Febbraio 28 2022

Ucraina: la guerra ibrida

guerra ibrida

La visione del mondo europea-atlantica, particolarmente riguardo alla legittimità popolare e alla sovranità nazionale, è incompatibile con il “putinismo”. E dato il revanscismo che Putin abbraccia, è chiaro che è una strada senza uscita quella di stabilire una “linea di controllo” all’interno dell’Europa tra l’occidente e quello esso vede come la sfera di interesse della Russia.

È anche possibile che Putin continuerà ad apporre pressioni e a saggiare ulteriormente dove questa linea finirà con l’essere disegnata, e possibili luoghi per farlo non mancano: Bosnia, Moldavia, i più ovvi.

Da dove possiamo partire per tentare di comprendere le tensioni tra Russia e Ucraina?

Deterrenza e diplomazia coercitiva, sono concetti necessari per capire le tensioni tra Russia, Ucraina, Stati Uniti e NATO. Deter è un termine inglese, utilizzato anche in italiano, la cui traduzione più corretta è dissuadere –

La deterrenza è passiva nel suo orientamento. Essa è intesa a prevenire un’azione non ancora intrapresa ed iniziata, sia mostrando che quell’azione è destinata a fallire o che i costi che ne risultano sono significativamente più grandi di ogni beneficio che può essere ottenuto. L’obbligatorietà è più complicata. Essa implica l’ottenere dall’altra parte di fare qualcosa – o iniziare un’azione che altrimenti non sarebbe stata scelta o cambiare il corso di un’azione che è stata già iniziata. Ciò può essere compiuto attraverso minacce, incentivi o una mescolanza di entrambi.

In breve, ogni Paese nel mondo, a prescindere dal suo sistema politico o dai suoi valori, cerca di distogliere altri Paesi dall’intraprendere azioni che esso vede nocive per i suoi interessi nazionali, mentre si adopera ad ottenere influenza che obbligherà altri Paesi ad essere ricettivi delle sue richieste. Allo stesso tempo, per proteggere la sua propria indipendenza e la libertà di azione, cercherà di minimizzare le capacità degli altri di utilizzare la deterrenza e la obbligatorietà contro di esso. Alcuni Paesi possono generare un sufficiente potere di deterrenza e obbligatorietà per le loro proprie risorse, mentre altri potrebbero aver bisogno di mettere assieme una coalizione o cercare un’alleanza protettiva con un alleato più forte.

Deterrenza nella definizione classica di Thomas Schelling, risiede nella capacità che uno Stato deve avere per dissuadere (deter) un altro stato, deve comunicare l’esistenza di queste capacità e deve dimostrare l’impegno ad utilizzare queste capacità nell’eventualità che “linee rosse” precedentemente comunicate siano state oltrepassate.

Obbligatorietà richiede avere sufficienti risorse necessarie per la persuasione – una forza militare capace di imporre costi oppure le risorse economiche per comperare consenso. In entrambi i casi, i leader politici devono calcolare quanto sono desiderosi di spendere e di rischiare in linea con gli obiettivi che ritengono siano i più importanti e vitali per gli interessi del loro Paese, o alle volte, per la sopravvivenza. Applicazioni di successo della deterrenza e della obbligatorietà possono accadere quando, i fini strategici sono bilanciati con i mezzii che saranno utilizzati per raggiungerli. (questa l’ha detta Walter Lippman)

La crisi Russia – Ucraina è parte di un processo più grande di negoziazione, il risultato del quale lo vedremo all’aumentare del potere della deterrenza e della obbligatorietà da una parte e la diminuzione dall’altra.

In superficie questa crisi sembra quasi assurda. Da una parte la Russia che non vuole vedere l’Ucraina ammessa nella NATO. Dall’altra, malgrado la consapevolezza nei mesi passati che l’appartenenza alla NATO per l’Ucraina non è una possibilità realistica nel breve termine, i leader della NATO hanno rifiutato di chiudere formalmente la porta allo stato di membro dell’Ucraina, per evitare di ammettere il principio che ogni Paese europeo abbia il diritto di scegliere i suoi propri accordi di sicurezza.

Esaminando più attentamente la crisi, essa si trova in una complessa configurazione di obiettivi di sicurezza nazionale.

La visione della Russia è che il collasso dell’Unione Sovietica ha condotto ad un collasso analogo del potere di deterrenza e obbligatorietà di Mosca, particolarmente nella sfera militare.

Nel 2008 ed ancora nel 2014, la Russia ha segnalato che non avrebbe più accettato passivamente espansioni, utilizzando impegni militari limitati contro la Georgia e l’Ucraina, per alzare i costi di essere pienamente integrati nella comunità euro-atlantica al di là di un livello accettabile. Oggi la Russia è ancora impegnata nella diplomazia coercitiva per obbligare Kyiv e i suoi alleati occidentali ad accettare un compromesso in cui l’Ucraina resta al di fuori della comunità occidentale.

Per sua parte, l’Ucraina, nelle successive amministrazioni di Poroshenko e Zelensky, ha visto un più stretto allineamento con l’Occidente per controbilanciare gli avanzamenti militari russi. In parallelo, come ulteriore deterrenza contro una potenziale aggressione russa, Kyiv ha cercato di preservare la sua importanza come Paese transito chiave per il gas naturale per raggiungere i mercati europei.

La vendita di energia russa ai clienti europei resta un importante fonte di guadagno per lo Stato russo e nella misura in cui Mosca spera di preservare questo guadagno, potrebbe evitare di danneggiare l’infrastruttura di gas con l’invasione militare. Gli interventi militari in Ucraina nel 2014-2015 nella regione del Donbass hanno avuto luogo lontano dall’infrastruttura per il transito energetico che connette la Russia all’Europa.

Per rafforzare questo deterrente energetico contro la Russia, l’Ucraina vuole che i suoi partner europei chiudano i progetti di transito energetico che aggirano il territorio ucraino e Kyiv ha sollecitato Washington a sostenere questo obiettivo. Per parte loro la Germania, l’Ungheria e la Turchia, tra gli altri, hanno cercato di disconnettere la loro propria sicurezza energetica dalla crisi ucraina.

L’approccio russo combina le minacce militari all’Ucraina con la politica energetica disegnata per disconnettere l’Europa dalle forniture energetiche dal territorio di sicurezza ucraino.

A sua volta l’Ucraina sta cercando la protezione militare dall’occidente, mentre cerca di tenere le forniture energetiche connesse al suo territorio di sicurezza.

Spesso pensiamo che la deterrenza sia ragionevolmente stabile e che duri per decadi, come lo stallo tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Ma nell’odierna crisi in Europa, la deterrenza è tutto fuorché stabile. Essa è cambiata nel corso del tempo e continuerà a farlo; questo a sua volta sta plasmando le scelte strategiche di tutte le parti coinvolte.

Se la Russia non è stata dissuasa dall’attaccare oggi, e se l’Occidente non accetta un accordo imposto sull’Ucraina da Mosca, Kyiv potrebbe essere in una posizione, per la fine della decade di esercitare un più alto grado di obbligatorietà contro la Russia. Questo potrebbe dire, ad esempio, riprendere il territorio perso nel Donbass senza accettare alcun accordo di federalizzazione come immaginato negli accordi Minsk-2, così come procedere con la sua traiettoria verso l’appartenenza alla NATO e all’UE. In altre parole, dissuadere Mosca nel breve termine potrebbe creare le condizioni per l’erosione delle capacità di obbligatorietà russe nel lungo termine.

Gli Stati Uniti sono concentrati di più sulla competizione strategica con la Cina e sul centro di gravità economico e strategico mondiale che sta continuamente muovendosi verso la regione indo-pacifica quindi l’amministrazione Biden o i suoi successori potrebbero nel corso del tempo essere più propensi ad un compromesso sull’Ucraina: accettare una cintura di Stati neutrali tra i mondi euroatlantici ed euroasiatici. Perciò una strategia russa di obbligatorietà, attraverso una via militare coercitiva e la diplomazia economica, potrebbe creare la condizione dove la Russia si sente meno dissuasa dall’Occidente.

Sfortunatamente, mentre si concorda sulla semplicità di questi concetti fondamentali di sicurezza nazionale in teoria, trovare un modo affinché guidino complesse interazioni sul terreno è molto molto più difficile.

Sembra ovvio che una nuova e innovativa iterazione di una dinamica di Guerra Fredda sia inevitabile, quale forma assumerà è molto difficile da immaginare, date le complesse interdipendenze economiche e politiche che legano le due parti.

Questa nuova Guerra Fredda ovviamente era in divenire molto prima della crisi ucraina, e non puramente sull’asse Russia – NATO. La rivalità Stati Uniti – Cina aveva già inspirato la retorica della Guerra Fredda, e sarà presumibilmente la dinamica più significativa che plasmerà il sistema internazionale e la costruzione di sfere di influenza in competizione nelle prossime decadi.

Cosa ci dicono queste prime schermaglie è che questa nuova Guerra Fredda sarà ibrida, con un focus molto sulle armi non cinetiche e tattiche così come sulla forza militare tout court.

