Dicembre 3 2021

La globalizzazione dello Stato islamico

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Sempre più chiara è la circostanza per cui la mancanza di lenti coerenti e consistenti attraverso cui comprendere l’impresa transnazionale dello Stato Islamico compromette sia l’interpretazione degli studiosi, che il lavoro dei professionisti riguardo al significato dell’agenda globale del gruppo.

Questo articolo è un tentativo di portare sul tavolo qualche sfumatura, aiutando a comprendere come lo Stato islamico concettualizza – e poi rende operativo – il suo sforzo internazionale.

Il califfato oggi si comprende come un adhocrazia internazionale – una raccolta di gruppi militanti irregolarmente gestita; gruppi diversi, geograficamente dispersi che competono per governare aree – il carattere del quale riflette la compulsione ideologica, i principi strategici e i tratti organizzativi che sostengono le ambizioni di un progetto politico più ampio.

Nel realizzare ciò le iniziative all’estero coincidono con la spinta di forze sia dall’alto verso il basso, che dal basso verso l’altro che danno vita a sincronismo e tensioni sia globalmente che a livello di affiliati.

Mentre l’inclinazione dell’organizzazione dello Stato islamico per un’espansione globale è relativamente nuova nella sua storia lunga decadi, è stato sempre dimostrato il desiderio del gruppo di influenzare le opportunità transnazionali e le reti. Prima del 2006 attraeva foreign fighters e dirigeva attacchi in Giordania, Israele e Turchia.

Per gestire la sua espansione ed assicurare, allo stesso tempo, che i potenziali affiliati fossero ideologicamente allineati e strategicamente utili alla sua causa, ha creato una serie di criteri che i gruppi locali devono soddisfare per essere accetati come provincia (wilayat) formale. Questi creteri, almeno nominalmente, includono giuramenti pubblici di fedeltà al califfo, approvazione della leadership del gruppo locale da parte dello Stato islamico, consolidamento delle fazioni locali sotto un’unica bandiera, comunicazioni corrette tra la leadership locale e il fulcro centrale dello Stato islamico e l’applicazione della metodologia e credo dello Stato islamico. Malgrado la sua retorica assolutista, lo Stato islamico ha, in modo discordante, applicato tali criteri, un fatto che ha alimentato tensioni interne quando alcune province (ad esempio quella ora defunta di Wilayat al-Bahrayn) furono accettate come affiliati. Il dissenso si è diffuso sia al fulcro centrale che a livello di affiliati.

Chiaramente, bilanciare la compulsione ideologica per espandersi con la necessità di assicurare che gli affiliati locali realmente accrescessero le loro capacità piuttosto che detrarle, è stata una sfida per l’organizzazione. Alla luce di ciò, e indipendentemente dall’effettiva estensione di un dato affiliato verso le ambizioni dichiarate dello Stato islamico, al momento presente vi è un solo standard per cui un gruppo è ritenuto un affiliato provinciale, vale a dire se ne ha ufficialmente dichiarato uno.

Ad un estremo dello spettro, vi sono le province principalmente simboliche e ampiamente inattive come quelle in Algeria e in Arabia Saudita, all’altro vi sono le province come quelle della Siria, Iraq e West Africa che hanno raggiunto il consolidamento di uno Stato territoriale. Nel mezzo vi sono quelle che sono emerse come beneficiarie di uno sforzo globale di ristrutturazione messo in pratica nel 2018: Wilayat Sharq Asiyya (Est Asia) e Wilayat al-Sumal (Somalia), entrambe mostrano evidenze minimali di un intervento diretto del nucleo centrale dello Stato Islamico, sebbene restino operativamente attive e sono regolarmente rappresentate nei prodotti media ufficiali.

Per comprendere come la sua diffusione globale accade, è utile valutare gli affiliati dello Stato islamico caso per caso sulla base di queste considerazioni:

a. l’estensione del controllo centralizzato e dell’influenza esercitata dalla leadership centrale su tale affiliato;

b. i tipi specifici di attività che sono condotte da tale affiliato in nome del nucleo centrale;

c. la frequenza con cui tale affiliato e le sue attività sono utilizzate come leva dal nucleo centrale per scopi strategici e di propaganda.

Variazioni ovvero spudorata inconsistenza tra questi piani –situazioni che in altri contesti avrebbero causato potenzialmente sfide all’esistenza stessa del gruppo – sono ammesse proprio dalla natura adhocratica dello Stato islamico. È la stessa natura che gli permette di transitare da movimento estremista violento clandestino a proto-stato burocratico e indietro verso l’estremismo violento e così via, negli anni recenti senza interruzioni .

Le adhocrazie sono organizzazioni strutturalmente fluide in cui gruppi di progetto che interagiscono tra di loro lavorano verso uno scopo condiviso o un’identità. La fluidità che caratterizza un adhocrazia risulta nel suo essere flessibile a condizioni strategiche – alle volte può essere più gerarchica e burocratica mentre altre più informale e come una rete – con un gruppo
di specialisti nel fulcro centrale che guida la direzione complessiva e la collaborazione dell’organizzazione, attraverso una serie di meccanismi decisionali decentralizzati. È proprio il modello di queste caratteristiche essenziali dell’adhocrazia la chiave della sopravvivenza dello Stato islamico negli anni recenti. Questi tratti gli hanno permesso di proiettare un’immagine di un movimento molto più coerente e monolitico di quanto fosse in realtà. Questo carattere blando adhocratico ha significato che lo Stato islamico è stato in grado di essere altamente adattabile e innovativo in come ha risposto al cambiamento costante delle condizioni strategiche, negli anni recenti.

Dal momento che le organizzazioni adhocratiche resilienti sono anche inclini alla debolezza, generalmente esse si affidano alle tecnologie communicative e allo sviluppo di personale specializzato per sincronizzare gli sforzi e le agende. Per questa ragione, interruzioni nella comunicazione possono avere serie ripercussioni nella coerenza strategico-operativa così come nella compattezza del gruppo.

Inoltre, le adhocrazie contengono un alto rischio nella scelta del momento opportuno per la transizione organizzativa verso strutture più formali o informali, e ciò può agire da catalizzatore di un logoramento della rete. Questa dinamica è presumibilmente evidenziata nella fretta dello Stato islamico nel dichiarare un califfato e creare un “sistema di controllo” burocratico di pieno spettro in Siria e Iraq nel 2014, per vederlo poi decimato pochi anni dopo.

C’è stato un punto in cui lo Stato islamico ha indietreggiato dall’idea di avere un proto-stato nell’arco delle frontiere dell’Iraq e della Siria (almeno per il momento presente). Non vuole dire che esso sia entrato in un mondo “post-califfato”, piuttosto ci suggerisce semplicemente che ha riconosciuto internamente che esso non aveva né la capacità né la necessità di cucire il suo marchio nel Medio Oriente nello stesso modo in cui lo aveva fatto fino al 2018.

È stato un cambiamento che ha avuto l’effetto di inquadrare le branche dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria come tali – rami. Essenzialmente, esse erano dequalificate: il loro status complessivo nel progetto di califfato globale alterato in un modo tale per cui esse erano “solo” parte della rete globale.

Visto attraverso gli occhi del fulcro centrale dello Stato islamico, l’espansionismo deve essere sempre compreso, almeno in parte, come un esperimento in una guerra guidata dalla narrativa. Dichiarando wilayat nel mondo, stava fissando una rivendicazione a nuovi territori mostrando di esserci non solo dopo le sue perdite in Siria ed Iraq, ma di essere in continua espansione.

La globalizzazione dello Stato islamico: i meccanismi

La globalizzazione dello Stato islamico aiuta il gruppo a costruire una profondità strategica e a gestire il rischio attraverso i suoi affiliati. Spingendo simultaneamente su molteplici fronti con un “inasprimento” asimmetrico e attacchi complessi più convenzionali, ha testato le capacità della coalizione globale e dei suoi affiliati locali in West Africa ed Est Asia. Allo stesso tempo, il fulcro centrale dello Stato islamico è pronto a capitalizzare il calo della pressione militare in Iraq e Siria.

Le attività in corso e sincrone degli affiliati aumentano la probabilità che ad un dato momento le risorse del controterrorismo occidentale terminino. Le operazioni degli affiliati e le comunicazioni connesse dal fulcro centrale attorno a questi successi operativi sono perciò un moltiplicatore di forze.

foto: CNN

Una prima tipologia di attività espansionista si è palesata nelle Filippine. Il gruppo Maute – Hapilon (una sub-fazione del gruppo Abu Sayyaf), che ha giurato alleanza allo Stato islamico nel 2014, ha ricevuto direttive strategiche e tattiche prima e durante l’assedio di Marawi e Mindanao nel 2017, incluso le “migliori pratiche” per la difesa urbana così come un esteso supporto remoto per la produzione di media e l’editing. Tuttavia, sebbene i jihadisti dai vicini Stati asiatici erano contati nei rangi Maute-Hapilon, nessuno effettivamente ha viaggiato dall’Iraq o la Siria.

In contrasto, in Nigeria, gli interventi dello Stato islamico erano inizialmente limitati, ma destinati a diventare più sofisticati agli inizi del 2015.

I quadri dello Stato islamico hanno iniziato a fornire assistenza al gruppo esternamente noto come Boko Haram (Jamaat Ahlussunnah lid-Dawa wal Jihad), che giurò fedeltà a Baghdadi e divenne Wilayat Gharb Ifriqiyya nella primavera di quell’anno, attraverso un Consiglio – in remoto – utilizzando tecnologie di comunicazioni internet criptate. Questo Consiglio era fondamentalmente relativo a questioni di giurisprudenza religiosa, che i militanti di Boko Haram entusiasticamente richiedevano a causa della carenza di iman addestrati nell’affiliato. Poi lo Stato islamico ha progredito il sostegno attraverso l’invio di un piccolo gruppo di consulenti per accrescere le competenze materiali dei nuovi sostenitori. Questo addestramento era centralizzato in un luogo sicuro nella foresta Sambisa nel Borno, sebbene alcuni disertori hanno fatto notare che i consulenti li accompagnavano anche nei combattimenti per valutare le loro tattiche, che erano descritte così improduttive da essere “come suicidi”. Questi stessi disertori rivelarono che furono allora ri-addestrati in piccole unità di manovra, con competenze anti-aeree e di manovra di veicoli corazzati. I consulenti li aiutarono a migliorare le qualità di operatori di media locali e nelle pratiche di sicurezza operativa dei leader chiave, facilitando anche i trasferimenti finanziari bimestrali attraverso i corrieri.

