Aprile 23 2019

Attentati in Sri Lanka: 11 spunti di riflessione

Sri Lanka

Gli attentati di domenica (il giorno di Pasqua per i cristiani cattolici) sono passati nel silenzio della stampa italiana, fino a quando il Governo dello Sri Lanka non ha iniziato a parlare di “rete internazionale”. Lo stesso governo dello Sri Lanka afferma che gli attentati siano una rappresaglia al massacro nella moschea in Nuova Zelanda avvenuto il 15 marzo scorso.

Condivido con voi alcuni spunti di riflessione che ho scritto mentre si susseguivano le varie notizie:

  1. il massacro in Nuova Zelanda, a Christchurh è avvenuto il 15 marzo e per pianificare un attentato come quello in Sri Lanka è necessario molto più tempo, se non fosse altro per l’alto livello di sofisticazione di questo attentato;
  2. l’Agenzia nazionale di intelligence indiana ha iniziato ad avvertire il governo dello Sri Lanka su possibili attentati il 4 aprile, 19 giorni dopo il massacro a Christchurch. Un attacco come quello in Sri Lanka ha bisogno di molto più tempo per essere pianificato;
  3. il governo dello Sri Lanka è sotto pressione perchè ha ignorato gli avvertimenti, è conveniente (per loro) affermare che questo attentato era inevitabile – riferendosi a reti internazionali – sapendo di non aver fatto nulla o molto poco per prevenire gli attacchi o perlomeno per agire sugli avvertimenti dell’intelligence indiana;
  4. l’attacco manca di tanti degli elementi di stile di molte delle operazioni dell’IS (Stato islamico): dalla fonte al ritardo nella rivendicazione. 48 ore dopo è una circostanza del tutto nuova ed inusuale per questa organizzazione. L’IS non ha menzionato Christchurch nella rivendicazione;
  5. la dichiarazione diffusa dai canali ufficiali dell’IS elenca il commando degli attentatori, chi si trovava a quale chiesa o hotel, ma non menziona il massacro di Christchurch;
  6. un piano di questa natura che coinvolge almeno 7 attentatori suicida vuol dire che non si tratta di una piccola cellula. Pensate solo a tutte le persone che si sono dovute occupare della logistica, dell’esplosivo ad esempio;
  7. quando si ha il coinvolgimento di tutte queste persone, è necessario che si abbia una buona sicurezza operativa, vale a dire che si sia sicuri, molto sicuri, che nessuno faccia trapelare il piano;
  8. tre dei noms de guerre utilizzati nella dichiarazione IS corrispondono a nomi forniti da un sostenitore non ufficiale di IS su canali Telegram che alimentano la propaganda dell’organizzazione, corredati da foto dei presunti attentatori con una bandiera dell’IS (bandiera di fortuna) con sotto la data 21 aprile;
  9. la coordinazione e la letalità degli attacchi suggeriscono un acume non comune alla maggior parte delle organizzazioni estremiste, specialmente entità locali.
  10. La minoranza musulmana nello Sri Lanka è una comunità che è stata a lungo vittima di sistematiche discriminazioni e pregiudizi sia da parte della maggioranza cingalese che dalla più grande minoranza dei tamil. Rapporti di radicalizzazione da parte di influenze esterne si possono far risalire ad almeno due decadi fa.
  11. Recentemente e non con sorpresa, qualcosa come due dozzine di musulmani dello Sri Lanka hanno lasciato il Paese per combattere con lo Stato islamico. Inaspettatamente lo Stato islamico è comparso nelle Filippine due anni fa, quindi un’apparizione potenziale nello Sri Lanka in connessione con gli attacchi di domenica non può essere completamente ignorata.

Se gli attacchi in Sri Lanka saranno definitivamente collegati all’IS, messi assieme all’attentato fallito dell’IS, sempre domenica, in Arabia Saudita e quello riuscito a Kabul, unitamente al diffondersi dell’organizzazione in Congo, la concentrazione di questo tipo di sviluppi potrebbe indicare che l’IS si sta riprendendo dalle sconfitte che ha sofferto in Siria, Iraq e Libia negli ultimi anni e ritorna ad essere minaccioso come movimento transnazionale estremista – terrorista con la capacità di sincronizzare attentati in molteplici Paesi.