Il numero delle crisi protratte che si sono generate nelle passate due decadi, molte delle quali non possono essere risolte in assenza della cooperazione multilaterale, rendono tutte molto imperativo che la nuova Guerra Fredda non si intensifichi nel tipo di contesti proxy e congelino il peacemaking.

Cosa ci suggeriscono gli strumenti e le armi che sono prominenti nell’odierno stallo geopolitico sulla forma del conflitto in divenire?

La minaccia posta dalle armi nucleari non è assente, ovviamente. Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina hanno ancora arsenali nucleari in ottimo stato e sistemi in grado di utilizzarle anche più avanzati di quelli della fine della Guerra Fredda. Ma per ora, le armi nucleari non sono state uno strumento di definizione della competizione.

I principali poteri ovvero le armi per gli Stati Uniti e la Cina sono la loro dominazione dei nodi chiave nel sistema globale politico ed economico, che concede loro la determinazione dell’agenda ed il potere che detengono sul controllo, così come la capacità di armare l’interdipendenza globale. Oggi, questo posizionamento è più significativo dei loro arsenali nucleari in termini di permettergli di demarcare le sfere d’influenza e plasmare le dinamiche di potenze globali.

La Russia a questo riguardo ha meno potere da brandire. Tuttavia, la maniera in cui ha fatto leva sul suo veto alle Nazioni Unite, la sua abilità di proiettare una forza di spedizione e la legittimità dell’industria militare sovietica gli permettono di competere su scala globale per l’influenza e le risorse, e di bloccare altri dal farlo.

La Russia non ha un monopolio sulle tattiche militari a cui si affida – dal dispiego dei piccoli “uomini verdi” all’utilizzo della cattiva informazione, gli attacchi cyber, gli alleati proxy nelle zone di interesse occidentali. Pur tuttavia Mosca può dispiegarli in molte arene simultaneamente in modi in cui pochi altri possono.

Solo nello scorso anno, la Russia ha utilizzato queste tattiche per guadagnare influenza e irritare gli interessi occidentali in Sahel, Libia, Siria, Sudan, Balcani e, ovviamente, in Ucraina.

Considerato nel complesso, il tipo di armi e tattiche che gli Stati Uniti, la Cina, la Russia stanno impiegando rappresentano un’aggregazione di potere politico, di capitale economico e militare con cui poche altre nazioni possono competere. Ciò potrebbe rendere più difficile raggiungere la deterrenza e la distensione.

Il segnale che è necessario affinché la deterrenza sia credibile ed efficace è più difficile nel contesto della guerra proxy, cyber e ibrida, dove gli attori, le tempistiche ed anche gli attacchi stessi sono più difficili da leggere.

Ciò rende più difficile contenere le minacce, diminuirle, e la natura ibrida del conflitto – con il suo concentrarsi sulla competizione economica, politica e sociale e sulla forza militare – rende più probabile che i civili e gli altri attori neutrali siano travolti in (e da) esso.

Dal momento che queste nuove leve ibride di potere sono inconfutabili, relativamente comuni e possedute da attori al di là degli Stati in questione, ci potrebbero essere più vie di distruzione. Diversamente dal 1945, viviamo in un mondo dove le imprese private, gruppi violenti erranti, giocatori regionali minori, movimenti popolari di protesta e anche pirati informatici hanno la capacità di frustare le ambizioni delle super Potenze globali.

Un attore di cui non si parla spesso: la Turchia

La Turchia si trova tra l’incudine ed il martello. Non vuole essere l’antagonista della Russia, con la quale condivide interessi strategici vitali, ma ha necessità di mostrare il suo sostegno all’Ucraina e ai suoi alleati NATO. Ciò ha spinto la Turchia a camminare su un diplomatico e calibrato filo sottile di seta.

Erdogan ha visitato Kyiv il 3 febbraio 2022 proclamando il suo sostegno alla sovranità ucraina, reiterando la sua opposizione all’annessione della Crimea e firmando un accordo di libero scambio per segnalare l’impegno turco nella relazione di lungo termine con l’Ucraina. Tutto ciò, ovviamente è stato bilanciato da un’offerta per disinnescare la situazione convocando un incontro trilaterale con Putin, il presidente ucraino Zelensky ad Ankara o Istanbul. Erdogan continua a proporre questa via a Putin.

Le aperture diplomatiche di Erdogan, l’urgenza e l’importanza, sono comprensibili dal momento che Ankara ha affondato la sua mano economica in Ucraina e che tutto quello che sta avvenendo potrebbe regalarle il ruolo di uno dei principali perdenti economici. Nel 2021, la Turchia è diventata il più grande investitore in Ucraina, con investimenti in eccesso di 4 miliari di dollari. Vi sono al momento più di 700 imprese turche che operano sul terreno. Nei passati 5 anni, le esportazioni turche in Ucraina sono quasi raddoppiate a 2.6 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono salite da 2.8 miliardi di dollari e 4,4 miliari di dollari.

La cooperazione bilaterale si sta muovendo particolarmente rapidamente nei settori della difesa e dell’aerospazio. Dal 2019 Kyiv ha acquisito una stima di una dozzina di droni Bayraktar. La marina ucraina ha anche ordinato due corvette MILGEM Ava-class, che saranno prodotte congiuntamente sul territorio turco e sul territorio ucraino. Le due parti hanno già firmato un accordo per costruire infrastrutture di addestramento e manutenzione per i droni turchi in Ucraina, a ciò è seguita la firma di un accordo per la produzione congiunta della prossima generazione di droni che farà leva sulla tecnologia avionica turca e sui motori a reazione ucraini.

La Turchia comprende molto bene che un cambio di regime in Ucraina metterebbe questi investimenti e le relazioni commerciali strategiche a rischio. Tuttavia, lo spazio di manovra della Turchia è in qualche modo limitato e la sua influenza diplomatica nel risolvere questa crisi è modesta.

Potrebbe esserci la possibilità che Erdogan e Putin possano far funzionare le cose malgrado gli ostacoli. Loro, dopo tutto, si sono perfezionati nell’arte della “geopolitica di vendita” – l’abilità di fare dei micro-accordi anche quando sono in disaccordo sul quadro più grande. Questo modo di fare affari è andato relativamente bene in vari teatri dalla Siria, alla Libia, al Caucaso. Questo potenzialmente spiega perché la Turchia permette alle sue compagnie di commerciare con la Crimea e l’Abcasia, malgrado la sua posizione ufficiale in sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina e della Georgia. Vi sono poche ragioni per aspettarsi che l’Ucraina cambi il nome del gioco tra Ankara e Mosca.

Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.

Novembre 20 2018

La fragile democrazia nell’Europa centrale e dell’est

Europa centrale

La democrazia è fragile nei Paesi post-comunisti dell’Europa centrale e dell’est, dove lo spettro dell’autoritarismo e della corruzione sta crescendo. Anche secondo le migliori delle condizioni, la “costruzione della democrazia” è difficile ed incerta.

L’esperienza storica mostra che il fallimento è molto più comune del successo, anche in periodi in cui la democrazia liberale ha pochi rivali.
Le trasformazioni dei Paesi dell’Europa centrale e dell’est successive al 1989,  dal comunismo alla democrazia, sono spesso presentate come un modello di democratizzazione di successo. Malgrado l’iniziale pessimismo circa la prospettiva di stabilire una democrazia liberale, diversi Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno sviluppato consolidati sistemi democratici, delle economie di mercato funzionanti, degli Stati democratici efficienti con politiche di benessere estese e con un grado di ineguaglianza relativamente basso.

Inoltre, le conquiste politiche ed economiche si sono poste in aspro contrasto con i fallimenti di altri Paesi post-comunisti. Malgrado le iniziali speranze e le reali vittorie politiche, una maggioranza di questi Paesi o sono ritornati all’autoritarismo o hanno perseverato in uno Stato semi-riformato e non consolidato.

Quali sono le cause di queste strade così divergenti?

Perché alcuni Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno avuto successo mentre altri incarnano i fallimenti delle politiche e delle economie dell’Europa dell’est?

I Paesi dell’Europa centrale e dell’est sono, ora, una cornice centrale nella battaglia globale tra la democrazia liberale e l’autocrazia.

Pochi Paesi hanno visto la democrazia perdere terreno costantemente come nel caso dell’Ungheria. È qui, con l’arrivo al potere del Primo Ministro Viktor Orban e del suo partito Fidesz, che le speranze per un’espansione inarrestabile della democrazie nei Paesi post-comunisti si è infranta in maniera decisiva. Orban ha costruito il sostegno per le sue politiche nazionaliste ponendo in risalto le questioni dell’identità e offrendo al suo pubblico una potente arma: “la paura per gli estranei”.
Nulla ha fortificato le credenziali nazionaliste del Primo Ministro ungherese più delle sue virulente filippiche anti-migranti e le politiche in risposta all’ondata di rifugiati (per la maggior parte musulmani) arrivati in Europa come conseguenza della guerra in Siria, che Orban chiama “invasori musulmani”.
Un’altra importante componente dell’erosione ininterrotta della democrazia liberale in Ungheria è stata la campagna (velata) di Orban di cooptazione dei media indipendenti. Un esempio esplicativo di come è stato possibile ciò è accaduto in un sabato mattina dell’ottobre del 2016, quando il sito web Nepszabadsag, il massimo quotidiano politico ungherese e una delle sue pubblicazioni di lunga data, sono state messe offline. Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, il sito web è tornato online con un messaggio che annunciava la sospensione della pubblicazione. Due settimane dopo Nepszabadsag è stato venduto e il giornale è stato chiuso poco dopo. La chiusura di Nepszabadag è il momento di svolta per il panorama dei mezzi di comunicazione ungheresi.
Accanto all’Ungheria, vi è la Polonia, che è stata, recentemente, accusata di utilizzare le riforme giudiziarie e i regolamenti statali in materia di comunicazione per infrangere i principi della democrazia liberale.