Un altro meccanismo di espansione è l’integrazione di jihadisti di esperienza nei ranghi locali, più raro degli altri. Tra il 2012 ed il 2014 lo Stato islamico ha proattivamente inviato foreign fighters dall’Asia centrale e del sud che aveva addestrato e indottrinato in Iraq e Siria verso i loro Paesi di origine per unirsi con frammenti di gruppi jihadisti locali, formando dei nuclei di quadri iniziali di Wilayat. Probabilmente la più chiara dimostrazione di questo è Abu Nabil al-Anbari come “leader delegato” delle province libiche nel 2014. Prima di questa nomina, Anbari era un comandante militare in Iraq. L’episodio in Libia nondimeno parla della sperimentazione della flessibilità e innovazione dello Stato islamico nel suo espansionismo globale.

Tensioni interne

Le dinamiche a trazione e pressione tra l’organizzazione centrale e i suoi affiliati producono frizioni, alcune delle quali possono provarsi fatali per la relazione. Lo Stato islamico perde un franchise a causa di differenze strategiche e metodologiche. Durante il suo primo tentativo di franchising nel 2012, l’allora leader Abu Bakr al-Baghdadi invia il suo vice Abu Ali al- Anbari in Siria per monitorare la sua startup siriana, Jabhat al-Nusra. Il pungente resoconto al suo capo mette in moto la spaccatura tra lo Stato islamico e Jabhat al-Nusra e il più consequenziale scisma tra lo Stato islamico e Al Qaeda. Da queste esperienze, la leadership dello Stato islamico ha identificato la necessità di una relazione più direttiva tra il punto centrale e la periferia della sua organizzazione.

Le frizioni tra il nucleo centrale e gli affiliati si sviluppano in tre aeree sensibili: la selezione e la guida dei leader, la correzione degli errori metodologici e la direzione strategica.

La gestione della leadership è importante per ogni organizzazione e la storia propria dello Stato islamico di gestione e transizione dei leader a tutti i livelli è stata una forza generale per il gruppo. Vi sono delle eccezioni rilevanti. Il reclutamento da parte dello Stato islamico di Boko Haram per diventare la provincia del West Africa e la seguente degradazione del suo leader carismatico, Abubakar Shekau, è alla radice della frattura del gruppo in due distinte fazioni, entrambe hanno giurato alleanza allo Stato Islamico. In Yemen, Afghanistan, Mindanao, lo Stato islamico ha fallito nel dispensare la sua dottrina di gestione della leadership. Ciò ha avuto l’effetto di minare la legittimità e la stabilità di quei franchise che lottavano per un rapido cambio dei leader a causa della scarsa selezione e delle inadeguate procedure di sicurezza.

Mentre la provincia Khurasan in generale appare imitare il punto centrale nei suoi attacchi contro la minoranza sciita hazara e con campagne di assassini urbane – più recentemente con obiettivo le donne che lavorano per i  mezzi di comunicazione – altri sono stati riluttanti nell’adottare le regole dello Stato islamico.

La provincia West Africa oltre a rifiutare la gestione della leadership da lontano, ha ignorato gli editti religiosi sull’abolizione dei bambini soldato e degli attentatori suicidi donne come combattenti regolari. Il gruppo ha anche fallito nello stabilire un esercito opposto all’utilizzo di milizie in maniera casuale, contrari ai consigli degli addestratori dello Stato islamico.

Da un punto di vista propagandistico, attraverso l’espansionismo globale, il movimento è in grado di mostrare esso stesso in continua offensiva, una percezione che è fondamentale se serve per stare al passo con le forze centrifughe del suo marchio e mantenere una coesione organizzativa.

Per questa ragione in particolare – il fatto che lo Stato islamico raccoglie gli enormi dividendi simbolici vantandosi delle sue province – che dobbiamo comprendere, con occhio critico, il suo globalismo.

L’Africa sub-Sahariana è stata per lungo tempo nel mirino di gruppi che avevano come obiettivo il jihad globale.

Con altre aree del mondo che ricevevano la porzione più grande dell’attenzione da parte delle forze di controterrorismo occidentali, sia Al Qaeda che lo Stato islamico hanno tratto vantaggio dall’opportunità di accrescere la loro presenza nella Regione.

L’Africa sub-Sahariana come Regione per lo Stato islamico è fondamentale perchè è proprio qui dove esso può raggiungere una vera e propria “capacità di successo” ovvero la capacità di generare e mantenere un alto tempo operativo per gli attacchi. Le province dello Stato islamico nell’Africa occidentale e nell’Africa centrale rispettivamente, hanno il potenziale di conquistare e mantenere territorio nel Sahel e lungo la costa sud est Swahili, in una maniera simile a quella che il fulcro centrale dello Stato islamico fu in grado di raggiungere in Iraq e Siria durante il suo picco.

L’attenzione dello Stato islamico spostata verso l’Africa sub-Sahariana dovrebbere essere vista come parte di una strategia deliberata in una Regione dove è molto più facile lavorare lungo e oltre le frontiere rispetto ad altre parti del mondo.

Con fondi per conflitti che consistono approssimativamente in 100 milioni di dollari, l’organizzazione manterrà la sua abilità di seminare nuove imprese e rafforzare le esistenti. Attraverso questo processo, quelli che una volta forse erano puramente gruppi locali, ora possono conquistare una dimensione transnazionale a differenti livelli. Anche se, fondamentalmente, sono guidati da preoccupazioni parrocchiali e rimostranze, gli affiliati dello Stato islamico possono evolvere e diventare più globali in natura. Diversi gruppi jihadisti africani hanno cambiato notevolmente il modo in cui combattono dopo essere diventati affiliati dello Stato islamico, in alcuni casi implicando sia miglioramenti tattici che evoluzione strategica. Questi gruppi sono ora capaci di lanciare operazioni molto più complesse e sono rappresentati di più nella propaganda dello Stato islamico.

Un esempio di questo è la Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico nota anche con l’acronimo inglese ISCAP – Islamic State Central Africa Province – la quale si è considerevolmente trasformata da quando è stata formalmente riconosciuta dallo Stato islamico nell’aprile del 2019.

All’inizio del 2020, gli estremisti violenti in Mozambico hanno iniziato ad operare in unità più grandi e a organizzare attacchi più sofisticati contro obiettivi di più alto profilo, come le capitali dei distretti. Alcune prove recenti ci suggeriscono che ISCAP sta adesso focalizzandosi più sul conquistare il cuore e la mente della popolazione nel nord del Mozambico. Una serie di attacchi nel marzo del 2020 hanno visto gli estremisti deliberatamente evitare vittime civili e distribuire il bottino di guerra – cibo rubato, medicine, carburante – ai residenti locali.

Un segno della crescente forza di ISCAP in Mozambico: i suoi militanti hanno preso il controllo della città portuale di Mocimboa de Praia – un obiettivo strategico – nell’agosto del 2020. Due mesi più tardi, i militanti ISCAP hanno lanciato degli attacchi transfrontalieri dal nord del Mozambico nel sud della Tanzania. Il devastante attacco nella città di Palma a marzo, che ha ucciso una dozzina di persone, ha alcuni degli elementi caratteristici dei classici attacchi dello Stato islamico, inclusa la decapitazione di stranieri e gli obiettivi di interessi economici occidentali. Ha forzato la sospensione di un progetto del gigante petrolifero francese Total del valore di 20 miliardi di dollari sul gas naturale liquefatto e le attività di esplorazione collegate ad esso.

Gli eventi degli ultimi due anni ci suggeriscono che gli affiliati africani dello Stato islamico non sono più un evento marginale al suo punto centrale operativo in Siria ed Iraq. Il fulcro centrale dell’organizzazione sia dipendente adesso più che mai sulle attività militari dei suoi affiliati nel continente.

E’ necessario prestare più attenzione, più da vicino, per vedere dove lo Stato islamico sta finanziando nuovi affiliati e dove le branche esistenti o le province stanno manifestando le loro capacità e abilità
migliorate in uno sforzo volto a tenere il califfato vivo.

Agosto 1 2019

Uccidere il leader: l’efficacia di una strategia di controterrorismo

decapitare

Media statunitensi diffondono la notizia che il figlio di Osama bin Laden, Hamza è stato ucciso da un drone (armato, ovviamente), citando dei funzionari dei servizi di sicurezza. Il Pentagono tuttavia non diffonde nè il posto dell’avvenuta uccisione, nè la data. I pochissimi commenti in proposito sui siti jihadisti affermano che tale notizia è falsa ed è l’ennesima strategia per indurre Hamza ad uscire dal suo nascondiglio.

Questa notizia ci rimanda ad uno dei temi ricorrenti quando si discute di organizzazioni estremiste che utilizzano la tattica del terrorismo, vale a dire la decapitazione di tali gruppi.

La decapitazione, vale a dire l’uccisione del o dei leader di organizzazioni terroristiche rappresenta uno strumento di contro-terrorismo ad alto valore simbolico. Tuttavia la forza militare impiegata non sembra essere sufficiente a decretare, per sé, la fine di un’organizzazione terroristica d’ispirazione religiosa.

La storia ci dimostra che malgrado l’uccisione dei leader “precursori” dello Stato islamico (IS): Abu Musab al-Zarqawi, Abu Hamza al-Muhajir, Abu Umar al-Baghdadi, il gruppo è cresciuto. Lo stesso è accaduto dopo l’uccisione di Osama bin Laden: Al Qaeda (AQ) è sopravvissuto e ha continuato a istituire affiliati seguitando ad essere una minaccia.

Per cercare di capire se l’uccisione dei leader di gruppi come IS o AQ sia efficace, vale la pena di ricordare le caratteristiche principali dei gruppi terroristici d’ispirazione religiosa.

I terroristi religiosi vedono il mondo nei termini in cui “noi siamo le persone di Dio e “loro sono i nemici di Dio”. Questa interpretazione morale del conflitto si è provata straordinariamente efficace in tutta la storia occidentale nel consolidare l’identità dei gruppi cristiani. Il loro impegno per un’idea religiosa o per un gruppo religioso li guida a de-umanizzare i loro avversari ad un grado tale che diventano capaci di uccidere. Il terrorismo religioso è una guerra psicologica e spirituale.

I gruppi religiosi sono altamente resistenti agli attacchi alla loro leadership.

