disinformazione sostenute dal Wagner e le operazioni di influenza nell’Africa sub-sahariana alimentano un sentimento anti-occidentale tra le popolazioni locali, distorcendo ulteriormente dinamiche politiche già complesse. Gli operativi del Wagner hanno consigliato i dittatori su come gestire ed utilizzare le campagne sui social media per polverizzare i movimenti democratici.

Dal momento che i mercenari del Wagner forniscono solo cooperazione di sicurezza lungo linee cinetiche, respingendo le buone pratiche dell’addestramento di counter – insurgency, come il rafforzamento delle regole di legge, la promozione della good governance e la creazione di un potere giudiziario indipendente – ogni guadagno di sicurezza percepito sarà effimero.

La presenza del Wagner Group ha dato nuova energia ai gruppi jihadisti che hanno preso il controllo di significative porzioni di territorio in tutta la Regione. Ciò ha concesso agli affiliati di Al Qaeda e dello Stato Islamico un più grande spazio di manovra.

La situazione è stata esacerbata dalla rotazione occidentale dal contro terrorismo alla competizione di grandi potenze così come la diminuzione e la ricollocazione delle truppe americane e francesi nella Regione, lasciando un vuoto di potere che il Wagner è entusiasta di riempire.

Il risultato di più attività del Wagner è la tracimazione della violenza in Paesi che non ne erano colpiti incluso il Togo, Benin, Senegal, la Costa d’Avorio. I livelli di violenza accelereranno il movimento di persone tra Paesi che alimenterà discordie nella Regione: insieme di gruppi etnici e religiosi differenti.

Quindi?

I grandi mercenari del diciasettesimo secolo restavano fedeli all’ordine sociale stabilito in cui erano nati, anche se utilizzavano il loro potere militare per estrarne immensi profitti.

Malgrado la loro reputazione di corsari, i mercenari sono profondamente investiti nella sopravvivenza dello status quo della società che fornisce loro un flusso di guadagno sicuro.

L’eccessiva dipendenza dai mercenari può causare una severa distruzione della gerarchia di potere all’interno di uno Stato, anche quando gli imprenditori militari sono profondamente impegnati nella difesa dell’ordine sociale che li mina. Più uno Stato lotta per trovare reclute ed equipaggiamento adeguato per le sue istituzioni formali di sicurezza, più esso dipende dai mercenari per assicurare i suoi interessi, ciò ingigantisce l’influenza degli imprenditori militari all’interno dell’elite al potere a spese dei funzionari ufficiali. Frequentemente tali dinamiche possono anche contrassegnare uno spostamento dell’influenza da una parte dell’esercito regolare all’altra, dal momento che le reti di ufficiali con stretti legami con i PMC intrecciano la loro ascesa al punto più alto del sistema con la volontà dei mercenari di fornire sostegno sul campo di battaglia.

Tale spostamento dell’equilibrio del potere all’interno di una élite militare al potere ha spesso condotto all’instabilità e persino alla violenza tra fazioni rivali.

Diventare troppo dipendenti da un leader mercenario con il suo proprio, semi-autonomo, flusso di guadagno può condurre ad una perdita di controllo sugli eventi sul terreno.

Ferdinando II l’ha scoperto nella modo più aspro dopo aver promosso Albrecht von Wallenstein (uno dei più aspri rivali di Tilly) nel 1623. Nel punto più alto del suo potere, Wallenstein esercitava un controllo più diretto sulle strutture militari che difendevano l’Impero rispetto al suo imperatore. Tre secoli più tardi, i funzionari del governo francese compiono lo stesso errore negli anni 1970, quando arruolano mercenari come Bob Denard per organizzare i loro interventi in Africa. Denard persegue le sue proprie ambizioni nelle Comore e in altri luoghi così implacabilmente che alla fine causa più guai di quello che valeva per i suoi sostenitori a Parigi.

Le leadership statali hanno eliminato o comprato gli imprenditori militari le cui ambizioni minacciavano di destabilizzare l’élite al potere. Wallenstein termina la sua scalata al potere con il suo assassinio da parte degli agenti di Ferdinando II nel 1964; Denard trascinato fuori dalle Comore e gettato in prigione a Parigi nel 1995 dagli stessi servizi di sicurezza francesi che lo avevano finanziato per tanto tempo. Nondimeno, tali sforzi implicano dei costi sostanziali al sistema statale o in termini di violenza necessaria per schiacciare una minaccia potente o vaste somme di denaro per pagare attori armati ad abbandonare la scena.