L’Unione Europea ha iniziato a percorrere dei passi verso il contrasto alle ricadute anti-democratiche negli Stati membri dell’Europa centrale e dell’est. Nelmaggio di quest’anno, le proposte di budget di lungo termine, ampiamente anticipate, per il 2021-2027 includeva piani per un “legame rafforzato tra i finanziamenti dell’Unione Europea e lo Stato di diritto”. Sebbene non sia stato incluso un riferimento a Paesi specifici, la proposta è stata vista come avere esattamente ad obiettivo la Polonia e l’Ungheria, i cui governi populisti e nazionalisti si sono impegnati negli ultimi anni in ripetuti battibecchi con Bruxelles su tutto: dalla libertà di stampa al trasporto del legname. La Polonia e l’Ungheria, tra le altre nazioni nell’Europa centrale e dell’est, hanno beneficiato grandemente dei finanziamenti dell’Unione Europea, che li hanno aiutati a migliorare le infrastrutture e a sostenere gli investimenti.

Le ultime tensioni ci suggeriscono che ogni riavvicinamento conterrà dei limiti.

Giugno 21 2018

La politica internazionale non è la politica da comizio: migrazioni e diversità

diversità

Quando si tratta di soluzioni di lungo termine per le sfide che le migrazioni pongono all’Europa (e anche agli Stati Uniti), l’atteggiamento è scoraggiante e il compito di valutare le colpe e le responsabilità diventa più complicato.

Il flusso migratorio a cui spesso ci si riferisce come la “crisi europea dei rifugiati” raggiunse il culmine nel 2015, quando più di un milione di rifugiati e di migranti (per il significato di questi termini vi rimando ad un mio precedente post) scapparono a seguito dei conflitti nel Medio Oriente e per le condizioni disperate in Africa. Ma la migrazione di massa e le tensioni sottostanti che hanno investito gli Stati membri dell’Unione Europea (UE) sono iniziate un anno prima. L’UE è stata  incapace di formulare una politica che ridistribuisse quel carico.

I politici che giocano con le paure del pubblico demonizzando gli immigrati non sono più marginalizzati. Invece essi sono nella posizione di isolare le frontiere, come hanno promesso.

Ciò è accaduto, in parte, a causa della mancanza di priorità accordata a tale problema, prima del 2015 proprio in seno all’UE, che era molto più preoccupata di pasticciare la sua risposta alla crisi del debito europeo.

Fin qui potrebbe essere uno dei miei post abituali dove cerco di offrire al lettore degli spunti in più per guardare il mondo dalla prospettiva di politica internazionale. Ebbene, questo post invece sarà strutturato diversamente, perché i dibattiti che si svolgono in Italia sulle migrazioni, sull’Aquarius, e sulle etnie stanno raggiungendo dei toni davvero scoraggianti.

Se non mi spaventavano i commenti “avanti tutta!” alle dichiarazioni del Ministro dell’interno italiano  in merito alla chiusura dei porti, resto addirittura basita dagli attestati di stima, sempre indirizzati al Ministro dell’interno, su presunti censimenti dei rom. Ma procediamo con ordine. 

Se mi chiedete cosa ne penso della questione dell’Aquarius, vi argomenterei la risposta partendo da:

I limiti del diritto del mare

Gli oceani e i mari sono divisi in SRR (Search and Rescue Regions), la responsabilità di ciascuna di esse ricade nello Stato costiero. La Convenzione SAR (Search and Rescue) richiede agli Stati costieri di stabilire dei servizi di ricerca e recupero all’interno della loro propria SRR. Inoltre, essi debbono assicurare che avvenga il coordinamento e la cooperazione allo scopo di sbarcare le persone soccorse nella loro SRR, in un luogo protetto. Tuttavia non si è mai raggiunto un accordo su una norma generale che predeterminerebbe il porto specifico per lo sbarco per ciascun incidente. L’unico chiarimento introdotto dall’emendamento del 2004 alla Convezione, è che lo Stato nella cui SRR avviene l’operazione di soccorso, assume la giuda nel trovare uno Stato preparato ad accettare lo sbarco. Malta ha sempre obiettato all’emendamento del 2004 per cui non è obbligata da esso.

I 629 migranti a bordo dell’Aquarius sono stati soccorsi in una parte del Mar Mediterraneo e nessuno Stato si è assunto de jure la responsabilità per il coordinamento del SAR. La Libia, lo Stato più vicino, non ha ancora, ufficialmente, stabilito la sua SRR e neppure aperto il Centro di Coordinamento per il soccorso in mare. De facto, l’Italia ha riempito questo vuoto coordinando gli eventi SAR  nella “Regione libica di ricerca e soccorso”. Anche se ciò ha reso l’Italia lo Stato responsabile secondo la Convenzione SAR, ne consegue solo che avrebbe dovuto prendere la guida nel trovare un porto per lo sbarco. Non avrebbe, tuttavia, posto l’Italia nell’obbligo di permettere lo sbarco nel suo territorio.

Proseguirei con: 

I limiti del diritto internazionale dei diritti umani

Dati i limiti del diritto del mare, le 629 persone soccorse potrebbero ricorrere al diritto internazionale dei diritti umani, argomentando che non gli è stato consentito l’accesso ai porti e dunque che l’Italia e Malta abbiano violato il loro diritto alla vita.

Tuttavia, gli Stati hanno obblighi di protezione dei diritti umani solo nei confronti di quegli individui che si trovano all’interno della giurisdizione di quello Stato. In Alto mare, gli Stati hanno considerato di esercitare la giurisdizione quando funzionari dello Stato fossero fisicamente presenti in un particolare incidente e perciò esercitassero un controllo effettivo sugli individui in cerca di protezione. Alla luce di ciò, le navi statali italiane e maltesi hanno navigato verso l’Alto mare per prevenire fisicamente che l’Aquarius si avvicinasse ai loro rispettivi territori dove le persone a bordo si sarebbero trovate all’interno della loro giurisdizione.

Stabilire la giurisdizione per i diritti umani è molto più complicato quando gli agenti di uno Stato costiero non sono fisicamente presenti sulla scena di emergenza in Alto mare. In particolare, dando istruzione all’Aquarius di restare in attesa, l’Italia ha indiscutibilmente esercitato un controllo su di essa. Tuttavia non è chiaro se questo controllo sia sufficiente per gli scopi di portare coloro che si trovavano sulla nave all’interno della giurisdizione italiana; alcune istruzioni possono essere considerate solo delle richieste di cooperazione, non ordini giuridicamente vincolanti.

E aggiungerei:

il modo in cui l’incidente dell’Aquarius è stato condotto è emblematico della mancanza di solidarietà tra gli Stati membri dell’UE. L’incidente dell’Aquarius è il promemoria delle conseguenze umanitarie potenziali  di questa mancanza di solidarietà.

Chiarirei tuttavia, che “fare la voce” grossa o lanciare slogan tipo “chiudiamo tutti i porti” non è una strategia di politica internazionale, ma l’espressione della politica da comizio di cui è vittima l’Italia in questi ultimi anni.

Alla domanda: “che soluzione proponi?” direi che:

l’Europa deve correggere il Regolamento di Dublino che ora appone troppo peso sugli Stati periferici.

Qui ci fermiamo per un chiarimento. Andare ovunque voi (riferito ai nostri governanti) desideriate nell’ambito di consessi internazionali, vuol dire avere una conoscenza quantomeno basilare della politica internazionale innanzitutto, ma anche degli strumenti giuridici a disposizione. Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha questo grande peso a livello internazionale? Io me lo sono chiesta ed in parte ho avuto una risposta mentre svolgevo il mio lavoro, allorquando un americano mi disse: “sei sicura di essere italiana? No, perchè sei troppo preparata per esserlo e sai pure troppo bene l’inglese”. Dunque sarebbe opportuno che presentandosi nel consesso dell’Unione Europea fosse chiaro ai funzionari statali italiani che quello di Dublino NON è UNA CONVENZIONE, MA UN REGOLAMENTO!

Nell’ordinamento dell’UE, il regolamento è una fonte di diritto derivato dai Trattati comunitari, insieme con le decisioni e le direttive.