La convinzione che l’uccisione dei leader  sia efficace è basata sulla nozione che la leadership sia essenziale al funzionamento di un’organizzazione. Sono stati condotti molti studi sull’efficacia di questo strumento di contro-terrorismo. Alcuni studiosi come Langdon et al. affermano che le organizzazioni religiose raramente si sciolgono quando il leader viene ucciso perché sono caratterizzate da una forte coesione fondata sugli insegnamenti del leader – sebbene carismatico – che i seguaci tendono inesorabilmente a seguire anche nel vuoto di leadership che si crea. Per Martha Crenshaw, esperta internazionale di studi sul terrorismo, l’uccisione del leader è meno efficace in gruppi molto grandi, evidenziando che l’utilità sarebbe maggiore qualora l’organizzazione fosse nei momenti successivi alla creazione.

Perché ciò risulta vero per organizzazioni religiose terroriste come AQ o IS?

La risposta si trova sia nella tipologia della loro organizzazione, che può definirsi “ibrida”: vale a dire una combinazione di network virtuali, organizzazione con quadri, affiliati e “indipendenti” sia, e soprattutto, nella loro missione. La storia del “noi” contro “loro”: distingue il puro dall’impuro e crea l’identità del gruppo.

I fondamentalisti vedono i testi religiosi come delle guide infallibili di vita. Per coloro che vedono le scritture come la parola esatta di Dio, le persone che le leggono e le interpretano sono umani e fallibili, un concetto che i fondamentalisti spesso sono incapaci di concettualizzare se si applica a loro stessi, sebbene siano felici di applicarlo ad altri.

Va notato che ciò non è particolare dell’IS o di altri gruppi jihadisti, si applica a molti fondamentalisti violenti in un ampio raggio di ideologie.

I lettori portano i loro pregiudizi e dolori nei testi religiosi. Quello che sembra più seducente dei gruppi fondamentalisti violenti è la semplificazione della vita e del pensiero. La vita è trasformata attraverso l’azione, il martirio fornisce l’ultimo sollievo dai dilemmi della vita, specialmente per individui che si sentono profondamente alienati, confusi, umiliati o disperati. Il razionale impiegato dai fondamentalisti religiosi è – questo vale per ogni tipo di religione –la diagnosi di un declino morale causato dal rifiuto di principi religiosi e argomentano che il declino può essere fermato solo ritornando a questi principi. Nella gamma di opzioni c’è quella di scegliere la violenza e utilizzare il terrorismo motivandolo con la religione.

Nei gruppi terroristi d’ispirazione religiosa gli insegnamenti del leader dunque guidano i seguaci internamente ed esternamente e seppure il leader sia caratterizzato da un forte carisma, i suoi insegnamenti religiosi trascendono la sua figura umana e resistono anche dopo la sua morte. In verità molti leader religiosi uccisi vengono poi venerati dopo la morte.

Alla luce di quanto detto finora la risposta che ci sembra più efficace per questo tipo di gruppi non è quella dell’uccisione della leadership, ma piuttosto quella informata da un punto di vista sia psicologico che spirituale.

Appare oltremodo necessario comprendere che i terroristi religiosi hanno l’obiettivo non solo di spaventare le loro vittime in senso fisico, ma anche di diffondere un certo tipo di timore spirituale per spostare il loro stesso timore esistenziale di sconfitta culturale e spirituale nelle loro vittime.

Per combattere il terrorismo religioso è necessario un esame non solo della nostra tendenza a reagire in maniera esagerata di fronte a questo tipo di paure, incluso la demonizzazione dei perpetuatori e i loro sostenitori o correligionari, ma anche come le loro azioni e razioni si sviluppino nelle loro stesse mani, a prescindere dal vertice del gruppo.

Dicembre 30 2018

Perché è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS

vittoria IS

L’impronta fisica dello Stato Islamico (IS) e la sua leadership di più alto livello sono state erose dalla coalizione globale che è stata in grado di limitare le capacità dell’organizzazione nei teatri di conflitto in un modo tale per cui le possibilità che l’IS lanci un’altra offensiva di vasta scala in Siria ed Iraq risultano essere sempre più esili.

Tuttavia, è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS : secondo stime ufficiali, tra i 20 e i 30 mila militanti IS, incluso migliaia di Foreign Fighters, restano in Siria ed in Iraq.

L’IS con tutta probabilità si è ritirato in aree meno popolate e rurali e ha iniziato ad operare in maniera più nascosta e decentralizzata.

Molte delle previsioni fatte dopo il collasso dello Stato islamico nel 2017, per cui ci furono dichiarazioni di vittoria di alcuni, tra cui i Presidenti degli Stati Uniti, dell’Egitto, dell’Iraq, della Russia e delle Filippine, non raggiungevano una precisione ed un’accuratezza tale per cui poi si sono materializzate pienamente.

Il 9 dicembre 2017, la sconfitta dell’IS in Iraq fu proclamata fragorosamente dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dalla sua controparte irachena, il Primo Ministro Haider el-Abadi.

La loro dichiarazione è giunta davvero troppo presto.

L’IS è un gruppo multidimensionale che simultaneamente opera sia come un proto-Stato che come una rete transnazionale estremista che utilizza la tattica del terrorismo. (Per un approfondimento sulla struttura e la composizione di questo gruppo vi rimando al libro: “Governare l’estremo“).

Le azioni cinetiche di successo contro la prima dimensione non hanno risolto la minaccia della seconda. Se volessimo ragionare secondo categorie è possibile affermare che se IS non è più uno Stato, esso resta una potente organizzazione estremista religiosa.

La minaccia globale, inoltre, potrebbe essersi incrementata, dal momento che i Foreign Fighters di ritorno drenano intelligence, risorse politiche e simpatizzanti nei loro Paesi di origine. Essere stati lasciati senza un Califfato a cui fare ritorno,  vuol dire che potrebbero invece rivolgere la loro attenzione ad obiettivi nei loro Paesi e focalizzarsi su nuovi modus operandi.

La prospettiva dell’IS di cooperare con altre organizzazioni jihadiste come Al Qaeda, è improbabile perché, malgrado siano entrambe parte del movimento jihadista globale, esse differiscono troppo in termini di ambizioni ideologiche e strategiche.

Inoltre, dal momento che IS, senza un suo proprio proto-Stato, sarebbe incapace di imporre tasse ai civili, probabilmente cercherà di trovare altri mezzi con cui finanziarsi.

Malgrado il  collasso materiale dell’IS – cioè del suo territorio – sia innegabile,

l’ideologia su cui si basa rimane viva e vegeta.

Agli occhi dei suoi sostenitori più devoti, non esiste qualcosa come uno stato “post-Califfato”. Al contrario, l’IS è diventato abile ed esperto ad etichettare i suoi fallimenti come meramente fasi di una strada più lunga verso la vittoria. Ed è cruciale che i decisori politici tengano nella dovuta considerazione tutto ciò.

La battaglia per sconfiggere completamente l’IS sarà difficile.

L’organizzazione ha, ora, solo cambiato traiettoria; si concentra su operazioni “colpisci-e-fuggi” calibrate verso l’indebolimento della stabilità e il discredito dello Stato. Tutto questo è realizzato attraverso un’attenta strategia di destabilizzazione: le reti di cellule “dormienti” stanno lavorando in maniera sistematica allo scopo di sovvertire la sicurezza nei territori liberati dalla presenza dell’IS. Ad esempio a Raqqa e nei suoi dintorni, in località come Kirkuk nell’est dell’Iraq,  attacchi IED (Improvised Explosive Device) e assassini vengono perpetrati su base quasi quotidiana; l’IS sta continuando a prendere slancio, apparentemente senza freni. Perciò, anche senza le sue ultime roccaforti urbane, l’IS continuerà, presumibilmente, a fare tutto quello che può per perpetuare l’instabilità regionale.

Pur volendo porre Siria e Iraq da una parte, la marea di sfide presentante dalla rete globale dell’IS continuano a metastatizzarsi. I suoi affiliati continuano ad affermare se stessi al di là della Regione del Medio Oriente, particolarmente in Paesi in cui mancano istituzioni statali forti; in alcuni casi, hanno accelerato le loro operazioni. In Afghanistan, ad esempio, la “Provincia Khurasan” del Califfato è stata ascendente nel 2018. Sebbene operativamente sia confinata ad un piccolo territorio nell’est del Paese, la sua capacità di impiegare il terrorismo suicida nel resto dell’Afghanistan è sconcertante e, in maniera preoccupante, mostra pochi segnali di indebolimento.

Qualcuno ha pensato alla minaccia derivante da altri gruppi jihadisti?

L’IS è lontano dall’essere il solo gruppo jihadista lì fuori. Sebbene abbia dominato molto del discorso concernente l’impatto di lungo termine del conflitto siriano e la politica di contro-terrorismo, lontani dall’attenzione pubblica ci sono gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che, basato nella provincia siriana di Idlib, si è sviluppato e ha impiegato un’agenda politica pragmatica e scaltra rivelatesi funzionale con le popolazioni locali. In netto contrasto con l’IS, HTS è stato relativamente permissivo sulla questione delle politiche religiose. Inoltre, perseguendo una strategia di socializzazione concepita per primo da Abu Firas al-Suri – un ex ufficiale della Shariah in Jabhat al – Nusra (predecessore di HTS), il gruppo ha sospeso l’implementazione delle punizioni corporali e capitali per promuovere una misura di interdipendenza tra esso e la popolazione che governa. Dato che questo tipo di pene, conosciute come hudud, sono considerate una parte centrale del codice penale islamico, pene che si applicano a crimini e reati contro Dio (non contro lo Stato o gli uomini), ciò è controverso, e ampiamente criticato all’interno della comunità jihadista. Tuttavia ciò sembra aver pagato: HTS è, adesso, profondamente inserito nel cuore della Siria del nord, e, proprio come fece l’IS, fornisce servizi essenziali di governance. Ha creato consigli locali e gestisce (e quindi sfrutta) le risorse locali. Mentre HTS non è più parte di Al Qaeda, la sua ideologia jihadista rimane strettamente allineata ad esso. Resta preoccupante che esso sia stato in grado di stabilirsi come gruppo politico e militare predominante nella Regione. Mentre, a questo stadio, le sue priorità appaiano più interne alla Siria, esso potrebbe un giorno cambiare e i decisori politici dovrebbero prenderlo in considerazione.

