Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.
A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché ciòche ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.
Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.
Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.
In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.
Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.
In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.
In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.
I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.
Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.
In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.
A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.
Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.
Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.
Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.
Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.
Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.
Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.
Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.
La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.
Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.
Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.
Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.
Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.
Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.
Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.
Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.
Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.
Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.
Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.
Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.
Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.
“On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”
dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.
Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.
Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.
Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.
Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.
A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.
A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.
Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.
Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.
Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.
La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.
Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.
Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.
Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico
Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.
Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.
Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.
L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.
Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.
Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.
The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,
scrive Arwa Damon
Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche leemozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.
Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.
Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.
Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.
Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.
In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .
Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.
Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.
Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?
La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.
Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.
L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.
La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.
Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.
Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.