Più precisamente, il regolamento è un atto normativo avente portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli ordinamenti degli Stati membri (art. 288, par. 2 del Trattato sul funzionamento dell’UE). La portata generale si estrinseca nel fatto che il regolamento (a differenza delle decisioni) non è indirizzato a specifici destinatari, bensì a una o più categorie di destinatari astrattamente determinate. Le norme contenute nei regolamenti sono obbligatorie in tutti gli elementi e, quindi, disciplinano direttamente la materia a cui si applicano. L’effetto diretto immediato dei regolamenti comporta che essi non richiedono (a differenza delle direttive) l’adozione di provvedimenti nazionali di attuazione da parte degli Stati membri, ma si applicano immediatamente in tali ordinamenti e sono efficaci nei confronti sia degli Stati che degli individui, senza necessità di ulteriori atti. (Formulazione che trovate in qualsiasi manuale di diritto dell’UE e anche sull’Enciclopedia Treccani e presumo anche su altri testi giuridici)

Le Convenzioni, o più precisamente i Trattati sono strumenti del diritto internazionale e per essere vincolanti per lo Stato è necessario che esso li ratifichi. (semplificando per i lettori più pigri)

Dunque se io mi reco in un consesso internazionale e mi presento confondendo Regolamento e Convenzione, la mia credibilità è già in discesa libera. Vedete, la politica internazionale, come pure la diplomazia, è il regno delle parole. Non nel senso che si chiacchiera chiacchiera e non si combina mai niente, è che le parole contano per il significato reale che hanno e sono pietre molto più potenti delle armi. Durante la negoziazione di un accordo di pace, ad esempio, si misurano tutte le parole e finanche le virgole, affinchè tutte le parti siano d’accordo.

Gli Stati della cosidetta comunità internazionale osservano come si comporta il governo di un altro Stato e se in Italia il Ministro dell’Interno grida al censimento dei rom (anche ricognizione peraltro è un termine inopportuno dato che stiamo comunque parlando di esseri umani e non di luoghi deumanizzati, giacchè la ricognizione di solito si usa in riferimento a luoghi fisici), non appare come un professionista, ma come uno strillone. Posto che coloro che appartengono all’etnia rom (vi rimando all’enciclopedia Treccani per la definizione di etnia) sono cittadini italiani, vale a dire (sempre per i più pigri) che sono cittadini italiani come Mario il meccanico di Bisceglie o Marta la parrucchiera di Varese, la discriminazione etnica è vietata dalla stragrande maggioranza degli strumenti giuridici internazionali e nazionali. Pur tuttavia questo divieto non spaventa tantissimi che in questo periodo quasi si sentono sollevati da questa grande ideona pubblicitaria del su citato Ministro dell’interno. Perchè come ho sentito giorni fa ad un telegiornale, i rom sono quelli che rubano che lavano i vetri che chiedono l’elemosina. Bene, io mi vergogno di tali affermazioni.

Si è arrivati ad un tale punto di approssimazione che si viaggia su luoghi comuni come pietre tombali. E quindi i rom rubano, gli africani ci invadono e puzzano e via discorrendo. Eppure mi sembrava che dalla storia fosse evidente che la discriminazione inizia con un gruppo obiettivo e finisce con i treni destinazione campi di concentramento.

Così come tanti si battono affinchè ognuno sia libero di esprimere la propria opinione, così io vi invito a riflettere sulla libertà in generale di essere rom, ebreo, tuareg, kalè e via dicendo.

Soprattuto desiderei che ciascuno riflettesse per conto proprio sulla realtà che vogliono proporvi: una realtà di solo bianco e solo nero, dove esistono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Dove i buoni sono autorizzati ad usare armi e metodi disumani perchè i cattivi in fondo altrimenti non si piegano. Dove esiste una religione migliore di un’altra, dove esiste un Paese migliore di un altro. Dove non serve studiare perchè c’è google, dove il merito non esiste perchè basta digitare “se non sei d’accordo ritwitta” o “ricondividi se sei indignato”. Dove la specializzazione e la professionalità sono sostituiti dall’approssimazione e la tuttologia. Dove l’altro è un pericolo perchè non è uguale a noi, dove ci sono complotti persino nel riso basmati. Dove vi tengono legati alle vostre paure, pur di soggiogarvi. Fate attenzione.

 

 

 

Luglio 5 2017

Rifugiati: occhi chiusi per 6 anni e poi la colpa è del maggiordomo

rifugiati

I numeri sono questi:

65.6 milioni di persone nel mondo sono state dislocate forzosamente alla fine del 2016, di questi 40.3 milioni dislocate all’interno dei loro stessi paesi, mentre 22,5 milioni hanno varcato frontiere internazionali come rifugiati. Un ulteriore 2,8 milioni sono richiedenti asilo.

Un campo rifugiati può essere molto utile quando le persone immediatamente abbandonano la guerra o la persecuzione. È un modo per fornire cibo, vestiti e riparo. Ma la tragedia è che queste persone restano bloccate in un limbo per molti molti anni.
Oggi, circa il 54% dei rifugiati nel mondo sono in quelle che vengono definite situazioni di rifugiati protratte. Sono state in esilio per almeno 5 anni. Secondo le Nazioni Unite, la media di durata di un un esilio è di 26 anni.

Dalla prospettiva di un rifugiato, il sistema internazionale dei rifugiati di fatto dispone di tre opzioni.

  • La prima è di andare in un campo, dove usualmente non lavori. E sì, hai un grado di assistenza umanitaria, ma la tua vita è messa in attesa. E comprensibilmente, una proporzione in diminuzione di rifugiati intraprende questa opzione. Circa il 10% dei siriani, per esempio sono nei campi di rifugiati.
  • L’opzione due è spostarsi in un’area urbana. Oggi i rifugiati sono  in aree urbane che in altri posti. Circa più del 50% sono nelle città. Ma la sfida nelle città è che i rifugiati spesso non hanno il diritto di lavorare e spesso non hanno alcuna assistenza umanitaria.
  • La terza opzione è di imbarcarsi in pericolosi viaggi in Europa.

Queste opzioni sono scelte impossibili.

Un modello di sviluppo economico realizzato da rifugiati insieme ai cittadini della nazione che li ospita

Il governo inglese ha aperto la strada a questo tipo di modello con un’iniziativa per la Giordania chiamata “Jordan Compact” che è iniziata nel febbraio del 2016 al summit di Londra per la Siria.

Le basi di questo modello: il sostegno ad opportunità di lavoro simultaneamente per i rifugiati siriani e per i cittadini giordani in parte attraverso l’autorizzazione ad entrambi a lavorare nelle zone economiche speciali. Il governo inglese ha incoraggiato l’Unione Europea a fornire un segmento nel commercio a 52 categorie di prodotti per compagnie manifatturiere che operano in 18 zone economiche speciali che impiegano una certa proporzione di rifugiati siriani. Un certo numero di aziende siriane, che precedentemente operavano in Siria, stanno impiegando rifugiati siriani e cittadini giordani, dando loro accesso a permessi di lavoro assegnati in modo conveniente dal governo, che fornisce accesso alla sicurezza sociale, un salario minimo e protezione dei diritti dei lavoratori.
Quello che manca a questo progetto, al momento, è un sufficiente investimento da parte di imprese multinazionali e di imprese in Europa preparate a lavorare con queste imprese che permetterebbe un modello di crescita industriale. Il governo della Giordania e i maggiori donatori si sono impegnati a creare 200,000 posti di lavoro per i siriani dai 3 ai 5 anni. Fin’ora i permessi di lavoro sono stati concessi a 51,000 persone in solo un anno o poco più. Sebbene sia un grande passo in avanti è necessario un investimento che raggiunga il livello di sostenibilità che permetta alla Giordania, che deve affrontare grandissime sfide di sviluppo e sicurezza, di convincere il suo elettorato che la presenza di rifugiati può essere un beneficio per la società giordana e per la sua economia.

La noncuranza dell’Unione Europea rispetto ai conflitti e alle crisi nei paesi al di là del mare

È molto interessante che i movimenti dei rifugiati siriani siano iniziati intorno al 2011 e fino all’ottobre del 2014 quasi tutti i siriani sono rimasti nei paesi vicini. Ma intorno ad ottobre 2014, tutti e tre i paesi ospitanti: Turchia, Libano e Giordania, hanno introdotto restrizioni. Queste ultime e la riduzione dell’assistenza umanitaria in questi paesi ha fatto sì che per i rifugiati diventasse molto più necessario muoversi altrove o imbarcarsi in pericolosi viaggi.

Questo era evitabile.

Se i paesi europei non avessero incrociato le braccia, chiuso gli occhi e non si fossero letteralmente girate dall’altra parte e fatto così poco per aiutare questi tre paesi, si sarebbero create molte più opportunità rispetto ad oggi, opportunità per i rifugiati insieme al sostegno per i paesi ospitanti.

Del resto le politiche UE sull’asilo e l’immigrazione sono state fangose fin dall’inizio della così detta “crisi dei rifugiati” e gli stati membri continuano ad avere difficoltà nel trovare una azione collettiva sostenibile. Ovviamente è corretto che i paesi europei e i loro elettorati siano preoccupati di una migrazione irregolare non gestita, ma hanno responsabilità quando si tratta di protezione dei rifugiati.
Molte delle odierne politiche riguardano la costruzione di muri de facto e la creazione di partneriati puramente con l’obiettivo di controllare l’immigrazione. Così molti di questi partneriati con paesi terzi in Africa, Sudan Niger e Libia, per esempio, sono con regimi che hanno realmente gravi problemi con i diritti umani e che sono progettate per implementare restrizioni alla mobilità e nessuna opzione per la riammissione di migranti economici. Questa è una strada insostenibile per gestire questo movimento di persone. Se realmente vogliamo aiutare i rifugiati e fermarli nei viaggi verso l’Europa, dobbiamo creare ancore. Noi dovremmo creare ragioni per cui le persone scelgono di restare nelle loro regioni e questo vuol dire creare opportunità sostenibili per una protezione effettiva, accesso ai diritti umani ma anche opportunità socio-economiche.