Altre forme di estremismo

Ultimamente si è verificato uno sbilanciamento politico strutturale per cui si rischia di considerare il contrasto ai gruppi jihadisti come la priorità a spese del contrasto ad altre forme di estremismo. Negli anni recenti, l’estremismo ispirato dall’IS ha assorbito la porzione più grande di forze di sicurezza e di risorse di intelligence – e giustamente, vista l’estensione della minaccia del gruppo. Tuttavia, ciò è avvenuto ad un costo: quello di non investire quelle risorse da qualche altra parte e, nel frattempo, in Europa, gruppi estremisti di -estrema-  destra si sono sviluppati e attivati. Essi hanno beneficiato sia della crescente polarizzazione nelle società europee che di un ambiente di sicurezza inattivo, in cui i governi sono incapaci di rispondere in maniera appropriata alla loro ascesa. È cruciale che più risorse sia devolute verso la mitigazione di questa sfida emergente.

L’IS sta praticando un gioco lungo, dunque le politiche di contro-terrorismo devono continuare ad esercitare una pressione sulle reti logistiche di supporto all’organizzazione

L’IS sta praticando un gioco lungo, e i suoi leader sono ben consci del fatto che le loro capacità materiali sono legate ad un flusso di ascesa e discesa nel corso della battaglia. Con questo a mente, le politiche di contro-terrorismo in Europa devono continuare ad esercitare un alto grado di pressione sulle reti logistiche di supporto dell’IS, anche se il gruppo appare essere inattivo. Sebbene la prassi operativa dei jihadisti sembra essere diventata meno tecnologica rispetto al 2016 e al 2017, assalti complessi sono ancora nella lista. Inoltre, ora vi è un incentivo a (ri)tornare ad operazioni più sofisticate e di vasta scala, dato che le notizie ed il discorso pubblico iniziano ad essere assuefatti ad attacchi con coltelli e veicoli. Ragionando nel lungo-termine, i decisori politici devono cercare di sviluppare una legislazione efficace e strumenti sociali che affrontino la minaccia potenziale dei militanti estremisti di ritorno e degli ideologhi – e questo dovrebbe includere lo sviluppo di istituzioni penali all’interno dei Paesi in cui questi personaggi vivono.

Ora non è il momento di lanciarsi in dichiarazioni di vittoria. Anche se la minaccia IS appare essere meno pressante di quanto lo fosse nel 2016 e nel 2017, la minaccia che esso rappresenta è reale e durevole.

La pressione del contro-terrorismo deve tenere il passo, anche continuando ad incoraggiare le società ad essere resilienti ed inclusive. Per fare ciò è necessario che gli interessi di breve-termine che ci concentrano sulle politiche elettorali non ostruiscano la realizzazione di politiche efficaci di lungo termine.

 

Giugno 28 2018

Terrorismo e migrazione: il legame che tutti vogliono ma che non c’è.

migrazione

La relazione tra terrorismo internazionale e le varie forme di migrazione è complessa. Nondimeno cercheremo di comprendere dapprima cosa si intende per migrazione e terrorismo e poi se esista o meno un collegamento organico tra terrorismo e migrazione.

Nell’approcciarsi a questo tipo di tematica mi sembra importante suggerire al lettore di prestare attenzione alle generalizzazioni perché c’è il rischio di alimentare un sentimento anti-immigrazione quando vengono formulate affermazioni non dimostrabili sulla migrazione come minaccia alla sicurezza nazionale.

Migrazione

Si riferisce all’immigrazione (in-migrazione) o all’emigrazione (movimento verso l’esterno) di persone o gruppi di persone da un paese ad un altro luogo usualmente distante, con l’intenzione di stabilirsi alla destinazione, temporaneamente o permanentemente. Questo processo può essere volontario o forzato, regolare (legale) o irregolare (illegale) all’interno di un paese o al di là delle frontiere internazionali. I rifugiati sono un sotto-gruppo di migranti internazionali che cercano asilo o che hanno ottenuto una protezione all’estero secondo i termini della Convenzione ONU sui rifugiati del 1951.

Terrorismo

Si riferisce ad una strategia di comunicazione politica per la manipolazione psicologica delle masse dove civili non armati (e non combattenti come prigionieri) sono deliberatamente perseguitati allo scopo di impressionare terze parti (ad esempio intimidire, costringere o influenzare un governo o una sezione della società o l’opinione pubblica internazionale) con l’aiuto di violenza dimostrativa di fronte al pubblico e/o per la copertura in massa anche sui social media. Il terrorismo di attori non statali è spesso una strategia di provocazione che ha come obiettivo una polarizzazione della società e un incremento del conflitto, mentre il terrorismo dello stato o del regime è utile all’obiettivo di repressione e controllo sociale. Il terrorismo come guerra psicologica è anche una tattica irregolare e illegale nel conflitto armato che può essere utilizzata da una o entrambe le parti.

 

Sicuramente sappiamo che Paesi e Regioni dove l’estremismo violento è diffuso: Siria, Iraq, Afghanistan, Nord Nigeria, Mali, Yemen per fare alcuni esempi, sono tra i principali Paesi che dislocano numeri significativi di persone.

Una delle sfide concettuali che pone l’intersezione tra terrorismo e migrazione è che è sempre più difficile discernere come le motivazioni individuali o la relativa ponderazione di esse, siano collegate alla causa della dislocazione. Le persone che scappano da un conflitto armato, da una guerra civile, di solito, nel ponderare la decisione di muoversi lontano dalla zona di guerra, scompongono in fattori le variabili economiche e sociali; non è insolito che considerino elementi come la disponibilità di lavoro, opportunità future (accesso all’educazione, assistenza sanitaria). In ragione di ciò è importante distinguere le cause sottostanti la dislocazione, come il conflitto, il collasso dello Stato o la persecuzione, da fattori come la disoccupazione, il cibo, posto che spesso è la mancanza proprio del cibo che innesca lo spostamento.

Alcune persone, specialmente coloro che appartengono a minoranze religiose nel Medio Oriente, incluso i cristiani e i yazidi, abbandonano la Siria e l’Iraq a causa della diretta persecuzione da parte dello “Stato islamico” (IS). Scappano a causa del fallimento della capacità dello Stato, o dalla mancanza di volontà dello stesso, di proteggerli. Possono scappare anche coloro che non sono perseguitati ma che vogliono fuggire dalle zone di conflitto armato.

Il terrorismo praticato da attori non statali è spesso uno dei fattori decisivi della migrazione forzata, questo tipo di dislocazioni sono spesso dei prodotti non intenzionali di gruppi estremisti e alle volte una politica deliberata condotta da essi.

Sebbene siano limitate le prove che uno spostamento sia causato direttamente da gruppi estremisti che utilizzano la tattica del terrorismo, è possibile asserire che alcuni gruppi di questo tipo hanno, tra i loro obiettivi, proprio quello di forzare il movimento di interi gruppi sociali. Pensiamo ad esempio a Boko Haram, nel nord della Nigeria che con i rapimenti di donne e il reclutamento di bambini e uomini, l’assedio apposto a numerosi villaggi, ha prodotto l’immediato abbandono di intere aeree.

Il terrorismo statale

Pur essendo difficile scindere il terrorismo come forma di guerra irregolare dal terrorismo statale, soprattutto quando il nemico è interno, può essere asserito che il terrorismo statale è stata la maggiore e forse anche la principale causa di migrazioni forzate nel caso della Siria. La cecità di molti governi sul terrorismo statale di regimi alleati, unitamente alla generale ossessione degli Stati per gli attori non-statali violenti, ha contribuito ad ignorare uno dei più potenti fattori chiave di migrazioni forzate: il terrorismo statale o di regime. Parzialmente ciò è dovuto al fatto che i Paesi che fanno esperienza di terrorismo statale sono anche quelli sul cui territorio operano gli attori non-statali violenti.  In tali casi causa ed effetto, azione e reazione, sono difficili da separare, più a lungo la spirale della violenza tit-for-tat continua, più a lungo la situazione all’interno del Paese si complica.

Il finanziamento dei gruppi estremisti transnazionali attraverso la migrazione

La fuga delle persone dalle zone di attacco di gruppi estremisti o di conflitto, è spesso difficile e pericolosa; essi devono cercare l’assistenza di facilitatori, in molti casi dei trafficanti criminali per passare o aggirare i posti di blocco nelle zone di conflitto e attraversare frontiere internazionali. Organizzando dei blocchi stradali i gruppi estremisti transnazionali spesso direttamente controllano e tassano coloro che vogliono scappare o costringono i trafficanti a dividere i profitti con loro.

Nel caso della Libia, l’IS ha controllato per mesi circa 260 km di costa del Mediterraneo vicino Sirte. Ad oggi, vi sono prove che indicano che i trafficanti di esseri umani lì devono dividere i loro profitti con diverse organizzazioni estremiste, incluso l’IS. Questo tipo di denaro che può essere guadagnato con il traffico di esseri umani è secondo solo ai ricavi che possono essere ottenuti con il traffico di droghe.

In sostanza: la tattica del terrorismo induce nelle persone paura per la propria vita che tende a causare l’emigrazione. Questa migrazione, a sua volta, permette, se tassata, il finanziamento di gruppi estremisti transnazionali.

È necessario comprendere che il terrorismo è spesso una strategia di provocazione. Coloro che s’impegnano in esso cercano di provocare una reazione eccessiva. Minor informazione di intelligence un governo possiede sul luogo e l’identità di perpetratori di atti di terrorismo, maggiore è la probabilità che le forze di polizia giudiziaria o di sicurezza utilizzino un approccio severo che ha come obiettivo un intero segmento della società con cui i terroristi vengono associati. Questo è spesso parte del calcolo terrorista: la repressione, essi argomentano, aprirà gli occhi di quelle persone e poi esse vedranno il governo come un’ “entità demoniaca”, e ciò dovrebbe fare in modo che molti si rivolgano ai terroristi fornendogli sostegno e nuove reclute. È un calcolo cinico per provocare la repressione contro lo stesso segmento che i gruppi estremisti rivendicano di difendere, ma questa è la mancanza di moralità e la scaltra strategia di molti gruppi estremisti.

Stato islamico (IS) e migrazione

L’IS si preoccupa molto di più che i rifugiati si integrino con successo nella vita in Occidente. Ciò è stato reso chiaro già dal settembre 2015 quando il gruppo diffuse 14 video in 3 giorni avvertendo le popolazioni musulmane di non migrare verso Dar al-Harb (“la terra di guerra” o di incredulità), incoraggiandoli a restare ed unirsi al Califfato.

Il flusso di migranti in Europa è un anatema per l’IS, mina il messaggio del gruppo che il califfato sia un rifugio

Data l’assoluta importanza per l’IS della propria abilità di conquistare e mantenere terreno, viene da chiedersi perché l’IS dovrebbe mandare via un grande numero combattenti esperti a condurre attacchi che potrebbero essere lasciati a simpatizzanti che sono già in Occidente, a costo zero per l’organizzazione?