Novembre 3 2017

Corea del Nord vs Trump: scenari possibili

Corea del Nord

La crisi tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti non sembra vicina ad una soluzione: ciò resta la più pericolosa minaccia a livello globale.

Mc Master il consigliere di sicurezza nazionale di Trump in una recente intervista ha dichiarato che il “solo risultato accettabile” per gli Stati Uniti è la denuclearizzazione della Corea del Nord. Quasi ogni esperto della Corea del Nord considera ciò impossibile dal momento che le armi nucleari sono la garanzia di sopravvivenza del regime di Kim e l’unico mezzo che attira l’attenzione che Kim sembra bramare.

Senza armi nucleari, la Corea del Nord è semplicemente povera, debole ed irrilevante.

Questo vicolo cieco ha condotto l’amministrazione Trump a parlare di un’azione militare preventiva contro la Corea del Nord.

Sebbene le minacce siano in qualche modo necessarie, sono straordinariamente pericolose: aumentano le possibilità di una percezione sbagliata o di un errore di valutazione che potrebbe condurre ad un confronto militare che nessuno vuole.
Come giusto che sia, la maggior parte delle analisi di un possibile conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti si concentrano sulle ripercussione sulla Penisola coreana stessa. Tuttavia le ripercussioni di un attacco non sarebbero limitate al Nord est dell’Asia, ma in grado di colpire gli Stati Uniti sia direttamente che indirettamente.

Cerchiamo allora di individuare gli scenari possibili e le verosimili conseguenze per ciascuno di essi.

a) Attacco militare limitato da parte degli Stati Uniti sui siti nucleari e missilistici del Nord Corea.

Vi è almeno una possibilità che Kim Jong Un comprenda che attaccare significherebbe la fine del suo regime e perciò risponderebbe con qualcosa di breve, forse con attacchi cyber o attacchi missilistici su obiettivi militari americani nelle vicinanze. Ciò comunque avrebbe degli effetti pericolosi. Anche una guerra limitata causerebbe panico nell’economia globale e scuoterebbe o limiterebbe i flussi commerciali. Riconoscendo che il confronto miliare potrebbe continuare o aumentare gli Stati, in grado di farlo, sposterebbero i loro affari e il commercio dal Nord Est Asia. Questo colpirebbe gli Stati Uniti direttamente, causando un corto-circuito alla crescita economica e innescando potenzialmente una recessione.
Le crisi economiche globali mettono a rischio, sempre, Stati fragili.

Un confronto militare tra gli Stati Uniti ed la Corea del Nord potrebbe causare il fallimento di nazioni lontane dalla Penisola coreana, fornendo uno spazio operativo per rivoluzionari o estremisti.

Massicci attacchi cyber da parte della Corea del Nord potrebbero avere effetti imprevedibili nel mondo, causando danni sia economici che politici.

Gli attacchi americani limitati sarebbero una chiara violazione del diritto internazionale e costituirebbero un atto di aggressione, la soft power americana verrebbe erosa in tutto il mondo.

Un attacco limitato da parte degli Stati Uniti potrebbe anche condurre Pyongyang a rispondere testando missili balistici nucleari o anche lanciando un’arma nucleare nell’atmosfera piuttosto che sottoterra. Ciò sarebbe molto più pericoloso di quanto compiuto finora dal regime di Kim e creerebbe una paura senza precedenti tra le nazioni dell’Asia e nel resto del mondo. Causerebbe, inoltre, un disastro umanitario ed ecologico dalla ricaduta radioattiva e innescherebbe una crisi economica globale che durerebbe anni se non decadi.

b) Il Nord Corea attacca con tutto il suo potere dopo l’attacco militare americano.

Sia il Nord che il Sud Corea sarebbero grandemente danneggiate. Le installazioni giapponesi e americane militari in Asia potrebbero essere prese di mira. Ciò devasterebbe l’economia globale, causando la distruzione del commercio, scuotendo le fondamenta dell’economia delle nazioni dipendenti dal commercio con l’Asia.