Aprile 27 2017

Francia: il risultato del primo turno delle presidenziali oscura tanto quanto rivela

Francia

Uno sguardo più da vicino al risultato del primo turno delle presidenziali francesi ci rivela un paese che è, per la maggior parte, diviso equamente.

I 4 principali contendenti hanno offerto agli elettori una scelta cruda e chiara tra opzioni familiari per risolvere le sfide di lungo corso della Francia.

Separati da 4 punti percentuali, dividendo essenzialmente l’85% del voto, le opportunità di chiarimento che offrivano le scelte dei candidati si sono palesate in un risultato che ha confuso le acque.

Questo vuol dire che se Macron dovesse vincere il secondo turno, come ci si aspetta, le sue visioni per realizzare efficacemente il suo programma sono lontane dall’essere certe. Sebbene sia difficile costruire una formazione politica  per le elezioni parlamentari (che si terranno a giugno) da un canovaccio, i numeri non garantiscono che governerà con una maggioranza, complicando ulteriormente i suoi sforzi. Molto quindi dipenderà dalla sua abilità di comporre una coalizione con cui lavorare tra il centro moderato della Francia, sia da destra che da sinistra, una proposta questa che è stata storicamente perdente a causa della cultura politica francese.
I maggiori temi di questa elezione erano, data la resistenza alle riforme dei francesi, gli stessi delle due precedenti elezioni presidenziali: un’apatica economia caratterizzata da un’alta disoccupazione strutturale, particolarmente tra i giovani; un sistema di social welfare eroso; una frustrazione della popolazione rispetto alle prerogative di Bruxelles, esacerbata dai limiti sul budget imposti dall’UE ed un senso di essere assediati da un mondo ostile che minaccia l’identità del popolo francese attraverso l’immigrazione e, più recentemente, la loro sicurezza attraverso il terrorismo.

L’asse orizzontale e quello verticale della politica francese

I 4 contendenti che si sono sottoposti al voto domenica scorsa rappresentavano gli archetipi di 4 poli che meglio schematizzano il panorama contemporaneo politico francese e di molta dell’Europa: un asse orizzontale della sinistra e destra tradizionale e un nuovo asse verticale che rivela una visione internazionalista della Francia che è integrata nell’Europa e nel mondo contro un trincerato nazionalismo che tradizionalmente faceva appello all’estrema destra, ma che ha sempre di più vinto su molti tra la classe operaia di sinistra.
Sul fronte tradizionale di estrema sinistra, Jean-Luc Melenchon ha argomentato come la Francia dovesse uscire dalla depressione economica attraverso massicce assunzioni nel settore pubblico e l’espansione del sistema francese di social welfare. Sul fronte conservatore di destra, il candidato repubblicano Francois Fillon ha offerto un programma ugualmente archetipico di severa austerità, promettendo un taglio di 100 miliardi di euro dal budget e di mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico in 5 anni.

Tra i due estremi c’è Macron

Tra questi due estremi c’è Macron, che ha descritto il suo stesso programma come né di destra né di sinistra. Egli promette di imporre una disciplina fiscale, ma più graduale rispetto a quella proposta da Fillon, investendo nella crescita attraverso la modernizzazione. Egli asserisce che la vita politica francese deve essere rinnovata, ma non va così lontano come Melechon che si è spinto fino a prospettare l’inizio di una “sesta Repubblica”

Le proposte di Macron sono moderate, riforme social democratiche  di un tipo che non avevano mai ottenuto abbastanza consenso popolare in Francia per essere realizzate con successo. Il risultato è stato una serie infinita di tiepide, annacquate riforme che non hanno soddisfatto nessuno e non hanno posto rimedio alle persistenti malattie economiche  francesi.

Sebbene gli elettori moderati compongano una significativa pluralità dell’elettorato, la Francia ha un profondo sospetto per il centro (politico).

Dove Macron si distingue è nel asse verticale della politica francese. Ha sinceramente sostenuto l’UE, appoggiando la decisione impopolare della Merkel, nel 2015, di aprire il paese ai rifugiati e ai migranti. È stata una dimostrazione di coraggio politico, in un tempo in cui Bruxelles è diventata il parafulmine della rabbia, frustrazione e del risentimento popolare.

La Le Pen invece sfida questo risentimento, asserendo di rappresentare il polo pro-sovranità dell’asse verticale, offre un programma di nazionalismo economico e politico, che comprende un giro di vite sull’immigrazione; l’uscita dall’UE e dall’Euro.

In contrasto con Fillon, la Le Pen abbraccia un generoso modello di social welfare, ma solo per i cittadini francesi. Similmente promette di introdurre una preferenza “nazionale” nelle assunzioni e per i contratti pubblici.

Gli immediati sostegni che Macron ha ricevuto dal tutto lo spettro politico dopo il turno elettorale di domenica scorsa hanno dato peso all’accusa di una classe politica indistinguibile. Se fosse stato così semplice, il compito di Macron sarebbe facile, ma non lo è.

I francesi hanno un profondo sospetto per il centro politico, che molti percepiscono come mancante di identità e di sicurezza.

In Francia l’ultimo centrista eletto Presidente della Repubblica risale al 1974

L’ultimo centrista eletto Presidente era Valery Giscard d’Estaing nel 1974 ed è stato in carica solo per un mandato. Francois Bayrou, che ha sostenuto Macron, è andato vicino al secondo mandato nelle elezioni del 2007 su un simile programma – fiscalmente responsabile, con la mente alle riforme e pro- europeo – ma alla fine non fu all’altezza.

In quel momento storico, tuttavia, la minaccia del Fronte Nazionale non era così urgente, il partito social democratico non era sufficientemente debole, da rendere l’offerta di Bayrou necessaria. Prima del secondo turno, Bayrou offrì il suo sostegno al candidato del partito social democratico Segolene Royal, che avrebbe significato una coalizione centrista. I “royalisti” si rifiutarono e andarono avanti per perdere contro Nicolas Sarkozy.

Oggi: la situazione in Francia dei principali partiti

La situazione della Francia e dei suoi principali partiti, oggi è drammaticamente differente. Il Fronte Nazionale è ai cancelli del Palazzo dell’Eliseo. Il Partito socialista è essenzialmente su un destino di morte. E l’unica cosa che impedirebbe un bagno di sangue tra gli egualmente divisi repubblicani è l’opportunità di passarsela bene e magari emergere con una maggioranza nelle elezioni parlamentari previste per giugno. Questo lascia un’apertura per Macron e il suo nuovo brand di centrismo, dovesse essere in grado di raggruppare una coalizione in parlamento di persone che la pensano similmente.

La stessa apertura vale per i molti ego ambiziosi e opportunisti che, vedendo una finestra di opportunità nel panorama politico instabile francese, cercheranno di bloccare Macron.

Aggirando una struttura stabilita di partito, Macron ha reso un’elezione presidenziale un “incontro tra un uomo e un popolo” come disse Charles de Gaulle.

Tuttavia con gli elettori francesi così equamente divisi e il sistema partitico francese attuale che è pericolante, Macron non sarà il solo politico a camminare per i corridoi del potere in cerca di incontri con il popolo francese.

Aprile 18 2017

Regno Unito: la Brexit ha aperto il vaso di Pandora

Regno Unito

Il Primo Ministro inglese Theresa May ha annunciato di voler indire elezioni anticipate l’8 giugno 2017. Questa proposta verrà votata, mercoledì 19 aprile 2017 alla Camera dei Comuni. La May ha bisogno del sostegno del Parlamento per indire le elezioni prima della data già programmata del 2020. Inoltre affinché si possano tenere le elezioni anticipate il Primo Ministro ha bisogno del voto favorevole dei 2/3 dei membri del Parlamento.

Regno Unito: il contesto in cui dovrebbero tenersi elezioni l’8 giugno 2017

Le recenti elezioni, dei primi di marzo, nel Nord dell’Irlanda, per la prima volta, hanno consegnato la minoranza nell’Assemblea ai partiti unionisti, attribuendo il miglior risultato ai nazionalisti del partito Sinn Fein.

Sebbene la May, nella lettera formale di recesso dall’Unione Europea (UE) esprimeva il desiderio di evitare che gli scozzesi lascino il Regno Unito, la Brexit rischia di far tornare quella che potremmo chiamare “frontiera difficile” tra il Nord dell’Irlanda e la Repubblica di Irlanda: una minaccia che rischia di riaccendere “The Troubles”, il conflitto nazionalista-settario che ha scosso il Nord Irlanda per molti anni del tardo 20° secolo. Il vecchio sogno di Sinn Fein – di governare un’unita Irlanda – improvvisamente appare meno fantasioso di quanto sembrava una volta.