Infatti, sottoposto a grande pressione, sembra che l’IS abbia stabilito unità di specialisti per prevenire e dissuadere potenziali disertori già dalla fine del 2015. È chiaro che l’IS nutra interesse nell’esagerare la minaccia associata con i rifugiati per molteplici ragioni, non da ultimo l’amplificazione della percezione della portata e della capacità dell’organizzazione. Ciò aumenta l’opposizione occidentale nell’accettare i rifugiati e consente all’IS di presentare il Califfato come un’alternativa attrattiva.

Tutto ciò pone in questione la credibilità della strategia del cavallo di Troia dato che la priorità numero uno dell’IS sembra essere attirare persone verso i suoi territori, piuttosto che mandarli via.

Anche se ogni singolo combattente IS (secondo alcune stime 30,000) dovesse venire in occidente mascherato da rifugiato, rappresenterebbe meno del 4% dei recenti flussi di migranti in Europa.

Un tale tipo di scenario è meno che plausibile. Malgrado l’isteria circa l’IS che infiltra le popolazioni di rifugiati, le evidenze finora sono state insufficienti.

Tenere i terroristi fuori dai confini nazionali è un obiettivo legittimo ma l’efficacia del controllo delle frontiere è limitata dal fatto che molti terroristi sono “homegrown” (locali) o sono stranieri con un permesso di residenza del tutto legale.

H. Cinoglu e N.Atun hanno ragionato sul perché malgrado non ci sia un collegamento organico tra la migrazione internazionale e il terrorismo internazionale sia gli Stati Uniti che i paesi dell’UE si focalizzino sulle politiche migratorie e di controllo delle frontiere nel combattere il terrorismo. Essi hanno notato alcuni svantaggi:

  • creando un collegamento artificiale tra gli immigrati e il terrorismo si creano ansia e eccessi di rabbia nelle società degli immigrati e aumentano sentimenti ostili contro lo Stato. In queste situazioni, l’ostilità contro gli stranieri (xenophobia) cresce unitamente alla possibilità di conflitto tra gruppi sociali.
  • Attaccare l’ideologia dei terroristi e le loro infrastrutture organizzative è una via più promettente che il controllo di tutti gli individui nei loro movimenti nella speranza di prendere alcuni terroristi tra loro.

Il pericolo più grande sembra essere la potenziale radicalizzazione e il reclutamento da parte di gruppi estremisti (in particolare quelli islamici) di piccoli numeri di rifugiati nel medio e lungo termine (dopo che sono arrivati) che potrebbe essere facilitato da estremisti che già vivono da molti anni in Occidente.

Questo non vuol dire che nessun gruppo estremista non ricavi vantaggi dell’odierna crisi per scivolare di nascosto in Occidente, ma questi casi sono presumibilmente relativamente rari. A dicembre 2015 il numero di rifugiati terroristi era di 26, nello stesso periodo il numero di rifugiati in Europa era di 1 milione, quindi l’0,003% (dati tratti dallo studio su terrorismo e migrazioni di massa di S. Mullins).

Peter Neumann, il direttore del Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione  afferma di non essere a conoscenza di evidenze empiriche che dimostrerebbero che gli immigrati di prima generazione siano particolarmente ricettivi dei messaggi estremisti. Le persone che sono appena scappate dalla guerra civile, dall’oppressione o dalla povertà è improbabile che siano interessate ad attaccare la stessa società che ha concesso loro salvezza.

Sebbene le autorità di contro-terrorismo abbiano un chiaro ruolo nel gestire il flusso di rifugiati in Occidente, deve essere reiterato che non è un problema primario di contro-terrorismo.

Raggiungere una più accurata comprensione delle connessioni – o della relativa mancanza di esse – tra la migrazione di massa ed il terrorismo internazionale in Occidente aiuterà i decisori politici ad elaborare programmi più adeguati per il controllo dei rifugiati dopo l’arrivo in EU e simultaneamente sarà più verosimile disinnescare le paure che peggiorano la situazione nel suo complesso.

 

Gennaio 13 2018

Il nemico del nemico. Il nemico interno nella galassia estremista islamica.

nemico

La Siria, l’Egitto, l’Iraq, lo Yemen, la Libia, la Nigeria, la Regione del Sahel, la Somalia, la Cecenia, le Filippine, la Regione Afghanistan-Pakistan hanno tutti subito operazioni ovvero attacchi ad opera di organizzazioni estremiste islamiche, di differente intensità, ma con una caratteristica comune: il nemico principale è il governo nazionale e i gruppi religiosi opposti.

Curiosamente, l’intensificazione della lotta jihadista contro sia obiettivi occidentali che governi nazionali nel mondo islamico si pone in correlazione con la comparsa del più importante esempio di contesa e di competizione intra-jihadista nei tempi moderni tra Al Qaeda e l’Islamic State (IS)

La categoria del nemico interno

La competizione jihadista ha sottolineato l’importanza di una categoria di nemico frequentemente trascurata: il nemico interno, in riferimento ad altri gruppi all’interno della corrente jihadista.
Sia per Al Qaeda che per l’IS il nemico interno ha assunto un’importanza crescente, tuttavia i due gruppi hanno affrontato questa delicata questione in molti modi diversi.

La competizione inter-gruppo ha colpito la gerarchia degli obiettivi del nemico delle due organizzazioni estremiste islamiche.

La contesa e la competizione tra gruppi jihadisti non è una situazione nuova. Donatella dalla Porta ci spiega che « le organizzazioni radicali, come altre organizzazioni politiche, mirano ad attrarre simpatizzanti attraverso struttura, azioni e cornici che sono appropriate per la propaganda. Nel fare ciò, le organizzazioni clandestine competono in un campo affollato di organizzazioni dove hanno la necessità di offrire di più dei loro competitori».

Dal 2014 in poi in quasi tutte le riviste di Al Qaeda e IS è stata pubblicata una condanna implicita o esplicita all’altro gruppo.

Agli occhi dell’IS, Al Qaeda aveva deviato dalla corretta metodologia jihadista di Osama bin Laden; i suoi membri venivano chiamati addirittura gli “ebrei del jihad” mentre venivano diffusi i poster di “wanted dead” che ritraevano Zawahiri e altre figure di spicco di Al Qaeda.

Dalla prospettiva di Al Qaeda, l’IS è un gruppo di estremisti che senza alcun diritto hanno rivendicato di essere i soli legittimi sostenitori del jihad senza alcuna autorità. Quando Al Qaeda, nel gennaio del 2014 ha stabilito AQIS (Al Qaeda nel subcontinente indiano) l’emergente competizione con l’IS sicuramente ha giocato un ruolo importante.

L’introduzione della categoria “nemico interno” nella gerarchia del nemico dei gruppi jihadisti è una testimonianza della natura competitiva ed esclusivista dell’attuale jihadismo. Essa ha spinto i gruppi jihadisti a trovare ragioni fondamentali che legittimassero la lotta contro attori che naturalmente e storicamente erano considerati alleati e, in casi estremi, ha anche comportato l’etichettare altri jihadisti come apostati.

I gruppi jihadisti solitamente, quando si tratta di affermare chi combattono, vengono rinchiusi in caselle e spesso le conclusioni a cui giungono questo tipo di classificazioni non sono il risultato di una ricerca approfondita.

Fino a poco tempo fa, Al Qaeda era conosciuta come il più noto sostenitore del jihad globale, mentre l’ISI (Islamic State in Iraq) era conosciuto semplicemente come il nemico vicino dei regimi locali.

La competizione intra-jihadista che è comparsa nei primi mesi del 2014 ha cambiato significativamente questa percezione stereotipata. Il risultato è stato un importante cambiamento nelle gerarchie del nemico di questi due  gruppi jihadisti.

La crescente “ibridizzazione” della gerarchia del nemico dell’IS ha avuto come conseguenza l’adozione da parte dell’organizzazione estremista di un forte focus sul nemico lontano (l’Occidente) sia nei discorsi che nell’azione.
La diminuzione dell’ “ibridizzazione” di Al Qaeda ha avuto come conseguenza che tale organizzazione si astenesse da attacchi contro l’Occidente, fatta eccezione per i discorsi.
Il nemico interno è diventato un obiettivo legittimo.

Chi offre di più?

Nella letteratura sul terrorismo, il concetto di “offrire di più” ha ricoperto un ruolo dominante nella teoria che spiega l’effetto della competizione tra i gruppi terroristici sul loro comportamento. La logica dell’offrire di più dimostra le capacità del gruppo, la dedizione e le intenzioni del gruppo agli altri gruppi.
La competizione si verifica quando gruppi che condividono un’ideologia (o quasi la stessa ideologia) iniziano a prendersi di mira l’un l’altro attraverso parole ovvero azioni o quando adottano nuove strategie ovvero tattiche determinate dal successo del gruppo rivale.
Sembra plausibile poter sostenere che la competizione tra Al Qaeda e l’IS è emersa realmente dal febbraio del 2014 in poi quando iniziarono a verificarsi delle lotte interne in maniera regolare.

La crescita dell’IS, senza dubbio ha influenzato come gli altri gruppi jihadisti, incluso Al Qaeda, vengono percepiti sia riguardo all’essere “estremisti” sia in termini di minaccia. Ciò ha rappresentato per Al Qaeda un’opportunità di posizionarsi in una luce positiva in contrasto alla barbarie dell’IS. Il rischio per Al Qaeda, tuttavia, è che sia superata e considerata obsoleta.

Dalla prospettiva della lotta per il potere all’interno del movimento jihadista globale, sembra che si siano attivati due meccanismi:

  1. per l’IS il processo di offrire di più inizia attorno al 2014 come modo per sfidare la supremazia di Al Qaeda. L’intensificazione di tattiche raccapriccianti come la registrazione video delle decapitazioni e il bruciare i prigionieri possono essere considerati esempi dell’offrire di più a livello tattico mentre il suo concentrarsi sempre di più su obiettivi internazionali equivale ad un offrire di più a livello strategico.
  2. Già preoccupata della sua immagine popolare molto prima della nascita dell’IS, Al Qaeda ha esitato a seguire l’esempio del suo competitore più violento, malgrado il suo iniziale successo, e si è bloccato su un approccio basato sulla diversificazione del rischio. Per diversificazione del rischio s’intende un approccio più conservatore per cui un attore si astiene dal prendere una posizione chiara con l’obiettivo di non compiere un errore futuro. Nel caso di Al Qaeda, come parte della sua mutata strategia si è per lo più astenuta dall’organizzare o dirigere attacchi in Occidente con l’obiettivo di vincere il sostegno delle popolazioni locali nelle sue aree di operazioni. Allo stesso tempo Al Qaeda continua a porre enfasi sull’Occidente nei suoi discorsi allo scopo di non perdere il supporto dalla sua base più radicale.

