Febbraio 12 2024

Gaza: la soluzione é il cessate il fuoco?

Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.

A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché c che ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.

Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.

Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.

In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.

Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.

In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.

In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.

I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.

Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.

In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.

A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.

Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.

Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.

Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.

Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.

Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.

Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.

Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Gennaio 2 2023

Iran, potere e Medio Oriente

Groviglio Iran Arabia Saudita Medio oriente


Le tensioni in Medio Oriente sono all’improvviso aumentate quando Riyadh si è allineata con Mosca per mantenere alto il prezzo globale del petrolio, malgrado la pressione da parte di Washington di aumentare la produzione.
Con il recente fallimento del cessate-il-fuoco, la guerra civile in Yemen continua ad alimentare una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. La guerra civile che si protrae da 11 anni in Siria è entrata in una fase finale senza fine, che sebbene sia meno sanguinosa, rimane volatile.
La Libia ha visto una pausa nella sua guerra civile da quando è stato reso esecutivo il cessate-il-fuoco nell’ottobre del 2020 ed è stato nominato un governo transitorio nel marzo del 2021, ma la transizione politica verso le elezioni è in un impasse sempre più teso.
Soprattutto, l’assenza del combattimento in questi Paesi non garantisce che ci sia una pace duratura.
Nel frattempo, il più recente ciclo di combattimenti tra Israele ed Hamas nel maggio del 2021 è servito come promemoria che il conflitto tra Israele e Palestina non può semplicemente sparire per magia con l’aiuto delle potenze regionali e degli Stati Uniti.

Politica interna ed estera del Medio Oriente


La situazione politica nel Medio Oriente è in mutazione continua. Le proteste di massa nel 2019 hanno deposto un governante di lungo termine in Algeria e innervosito i governi del Libano e dell’Iraq, facendo balenare speculazioni su una nuova Primavera Araba, prima che la pandemia di COVID ponesse un arresto a questi movimenti popolari. La pandemia ha inizialmente condotto anche al declino dei prezzi energetici globali che ha minato ulteriormente la sostenibilità di molti modelli di guadagni basati sul petrolio di Stati del Golfo, sebbene la guerra in Ucraina ha causato l’innalzamento dei prezzi. Le potenze regionali stanno traendo vantaggio dalla competizione delle grandi potenze per diversificare il loro portfolio di alleanze internazionali.

Iran: La resistenza del regime al cambiamento

Il primo anno di presidenza Raisi ha visto importanti proteste da parte degli agricoltori, insegnanti. Per anni hanno chiesto al governo di affrontare i loro problemi legati alla distribuzione ineguale dell’acqua, salari bassi o non retribuzione. Le autorità hanno resistito fino a quando le proteste non hanno assunto la forma di manifestazioni di piazza. Solo dopo il governo ha parzialmente soddisfatto le loro richieste mentre disperdeva violentemente i dimostranti.
Questo approccio è la risposta automatica della classe dirigente iraniana al potere alle pressioni sia locali che estere. Essa deriva dalla mentalità per cui allentare la pressione è considerato come un segno di debolezza. Per ciò che riguarda la politica estera, i funzionari iraniani considerano le politiche americane come un rafforzamento di questa visione del mondo.
Teheran desidera rientrare nell’accordo sul nucleare in una posizione più forte, con Khamenei che asserisce che affrettarsi nell’accordo avrebbe un costo alto per il Paese. La sua principale preoccupazione non è solo legata ad un possibile abbandono degli Stati Uniti, ma di una richiesta di più concessioni su altre questioni se percepissero disperazione e debolezza da parte dell’Iran.
Quindi il modus operandi di Khamenei è di rispondere alla pressione estera diventando inflessibile e attraverso la rappresaglia. Sulla questione nucleare, l’Iran ha risposto alla pressione delle sanzioni americane per conto proprio: ampliando continuamente il suo programma nucleare, diminuendo il disarmo nucleare, ed accrescendo le sue operazioni militari segrete in tutta la Regione.
Dal punto di vista interno, la mentalità della leadership iraniana è quella che concedere alle richieste pubbliche è un’inclinazione dannosa. Il loro timore è che ciò condurrebbe a richieste maggiori e fondamentalmente alla loro caduta. Come tale quindi, la Repubblica islamica ha resistito ad importanti riforme e ha compiuto solo parziali concessioni su richieste specifiche quando le proteste li hanno forzati a farlo. Su questioni come l’obbligatorietà della legge hijab, che è al cuore dell’identità della Repubblica islamica e il suo marchio dell’islamismo, sarà difficile per il regime raggiungere un compromesso, anche di fronte alle odierne proteste.
In ogni caso, potrebbe essere troppo tardi per placare il livello di rabbia pubblica in tutto il Paese. Le proteste che coinvolgono il Paese oggi mostrano che lo stile di governance intransigente e paranoide della Repubblica islamica diventa una profezia autoavverante, dal momento che la rabbia pubblica accresce nel corso del tempo ed esplode nel malcontento. Sembra che la classe dirigente clericale dell’Iran, non abbia imparato le lezioni della caduta dello Shah.