La Brexit ha messo in moto una serie di forze centrifughe all’interno del Regno Unito stesso

Gli sviluppi sia ad Edinburgo che a Belfast rivelano le fragili fondamenta dell’accordo legislativo di Tony Blair del 1998 sulla devoluzione inglese, così come l’accordo Good Friday che ha portato con successo alla pace nel Nord dell’Irlanda.

L’accordo Good Friday

conosciuto anche come l’accordo di Belfast, consolidava il processo di pace del Nord Irlanda garantendo all’amministrazione locale alcuni poteri; la divisione dei poteri tra gli Unionisti e i Repubblicani (le due comunità nord-irlandesi); cosi come frequenti incontri tra il Nord Irlanda e la Repubblica di Irlanda e tra il Regno Unito e i governi irlandesi. L’accordo riconosceva le identità duali – sia inglese che irlandese – della popolazione locale e la rimozione della frontiera fisica tra l’Irlanda e il Regno Unito. Questo accordo dipendeva dall’appartenenza all’Unione Europea sia della Repubblica di Irlanda che del Regno Unito. L’appartenza all’Unione Europea rimuoveva ogni questione inerente al flusso di beni, servizi, capitale e lavoro e forniva un ampio quadro per la cooperazione istituzionale, stabilendo una linea base di norme di legislazione accettate reciprocamente.

Il successo pratico di entrambi gli accordi implicitamente contava sulla continua, piena appartenenza del Regno Unito all’UE.

Con una forte Brexit che gradualmente incede verso la realtà, non sarebbe una sorpresa che questi compromessi confezionati ad arte lentamente si sgretolino.

La decisione della May di “far scattare” l’articolo 50 del Trattato di Lisbona per lasciare l’Unione Europea ha scatenato una serie di dinamiche regionali che , in passato, Westminster ha dimostrato di saper malamente controllare anche singolarmente.

Sia la May che Blair hanno giocato con gli accordi costituzionali inglesi per incassare guadagni per i propri partiti, ed entrambi hanno calcolato male il processo.

Nell’Assemblea del Nord Irlanda non si è mai verificato che il partito unionista fosse una minoranza. Ciò è molto importante, perché proprio secondo una disposizione dell’accordo Good Friday, se una maggioranza sia delle popolazioni del nord Irlanda che della Repubblica di Irlanda esprime il desiderio di una unità irlandese, sia l’Irlanda che il Regno Unito devono accettarlo.

Una maggioranza dei deputati nazionalisti irlandesi a Stortmond potremmo iniziare a soddisfare questo criterio.

Una Brexit “dura”, imposta e guidata dal governo conservatore della May e contro il volere della popolazione locale, servirebbe a minare l’accordo Good Friday. La May dunque potrebbe aver considerato elezioni anticipate nell’ottica di ottenere consenso popolare.

Che Theresa May abbia intravisto il futuro del Regno Unito dopo il recesso dall’UE nel 2019?

Possono essere tracciati tre potenziali scenari:

  • affari come sempre,
  • ulteriore devoluzione,
  • disintegrazione.

Il primo scenario è forse il più allettante vista la storia di graduale cambiamento costituzionale del paese, ma è chiaramente non più accettabile per la Scozia ed il Nord Irlanda dopo la Brexit.

Il futuro del Regno Unito sarebbe perciò o uno di più devoluzione o uno di rottura.

Ulteriore devoluzione essenzialmente significa uno spostamento verso un pieno federalismo. Sembra improbabile che sia possibile una maggiore devoluzione alle regioni senza creare una qualche forma di parlamento inglese per compensarla. La cosiddetta questione West Lothian, introdotta da David Cameron nel 2015 in un tentativo di compromesso, per cui i legislatori scozzesi possono votare a Westminster su questioni puramente inglesi, mentre le loro controparti inglesi non possono votare su questioni scozzesi decise a Holyrood, inasprisce già il contesto politico tra molti inglesi e i loro legislatori.

La soluzione federale

Parlamenti per ogni “nazione” del Regno Unito equivalgono ad una soluzione federale de facto. Questo lascerebbe la gestione della politica estera, di sicurezza e di politica macroeconomica nelle mani di Westminster e la politica monetaria alla Bank of England. Quasi tutte le altre decisioni sarebbero prese a livello “nazionale”.

Il principale problema con la soluzione federale è che, mentre potrebbe essere vista con favore da alcuni prominenti politici scozzesi, incluso l’ex primo ministro Gordon Brown, in Inghilterra non c’è una reale domanda per questo tipo di soluzione. Per la maggior parte dei politici rappresenta ancora un altro mal di testa costituzionale in un momento in cui si ha già tanto di cui preoccuparsi. Un processo che risulti in una graduale federalizzazione dello Stato del Regno Unito richiederebbe molti anni e lascerebbe irrisolto il problema fondamentale del Regno Unito: il fatto che l’Inghilterra è significativamente predominante in termini di popolazione: approssimativamente 53 milioni del totale della popolazione del Regno Unito di 64 milioni, e in potere economico, con più del 85% del prodotto interno lordo. Una soluzione potrebbe essere quella di separare Londra dal resto dell’Inghilterra in una struttura federale, ma scavare una nicchia nella capitale inglese  sarebbe un errore storico anche più grande.

Questo tipo  “soluzione” per combattere le forze centrifughe del Regno Unito sembra essere la sola che quadra il cerchio tra il desiderio di Westminster di controllo e il desiderio delle “nazioni” di devoluzione. È anche l’unica che risolve il problema tra gli euroscettici: Inghilterra e Galles e i pro-EU: Scozia e Irlanda.

Una Brexit “dura” e il Regno Unito sono incompatibili, se dovessimo aspettarci che il Regno Unito resti appunto tale: unito.

E questa potrebbe essere un’altra considerazione ragionata dal Primo Ministro inglese prima di proporre le elezioni anticipate.

La sfida della Scozia

Assumendo che l’indipendenza scozzese alla fine non avverrà, c’è sempre la questione aperta e pressante dell’appartenenza all’UE, dal momento che è chiaro che la Scozia non sarà in grado di rimanere nel Blocco Europeo automaticamente, ma dovrebbe sottoporre la domanda di adesione come nuovo stato membro. Ciò sarebbe tutt’altro che facile e richiederebbe di conformarsi al pieno “acquis communautaire”, (il corpo delle norme europee e regole), senza le opzioni di cui gode oggi il Regno Unito. Questo è il motivo per cui il partito nazionale scozzese ha recentemente iniziato a suggerire che una Scozia indipendente potrebbe seguire le orme della Norvegia e della Svizzera nel unirsi all’Area Economica Europea, piuttosto che all’UE.

Una delle questioni di profonda importanza, nella sfida scozzese, è la locazione delle armi nucleari del Regno Unito dopo l’indipendenza scozzese. Le riserve nucleari del Regno Unito sono situate in Scozia. C’è anche la potenziale adesione della Scozia alla NATO, una questione che a lungo ha diviso il partito nazionalista scozzese.

In sostanza questi scenari contengono tutti delle insidie. Guardando la storia, una strategia di confusione e di non fare cambiamenti è la più allettante. In teoria, l’opzione di pieno federalismo è quella che con più probabilità potrebbe offrire un’unione più durevole.

Guardando la politica, la rottura del Regno Unito è quella che più probabilmente avverrà, che sia per caso che per progetto. E che non siano proprio elezioni anticipate, conseguenza della Brexit, a scatenare questa rottura?

Ottobre 15 2016

NATO: il suo versante ad est è più prezioso di quello a sud

NATO

Il rafforzato impegno della NATO in Europa Centrale e dell’Est ha un valore diplomatico e simbolico. Tuttavia c’è il rischio che il “fianco sud” dell’Alleanza da dove emana la minaccia dei gruppi estremisti riceva troppe poche attenzioni.

Ogni tanto, quasi ciclicamente, in Italia si riapre un discorso oserei dire sciocco sullo status di membro del nostro paese nella NATO. Notizie e fatti già noti vengono ripescati, rimescolati e confezionati ad hoc per qualche attimo di notorietà in più. Detesto sinceramente, ma anche educatamente, coloro che buttano la parola “guerra” qua e là, nei titoli, per attivare le masse in un rincorrersi di parole al vento. Detto questo cerchiamo insieme di rimettere ordine nelle valanghe di notizie tipo “l’Italia va in guerra/non è la mia guerra/ ci portano in guerra” e di capire cosa succede. In particolare, di riflettere sulla circostanza che la NATO destini troppe poche attenzioni alla minaccia che emana da gruppi estremisti nel suo versante sud.

Per chi se la fosse persa, vi ricordo che nel giugno di quest’anno la NATO ha condotto: Anaconda-16, la più vasta esercitazione NATO che si è svolta in Polonia dalla fine della Guerra fredda. Non mi pare che questa circostanza abbia turbato i benpensanti nostrani.

https://youtu.be/vOn4FkrwWeQ

Il summit NATO a Varsavia 8-9 luglio 2016

La scelta della città non è stata, evidentemente, casuale nelle menti dei leader dell’Alleanza: il paese dove la percezione della minaccia dell’aggressione russa è particolarmente acuta. A Varsavia dunque è stato deciso di rimpolpare la presenza della NATO nell’Europa Centrale e dell’Est, decisione che sia la Polonia che i suoi partner regionali chiedevano fosse attuata dall’Alleanza  da quando la Russia si è annessa la Crimea nel 2014 ed ha iniziato la sua incursione in Ucraina. 4 battaglioni composti dalle truppe degli Stati membri della NATO, incluso: Inghilterra, Germania, Canada, Italia e Stati Uniti si dispiegheranno (a rotazione) in Polonia e nei tre Stati Baltici: Estonia, Lituania e Lettonia che vi ricordo sono Stati membri della NATO.