Nello scenario più probabile in cui lo Stato russo alla fine controlli il Wagner, lo sforzo di assoggettare gli imprenditori militari sarà una sfida spaventosa per le istituzioni statali russe che già affrontano enormi problemi economici e politici.

Un fallimento in Ucraina potrebbe anche discreditare seriamente l’apparato militare russo e indebolire la capacità di Putin o dei suoi successori di contenere i mercenari che ha pagato ed equipaggiato – e se ciò accadesse, l’odierna, parziale, privatizzazione delle operazioni militari potrebbe finire per essere uno dei diversi fattori di disfacimento della coesione dello Stato russo stesso.

Qualche che sia lo scenario, è alta la probabilità che i mercenari del Wagner, sia che sognino che il loro status sia innalzato in onore del loro sfruttamento, sia che vengano assassinati dal loro proprio governante come è stato per Wallenstein o come Tilly, restino isolati in qualche campo di battaglia, lontano da casa, ad un passo dai loro avversari.

Gennaio 2 2023

Iran, potere e Medio Oriente

Groviglio Iran Arabia Saudita Medio oriente


Le tensioni in Medio Oriente sono all’improvviso aumentate quando Riyadh si è allineata con Mosca per mantenere alto il prezzo globale del petrolio, malgrado la pressione da parte di Washington di aumentare la produzione.
Con il recente fallimento del cessate-il-fuoco, la guerra civile in Yemen continua ad alimentare una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. La guerra civile che si protrae da 11 anni in Siria è entrata in una fase finale senza fine, che sebbene sia meno sanguinosa, rimane volatile.
La Libia ha visto una pausa nella sua guerra civile da quando è stato reso esecutivo il cessate-il-fuoco nell’ottobre del 2020 ed è stato nominato un governo transitorio nel marzo del 2021, ma la transizione politica verso le elezioni è in un impasse sempre più teso.
Soprattutto, l’assenza del combattimento in questi Paesi non garantisce che ci sia una pace duratura.
Nel frattempo, il più recente ciclo di combattimenti tra Israele ed Hamas nel maggio del 2021 è servito come promemoria che il conflitto tra Israele e Palestina non può semplicemente sparire per magia con l’aiuto delle potenze regionali e degli Stati Uniti.

Politica interna ed estera del Medio Oriente


La situazione politica nel Medio Oriente è in mutazione continua. Le proteste di massa nel 2019 hanno deposto un governante di lungo termine in Algeria e innervosito i governi del Libano e dell’Iraq, facendo balenare speculazioni su una nuova Primavera Araba, prima che la pandemia di COVID ponesse un arresto a questi movimenti popolari. La pandemia ha inizialmente condotto anche al declino dei prezzi energetici globali che ha minato ulteriormente la sostenibilità di molti modelli di guadagni basati sul petrolio di Stati del Golfo, sebbene la guerra in Ucraina ha causato l’innalzamento dei prezzi. Le potenze regionali stanno traendo vantaggio dalla competizione delle grandi potenze per diversificare il loro portfolio di alleanze internazionali.

Iran: La resistenza del regime al cambiamento

Il primo anno di presidenza Raisi ha visto importanti proteste da parte degli agricoltori, insegnanti. Per anni hanno chiesto al governo di affrontare i loro problemi legati alla distribuzione ineguale dell’acqua, salari bassi o non retribuzione. Le autorità hanno resistito fino a quando le proteste non hanno assunto la forma di manifestazioni di piazza. Solo dopo il governo ha parzialmente soddisfatto le loro richieste mentre disperdeva violentemente i dimostranti.
Questo approccio è la risposta automatica della classe dirigente iraniana al potere alle pressioni sia locali che estere. Essa deriva dalla mentalità per cui allentare la pressione è considerato come un segno di debolezza. Per ciò che riguarda la politica estera, i funzionari iraniani considerano le politiche americane come un rafforzamento di questa visione del mondo.
Teheran desidera rientrare nell’accordo sul nucleare in una posizione più forte, con Khamenei che asserisce che affrettarsi nell’accordo avrebbe un costo alto per il Paese. La sua principale preoccupazione non è solo legata ad un possibile abbandono degli Stati Uniti, ma di una richiesta di più concessioni su altre questioni se percepissero disperazione e debolezza da parte dell’Iran.
Quindi il modus operandi di Khamenei è di rispondere alla pressione estera diventando inflessibile e attraverso la rappresaglia. Sulla questione nucleare, l’Iran ha risposto alla pressione delle sanzioni americane per conto proprio: ampliando continuamente il suo programma nucleare, diminuendo il disarmo nucleare, ed accrescendo le sue operazioni militari segrete in tutta la Regione.
Dal punto di vista interno, la mentalità della leadership iraniana è quella che concedere alle richieste pubbliche è un’inclinazione dannosa. Il loro timore è che ciò condurrebbe a richieste maggiori e fondamentalmente alla loro caduta. Come tale quindi, la Repubblica islamica ha resistito ad importanti riforme e ha compiuto solo parziali concessioni su richieste specifiche quando le proteste li hanno forzati a farlo. Su questioni come l’obbligatorietà della legge hijab, che è al cuore dell’identità della Repubblica islamica e il suo marchio dell’islamismo, sarà difficile per il regime raggiungere un compromesso, anche di fronte alle odierne proteste.
In ogni caso, potrebbe essere troppo tardi per placare il livello di rabbia pubblica in tutto il Paese. Le proteste che coinvolgono il Paese oggi mostrano che lo stile di governance intransigente e paranoide della Repubblica islamica diventa una profezia autoavverante, dal momento che la rabbia pubblica accresce nel corso del tempo ed esplode nel malcontento. Sembra che la classe dirigente clericale dell’Iran, non abbia imparato le lezioni della caduta dello Shah.