Israele

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ritorna al potere. Un governo che include il partito ultra nazionalista – Religious Zionism – guidato da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, entrambi ampiamente considerati essere degli estremisti di destra.
In ragione dei suoi 14 seggi, il partito Religious Zionism è la terza delegazione più grande nel parlamento israeliano. Ben-Gvir è noto per la sua retorica anti-araba, arrestato nel 2007 per incitamento al razzismo e per sostegno a organizzazioni terroriste. Smotrich è noto anche per le sue visioni anti-arabe, avendo espresso rammarico verso il primo ministro israeliano David Ben Gurion, per “non aver finito il lavoro” di espellere tutti gli arabi dal territorio che è diventato Israele.


Il nuovo governo di Netanyahu che include Ben-Gvir e Smotrich potrebbe causare problemi per le relazioni bilaterali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.


Legami diplomatici formali tra i due Paesi sono stati creati due anni fa dagli Accordi di Abramo.
Gli Emirati Arabi uniti non sono il solo partner di Israele che ha reagito all’alleanza di Netanyahu con Religious Zionism. Alcuni democratici a Washington hanno espresso preoccupazioni a proposito di Smotrich e Ben-Gvir, incluso il senatore Menendez che è noto per la sua posizione pro-Israele. Menendez aveva avvisato Netanyahu a settembre sull’inclusione di estremisti di destra nel suo governo, asserendo che ciò avrebbe messo in pericolo le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Israele.
È improbabile che la presenza di elementi estremisti come Ben-Gvir e Smotrich nel nuovo governo israeliano disintegri gli accordi di Abramo. Ma i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, come gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco, con cui Israele ha firmato gli accordi di normalizzazione non guardano con favore la prospettiva di lavorare a stretto contatto con un governo che comprende funzionari anti-arabi. I funzionari arabi potrebbero sentirsi obbligati a minimizzare la misura del loro impegno pubblico con la controparte israeliana, cosa che potrebbe complicare i piani di Israele di normalizzare le relazioni con i Paesi Arabi.
Fondamentalmente, Israele e I Paesi arabi del Golfo hanno una preoccupazione di sicurezza condivisa: l’ Iran. Il disfacimento degli Accordi di Abramo giocherebbe bene nelle mani di Teheran, in un momento in cui l’Iran continua a perseguire il suo avventurismo militare nel Medio Oriente, minacciando gli interessi di sicurezza di Israele e degli Stati del Golfo. Israele e l’Arabia Saudita entrambi disapprovano l’accordo sul nucleare del 2015 così come gli sforzi dell’amministrazione Biden per resuscitarlo, e nessuno dei due Paesi vuole mettere a repentaglio la propria alleanza informale contro Teheran.
Per Netanyahu, trovare un equilibrio tra le sue priorità interne e i nuovi partner regionali di Israele è stato sempre difficile. Lo sarà ancora di più per il suo governo che comprende estremisti le cui visioni alienano i suoi partner più vicini.

Conflitti in corso

Le speranze di accordi negoziati nelle guerre in Siria e Yemen sono ripetutamente svanite. Un cessate-il-fuoco in Libia è diventato più efficace nel far tacere armi – per ora, ma la transizione politica è distratta e una pace durevole per ora è lontana dall’essere garantita.

I droni iraniani e la Russia

La notizia che la Russia ha impiegato equipaggiamento militare iraniano, particolarmente i droni, nella guerra contro l’Ucraina ha condotto alcuni osservatori ad inquadrare il conflitto come un terreno di prova per la tecnologia militare iraniana. Mentre l’impatto di questi armamenti sulla traiettoria Russia – Ucraina sarà oggetto di un intenso dibattito, le implicazioni per le dinamiche militari nel Medio Oriente sono lontane dall’essere chiare, visto che la Russia, fin qui, ha impiegato i suoi droni iraniani in una maniera in cui l’Iran stesso potrebbe non utilizzarli.


Per comprendere le implicazioni di questi sviluppi per la postura militare iraniana vis-à-vis con gli Stati Uniti, Israele, gli Stati del Golfo Arabo, è importante riconoscere il contesto in cui l’Iran ha sviluppato i suoi droni e come l’Iran e i suoi alleati non statali hanno impiegato finora questi sistemi.