Come spesso è il caso, il rischio di un tale collasso economico aprirebbe la strada all’estremismo politico di tutti i generi, esacerbando i conflitti non solo in Asia ma anche in altri Paesi economicamente connessi alla Regione.
La Cina correrebbe un serio pericolo con una guerra di tale portata e le esportazioni che guidano la crescita economica e che Pechino utilizza per limitare il malcontento politico, sarebbero messe in grave pericolo dal momento che la prosperità è il fondamento della stabilità politica della Cina.
I flussi di rifugiati, più il coinvolgimento nella stabilizzazione e ricostruzione della Corea del Nord, stremerebbero ulteriormente la Cina.

Se la Cina traballasse, così sarebbe per il mondo, dato il suo ruolo centrale nell’economia globale.

La Cina potrebbe divenire anche più “militaristica” raddoppiando i suoi sforzi di espellere gli Stati Uniti dalla Regione dell’Asia-Pacifico.

Dopo un attacco alla Corea del Nord , la Corea del Sud certamente riesaminerebbe e probabilmente porrebbe fine alla sua relazione nell’ambito della sicurezza con gli Stati Uniti.

Il Giappone potrebbe fare lo stesso, temendo l’imprevedibilità dell’amministrazione Trump.

Molti altri Stati potrebbero essere spaventati dall’inosservanza degli Stati Uniti del diritto internazionale e diminuire i loro rispettivi legami politici e di sicurezza.

Sebbene sia impossibile sapere con precisione l’entità delle ricadute sia politiche ed economiche su vasta scala  di un attacco americano alla Corea del Nord, è chiaro che esse sarebbero potenti e molto traumatiche. Dunque conviene all’amministrazione Trump esaminare tutte le conseguenze anche quelle che potrebbero accadere lontano dalla Corea del Nord.

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.

Marzo 4 2017

Talebani e russi: questa strana amicizia afgana

Talebani

I Talebani sono considerati dalla Russia una minaccia minore rispetto ai suoi interessi di lungo termine.

Malgrado l’avversione di lunga data tra Mosca e i Talebani, la crescente minaccia dei gruppi jihadisti transnazionali, le risorse limitate del governo di Kabul, l’inefficacia della presenza americana, la possibilità che il paese scivoli nel caos, hanno indotto le autorità di Mosca a ritenere che i Talebani possano essere parte di una soluzione politica di lungo termine in Afghanistan.

Una generazione dopo che il suo esercito, ha invaso, occupato e poi si è ritirato dall’Afghanistan, la Russia emerge come potenza mediatrice in l’Afghanistan. Verrebbe da chiedersi: ma come ha fatto Mosca a guadagnarsi questa posizione? La risposta è molto semplice: ha aperto un canale di dialogo con i Talebani.

Prima di continuare a leggere, vi propongo una scheda molto breve sui

Talebani

I Talebani sono stati al potere all’apice della guerra civile fino all’ottobre del 2001 stabilendo l’Emirato islamico in Afghanistan, rovesciando quindi il governo afghano appoggiato dai sovietici. Successivamente giustiziarono l’allora presidente pro-Russia: Mohammad Najibullah e offrirono rifugio ad Osama bin Laden così come a svariati gruppi tra cui il Movimento islamico dell’Uzbekistan che diffuse il terrore nell’Asia centrale post-sovietica.

Il ritorno della Russia in Afghanistan deve essere visto nel contesto del suo intervento in corso in Siria e nelle sua ambizioni geopolitiche nel più grande Medio Oriente. 

Le ambizioni della Russia

Allo stesso tempo, la riaffermazione dell’influenza russa in Afghanistan aderisce ad un più grande disegno della politica estera russa, in cui Mosca cerca di mediare accordi che gli permettono di espandere la sua impronta geopolitica a spese di Washington. Ricomponendo e magari concludendo un accordo di pace in Afghanistan, Mosca spera di poter rimpiazzare gli Stati Uniti come protettori dell’Afghanistan, posizionandosi come una potenza mediatrice decisiva, nell’Asia del Sud. In questa maniera, guadagnerebbe influenza sull’Afghanistan e potrebbe controllare la diffusione a nord sia del terrorismo che della droga.