Israele

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ritorna al potere. Un governo che include il partito ultra nazionalista – Religious Zionism – guidato da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, entrambi ampiamente considerati essere degli estremisti di destra.
In ragione dei suoi 14 seggi, il partito Religious Zionism è la terza delegazione più grande nel parlamento israeliano. Ben-Gvir è noto per la sua retorica anti-araba, arrestato nel 2007 per incitamento al razzismo e per sostegno a organizzazioni terroriste. Smotrich è noto anche per le sue visioni anti-arabe, avendo espresso rammarico verso il primo ministro israeliano David Ben Gurion, per “non aver finito il lavoro” di espellere tutti gli arabi dal territorio che è diventato Israele.


Il nuovo governo di Netanyahu che include Ben-Gvir e Smotrich potrebbe causare problemi per le relazioni bilaterali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.


Legami diplomatici formali tra i due Paesi sono stati creati due anni fa dagli Accordi di Abramo.
Gli Emirati Arabi uniti non sono il solo partner di Israele che ha reagito all’alleanza di Netanyahu con Religious Zionism. Alcuni democratici a Washington hanno espresso preoccupazioni a proposito di Smotrich e Ben-Gvir, incluso il senatore Menendez che è noto per la sua posizione pro-Israele. Menendez aveva avvisato Netanyahu a settembre sull’inclusione di estremisti di destra nel suo governo, asserendo che ciò avrebbe messo in pericolo le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Israele.
È improbabile che la presenza di elementi estremisti come Ben-Gvir e Smotrich nel nuovo governo israeliano disintegri gli accordi di Abramo. Ma i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, come gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco, con cui Israele ha firmato gli accordi di normalizzazione non guardano con favore la prospettiva di lavorare a stretto contatto con un governo che comprende funzionari anti-arabi. I funzionari arabi potrebbero sentirsi obbligati a minimizzare la misura del loro impegno pubblico con la controparte israeliana, cosa che potrebbe complicare i piani di Israele di normalizzare le relazioni con i Paesi Arabi.
Fondamentalmente, Israele e I Paesi arabi del Golfo hanno una preoccupazione di sicurezza condivisa: l’ Iran. Il disfacimento degli Accordi di Abramo giocherebbe bene nelle mani di Teheran, in un momento in cui l’Iran continua a perseguire il suo avventurismo militare nel Medio Oriente, minacciando gli interessi di sicurezza di Israele e degli Stati del Golfo. Israele e l’Arabia Saudita entrambi disapprovano l’accordo sul nucleare del 2015 così come gli sforzi dell’amministrazione Biden per resuscitarlo, e nessuno dei due Paesi vuole mettere a repentaglio la propria alleanza informale contro Teheran.
Per Netanyahu, trovare un equilibrio tra le sue priorità interne e i nuovi partner regionali di Israele è stato sempre difficile. Lo sarà ancora di più per il suo governo che comprende estremisti le cui visioni alienano i suoi partner più vicini.

Conflitti in corso

Le speranze di accordi negoziati nelle guerre in Siria e Yemen sono ripetutamente svanite. Un cessate-il-fuoco in Libia è diventato più efficace nel far tacere armi – per ora, ma la transizione politica è distratta e una pace durevole per ora è lontana dall’essere garantita.