L’Iran ha speso più di una decade nel diversificare le sue capacità di colpire. Mente i missili balistici offrono una velocità ineguagliabile, il volume della forza missilistica balistica dell’Iran, particolarmente i suoi sistemi di lungo raggio, sono stati a lungo limitati in accuratezza. Dalla passata decade ad oggi, l’Iran ha sviluppato e prodotto una vasta gamma crescente e diversificata di missili balistici sempre più accurati. Tali miglioramenti nell’accuratezza hanno reso la forza balistica iraniana più efficace, come mostrano gli attacchi del gennaio del 2020 contro la base irachena che ospitava i soldati americani in rappresaglia per l’assassinio da parte degli Stati Uniti del comandante militare iraniano Gen. Qasem Soleimani.
Sin dal loro sviluppo e utilizzo di aereomobili senza pilota nel contesto della guerra Iran-Iraq negli anni 1980, l’Iran ha in maniera consistente sperimentato l’uso della tecnologia dei droni in vari ruoli. Negli anni 1990, l’Iran ha iniziato a sviluppare attacchi con i droni che si schiantano contro un obiettivo. Il primo impiego rilevante dei droni iraniani risale al 2006 quando Hezbollah li utilizza in piccoli numeri contro Israele. Più recentemente gli Houti – l’alleato non-statale dell’Iran in Yemen, li ha ripetutamente utilizzati contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dal 2015. I droni iraniani sono stati impiegati insieme ai missili da crociera negli attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite nel settembre del 2019.
I droni Shahed-131 e Shahed 136 forniti alla Russia, apparentemente progettati dall’esercito russo come Geran 1 e Geran 2, sono perciò l’ultimo esempio di una tendenza di lungo corso.
Shahed-136 e altri droni d’attacco della loro classe sono tipicamente montati su camion lanciatori; Shahed-131 è più piccolo e dal design più luminoso con la stessa configurazione. Diversamente da droni più piccoli e più leggeri che possono essere lanciati a mano e tendono ad essere alimentati a batteria, Shahed 131 e Shahed 136 sono equipaggiati con un piccolo motore a pistone che può sostenere una velocità di circa 150 km all’ora. In ragione della carica esplosiva più piccola e della velocità minore rispetto MQ-1 Predator americano o allo Shaded-129 iraniano, i primi sono più convenienti e molto più semplici da costruire per cui possono essere prodotti ed esportati in numeri maggiori.
Diversamente dagli Houti in Yemen che hanno impiegato le capacità di colpire fornite dall’Iran su piccola scala e in un modo piuttosto sporadico, le limitate prove disponibili del reale impiego nel mondo dell’Iran dei droni d’attacco suggerisce che Teheran apprezza il ruolo che l’integrazione congiunta di armamenti può giocare in obiettivi complessi, così come il ruolo nella difesa e nell’infliggere alti livelli di danno. Gli esempi degli attacchi iraniani contro le infrastrutture petrolifere saudite nel 2019 e contro le forze americane in Iraq nel 2020 ci suggeriscono che l’apparato militare iraniano riconosce la forza e la debolezza della gamma dei suoi diversi sistemi di attacco ed è capace di integrarli con abilità in operazioni complesse.
Le capacità di attacco iraniane sono costruite per essere complementari l’una all’altra, con droni utilizzati per degradare la difesa così che i missili balistici e da crociera possono essere utilizzati per danneggiare severamente se non distruggere obiettivi più resilienti. In questo modo l’Iran è meglio posizionato per danneggiare – se non distruggere – le infrastrutture critiche in un conflitto, e la spesa di droni relativamente a basso costo serve uno scopo più rilevante rispetto al danno inflitto finora dagli attacchi dei droni russi in Ucraina. Mentre questi hanno inflitto severi costi umanitari contro la popolazione civile, essi restano primariamente un disturbo in termini di efficacia militare.
L’Ucraina potrebbe non essere il terreno di prova per la tecnologia dei droni iraniana, anche se molti osservatori ritengono il contrario. La Russia sembra che stia utilizzando i droni iraniani in un modo molto simile agli Houti in Yemen, sebbene in una scala più ampia, rispetto a come sembra che l’Iran intenda utilizzarli.

La diplomazia regionale

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, recentemente, si sono impegnati in colloqui con l’Iran volti ad allentare le tensioni. Similmente la Turchia ha iniziato un riavvicinamento con l’Egitto che potrebbe condurre ad una normalizzazione delle relazioni, mentre la Turchia disgela le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Stati del Golfo alleati con i sauditi hanno messo fine al blocco del Qatar. Le ostilità tra Israele e l’Iran hanno iniziato a esternare questa tendenza con le due parti che si impegnano in attacchi tit-for-tat che corrono il rischio di intensificarsi fino ad un conflitto aperto.
L’Egitto ed il Qatar continuano a disgelare i legami, ma con differenti ragioni.
Malgrado il ripristino dei voli diretti tra il Cairo e Doha, la firma degli accordi di investimento bilaterali e la visita dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani al Cairo, le relazioni tra i due Paesi restano tiepide. Se la motivazione del Qatar di un riavvicinamento all’Egitto è politica, la ripresa economica è ciò che conduce l’Egitto, visto che la sua economia continua ad essere stagnante a causa della combinazione di sfide domestiche e fattori internazionali.
Gli effetti globali dell’invasione russa dell’Ucraina hanno posto uno stress all’economia egiziana. Sebbene l’Egitto resti una destinazione popolare per i turisti russi, che sempre più si allontanano dalle mete di viaggio occidentali, il numero di turisti russi che visitano l’Egitto è diminuito, provocando un taglio ai guadagni del turismo del Cairo. La guerra ha anche contribuito ad un’impennata dei tassi di interesse così come dei prezzi del cibo e dell’energia, facendo salire i costi di importazione dell’Egitto. Queste pressioni socioeconomiche create dalla guerra in Ucraina esistono unitamente ad altre sfide domestiche, molte delle quali nascono dalla pandemia e dal coinvolgimento dei militari in diversi settori economici – dalla costruzione all’intrattenimento – che nel corso del tempo hanno scoraggiato l’investimento straniero e soffocato il settore privato.
La sfida più significativa che deve affrontare l’economia egiziana è il suo alto debito. Una svalutazione della sterlina egiziana del 15% nel marzo del 2022 seguita da una graduale perdita di un altro 4% del suo valore. Il Cairo sta negoziando un pacchetto di prestiti con il Fondo Monetario Internazionale, che ci si aspetta che includa piani per svalutare ulteriormente la sterlina. Mentre i politici egiziani valutano i pro e contro delle condizioni poste dall’IMF per il via libera al prestito, il Cairo sta anticipando nuovi guadagni dalla vendita di gas naturale liquefatto ai Paesi europei che disinvestono dalle importazioni energetiche russe.
Le recenti aperture dell’Egitto al Qatar devono essere comprese in questo contesto.
Il Cairo sta simultaneamente cercando di rinforzare le sue relazioni economiche con l’Arabia Saudita, una storica fonte di sostegno finanziario in momenti di difficoltà. Il Fondo di investimento pubblico saudita ha annunciato un impegno di quasi 10 miliardi di dollari in nuovi investimenti in Egitto .
Gli investimenti degli Stati del Golfo aiuteranno a sostenere gli sforzi di stabilizzazione della sua economia, ma non condurranno, da soli, ad una completa ripresa economica, non da ultimo per la morsa dei militari sul settore privato, anche se le proiezioni sulla popolazione egiziana la vedono in rapida crescita. Perciò per i Paesi del Golfo, investire nell’economia egiziana è più una questione di politica e di stabilità piuttosto che una ricerca di un ritorno sull’investimento.
Come il resto del Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar anche vede il sostegno all’economia dell’Egitto come una tutela contro l’instabilità politica, che essi temono possa diffondersi nella loro direzione (come è accaduto nel 2011).

Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.

Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 18 2021

Hamas: origini e obiettivi

Hamas

Hamas (In arabo: حماس‎‎ Ḥamās, un acronimo di حركة المقاومة الاسلامية Ḥarakat al-Muqāwamah al-ʾIslāmiyyah) significa movimento di resistenza islamica – Islamic Resistance Movement-.

Hamas: le origini

Formato nel tardo 1986 all’inizio della prima intifada palestinese. Le sue radici si trovano nel braccio palestinese dei fratelli musulmani; sostenuto da una robusta struttura socio – politica  all’interno dei territori palestinesi. Il gruppo, in sostanza, fu stabilito per fornire un veicolo per i fratelli mussulmani nel violento confronto contro Israele, senza esporre la Fratellanza e le sue ampie reti sociali e istituzioni religiose alla rappresaglia israeliana.

Obiettivi

La Carta del gruppo richiama alla creazione di uno stato palestinese islamico al posto di Israele, rifiutando tutti gli accordi fatti tra il movimento di liberazione palestinese (OLP) ed Israele. La carta di Hamas definisce la storica Palestina, incluso l’Israele odierno, come una terra islamica ed esclude ogni possibilità di pace permanente con lo stato ebreo.

Hamas
foto: www.forward.com

Originariamente il gruppo aveva due obiettivi: condurre una battaglia contro Israele (attraverso il suo braccio armato) e fornire programmi di benessere sociale. Dal 2005, tuttavia, si impegna nel processo politico palestinese.
I suoi sostenitori lo vedono come un movimento di resistenza legittimo. Nel 2006, Hamas vince sorprendentemente le elezioni nel Consiglio Legislativo Palestinese, ma le tensioni con la fazione rivale: Fatah si acuiscono. Scontri mortali tra i due gruppi nel giugno del 2007, dopo che Hamas stabilisce un governo rivale, fanno sì che Fatah e l’autorità palestinese gestiscano parti di West Bank non sotto il controllo israeliano.

Perché Hamas usa gli attacchi suicidi?

Hamas si mette in rilievo dopo la prima intifada come il principale oppositore palestinese agli accordi di pace di Oslo tra Israele e l’OLP.
Malgrado numerose operazioni israeliane contro il gruppo e i provvedimenti restrittivi dell’Autorità Palestinese, Hamas crede fermamente che lanciando attacchi suicidi possa avere un efficace potere di veto su tutto il processo di pace.  Ne riportiamo un esempio: febbraio e marzo 1996: attacchi suicidi sugli autobus, con quasi 60 civili israeliani uccisi, in rappresaglia dell’assassinio nel dicembre del 1995 del fabbricatore di bombe: Yahya Ayyash. Per ciò il gruppo fu ritenuto responsabile di aver provocato un cambiamento di rotta di Israele verso una possibile uscita dal processo di pace e aver portato Benjamin Neatanyahu, grande oppositore degli accordi di Oslo, al potere.

Molti palestinesi acclamarono l’ondata di attacchi suicidi di Hamas nei primi anni della seconda intifada. Essi vedevano il martirio come vendetta per le loro perdite e per la costruzione di insediamenti israeliani a West Bank, voluto dai palestinesi come parte del loro stato.

Struttura della leadership

Hamas

Il gruppo comprende tre “cicli di leadership”. Il primo consiste di leader locali all’interno di West Bank e Gaza. I più famosi: lo sceicco Ahmed Yassin e Abdul Aziz Rantisi che sono stati uccisi da Israele negli anni recenti. Il secondo ciclo include la leadership esterna del gruppo: un bureau politico che include Khaled Mashal e Mousa Abu Marzouk. Il terzo ciclo consiste nella leadership internazionale del movimento globale dei Fratelli Musulmani, che comprende prominenti figure dei Fratelli Musulmani, come Muhammad Akef e Yusuf al – Qaradawi. Questi tre cicli hanno, ognuno, differenti sfere di responsabilità. I due circuiti interni ed esterni giocano un ruolo centrale nella determinazione della strategia di Hamas, delle operazioni terroristiche contro Israele, e il finanziamento di queste attività. Il circuito più interno è maggiormente responsabile per le questioni quotidiane della vita palestinese e costruisce la postura politica di Hamas nei territori attraverso le sue battaglie contro la corruzione ed il supporto per le attività sociali; il circuito più esterno mantiene contatti con i sostenitori internazionali e i finanziatori, incluso le leadership di altre organizzazioni  islamiche e l’Iran.