La strategia: 

la Russia ha scrutato le azioni americane in Afghanistan cautamente, sostenendo la campagna del Presidente George W. Bush di distruggere i Talebani ed Al-Qaeda, inclusa l’iniziale invasione e il susseguente invio della International Security Assistance Force (ISAF) a guida americana. Dovendo affrontare la sua ondata di attacchi terroristici connessi alla guerra in Cecenia al tempo, la Russia (nei primi anni della prima presidenza Putin) si è trovata d’accordo con Bush nello sradicare il terrorismo alla sua fonte, offrendo finanche il suo benestare per l’apertura di nuove basi americane in Kyrgystan e in Uzbekistan.

Tuttavia Putin non prende mai decisioni a caso, il suo guadagno è stato quello di posizionare la Russia come partner indispensabile per gli americani, aumentando la sua stessa l’influenza.

Mosca ha da sempre nutrito due timori principali:

  1. un Afghanistan instabile che diventa terreno fiorente per il terrorismo transnazionale;
  2. l’incremento nella  produzione di oppio che inesorabilmente finisce in Russia e nell’Asia centrale. Secondo le Nazioni Unite, la Russia è tra i paesi con il tasso più alto di uso di oppiacei, overdose e infezioni legati all’HIV.

Proprio allo scopo di poter gestire questi due tipi di minacce, Putin ha acconsentito all’addestramento e ai rifornimenti per l’esercito afghano sostenuto dagli Stati Uniti.

Quando gli americani, apparentemente, si sono impegnati a ritirarsi dal Medio Oriente, la Russia ha visto l’occasione buona per riempire il vuoto, soprattutto in Siria, intervenendo quando era diventato chiaro che l’amministrazione Obama non l’avrebbe fatto.  Mosca ha anche rafforzato le relazioni con l’Egitto, l’Iraq, Israele, l’Iran, e in una maniera più limitata con l’India.
Anche se la Russia non soppianta gli Stati Uniti come il maggior sponsor di questi paesi, una maggior presenza in Afghanistan permetterà a Mosca di influenzare sviluppi alla periferia di quello che era l’Unione Sovietica.

La visione russa dei Talebani

La Russia posiziona i Talebani nella sua lista di organizzazioni terroristiche (unico paese al mondo, visto che i Talebani non compaiono né nella lista di organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano, né in quella delle Nazioni Unite, né in quella dell’Unione Europea), ma sostiene che essi, considerevolmente resilienti nelle due decadi passate, siano distinti da gruppi transnazionali come lo “Stato islamico” o Al Qaeda che hanno come obiettivo la Russia e l’occidente in quanto nemici dell’Islam.

Mosca vede i Talebani come una minaccia minore ai suoi interessi di lungo termine rispetto alla possibilità di un Afghanistan caotico, specialmente con un governo pro-americano a Kabul e le truppe americane in giro per il paese.
Nei mesi passati quindi, Mosca si è presentata molto più attiva nel suo ruolo diplomatico e di sicurezza. Nel dicembre 2015 Putin e l’allora leader dei Talebani Mullah Akhtar Mansour si sono incontrati in una base militare in Tajikistan, con fonti talebani che rivendicavano che Mosca aveva offerto armi e supporto finanziario. Altri rapporti indicano che i russi e i talebani s’incontravano già dal 2013 in Tajikistan insieme ad altri inviati di diversi stati dell’Asia Centrale.
Pur restando diffidente riguardo le relazioni dei Talebani con Al-Qaeda, la rete Haqqani e svariati gruppi jihadisti, Mosca appare disposta ad accettare le richieste dei Talebani.

Le speranze di Mosca

L’assistenza militare e finanziaria, spera Mosca, possano indurre i Talebani ad andare contro la reale minaccia: i jihadisti transnazionali.

La Russia sembra che aspiri ad utilizzare la rivalità tra i Talebani e lo “Stato islamico” per assicurarsi che il paese non diventi un altro santuario per lo “Stato islamico” che minaccia la Russia.

Le speranze dei Talebani

I Talebani dal canto auspicano la fine definitiva della presenza americana nel paese ed il raggiungimento del loro obiettivo politico: ristabilire l’emirato islamico in Afghanistan con l’applicazione della Sharia.

Chissà cosa ne sarà del futuro dell’Afghanistan che, per la serie non c’è mai fine al peggio, fa esperienza di un’ “amicizia ritrovata” tra i talebani e i russi.