I droni iraniani e la Russia

La notizia che la Russia ha impiegato equipaggiamento militare iraniano, particolarmente i droni, nella guerra contro l’Ucraina ha condotto alcuni osservatori ad inquadrare il conflitto come un terreno di prova per la tecnologia militare iraniana. Mentre l’impatto di questi armamenti sulla traiettoria Russia – Ucraina sarà oggetto di un intenso dibattito, le implicazioni per le dinamiche militari nel Medio Oriente sono lontane dall’essere chiare, visto che la Russia, fin qui, ha impiegato i suoi droni iraniani in una maniera in cui l’Iran stesso potrebbe non utilizzarli.


Per comprendere le implicazioni di questi sviluppi per la postura militare iraniana vis-à-vis con gli Stati Uniti, Israele, gli Stati del Golfo Arabo, è importante riconoscere il contesto in cui l’Iran ha sviluppato i suoi droni e come l’Iran e i suoi alleati non statali hanno impiegato finora questi sistemi.


L’Iran ha speso più di una decade nel diversificare le sue capacità di colpire. Mente i missili balistici offrono una velocità ineguagliabile, il volume della forza missilistica balistica dell’Iran, particolarmente i suoi sistemi di lungo raggio, sono stati a lungo limitati in accuratezza. Dalla passata decade ad oggi, l’Iran ha sviluppato e prodotto una vasta gamma crescente e diversificata di missili balistici sempre più accurati. Tali miglioramenti nell’accuratezza hanno reso la forza balistica iraniana più efficace, come mostrano gli attacchi del gennaio del 2020 contro la base irachena che ospitava i soldati americani in rappresaglia per l’assassinio da parte degli Stati Uniti del comandante militare iraniano Gen. Qasem Soleimani.
Sin dal loro sviluppo e utilizzo di aereomobili senza pilota nel contesto della guerra Iran-Iraq negli anni 1980, l’Iran ha in maniera consistente sperimentato l’uso della tecnologia dei droni in vari ruoli. Negli anni 1990, l’Iran ha iniziato a sviluppare attacchi con i droni che si schiantano contro un obiettivo. Il primo impiego rilevante dei droni iraniani risale al 2006 quando Hezbollah li utilizza in piccoli numeri contro Israele. Più recentemente gli Houti – l’alleato non-statale dell’Iran in Yemen, li ha ripetutamente utilizzati contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dal 2015. I droni iraniani sono stati impiegati insieme ai missili da crociera negli attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite nel settembre del 2019.
I droni Shahed-131 e Shahed 136 forniti alla Russia, apparentemente progettati dall’esercito russo come Geran 1 e Geran 2, sono perciò l’ultimo esempio di una tendenza di lungo corso.
Shahed-136 e altri droni d’attacco della loro classe sono tipicamente montati su camion lanciatori; Shahed-131 è più piccolo e dal design più luminoso con la stessa configurazione. Diversamente da droni più piccoli e più leggeri che possono essere lanciati a mano e tendono ad essere alimentati a batteria, Shahed 131 e Shahed 136 sono equipaggiati con un piccolo motore a pistone che può sostenere una velocità di circa 150 km all’ora. In ragione della carica esplosiva più piccola e della velocità minore rispetto MQ-1 Predator americano o allo Shaded-129 iraniano, i primi sono più convenienti e molto più semplici da costruire per cui possono essere prodotti ed esportati in numeri maggiori.
Diversamente dagli Houti in Yemen che hanno impiegato le capacità di colpire fornite dall’Iran su piccola scala e in un modo piuttosto sporadico, le limitate prove disponibili del reale impiego nel mondo dell’Iran dei droni d’attacco suggerisce che Teheran apprezza il ruolo che l’integrazione congiunta di armamenti può giocare in obiettivi complessi, così come il ruolo nella difesa e nell’infliggere alti livelli di danno. Gli esempi degli attacchi iraniani contro le infrastrutture petrolifere saudite nel 2019 e contro le forze americane in Iraq nel 2020 ci suggeriscono che l’apparato militare iraniano riconosce la forza e la debolezza della gamma dei suoi diversi sistemi di attacco ed è capace di integrarli con abilità in operazioni complesse.
Le capacità di attacco iraniane sono costruite per essere complementari l’una all’altra, con droni utilizzati per degradare la difesa così che i missili balistici e da crociera possono essere utilizzati per danneggiare severamente se non distruggere obiettivi più resilienti. In questo modo l’Iran è meglio posizionato per danneggiare – se non distruggere – le infrastrutture critiche in un conflitto, e la spesa di droni relativamente a basso costo serve uno scopo più rilevante rispetto al danno inflitto finora dagli attacchi dei droni russi in Ucraina. Mentre questi hanno inflitto severi costi umanitari contro la popolazione civile, essi restano primariamente un disturbo in termini di efficacia militare.
L’Ucraina potrebbe non essere il terreno di prova per la tecnologia dei droni iraniana, anche se molti osservatori ritengono il contrario. La Russia sembra che stia utilizzando i droni iraniani in un modo molto simile agli Houti in Yemen, sebbene in una scala più ampia, rispetto a come sembra che l’Iran intenda utilizzarli.