Composizione

Ha un’ala militare conosciuta come Izz al-Din al-Qassam Brigades che ha condotto molti attacchi anti israeliani sia nei territori palestinesi che in Israele. Questi attacchi hanno incluso una vasta scala di bombardamenti contro obiettivi civili israeliani, attacchi con esplosivi improvvisati sulle strade e attacchi missilistici.

Hamas è composto da elementi amministrativi, caritatevoli, politici e militari, che a loro volta si articolano in altre piccole strutture. Ogni regione è composta da “famiglie” e branche, che rispondono ad un centro amministrativo. I membri di Hamas si raggruppano attorno a quattro categorie generali: intelligentsia, sceicchi (leader religiosi), giovani candidati alla leadership ed attivisti.
Il ramo intelligence realizza sei direttive: sorveglianza degli spacciatori di droga, punisce coloro che sono colpevoli di tradimento, prostituzione o di vendere narcotici; distribuisce le informazioni del gruppo in volantini; pubblicizza le politiche di reclutamento di Israele e le politiche per la collaborazione e avverte la popolazione contro la complicità; gestisce il supporto logistico per l’organizzazione. Monitora anche i crimini nei territori: le attività criminali sono tollerate perché permettono un ampio terreno per il reclutamento di informatori.
Le unità commando hanno 4 obiettivi principali: stabilire le famiglie (usar) e cellule “segrete”; raccogliere informazioni sui militari israeliani; condurre operazioni militari, incluso il rapimento di soldati nemici. I fondatori di Hamas hanno creato, inoltre, altre branche che sono costantemente in contatto tra di loro, ma compiono le loro funzioni all’esterno. Al- Maktab al – I’lami e al – Maktab al – Siyassi: rispettivamente l’ufficio informazioni e politico.
L’ufficio informazione è situato in Giordania, responsabile per la preparazione e la disseminazione di tutti i comunicati stampa che riguardano le dichiarazioni politiche di Hamas. Diffonde anche pubblicazioni in nome di Hamas. L’ufficio politico si occupa delle relazioni estere di Hamas e rappresenta l’organizzazione alle conferenze ed incontri che hanno a che vedere con gli affari palestinesi.

Hamas dov’è?

La forza di Hamas è concentrata nella striscia di Gaza e nelle aree di West Bank.

Supporto e finanziamento

Ci sono numerosi attivisti musulmani che simpatizzano con Hamas, ma si ha una conoscenza limitata circa le loro operazioni. Alcuni di loro forniscono supporto materiale o morale al ramo politico del gruppo. La maggior parte dei fondi di Hamas e gli sforzi sono diretti verso l’assistenza alla popolazione. Hamas gestisce la miglior rete di servizi sociali nella striscia di Gaza. Strutturato e ben organizzato, il gruppo gode di fiducia perché viene percepito come meno corrotto e soggetto al clientelismo (patronage) di altre attori nazionali secolari, specialmente Fatah.  In aggiunta alle donazioni e alla zakat (una tassa obbligatoria del 2,5% dei guadagni di ogni musulmano), attraverso i comitati locali, i sostenitori del gruppo creano piccoli progetti finalizzati a generare piccoli guadagni per permettere un’auto – sufficienza. Ad esempio, la produzione di miele, di formaggio, la manifattura in casa di vestiti . Ed infine destinano una considerevole porzione delle loro risorse per assistere i giovani palestinesi.
Sebbene sia stato scritto molto sulla connessione iraniana e/o saudita con il gruppo, ci sono piccole evidenze sostanziali che corroborano queste affermazioni. Durante i primi anni della rivolta, giornalisti identificarono Hamas come un gruppo islamico appoggiato dai sauditi. L’affermazione che i fondi di Hamas arrivano primariamente da Teheran è iniziata nel 1989, quando Israele per primo decise che il gruppo era una seria minaccia alla sicurezza. Tra i gruppi che hanno esteso l’assistenza ad Hamas ci sono organizzazioni islamiche nel continente indiano, fazioni islamiche in Turchia, Malesia, Afghanistan.

Principali operazioni militari di Israele contro Hamas

Israele ritiene responsabile Hamas di tutti gli attacchi che si generano nella striscia di Gaza e conduce tre campagne militari a Gaza: Operation Cast Lead nel dicembre del 2008, Operation Pillar of Defence nel novembre del 2012 e Operation Protective Edge nel luglio del 2014.
Dai conflitti dal 2008 al 2012 il gruppo emerge militarmente degradato ma con un rinnovato supporto tra i palestinesi a Gaza e West Bank per essersi confrontato con Israele ed essere sopravvissuto.

Hamas continua la sua battaglia malgrado un blocco congiunto imposto su Gaza da Israele e dall’Egitto, diventando sempre più isolato. La caduta di un alleato chiave: il presidente egiziano Mohammed Morsi, nel luglio del 2013 costituisce un ulteriore colpo. Nell’aprile del 2014 con un accordo di riconciliazione con Fatah  forma un governo di unità nazionale.