Quale nemico combattono?

Il nemico interno è una questione molto delicata sia da un punto di vista giurisprudenziale islamico, dal momento che riguarda l’illegalità di spargere sangue musulmano che dovrebbe essere evitato perché potrebbe dare luogo ad una dissidio interno (fitna), sia da una prospettiva strategica.

Combattere il nemico interno inteso come altri gruppi che sono considerati parte della comunità jihadista sunnita e che condividono in una qualche maniera una simile ideologia, è una circostanza che raramente si è verificata prima della contesa esplosa tra Al Qaeda e l’IS.

Le lotte interne tra i gruppi jihadisti si verificano ora su base regolare in Siria e  in altre aree dove entrambi i gruppi sono presenti. Ad esempio dopo aver annunciato la creazione della provincia Khorasan nel gennaio del 2015, l’IS ha iniziato a combattere contro i Talebani.

Il contesto

L’ideologia esercita un’influenza enorme nella definizione delle gerarchie nemiche, tuttavia è altrettanto importante  il contesto in cui questi gruppi si trovano.

Un elemento importante del contesto è il grado di dissenso intra-jihadista e la potenziale, successiva, competizione.
Il conflitto all’interno del movimento jihadista ha conseguentemente invaso e dominato le dinamiche del jihadismo sunnita.

Gli attacchi a Parigi del gennaio del 2015: uno ad opera dei fratelli Kouachi contro Charlie Hebdo e rivendicato da Al Qaeda e l’altro ad opera di Coulibaly, che giurava alleanza all’IS, sono interessanti in questo contesto dal momento che Coulibaly presumibilmente aiutò i fratelli Kouachi.

Ciò mostra che ci è voluto un po’ di tempo affinché la rivalità jihadista si manifestasse al di fuori della Regione del Medio Oriente. Una simile cooperazione oggi è altamente improbabile se non impensabile.

In conclusione:

In maniera interessante, le dinamiche che si sono scatenate dalla relazione competitiva all’interno del movimento jihadista hanno colpito enormemente la gerarchia del nemico sia in termini di scopo che di priorità e di categorie. Non solo l’IS ha superato Al Qaeda come principale perpetratore di attacchi in Occidente, ma la sua aggressività contro altri gruppi jihadisti ha dato vita all’introduzione di una nuova categoria estremamente delicata: il nemico interno.
Per l’IS il processo di “offrire di più” intra-jihadista ha condotto all’espansione strategica del focus sull’Occidente, il cosidetto “nemico lontano”; mentre per Al Qaeda la logica della diversificazione del rischio ha rafforzato la sua nuova strategia, già adottata, per vincere i cuori e le menti dei musulmani distanziandosi essa stessa dall’eccessiva violenza dell’IS.
Le gerarchie del nemico sono tuttavia dinamiche per cui la diminuzione degli attacchi di Al Qaeda in Occidente non deve portarci alla conclusione che esso non è più un gruppo jihadista globale, ma piuttosto deve condurci a considerare che le preferenze, le capacità, hanno subito, temporaneamente, un cambiamento come risultato di un contesto.

Dicembre 19 2017

Governare l’estremo. Il progetto di Stato islamico da Al Qaeda all’Islamic State

Il libro di Barbara Faccenda

Lo potete acquistare su Morlacchi editore; Mondadori Store; Amazon; Libreria Universitaria; o ordinarlo alla Feltrinelli Librerie. In Umbria è anche disponibile presso la Libreria Grande a Ponte San Giovanni (PG).

La capacità degli attori non-statali violenti, e fra questi l’IS (Islamic State), di fornire servizi essenziali alla popolazione, di provvedere alla loro sicurezza e di esercitare un uso esclusivo della forza nei territori che controllano, ha potuto concretizzarsi in un proto-Stato in aree caratterizzate da conflitto protratto, statualità fragile o failed. Diversamente da Al Qaeda e suoi affiliati, l’evoluzione del progetto statuale dalla proclamazione del califfato da parte dell’IS – con la costituzione di una serie di strutture tipiche dello Stato, l’attuazione di rigide regole e il controllo di ampie porzioni di territorio – costituisce una sorta di proto-Stato jihadista che nega virtualmente il c.d. «ordine mondiale vestfaliano», compresi i nomi propri degli Stati esistenti e le loro frontiere. Questo libro esamina le cause, la struttura e il funzionamento dell’IS al fine di individuare le misure più appropriate, efficaci e di lungo termine nell’azione internazionale di contrasto che è in corso. In questa ottica, l’IS non viene considerato solo una mera organizzazione estremista religiosa che utilizza la tattica del terrorismo, ma come un’evoluzione qualitativa de facto del modello di Al-Qaeda, non solo nella sua strategia militare ma anche nell’attuazione di una governance sociale che si è dimostrata sorprendentemente efficace in ambienti instabili.

Settembre 6 2017

La comunicazione dei terroristi: l’assecondiamo o la combattiamo?

comunicazione

Negli ultimi mesi l’organizzazione estremista religiosa, IS (islamic state), ha dedicato molto tempo e risorse alla realizzazione e diffusione delle sue campagne di comunicazione, soprattutto nell’intento di reclutamento e di stimolo per i suoi seguaci sul campo di battaglia.

Partiamo dal presupposto che al cuore di qualsiasi campagna di omunicazione inclusiva vi sono due tipi di strategia di messaggistica: difensiva ed offensiva (d’attacco):

per definizione la contro-narrative sono intrinsecamente difensive.

Le campagne di comunicazione di successo uniscono sia la messaggistica difensiva che quella offensiva, con l’ultima che domina.

Le contro-narrative rispondono meramente ai messaggi di opposizione, permettendo agli ideatori di questi ultimi di stabilire il terreno su cui sarà combattuta la battaglia della comunicazione e mantenere il controllo della narrativa.

A meno che non sia assolutamente necessario, le campagne di comunicazione dovrebbero evitare di rispondere ai messaggi di opposizione perché ciò semplicemente ripete e rinforza il loro messaggio.

Di per sé, una campagna si conclude parlando di quello che l’oppositore vuole si parli, permettendogli di stabilire la narrativa. Rispondendo ai messaggi dell’oppositore, gli permettiamo di stabilire il terreno su cui la battaglia della comunicazione sarà combattuta.

I messaggi offensivi cioè ostili, per contrasto, attaccano l’oppositore spingendolo sulla difensiva, richiedendogli un dispendio di risorse per contrastare il messaggio.

I mezzi attraverso cui prendere il controllo della narrativa che stabiliscono i termini del dibattito, sono fondamentali.

Diversamente dalla messaggistica difensiva che si concentra sul messaggio dell’oppositore, “andare all’attacco” conferisce l’opportunità di diffondere i propri messaggi chiave.

L’IS ha sviluppato una strategia sofisticata di “esca mediatica” in cui diffondono propaganda costruita per ottenere una risposta tipica, allo scopo di creare opportunità per essi stessi di sfruttare flussi di messaggistica secondaria precedentemente confezionati.

Un esempio noto, sebbene crudele, è il video ” guarire il torace dei credenti”, in cui si mostrava il pilota giordano bruciato vivo: quando l’occidente ha risposto con messaggi di condanna della barbarie dell’IS, quest’ultimo era pronto a rispondere portando l’attenzione sull’ipocrisia della disapprovazione, dal momento che non vi erano stati simili manifestazioni di sdegno per i bambini musulmani bruciati vivi quotidianamente dai bombardamenti aerei, provando in tal modo che l’occidente si preoccupasse di più di un pilota che dei tanti civili musulmani uccisi nei bombardamenti.

In breve, la nostra fretta di rispondere ha fatto (e purtroppo continua a fare) il gioco dell’IS: con l’impazienza nella competizione per contrastare la loro narrativa, corriamo il rischio, al meglio, di combattere una guerra di parole sui loro termini cadendo nelle loro trappole e rafforzando la loro narrativa.

Un recente esempio è quello della diffusione massiccia di un post su Twitter in cui utenti di un canale Telegram suggerivano di colpire l’Italia. La diffusione attraverso ogni mezzo, tv, stampa, radio, dibattiti, non ha fatto altro che rafforzare la narrativa dell’IS, peraltro distribuendo il loro messaggio principale: terrore, paura e senso di insicurezza.

Probabilmente il limite maggiore in questi casi è l’approccio frammentario delle comunicazioni e la mancanza di comprensione della reale necessità di una campagna di comunicazione multidimensionale ed integrata. Campagne di comunicazione di successo sono una costruzione complessa, composta da molteplici, differenti, tipi di messaggi (offensivi, difensivi, identità, scelta razionale) distribuiti attraverso mezzi multiformi (online, stampa, tv, radio, discorsi pubblici), tutto a sostegno di una narrativa centrale che viene consolidata sincronizzandola con l’azione sul terreno.

Oltre che naïve è certamente destinata a fallire una campagna di comunicazione che risponde solo concentrandosi su un tipo di messaggistica in uno sforzo isolato quando contro vi è una campagna integrata.

La somma della campagna di comunicazione IS è sicuramente più grande delle sue singole parti.

Mentre i politici sembrano inclini a comprendere la portata e la sofisticazione delle campagne di comunicazione necessarie per farsi eleggere, è giunto il momento che comprendano che è necessario intraprendere lo stesso sforzo per fronteggiare la propaganda IS.

Giugno 4 2017

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa ai terroristi

storytelling

La contro-narrativa come prodotto principalmente del decisore politico manca di una teoria articolata.

Invece di una teoria abbiamo una serie di supposizioni, implicite ed esplicite, che sono comuni ad una serie di documenti. Definendo queste supposizioni, noi arriviamo a quello che potrebbe essere presentato come una “teoria di lavoro di contro-narrativa“.