Gennaio 21 2016

E se ci pensassero le potenze regionali all’Afghanistan?

potenze regionali

Sarebbe ora che al futuro dell’Afghanistan ci pensassero le potenze regionali: Cina, India e Pakistan, visto che hanno un vantaggio geopolitico e conoscono bene, loro, dinamiche e comunità locali.

Islamabad, dicembre 2015, Conferenza dal titolo: “Heart of Asia”, partecipanti: Pakistan, Cina, Stati Uniti, il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani, il ministro degli esteri indiano: Sushma Swaraj.
Cosa c’è di strano? La presenza di Swaraj all’incontro; simbolo di un cambiamento dopo che colloqui di più basso livello furono cancellati nell’estate del 2015. Il ministro in questione e la controparte pakistana hanno annunciato un rinnovato dialogo “comprensivo”. Queste mosse diplomatiche ci suggeriscono che mentre in Afghanistan la battaglia contro i talebani peggiora, il contesto regionale tra l’India e il Pakistan – ognuno guidato dall’unicità delle loro dinamiche – resta come intrecciato.

Una questione tra potenze regionali

L’Afghanistan sta attraversando una serie di sfide economiche, politiche e di sicurezza. La NATO si ritira progressivamente e gli stati nella regione come la Cina, l’India e il Pakistan si coinvolgono in maniera attiva nella ripresa dell’Afghanistan attraverso luoghi di incontro multilaterali come il Processo di Istanbul, la Shanghai Cooperation Organization. In particolare, le capacità di crescita cinesi, il  desiderio di una stabilità regionale e la sua prossimità geografica all’Afghanistan rendono la Cina ben piazzata per giocare un ruolo positivo nella ricostruzione dell’Afghanistan.

Il ruolo della Cina. La Cina ha cambiato la sua politica in Afghanistan, da una posizione di non interferenza ad una di attiva partecipazione nell’assistere la ricostruzione dell’Afghanistan, questo cambiamento è occorso per una serie di ragioni. La pace interna e la stabilità afghana non solo influenzano direttamente la sicurezza della frontiera occidentale cinese ma hanno anche un impatto diretto sugli investimenti cinesi in Afghanistan. La Cina non intende riempire il vuoto militare dal ritiro delle truppe NATO, piuttosto assistere il governo afghano prendendo parte in forme multilivello di cooperazione internazionale e mediazione.
Il vice rappresentante cinese alle Nazioni Unite, Wang Min, ha dichiarato che la Cina è pronta ad incoraggiare attivamente l’Afghanistan a prendere parte allo sviluppo economico regionale attraverso One belt One road, una iniziativa a guida cinese che finanzia progetti di infrastrutture nell’Asia centrale, sud – est e sud.

Il ruolo dell’India. Sebbene implementati silenziosamente, i grandi investimenti economici indiani e i legami con alcuni leader delle fazioni afghane, incluso l’ex presidente Karzai, contribuiscono significativamente ad incrementare le paure pakistane di un accerchiamento geo strategico dal suo rivale di lungo corso. L’Afghanistan per se, non sembra presentare una preoccupazione strategica per l’India. New Dehli nutre l’interesse nel contro bilanciare il Pakistan proprio in Afghanistan e prevenire che gruppi militanti pakistani attacchino l’India, come fu il caso di Lashkar – e – Taiba, (responsabili per gli attacchi di Mumbai del 2008) e dall’utilizzare le basi afghane per addestrare ed equipaggiare gruppi estremisti.
L’India non ha dispiegato truppe di combattimento in Afghanistan, ma ha addestrato diverse classi di soldati afghani ed ufficiali da quando ha firmato l’accordo di partneriato strategico con Karzai nel 2011. L’India è anche partner con l’Iran per lo sviluppo del commercio delle infrastrutture nell’Afghanistan occidentale, una mossa che consentirebbe agli esportatori afghani di oltrepassare il Pakistan per avere accesso diretto ai mercati indiani, e ha supportato progetti di infrastrutture come la ring road e la diga Salma nella provincia di Herat. Dopo lo scetticismo per il supporto dei Pakistani per i colloqui di pace in estate, le negoziazioni tra l’Afghanistan e l’India sono riprese per il trasferimento di almeno 4 Mi-35 (elicotteri d’assalto).
Si può dire che l’impegno indiano in Afghanistan opera il larga parte nell’ombra delle relazioni indo – pakistane.