Chi lo ha inserito nelle lista di organizzazioni terroristiche?

Hamas è designata come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone.

Hamas potrà diventare un gruppo moderato?

Molti si chiedono se Hamas possa o meno diventare moderato. Hamas sicuramente mostrerà una flessibilità tattica nel suo approccio alla governance, ma è molto improbabile che cambi qualsiasi dei suoi aspetti di strategia fondamentale. Del resto Khaled Mashal ha dichiarato in diverse occasioni il principale rifiuto di Hamas del diritto di Israele di esistere, in ogni misura, in ogni frontiera.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.

Settembre 14 2018

Erdogan e la profezia autoavverante

Erdogan

La Turchia sta vivendo la crisi economica più severa da quando il Partito Giustizia e Sviluppo o AKP, ha preso il potere all’indomani delle elezioni del 2002.
Solo quest’anno il valore della lira turca è sceso del 40 percento e gli scambi esteri del Paese rischiano di far precipitare in una spirale di crisi l’economia turca e con essa, potenzialmente, l’economia globale.
Da una parte vi è una crisi finanziaria tipica del post-Guerra Fredda, in un mercato emergente le cui prospettive sono sempre state volatili, con alti rischi e alti compensi. Dall’altra parte, il collasso della lira è il prodotto di un’insieme di fattori geopolitici che minacciano di riscrivere le strutture delle alleanze post-Guerra Fredda su scala globale, dove la Turchia è al centro di tutto.

La risposta del Presidente turco Erdogan a questo quadro è quella del complotto geopolitico: una cospirazione costruita ad arte dall’esterno allo scopo di mettere in ginocchio il suo governo.

Erdogan ha posizionato la lira e i problemi collegati ad essa al centro di un complesso momento  di transizione che sta attraversando la Turchia, sia sulla scena globale che su quella regionale.

Detto in altre parole: Erdogan crede, chiaramente – o almeno pretende di credere – che tutti gli americani e i loro sostenitori siano coloro che tessono le fila di questa cospirazione. Egli li accusa di voler ingaggiare una “guerra economica” contro la Turchia.
L’amministrazione Trump non ha fatto nulla per contrastare o fugare questa narrativa. Agli inizi del mese, quando la disputa tra Washington e Ankara sulla detenzione da parte della Turchia di un parroco americano, Andrew Brunson, è peggiorata, il Presidente Trump ha deciso di imporre sanzioni, seguite da un aumento (pari quasi al doppio) delle tariffe sull’acciaio turco e sulle esportazioni di alluminio verso gli Stati Uniti.
Non va dimenticato che la lira turca già da molti mesi prima delle sanzioni di Trump si trovava in una spirale discendente.

Quindi il fatto che gli Stati Uniti abbiano apposto un ulteriore pressione su una situazione economica già vulnerabile non equivale a dire che Trump “cospira una crisi”.

In un certo senso la linea di ragionamento di Erdogan è quella che viene definita “profezia auto-avverante”.

Se Erdogan crede che i problemi siano delle cospirazioni straniere contro il suo Paese, si può comportare in maniera tale per cui, genuinamente, rende la vicenda della lira turca una questione geopolitica e non economica – o almeno non attinente alle dinamiche di mercato. Piuttosto come la cosiddetta resistenza economica nazionale alle agende straniere. Questo significa che la crisi stessa presumibilmente avrà delle implicazioni geopolitiche che si spingeranno sempre oltre.

La prima risposta di Ankara alla crisi è stata quella di inclinarsi versi i pochi alleati che le sono rimasti per avere un sollievo immediato. Il Qatar è in realtà l’unica nazione che ha risposto all’ appello di Erdogan, promettendo un pacchetto di investimenti per un totale di 15 miliardi di dollari per fungere da salvagente dell’economia turca nel tentativo di sostenere la lira. Le mosse del Qatar hanno sì aumentato la sua esposizione all’economia turca, ma hanno anche rafforzato l’alleanza nascente tra Ankara e Doha, nella Regione.

Ciò è legato al peggioramento della frattura tra il Qatar e i suoi vicini, guidati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno accusato il Qatar di voltare le spalle al Consiglio di Cooperazione del Golfo e ai suoi tradizionali alleati arabi del Golfo in favore della Fratellanza musulmana e dell’Iran. A marzo, il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman ha accusato la Turchia di appartenere al “triangolo del diavolo” unitamente all’Iran e agli islamici militanti.

La crisi sta anche fornendo un’opportunità d’oro alla Russia per tracciare un cuneo tra Ankara e Washington, indebolendo, in questo processo, la NATO.

La Cina è ancora un altro potenziale giocatore sulla scena che potrebbe avere i “muscoli” finanziari per mettere in salvo la lira turca.

Cosa chiederebbe la Cina in cambio? È possibile che Pechino sia propensa a fornire denaro in cambio di più grandi pacchetti nell’economia turca, dai settori dell’industria e delle infrastrutture, al turismo e alla tecnologia. Sebbene la situazione economica russa sia disperata al momento, la Cina potrebbe, in una visione più di lungo termine, calcolare i suoi interessi fondamentali e lo sguardo economico di lungo termine porterebbe risultati più positivi rispetto ai problemi immediati della lira turca.