Questi dispiegamenti non saranno permanenti e realisticamente non saranno abbastanza per trattenere una invasione su vasta scala della Russia.

L’impegno della NATO in questa parte dell’Europa è importante diplomaticamente e simbolicamente.

Crea quello che io chiamo “filo d’inciampo” per gli Stati Uniti e il coinvolgimento dell’Europa occidentale nell’eventualità di un’invasione russa: le truppe russe che invaderebbero la regione dovrebbero ingaggiare truppe americane e di altre potenze militari, che in teoria li porterebbe immediatamente in guerra. Circostanza assai rischiosa anche da un punto di vista economico per Putin.

Precedentemente l’art.5 della NATO sulla difesa collettiva era generalmente visto come una garanzia sufficiente. Ed è qui che le visioni differiscono: è importante avere i piedi sul terreno per garantire la sicurezza della regione o basta mostrare i muscoli con esercitazioni come Anaconda ’16? Sebbene nel contesto dell’incontro di Varsavia i 28 Stati membri della NATO hanno raggiunto un livello di accordo e di mutua soddisfazione quasi sorprendente, mi chiedo: “un approccio così unito, nel lungo termine si potrà mantenere?” Credo che sia parecchio difficile.

La NATO sta anche incrementando la sua presenza militare in Romania, con una brigata multinazionale che staziona nel paese.

La Romania è sempre stata, storicamente, scettica nei confronti della Russia; Bucarest ha una delle forze armate più capaci nella regione al di fuori della Polonia. La Romania, dal canto suo voleva più che una brigata multinazionale, ma l’aspettativa è che il paese vedrà un incremento delle attività militari della NATO, o almeno degli Stati Uniti, nei prossimi anni.

NATO: il versante est vince sul versante sud

La decisione della NATO di accrescere la presenza  nel suo versante est è stata vista da molti, soprattutto dal vice ministro della difesa polacco, come un nuovo elemento del concetto di difesa collettivo, aggiungendo che la “presenza in avanti” è il secondo pilastro della deterrenza.

Come non comprendere le istanze della Polonia e dei Stati baltici; la Russia non si è mai dimenticata di far notare la sua presenza facendo alzare in volo i suoi aerei militari lungo la frontiera con i paesi NATO, o le rapide esercitazioni. Queste mosse di Mosca sono viste e percepite dagli Stati baltici come dimostrazioni, sì di forza militare, ma contenenti in sé il rischio di poter subito intensificarsi.

Lo “spazio Suwalki

L’attenzione, recentemente, si è focalizzata sul cosiddetto  spazio Suwalki la frontiera di circa 97km tra la Lituania e la Polonia schiacciata tra Kaliningrad e l’alleato russo: la Bielorussia. Se la Russia agguantasse lo spazio, isolerebbe gli Stati baltici dal resto della NATO.

Tuttavia altri Stati membri della NATO non condividono la percezione del rischio russo degli Stati baltici e della Polonia.

Il presidente francese Hollande, ha dichiarato che la NATO non ha nessun ruolo per stabilire quali debbano essere le relazioni con la Russia, rimarcando che per la Francia, la Russia non è né un avversario né una minaccia.

Spostandoci un po’ più a sud, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria sono più immediatamente preoccupate per i flussi migratori e l’instabilità dei Balcani, anche se nel quadro della NATO capiscono la prospettiva della Polonia e degli Stati baltici.

L’unità della NATO reggerà?

La domanda che vi ponevo all’inzio. Tre sono le riflessioni che voglio proporvi. L’approccio della NATO a quel serbatoio di benzina che è i Balcani, la minaccia di gruppi estremisti, vale a dire il terrorismo internazionale e il ruolo della Turchia.

La NATO non rotola a sud:

1. i Balcani

L’approccio della NATO nel potenziale serbatoio di benzina dei Balcani è stato esitante e divisivo. La Grecia ha continuato a bloccare la membership della Repubblica di Macedonia a lungo rinviata. La Russia ha tratto vantaggio dalle proteste anti-NATO nel Montenegro che dovrebbe unirsi all’Alleanza, per richiamare i Balcani ad essere “militarmente neutrali”. Nello stesso tempo Mosca fornisce assetti militari, sostegno in situazioni di emergenza e addestramento per le forze speciali di polizia in Stati dei Balcani: Bosnia e Serbia.

2. Il terrorismo internazionale

Sulla questione del terrorismo internazionale, in particolare “lo Stato islamico”, nella dichiarazione di Varsavia, troviamo tante bellissime parole, ma sostanza poca. Si dice che il gruppo estremista transnazionale è stato degradato, molti accoliti uccisi, molti seguaci si sono allontanati. Molti. Veramente? Allora tutto bene, che bello! In Iraq, si invitano le autorità locali a darsi da fare per migliorare le forze armate e la sicurezza, e già, dopo che nessuno si è preso la briga non solo di pianificare, ma di eseguire la “exit strategy”, adesso rispettiamo la sovranità dello Stato iracheno. Sulla Siria, una chicca: “l’efficace battaglia contro lo “Stato islamico” sarà possibile solo con un governo legittimo in carica”. Questa affermazione forse tralascia la circostanza che per ora Assad è il presidente della Siria, che gli Stati Uniti hanno per anni finanziato gruppi di ribelli contro Assad per poi accorgersi che la situazione gli era sfuggita di mano. Gli Stati Uniti, membri della NATO, si ricordano che giocano sul doppio livello in Siria, da un lato paladini della sicurezza e della pace internazionale e dall’altro potenza dominante contro la Russia, finanziatori con denaro e armi di gruppi estremisti?

Si legge, inoltre, nel documento NATO di Varsavia che nello sforzo di proiettare stabilità, si è consapevoli che c’è la necessità di affrontare le condizioni che portano alla diffusione del terrorismo internazionale. Beh mi sembra troppo poco; seppur un passo avanti è stato fatto perché si ravvisa la necessità che ci sia bisogno di affrontare le cause del terrorismo internazionale e non le conseguenze, non è abbastanza senza una strategia focalizzata sulle radici dei gruppi estremisti e di lungo termine.

Leggete anche voi uno dei pezzi della dichiarazione di Varsavia che riguarda lo “Stato islamico”.

NATO

3. La Turchia e il gioco delle tre carte

La Turchia cerca attivamente ora più che mai un riavvicinamento con Mosca, visto il raffreddamento delle relazioni con Washington dal “tentato golpe”.

La Turchia potrebbe fare il doppio gioco, difficile predire quale sia la sua vera strategia. Potrebbe prendere parte alle misure di “rassicurazione” della NATO nella regione del Mar Nero mentre, allo stesso tempo, migliorare le relazioni con la Russia e riposizionarsi vis-a-vis con gli Stati Uniti.

Non dimentichiamo che gli strumenti utilizzati dalla Russia come la corruzione, lo spionaggio, la sovversione, la propaganda e le campagne di disinformazione, non sono necessariamente ben contrastate da soldati.

Teniamo anche bene a mente che l’Italia è il versante sud della NATO.

Settembre 11 2016

Emozioni battono logica: ecco chi guida il comportamento politico

emozioni

Le emozioni guidano il comportamento politico? Anche quando crediamo che le decisioni prese seguano la logica in realtà il vero fulcro della decisione appartiene al regno delle emozioni.

Il neuroscienziato Antonio Damaso ha condotto una serie di studi su un gruppo di persone che presentavano danni in una parte del cervello dove sono generate le emozioni. Egli ha riscontrato la loro incapacità nel sentire le emozioni; tuttavia si caratterizzavano per una peculiarità in comune: non potevano prendere decisioni. Potevano descrivere quello che dovevano fare in termini logici, ma per loro era molto difficile prendere anche semplici decisioni, come per esempio quella di cosa mangiare.

Molte decisioni si presentano come due facce di una medaglia, con i loro pro e i loro contro: “mangio il pollo o l’agnello?”, ebbene questi soggetti erano incapaci di prendere una decisione.

Le emozioni sono molto importanti quando si tratta di prendere una decisione

Anche quando crediamo che siano decisioni logiche, il vero fulcro di scelta è verosimilmente sempre basato su un’emozione.

Inoltre, diversi ricercatori hanno evidenziato come emozioni accidentali spostino, in maniera estesa, una situazione a quella successiva, interessando decisioni che riguardano una prospettiva normativa non collegata alle emozioni. Questo processo è chiamato: spostamento di emozioni accidentali. Per fare un esempio: la rabbia accidentale innescata da una situazione può cogliere un motivo per incolpare individui in altre situazioni anche se gli obiettivi di tale rabbia non hanno nulla a che vedere con la fonte della rabbia. Lo spostamento di emozioni accidentali avviene, tipicamente, senza che se ne abbia consapevolezza.