La diplomazia regionale

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, recentemente, si sono impegnati in colloqui con l’Iran volti ad allentare le tensioni. Similmente la Turchia ha iniziato un riavvicinamento con l’Egitto che potrebbe condurre ad una normalizzazione delle relazioni, mentre la Turchia disgela le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Stati del Golfo alleati con i sauditi hanno messo fine al blocco del Qatar. Le ostilità tra Israele e l’Iran hanno iniziato a esternare questa tendenza con le due parti che si impegnano in attacchi tit-for-tat che corrono il rischio di intensificarsi fino ad un conflitto aperto.
L’Egitto ed il Qatar continuano a disgelare i legami, ma con differenti ragioni.
Malgrado il ripristino dei voli diretti tra il Cairo e Doha, la firma degli accordi di investimento bilaterali e la visita dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani al Cairo, le relazioni tra i due Paesi restano tiepide. Se la motivazione del Qatar di un riavvicinamento all’Egitto è politica, la ripresa economica è ciò che conduce l’Egitto, visto che la sua economia continua ad essere stagnante a causa della combinazione di sfide domestiche e fattori internazionali.
Gli effetti globali dell’invasione russa dell’Ucraina hanno posto uno stress all’economia egiziana. Sebbene l’Egitto resti una destinazione popolare per i turisti russi, che sempre più si allontanano dalle mete di viaggio occidentali, il numero di turisti russi che visitano l’Egitto è diminuito, provocando un taglio ai guadagni del turismo del Cairo. La guerra ha anche contribuito ad un’impennata dei tassi di interesse così come dei prezzi del cibo e dell’energia, facendo salire i costi di importazione dell’Egitto. Queste pressioni socioeconomiche create dalla guerra in Ucraina esistono unitamente ad altre sfide domestiche, molte delle quali nascono dalla pandemia e dal coinvolgimento dei militari in diversi settori economici – dalla costruzione all’intrattenimento – che nel corso del tempo hanno scoraggiato l’investimento straniero e soffocato il settore privato.
La sfida più significativa che deve affrontare l’economia egiziana è il suo alto debito. Una svalutazione della sterlina egiziana del 15% nel marzo del 2022 seguita da una graduale perdita di un altro 4% del suo valore. Il Cairo sta negoziando un pacchetto di prestiti con il Fondo Monetario Internazionale, che ci si aspetta che includa piani per svalutare ulteriormente la sterlina. Mentre i politici egiziani valutano i pro e contro delle condizioni poste dall’IMF per il via libera al prestito, il Cairo sta anticipando nuovi guadagni dalla vendita di gas naturale liquefatto ai Paesi europei che disinvestono dalle importazioni energetiche russe.
Le recenti aperture dell’Egitto al Qatar devono essere comprese in questo contesto.
Il Cairo sta simultaneamente cercando di rinforzare le sue relazioni economiche con l’Arabia Saudita, una storica fonte di sostegno finanziario in momenti di difficoltà. Il Fondo di investimento pubblico saudita ha annunciato un impegno di quasi 10 miliardi di dollari in nuovi investimenti in Egitto .
Gli investimenti degli Stati del Golfo aiuteranno a sostenere gli sforzi di stabilizzazione della sua economia, ma non condurranno, da soli, ad una completa ripresa economica, non da ultimo per la morsa dei militari sul settore privato, anche se le proiezioni sulla popolazione egiziana la vedono in rapida crescita. Perciò per i Paesi del Golfo, investire nell’economia egiziana è più una questione di politica e di stabilità piuttosto che una ricerca di un ritorno sull’investimento.
Come il resto del Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar anche vede il sostegno all’economia dell’Egitto come una tutela contro l’instabilità politica, che essi temono possa diffondersi nella loro direzione (come è accaduto nel 2011).

Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.