L’economia turca è diversificata, aperta al mondo, e la sua forza lavoro è giovane, istruita e dinamica. Se Pechino può convincere Erdogan ad intensificare il suo impegno con la grande iniziativa Belt and Road e incrementare ulteriormente il commercio turco con la Cina, potrebbe esserci un accordo sul tavolo per Erdogan da firmare con Xi Jinping.
Tutto questo dipenderà dalla circostanza per cui la lira turca potrà essere stabilizzata o meno e se Ankara e Washington arriveranno a un qualche accordo sui molti punti di contenzioso che hanno gradualmente eroso le fondamenta della loro alleanza post Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, se si realizzerà, è chiaro che la crisi della moneta turca non è semplicemente qualcosa che concerne i fattori di rischio macroeconomici e gli “aggiustamenti strutturali”, ma contiene implicazioni geopolitiche che possono profondamente riplasmare le strutture di alleanza nell’era Trump e anche oltre.

Luglio 3 2018

Giovani smarriti: il prodotto dei conflitti protratti

giovani

Ad oggi l’unico tema che sembra essere rilevante è il flusso migratorio dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Chiariamo subito un punto: nell’ambiente di sicurezza contemporaneo, un accordo di pace ovvero la rimozione di un dittatore non rappresenta più la fine di un conflitto, ma solo il suo spostamento verso una forma differente.

La violenza protratta, particolarmente nelle dittature, sfregia profondamente una società: collassano i sistemi esistenti di autorità e ordine. Reti grigie ed economie occulte si fondono mano a mano che il disordine politico e il crimine emergono. Gli equilibri psicologici ed etici si indeboliscono e cedono. Regna l’anomia.

Per i combattenti e le loro vittime, lo spargimento di sangue diventa normale. Molte persone acquisiscono le abilità necessarie per uccidere, imparando come ottenere ed utilizzare armi, esplosivi.

La violenza diventa radicata: i bambini conoscono talmente tante persone violente che semplicemente assumono che anche loro lo diventeranno.

In un conflitto protratto, questa tragica situazione diventa auto-perpetuante, creando una generazione che non è istruita o che lo è molto poco, profondamente diffidente dell’autorità e abituata a reti ed economie grigie.

Per questa gioventù, la violenza non è un’aberrazione che interrompe la pace, ma la prassi, la consuetudine.

La storia recente è piena di esempi della nocività di generazioni smarrite.

Il Kosovo deve ancora ottenere la stabilità politica e, dopo molti anni dalla fine della guerra, è pieno di gruppi criminali.

Nel mondo interconnesso di oggi questi mali si diffondano anche molto lontano dalla loro fonte.

I gruppi criminali albanesi sono cresciuti  nelle guerre dei Balcani degli anni ’90 e adesso giocano un ruolo centrale, e violento, nel traffico internazionale di armi, di droghe e prostituzione.

Nel Sud Africa, decadi di conflitti tra i cittadini di colore e il regime della minoranza bianca hanno distrutto il rispetto della legge in grandi parti della società e prodotto centinaia di migliaia di uomini e donne senza istruzione.

Il rallentamento dello sviluppo economico e l’instabilità politica del Sud Africa, che hanno portato all’esodo di professionisti in cerca di uno stile di vita più sicuro, è il costo di un conflitto che sembrava concluso e che il Sud Africa continua a pagare.

In questo momento, ora, siamo di fronte a giovani smarriti; prodotti dai conflitti in Libia e Siria.

In Libia, la caduta di una dittatura patologica non ha dato vita alla riconciliazione e alla ripresa, ma ad una violenza intestina paralizzante. Il governo di unità nazionale fortemente voluto dall’esterno, da Europa e Stati Uniti, non ha il pieno controllo del territorio e delle regole di legge, anzi milizie e gruppi violenti continuano a riempire il vuoto di effettività.

Se possibile la Siria è in una situazione peggiore: più di 4 milioni di cittadini siriani sono rifugiati: “la più grande popolazione di rifugiati di un singolo conflitto in una generazione”, l’ha definita l’UNHCR.

Sia la Libia che la Siria hanno raggiunto un punto dove anche un accordo politico miracoloso non potrà guarire l’acredine.

La frattura dell’autorità, la normalizzazione della violenza, la creazione di reti grigie e l’inabilità di molti giovani siriani e libici di operare in un’economia stabile e moderna, lasceranno questi giovani smarriti con poche opzioni rispetto al crimine o al diventare essi stessi Signori della guerra. Saranno vulnerabili agli estremisti che gli offriranno falsi rimedi alla loro rabbia e disillusione. Come risultato, saranno una sfida di lungo termine non solo per le loro nazioni o le loro Regioni, ma per il mondo interconnesso.

Il prezzo dei conflitti libico e siriano sarà pagato per decadi.

Tragicamente, niente può  prevenire completamente ciò, il danno è già fatto. Al meglio, l’Europa e altre nazioni possono sanare alcune porzioni delle generazioni smarrite della Libia e della Siria.

Individuare una via per porre fine ai conflitti che stanno distruggendo le loro terre dovrebbe essere la priorità numero uno della comunità internazionale. Investire in programmi di state-building in Libia, allontanare queste generazioni smarrite dalla violenza attraverso assistenza economica mirata, programmi efficaci, istruzione e aiuto psicologico. Questo dovrebbe essere quello che i leader politici ritengono che sia non solo eticamente giusto, ma l’unico investimento necessario in sicurezza.