Per capire il nesso tra emozioni e comportamento politico prenderemo ad esempio: Donald Trump e lo “Stato islamico”.

Il caso di Trump e dello “Stato islamico”

Potreste chiedervi: “come possono mettersi sullo stesso piano, anche solo per comparazione queste due realtà così diverse tra loro?“.

Se guardiamo cosa guida il sentimento popolare in sostegno di leader politici come Trump, Marine Le Pen ed altri in Europa, vediamo che essi invece di appellarsi alla logica, tamburellano su un bacino di emozione: un misto di identità nazionale, di risentimento socio – economico, che spesso mescola la rabbia, l’umiliazione ad un certo senso di nostalgia per un tempo migliore di quello recente.

È l’emozione, piuttosto che la logica che guida il comportamento politico

Quando i giovani occidentali cadono in preda al richiamo della narrativa di gruppi religiosi estremisti come lo “Stato islamico”, le cose si complicano. In aggiunta agli elementi non-razionali di emozione ed affetto, c’è un altro modo non – razionale esperienziale in gioco: il sacro contro il profano o meglio le nozioni apocalittiche contro quelle sacre.

Anche se poche, esistono evidenze che i gruppi come lo “Stato islamico” facciano leva su individui mentalmente vulnerabili permettendogli di legittimare le loro emozioni rivestendole di un’ideologia. Tuttavia nella maggior parte dei casi, il gruppo si rivolge a giovani in cerca di significati e di validazione attraverso una causa che è più grande della loro condizione individuale; una ricerca che si è rivelata vana nelle società europee in cui molti sono cresciuti.

La logica dei tecnocrati

Per i tecnocrati, i problemi devono essere affrontati usando un quadro logico di analisi. Cause ed effetti devono essere identificati ed isolati. Le soluzioni potenziali devono essere disegnate ed esaminate per comparare i costi e i benefici e gli obiettivi desiderati contro le possibili conseguenze. La legislazione deve essere scritta e conseguentemente diventare legge per essere sicuri che gli strumenti applicati siano i più appropriati.

Viene però da chiedersi: “Perché la visione di un mondo senza frontiere non attrae più rispetto a quella di un mondo circondato da muri?“.

È nella risposta tecnocratica il vero problema. Essa ci dimostra non solo il fallimento della comprensione accurata del problema, ma soprattutto la mancanza del vocabolario necessario capace di indirizzare la situazione.

Ciò diventa ovvio in relazione alla problematicità dei giovani radicali e delle campagne di de-radicalizzazione che cercano di convincerli che la causa che hanno adottato è una strada senza uscita. Questo tipo di richiami che utilizzano argomenti razionali per demistificare gli appelli dello “Stato islamico”, che si rappresenta come una forma pura di Islam pre-moderno, semplicemente non raggiungono le orecchie della persona che cercano di convincere, poiché essa è sintonizzata su un modo non-razionale di esperienza sacra.

La stessa dinamica è in gioco quando si cerca di rispondere alla crescita dell’ondata di populismo nazionalista

in Europa e adesso, nella forma di Trump, negli Stati Uniti. Le analisi degli elementi positivi per cui gli immigranti contribuiscono all’economia della Gran Bretagna e l’impatto catastrofico che lasciare l’Unione Europea avrebbe, non possono competere con la catarsi emotiva di votare in favore della Brexit. Niente è stato in grado di diminuire il richiamo xenofobo della campagna di Trump.

L’ideale europeo vale la pena che sia difeso, ma è stato raramente menzionato nella campagna della Brexit.

Anche nella campagna elettorale per la Casa Bianca sono stati pochi i riferimenti ai valori americani nati dall’essere una nazione di immigrati.

Le emozioni tendono a bloccare la nostra abilità di assorbire nuove informazioni, inibiscono anche l’abilità di condividere una prospettiva alternativa in un modo tale per cui l’altra persona la prenda in seria considerazione.

 Senza l’abilità di prendere e assorbire nuove informazioni le persone s’impantanano in una visione che non ha  potenziale di crescita, di cambiamento o di sfumature.

 

Agosto 20 2016

Burkini versus bambino ferito e bombe come se piovesse

Burkini versus bimbo ferito e bombe a gogo

Mentre in Europa si discute sul burkini, in Siria si continua a bombardare tutto e tutti con la scusa di combattere lo “Stato islamico”.

Vi propongo una riflessione diversa, un modo di guardare il mondo con un occhio meno populista e più attento.

Mentre in Europa si fa un gran parlare del burkini e si fa una gran confusione sul modo di coprirsi delle donne di fede musulmana, in Siria si ripete ogni giorno, il dramma di una guerra civile senza fine. Qualche giorno fa è comparso il video e la foto di un bambino coperto di polvere, ferito in Siria, ad Aleppo.

Il burkini versus bimbo ferito

Quel video e quella foto, che io non pubblicherò per rispetto del minore, è stata diffusa da un gruppo di attivisti siriani. Un modo duro, crudo, per sensibilizzare il mondo intero cieco e drammaticamente lontano da quello che avviene in Siria. Molti hanno pensato che quella foto fosse un oltraggio al minore, uno sciacallaggio, un pretesto per qualche minuto di notorietà.

Vi propongo la mia visione della storia.

Stando ai numeri che vi mostro in questa tabella,

Burkini versus bambino ferito e bombe a gogo

 

da quando è iniziata la guerra civile sono morti a causa dei bombardamenti quasi 6000 bambini, il che mi sembra, non so a voi, un numero decisamente elevato.

Diffondere la foto di un bambino vittima di un bombardamento aereo, che può definirsi sproporzionato, non necessario su un edificio civile ad Aleppo, (violazione delle regole stabilite dal diritto internazionale umanitario) resta uno dei pochi modi rimasti per scuotere le menti dei potenti.

Personalmente non credo che le menti dei potenti si scuotano o che le loro coscienze possano avere un cedimento. Ho sentito diverse volte, nel mio ruolo di consulente di politica internazionale, la tragica frase: “se l’obiettivo militare prevede che ci siano delle vittime, beh è il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo“.

Possiamo ragionare all’infinito sull’orrore della guerra, ma esistono delle regole precise per cui la guerra non può diventare il luogo dove tutti fanno un po’ quello che gli pare.
Bombardare ospedali è diventato oramai da fatto illecito nel diritto internazionale umanitario, un fatto all’ordine del giorno in molti paesi. Non distinguere più tra combattente e non combattente, altra circostanza a cui oramai nessuno ci fa più caso. Ed è proprio questo non farci caso, questo volersi chiudere gli occhi che fa scivolare l’intera umanità verso un baratro di menefreghismo totale.

Gli aiuti umanitari che non riescono ad arrivare alla popolazione siriana, perché dall’inizio del mese non è stato permesso a nessun convoglio di raggiungere le aeree assediate, questo non riempie nessuna pagina di giornale, di telegiornale, di quotidiano.

La Russia che continua allegramente a fare come le pare, addirittura utilizzando una base aerea iraniana per  le missioni di bombardamento in Siria, in palese violazione della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza che vieta la fornitura, vendita o trasferimento di aerei da combattimento all’Iran a meno che non sia approvato in anticipo dal Consiglio di Sicurezza. Ci si accontenta della dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergei Lavrov che asserisce che gli aerei sono utilizzati dalle forze aeree russe con il consenso dell’Iran nel quadro dell’operazione anti- terrorismo in Siria su richiesta del governo “legale” siriano.

Ora ci sarebbe da chiedersi se questa operazione contro lo “Stato islamico” considera “terrorista” ogni uomo, bambino, donna, civile, membro dell’opposizione ad Assad, malato.

E il burkini?

Prima di tutto chiariamoci le idee sui tipi di velo utilizzati in diversi paesi.

HIJAB

hijab

copre capelli e collo. (Utilizzato prevalentemente in Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria. Personalmente l’ho visto spesso indossato dalle donne pakistane)

 

 

NIQAB

niqabvelo che copre il volto della donna e che lascia gli occhi scoperti. (Utilizzato prevalentemente in Arabia Saudita, Yemen, Emirati Arabi Uniti).

 

 

 

BURQA

burqaper lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il corpo della donna. (Utilizzato prevalentemente in Afghanistan)

ABAYA

abayalungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperto il volto. (Utilizzato prevalentemente nei paesi del Golfo Persico)

CHADOR

chadorgeneralmente nero, indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo. (Utilizzato prevalentemente in Iran)

Se solo si fosse pronunciata la parola sicurezza

Piuttosto che trattare la questione del lato dell’integrazione, se non altro perché in Italia esiste (grazie al cielo) la libertà di culto, sarebbe stato auspicabile che i termini si fossero sviluppati sulla sicurezza, sulla necessità che almeno il viso sia scoperto.

Il problema a mio avviso è che molti si accontentano di spiegazioni sbrigative, di commenti superficiali che possano contribuire al pensiero distorto che si ha su determinate situazioni. Commenti che possano avvalorare le personali tesi, piuttosto che criticarle o peggio ancora metterle in dubbio.

Io sono una sognatrice e continuerò a sognare che questo mondo possa risalire da questo burrone di banalità e superficialità.