La teoria di lavoro di contro-narrativa come funziona:

gli estremisti violenti – che abitualmente intendiamo come islamisti violenti – reclutano i seguaci attraverso la promozione di una visione del mondo ideologica che è incapsulata in quello che spesso è definito “narrativa jihad”. Questa narrativa afferma che i musulmani sono sotto attacco e devono combattere per difendere loro stessi: che l’occidente è un nemico implacabile dell’Islam; e che la violenza non solo è necessaria per la sopravvivenza ma che è anche la via per la salvezza. Questa narrativa può essere sconfitta da narrative più convincenti e accurate che promuovano i valori umani. Come risultato, il richiamo dell’estremismo violento tra quelli che sono definiti “gruppi vulnerabili” ed individui decrescerà e pochi saranno radicalizzati all’estremismo violento e al terrorismo.

Questa teoria, ampiamente accettata dai politici occidentali, dai funzionari persino da analisti e dai media è vecchia di almeno una decade.

Benché questa “teoria di lavoro” abbia ottenuto un notevole consenso, contiene in se un serio problema: le evidenze (anche e soprattutto scientifiche) che la sostengono sono pochissime.

Le supposizioni su cui poggia sono generiche e, nel complesso, non sono basate sulla ricerca scientifica. Inoltre, la “teoria di lavoro contro-narrativa” riflette una più ampia gamma di supposizioni, particolarmente pronunciate tra i governi, circa i fattori causali della violenza estremista. In particolare, alcuni governi hanno l’abitudine di enfatizzare l’ideologia, specialmente l’ideologia che proviene da oltre mare, come la principale fonte della corruzione delle menti di coloro che abbracciano la violenza. Tralasciando altre circostanze o motivazioni, dalle ineguaglianze socio-economiche alla lusinga dell’avventura come principale bisogno umano di sopravvivenza, la spiegazione ideologica è nella migliore delle ipotesi una madornale semplificazione. Questa enfasi sull’ideologia assume anche che l’indottrinamento è il principale veicolo per quello che generalmente è definito radicalizzazione (che è per se un termine questo molto contestato), che trascura altri motivi ben dimostrati circa il cambiamento comportamentale come l’identificazione con un gruppo, la socializzazione e l’effetto dei conflitti civili.

Narrativa e storytelling

Nell’uso abituale, “narrativa” è un sinonimo ampio di “storia” (una serie narrata di eventi connessi) oppure “storytelling” (l’atto della narrazione), ma quando viene applicata al terrorismo/estremismo violento è spesso utilizzata in un senso molto più ampio, per significare (tra le altre cose) una spiegazione o una credenza o una visione del mondo. Alle volte appare essere quasi intercambiabile con “ideologia” nel senso di una serie sistematica di credenze (usualmente politiche). Alle volte “contro-narrativa” sembra a malapena un eufemismo per propaganda di stato: comunicazioni progettate per gli obiettivi politici di uno stato. Il problema con questo tipo di linguaggio è che è una fonte di confusione che ha effetti pratici nel mondo di tutti i giorni, nella realtà.

Mancando di una descrizione chiara e di una classificazione della comunicazione del terrorismo, la retorica associata con la “teoria di lavoro” di contro-narrativa confonde tutti su come potremmo contrapporci  al terrorismo nella sfera della comunicazione.

La narrativa non è il messaggio: una narrativa può contenere dichiarazioni, istruzioni o punti di informazione (messaggi) e un messaggio potrebbe essere costruito ingegnosamente in una forma narrativa, ma c’è confusione tra la forma ed il contenuto e questa confusione è estenuante. Ci impedisce di comprendere cosa stanno dicendo i terroristi e come lo stanno dicendo. Ci guida verso un’ossessione per la “contro-messagistica” online che assume che il testo terrorista è pura comunicazione ovvero contenuto senza forma ed è una quasi completa negligenza di come i terroristi utilizzano la narrativa e perché lo potrebbero fare.

I terroristi dopo tutto non sono impegnati nel business dell’intrattenimento, quindi perché non esaminare la loro propaganda come una forma di produzione letteraria?

Tanto per cominciare, i terroristi sono influenzati dalla letteratura che leggono. Che sia il terrorista norvegese di estrema destra A. Breivik che scopriva un aiuto ideologico nelle novelle di libertarismo radicale di Ayn Rand oppure Abu Bakr al-Baghdadi e la sua tesi di dottorato commento ad un poema del 12° secolo, i terroristi sono spesso consumatori di letteratura ed in alcuni casi possiamo essere molto sicuri che le loro letture modellano le loro azioni e le loro comunicazioni.

La dimensione culturale più ampia dell’estremismo violento sta avendo l’attenzione che merita, ad eccezione di qualche paese come l’Italia.

Lo studioso norvegese di terrorismo Thomas Hegghammer, per esempio, ha iniziato a dedicarsi a quello che i terroristi islamici fanno quando non stanno combattendo: “guarda all’interno di un gruppo militante, o di un esercito convenzionale – e vedrai tanti prodotti artistici e pratiche sociali che non servono un ovvio obiettivo militare. Pensiamo ad esempio ai richiami della cadenza dei marines americani, alle canzoni dei rivoluzionari di sinistra o ai tatuaggi dei neo-nazisti. Guarda all’interno dei gruppi jihadisti e vedrai uomini barbuti con i Kalashnikovs che recitano poemi, discutono di sogni e piangono regolarmente”.

Le azioni e certamente le visioni del mondo sono modellate dalla cultura, nel senso stretto di conquiste intellettuali ed artistiche. I terroristi sono produttori e consumatori di letteratura.

E come alcuni militanti sono anche poeti, molti altri sono anche scrittori e drammaturghi. Una delle figure più influenti nello sviluppo del contemporaneo jihadismo era il pensatore egiziano Sayyid Qutb che ha scritto diversi romanzi e lavori di critica letteraria, sebbene in seguito si sia spostato sulla politica religiosa radicale. Altri si sono rivolti alla letteratura come un’alternativa alla violenza ed altri ancora hanno utilizzato la letteratura come sostegno alla violenza.

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa è fondamentale per comprendere come i terroristi comunicano.

Nella ricerca di esempi di storytelling nella propaganda terroristica, il problema è l’abbondanza non la scarsità. Anche se confiniamo la nostra ricerca all’islamismo violento, la scelta è ampia. Uno dei più noti ideologi jihadisti, lo yemenita (cittadino americano) Anwar al-Awaki, ha prodotto dozzine di registrazioni audio dei suoi sermoni e delle sue lezioni molti dei quali sono esplicitamente in forma narrativa, con titoli come “storie dalle Hadith”, “la storia del toro”.

AQAP (Al Qaeda nella penisola arabica) di cui al-Awaki era il leader spirituale (è morto nel 2011), produce una rivista online in lingua inglese “Inspire” che regolarmente pubblica articoli in forma narrativa. Similmente, il magazine dell’IS Dabiq in lingua inglese è pieno di storie, dalle biografie dei suoi combattenti a racconti dal Corano o Hadith riprese e spiegate per giustificare le azioni del gruppo.

Gli approcci letterari critici hanno il potenziale di andare al di là delle limitazioni dell’analisi di scienza politica della propaganda dei terroristi come semplici portatori di un contenuto ideologico, o degli studi di comunicazione o degli approcci psicologici che enfatizzano la retorica e quindi la persuasione.

Vedendo la propaganda terrorista come un testo estetico, possiamo comprendere che loro lavorano in modi diversi dall’indottrinamento ideologico o della semplice persuasione.

La creatività dei terroristi è una fonte di richiamo di per se stessa. Autori come bin Laden, al-Awaki attirano seguaci non soltanto attraverso il carisma personale, o la persuasione  o adattando le loro narrative all’esperienza di vita dei loro seguaci, sebbene tutto ciò sia importante. Essi ispirano anche, ed è non è a caso che questo verbo particolare è il titolo della rivista di AQAP.

Riconoscere la dimensione estetica della propaganda terroristica rende più chiaro il suo contributo alla cultura terroristica (nel senso ampio di tradizioni e comportamenti così come nel senso stretto degli sforzi artistici e intellettuali): le risorse culturali disponibili ad un movimento violento sono necessarie per sostenere e dirigere un movimento tanto quanto lo sono le risorse materiali come le armi e il denaro.

La cultura modella l’ideologia e nel cercare le spiegazioni per il comportamento dei terroristi dovremmo porre attenzione all’eredità culturale. Questo dovrebbe essere evidente anche dagli studi più particolareggiati sulle affermazioni dei terroristi: i temi che si ripetono, ma anche le figure del discorso e l’utilizzo di alcuni  verbi particolari.

In altre parole, possiamo vedere l’emergere di generi di produzione terrorista, in una tradizione distinguibile della narrativa estremista islamista da bin laden a al-Awlaki a Dabiq.

Tornando alla controversa “teoria di lavoro” di contro-narrativa, il riconoscimento della forma letteraria e della funzione della propaganda terroristica potrebbe farci ragionare meglio  prima di investire scarse risorse in attività che potrebbero essere nel migliore dei casi futili e al peggio controproducenti.

Se il richiamo di un testo è più complesso e sottile che il messaggio che contiene, ne segue che non possiamo semplicemente combatterlo attraverso una più accurata ricusazione.

La sfida è nell’utilizzo di risorse emotive ed estetiche di storytelling e non solo fare appelli alla ragione o all’interesse personale.

Non facciamo certo un favore a noi stessi rifiutandoci di cogliere il richiamo della propaganda terroristica o riducendo il discorso dei terroristi a una semplicistica serie di messaggi.

Non è un caso che gli ideologi terroristi possedevano (e posseggono) qualità creative e letterarie in abbondanza: la loro influenza (vedi bin laden) è derivata dalle loro conquiste come autori e storyteller.

Se potessimo accettare questo punto, restringendo le risposte quelle focalizzate sull’ideologia, che si affidano a strategie di respingimento e cercano solo di persuadere, probabilmente otterremmo quell’efficacia che queste ultime strategie non hanno.

I decisori politici dovrebbero guardare al di là dei loro strumenti di comunicazione strategica, di diplomazia pubblica, delle campagne sui social media e riscoprire il potenziale della produzione culturale, inclusa la letteratura, offrendo un’alternativa alla seducente creatività dei gruppi violenti.

Maggio 23 2017

Terrorismo internazionale: la gestione della paura

terrorismo

Dopo quasi 20 anni di ricerche e studi sul terrorismo e sul terrorismo internazionale non esiste una risposta generalmente accettata alla domanda: “cosa è il terrorismo e qual è l’essenza di questo fenomeno?”.

Nondimeno molti studiosi e specialisti sarebbero probabilmente d’accordo nell’affermare che:

il terrorismo è uno strumento che, attraverso le minacce e gli attacchi, mira a generare paura ed ansia; vuole intimidire le persone allo scopo di ottenere alcuni obiettivi politici.