 

Aprile 14 2018

L’attacco armato illecito degli Stati Uniti in Siria. (L’ennesimo)

Siria

Il 13 aprile 2018, gli Stati Uniti decidono di attaccare la Siria perché persuasi (e sicuri) che il regime di Assad stia utilizzando armi chimiche nel conflitto civile siriano.

Mi sembra senz’altro necessario chiarire dei principi basilari.

  • La Siria è uno Stato sovrano.
  • La Russia sta utilizzando la forza sul e nel territorio siriano con il consenso del governo siriano.
  • Gli Stati Uniti no.

Gli Stati Uniti per giustificare l’uso della forza in Siria, perciò, dovrebbero agire in legittima difesa. Se non agissero in legittima difesa, violerebbero il divieto dell’uso della forza come sancito dall’articolo 2 (4) della Carta delle Nazioni Unite, corrispondente al diritto internazionale consuetudinario (e jus cogens)

La Siria non ha mai attaccato le forze degli Stati Uniti o i loro interessi.

In contrasto, gli Stati Uniti hanno attaccato la Siria: nel 2017, quando hanno sganciato 59 missili su una base aerea del governo siriano a Sharyat; nel 2018 quando hanno ucciso approssimativamente 100 membri di una milizia pro-Assad che avevano attaccato il quartier generale delle Forze Democratiche Siriane. Gli Stati Uniti non hanno presentato nessuna giustificazione giuridica di alcun tipo per l’attacco del 2017, e hanno affermato che l’attacco sulla milizia era in “legittima difesa” .

Va sottolineato (anche evidenziato più e più volte) che non c’è nessuna prova – ma proprio letteralmente nessuna – che la Siria abbia alcuna intenzione di attaccare le forze americane. Né nell’immediato futuro né in qualsiasi futuro.

Dunque: gli Stati Uniti attaccando la Siria non hanno agito in legittima difesa, ma hanno violato il divieto dell’uso della forza, (norma di diritto internazionale consuetudinario peraltro valevole per tutti gli Stati nel mondo, non solo per coloro che sono membri delle Nazioni Unite).

Perciò quando Putin oggi si riferisce agli Stati Uniti con il termine aggressore, è corretto.

Le conseguenze che nessuno vuole né vedere né considerare

Innanzitutto,

  • la Siria avrebbe ogni diritto di utilizzare la forza per difendere sé stessa.
  • Potrebbe abbattere gli aerei americani. Potrebbe uccidere i soldati americani.
  • Le sole limitazioni che il diritto di legittima difesa della Siria avrebbe sarebbero quelle usuali, vale a dire: necessità e proporzionalità.

Più importante,

  • la Russia sarebbe giuridicamente autorizzata ad utilizzare la forza contro gli Stati Uniti. Il diritto di legittima difesa collettiva è sancito dall’art. 51 della carta delle Nazioni Unite. (Tanto per chiarire gli Stati Uniti hanno invocato la legittima difesa collettiva per attaccare il Vietnam del Nord a seguito della richiesta del Vietnam del Sud e quindi la Russia potrebbe invocare la legittima difesa collettiva per giustificare l’attacco agli Stati Uniti a seguito della richiesta della Siria).

Quello che, onestamente, è più drammatico  è che sebbene le forze armate siriane siano capaci di fare molti più danni alle forze americane e che le forze armate russe sono una delle forze più potenti e tecnologicamente sofisticate nel mondo.

La mera possibilità di un attacco – che implica la mera possibilità che tale attacco comprenda armi chimiche e biologiche – non può giustificare una “risposta armata” da parte degli Stati Uniti.

Alcuni giustificano le azioni militari in Siria con: intervento (unilaterale) umanitario.

La reazione internazionale all’attacco del 2017 sulla base aerea a Shayrat non aiuta: gli Stati Uniti non hanno mai invocato l’intervento umanitario come giustificazione per l’attacco. Dal momento che non l’hanno fatto, neanche altri Stati l’hanno fatto dopo che è stato condotto l’attacco, come invece fu il caso ad esempio per il Kosovo, dove alcuni invocarono la dottrina dell’intervento umanitario.

Che poi…a pensarci bene, non mi pare che gli assedi alle città da parte del regime di Assad, gli attacchi ai convogli umanitari, le vittime civili: bambini donne e anziani uccisi indiscriminatamente dal regime di Assad, abbiano mai sollevato la questione dell’intervento umanitario da parte degli Stati Uniti né della Francia né dell’Inghilterra, nè di chichessia.

È comprensibile il desiderio di fare qualcosa – qualsiasi cosa – per prevenire ulteriore violenza contro gli innocenti civili siriani. Tuttavia non credo che attaccare la Siria, particolarmente limitatamente alla forza aerea, contribuisca a quell’obiettivo. Anche se lo fosse, il divieto dell’uso della forza comunque resta.

Forse non dovremmo definire “giusto” quello che è una violazione del divieto dell’uso della forza.

Forse non dovremmo dichiarare che si è sorpassati una linea rossa, quando la linea rossa di sangue fluisce da 7 anni dai corpi dei bambini, delle donne, di tutti quelli lasciati senza cibo e acqua, assediati. Da quelli uccisi nei bus mentre cercavano di abbandonare le città bombardate.

Forse sarebbe utile tacere alle volte…forse…