La maggior parte delle definizioni formulate dai governi, piuttosto che da organizzazioni regionali, ricordano  l’opinione di Brian Jenkis, che nel 1975 argomentava:  “il terrorismo è teatro. Ai terroristi piace vedere tanta gente che guarda (e tante persone morte)“.

Il terrorismo mira a provocare reazioni a certe minacce o attacchi da parte di terze parti: il pubblico in generale, politici, gruppi di opposizione, media.

Il livello della paura non dipende solamente dai terroristi e dalla forma e portata del loro utilizzo della violenza.

L’impatto di ogni attività terroristica è il prodotto della percezione, immaginazione e vulnerabilità delle audience obiettivo o diversamente da parti coinvolte.

La paura non dovrebbe essere considerata solamente come una reazione negativa alle minacce e agli attacchi. Infatti la paura del pericolo è una emozione molto naturale ed utile. La paura è un meccanismo di sopravvivenza. La paura del terrorismo può incoraggiare persone a intraprendere le necessarie precauzioni e azioni. Ma se la paura del terrorismo non è proporzionata alla minaccia attuale, potrebbe avere molte conseguenze non necessarie e non volute. A questo proposito ci vengono in aiuto due prominenti studiosi Bekker e Veldhuis, i quali asseriscono che la paura del terrorismo causa uno spostamento verso un ragionamento dogmatico (assolutista) che è caratterizzato dal pensiero “noi contro loro”, stereotipi, discriminazione e una mancanza di sfumatura che contribuiscono a reazioni rigide di difesa del sistema che potrebbero più nuocere che fare del bene.

Gli attacchi terroristici contribuiscono alla diffusione della paura nella società più vulnerabile e a reazioni eccessive emotive, politiche o amministrative. Ad esempio, spesso essi conducono ad una preferenza per leader orientati all’azione con spiegazioni del terrorismo banali e sensazionali  e appelli all’azione immediata.

Il sociologo Frank Furedi, riferendosi in particolare agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, asserisce che le società occidentali oggi sono paralizzate da una “cultura di paura” e sono prese nel cosi detto “paradigma della vulnerabilità”. Furedi sottolinea anche la nozione di terrorismo non solo si riferisce all’attacco in se ma definisce equamente anche il modo in cui la società risponde ad esso: “società che comprendono chi sono e che hanno un senso di solidarietà usualmente gestiscono un atto di terrore molto meglio di quelle società dove le cose sono confuse e dove non c’è una storia su chi sono”. Sempre secondo Furedi nelle società occidentali il copione culturale contemporaneo presenta il terrorismo come una minaccia incombente, simile alle catastrofi naturali. La conseguenza di questa presentazione è altamente ambivalente e paradossale. Da una parte, questa attitudine fatalistica diffonde un senso di impotenza; dall’altra suggerisce che solo con massicci dispiegamenti di forze e con un contributo gigantesco di risorse si può forse ridurre la minaccia apocalittica. Per Furedi, l’occidente perciò sta offrendo ai terroristi un “invito al terrore”. Gli studi di Furedi pur criticati offrono tuttavia una chiara analisi delle conseguenze di questa cultura del terrore: la combinazione del fatalismo e le reazioni esagerate.

La gestione della paura

I meccanismi di adattamento (ad eventi come un attacco terroristico) sono individuali, operano principalmente attraverso funzioni psicologiche personali. A. Schmid (uno dei maggiori studiosi di terrorismo) ha argomentato che il grado in cui un individuo o un gruppo è colpito e subisce l’influenza dalla paura dipende da un certo numero di fattori “oggettivi”:

  • la fonte del terrore;
  • la probabilità che un evento che induce terrore si ripeta ancora;
  • l’oggetto della vittimizzazione primaria (per esempio un membro della famiglia o di un gruppo) e la relazione ad esso;
  • le fasi dell’evento produttivo del terrore e,
  • l’abilità o inabilità di evitare, prevenire e combattere situazioni che sono prone al terrore nel futuro.

Alcuni di questi fattori sono plasmabili dagli strumenti di sicurezza.

Politiche efficienti di contro-terrorismo possono mirare a ridurre la probabilità di eventi che inducano terrore e migliorare la loro abilità di prevenire, evitare e combattere situazioni di questo genere. Per questo:

la gestione della paura dovrebbe essere considerata seriamente quando si progettano e si realizzano le politiche di contro-terrorismo in generale,

sia che siano relative al procedimento penale, alla raccolta di informazioni di intelligence, alle misure di prevenzione.

Il pubblico presumibilmente avrà una reazione più forte ed una percezione del rischio dopo incidenti terroristici rispetto ad altri eventi di crisi. Questo è dovuto all’intenzionalità e all’incertezza che accompagna questo tipo di eventi. L’intensa copertura mediatica di attacchi terroristici internazionali e i frequenti allarmi di politici su futuri attacchi forniscono una continua ed incessante esposizione all’ansia e alla paura.

I governi potrebbero non essere i fornitori dell’immaginario ma possono  ugualmente influenzare l’impatto sociale di attacchi terroristici .

Non è una novità statuire che il terrorismo è comunicazione.

Tutte le misure di contro-terrorismo sono anche mezzi di comunicazione e identificazione e le reazioni in gran parte determinano l’impatto sociale delle azioni dei terroristi, specialmente se consideriamo ciò in un contesto socio-politico più ampio e in un periodo di tempo più lungo.

L’impatto sociale non è qualcosa che i governi possono condurre appieno lasciati da soli, per conto proprio.

Invece, l’impatto sociale nel 21° secolo è una questione principalmente di copertura mediatica.

L’opinione pubblica è per lo più influenzata dai media e da immagini coinvolgenti dei drammatici atti terroristici che disseminano. I governi hanno il monopolio sull’uso della violenza e sono gli attori ai quali i cittadini si rivolgono in tempi di crisi nazionale.

Tuttavia proprio i governi spesso alimentano queste crisi e le utilizzano per promuovere le proprie agende politiche e militari. Essi amplificano il “panico morale” in società con metafore militari (“noi siamo in guerra”) o al contrario, esercitano un’influenza enfatizzando e facendo appello alla resilienza sociale in una data società.

 

Le misure di contro-terrorismo nel quadro della gestione della paura

Le misure di contro-terrorismo devono avere un elemento di comunicazione e devono trattare con il pubblico e le sue percezioni. Esse devono avere un effetto comunicativo che vada al di là degli strumenti espliciti ed intenzionali. Ogni azione di contro-terrorismo anche quella condotta a livello locale, per strada, può essere un punto strategico sulla “guerra dell’influenza” tra i terroristi e lo Stato. Affermazioni e discorsi posso anche loro avere un profondo effetto, comunicando alla società o anche al mondo “a cosa teniamo”. I terroristi sono più a conoscenza di ciò rispetto ai governi.

La maggior parte delle buone pratiche e delle lezioni apprese concerne la gestione pratica della crisi piuttosto che un più sofisticato approccio di gestione della paura socio-psicologico. Sebbene ad esempio il concetto di resilienza– 

*uno dei più importanti concetti nel dibattito sull’impatto del terrorismo sulle politiche e la società. Il concetto di resilienza ha le sue radici nel ingegneria civile nella psicologia e nell’ecologia. In breve, esso indica la capacità di materiali, persone, organismi a resistere improvvisamente a cambiamenti o stress, così come la capacità di riprendersi e ritornare alla situazione come prima. Dalla prospettiva di legislazione di contro-terrorismo, resistenza e resilienza potrebbero essere delle importanti capacità per affrontare l’impatto negativo (o la paura del) terrorismo da parte di individui e società nel complesso.

– e la circostanza che terroristi che attaccano società resilienti troverebbero più difficoltoso avere un impatto e raggiungere i loro obiettivi, sono abbastanza diffusi, è ancora aperta la sfida di trasformare questi concetti e le buone pratiche in una teoria e un modello di gestione della paura.

Consideriamo allora che un ipotetico modello di gestione della paura comprenda gli sforzi compiuti da istituzioni governative, prima durante e dopo situazioni di emergenza e di recupero che riguardano una minaccia/attacco terroristico per manipolare il capitale umano in una società per migliorare i meccanismi di adattamento positivi, collettivi.  Dunque sono tre gli elementi importanti che dovrebbero essere presenti in ogni manuale o in ogni strategia:

1. Non rafforzare i meccanismi di adattamento negativi;

sforzi di contro-terrorismo potrebbero involontariamente rafforzare meccanismi di adattamento negativi mobilitando il pubblico attorno ad immagini di paura, estendendo la retorica allo spettro del terrorismo, di far saltare in aria la minaccia e progettare una situazione simile alla guerra nella società. Una esagerazione di questo tipo della crisi potrebbe far aumentare sentimenti di impotenza, paura, e rabbia che alimentano la polarizzazione attorno a linee culturali, etniche, religiose all’interno della società.

2. Influenzare i meccanismi di adattamento positivi;

modi positivi di adattare il comportamento e le attitudini e minimizzare lo stress possono essere influenzati attraverso a) la diretta informazione e l’assistenza alle vittime e la misura in cui i funzionari di governo forniscono al pubblico una immagine chiara di quello che sta accadendo, danno un “senso” all’incidente e forniscono un “significato” ad esso in una maniera positiva, aumenta le capacità di risoluzione di problemi degli individui e potrebbe ridurre lo stress e i sentimenti di trauma. b) Organizzazione di eventi significativi positivi come assemblee, cerimonie, riti (religiosi): direttamente dopo un trauma, la “condivisione sociale” è legata a una emozione positiva perché riafferma i valori di ciascuno e aiuta a focalizzarsi su questi valori mentre ci si adatta all’impatto dell’evento stressante. c) L’organizzazione di atti visibili di giustizia: come forma di educazione psicologica e che abbia un senso, ad esempio un processo equo e trasparente può giocare un ruolo significativo nell’aiutare le persone a superare un terribile crimine.

3. Fornire auto-efficacia.

Le persone non vogliono essere delle semplici vittime o passanti, ma generalmente esprimono il desiderio di essere capaci e volenterosi nel fare qualcosa o almeno una cosa giusta e non essere lasciati in balia dei perpetuatori dell’attentato. Innescare questi meccanismi di adattamento positivi aumenterà la resilienza di una popolazione e potrebbe aiutare ulteriormente a ridurre la possibilità di paura eccessiva, reazioni esagerate e tensioni.

Studiando modi e mezzi per diventare più resilienti è la via più efficace per evitare di soccombere ai tentativi di altri di controllarci attraverso la paura.

 

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.