Il ruolo del Pakistan. Ghani ha un approccio più conciliatorio verso il Pakistan, rispetto a quello che aveva Karzai, ma è anche più limitato come esecutivo rispetto a Karzai: la sua amministrazione è divisa in un governo di unità; deve lottare con le contrazioni dell’economia e adempiere al compito di combattere i Talebani senza un supporto internazionale di larga scala.
Dal momento che gli Stati Uniti e le altre forze internazionali si sono mosse verso il disimpegno dalla partecipazione diretta nel conflitto afghano, i funzionari pakistani appaiono entusiasti di essere visti come i facilitatori di una ripresa del dialogo tra i Talebani e Kabul. Sebbene i Talebani non abbiamo dato nessun segno di essere pronti ad accettare una “pace” con il governo afghano.
Tra i funzionari afghani c’è però chi sostiene e descrive i loro oppositori come pupazzi delle potenze esterne e sono quasi unanimi nel descrivere il Pakistan come direttore d’orchestra dei Talebani. I due vice di Mansour, al vertice del movimento jihadista in Afghanistan, sono membri della rete Haqqani (una fazione molto legata all’intelligence pakistana), Mansour stesso pare che abbia sostanziosi affari illeciti nel Pakistan e che lì operi con il consenso dei funzionari locali. Chiaramente un processo di pace che porterebbe l’odierna leadership talebana in qualche ruolo politico riconosciuto potrebbe conferire all’establishment di sicurezza pakistano un nuovo grado di influenza in un futuro governo afghano, mentre, allo stesso tempo, ridurre la pressione internazionale e degli Stati Uniti sul fatto che il Pakistan sia lo sponsor dell’insurrezione.

Il gioco tra i due rivali di sempre: l’India e il Pakistan

Ecco che rientra in gioco l’India. Alcuni funzionari indiani hanno espresso una sorta di allarme che l’amministrazione di Ghani, raggiunta dal Pakistan, possa dare il via ad una marginalizzazione degli interessi dell’India o alla legittimazione dei proxies pakistani in Afghanistan e hanno sostenuto un intervento più diretto. Quest’ultima proposta, ad ogni modo, non appare avere consenso tra i politici indiani

Se l’India e il Pakistan riuscissero a raggiungere una détente dopo il raffreddamento delle loro relazioni negli ultimi due anni, gli effetti hanno il potenziale di estendersi all’Afghanistan.

L’Afghanistan non è ancora capace si sostenersi da solo economicamente; le finanze governative dipendono fortemente dall’aiuto internazionale e dagli investimenti esteri. Le forze della coalizione stazionate nel paese sono servite come una sostanziale fonte di crescita economica nel paese, specialmente nel settore dei servizi. Il graduale ritiro di queste forze peggiorerà le sfide economiche dell’Afghanistan.
Politicamente i signori della guerra rimangono un problema serio. Gli ex signori della guerra sono stati inclusi nel governo afghano, rafforzando la loro influenza politica a livello locale. La competizione tra le diverse fazioni per la divisione del potere dello stato è diventata una regola politica. Il governo democratico eletto è debole e frammentato, incapace di combattere la corruzione, di esercitare il controllo effettivo su un paese nella sua totalità o di assicurare la sicurezza pubblica di cui i cittadini hanno bisogno. La mancanza di fiducia popolare nel governo è diventata una grande sfida.
Al contrario delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, gli attori regionali hanno un vantaggio geopolitico e sono molto più familiari con dinamiche e bisogni locali. Ed è proprio per questo che la cooperazione regionale giocherà un ruolo cruciale nella ricostruzione dell’Afghanistan.

Gennaio 6 2016

Nord Corea inizia l’anno con i botti… nucleari!

Nord Corea

Nord Corea inizia l’anno con il quarto test nucleare. L’unico stato al mondo convinto che la sua esistenza come stato autonomo derivi dal possesso di armi nucleari.

Un regalo di compleanno posticipato è quello che si è fatto Kim Jong – un: solo due giorni dopo il suo compleanno fa fare un altro test nucleare, per dimostrare che il Nord Corea non sta costruendo un paio di bombette nei sotterranei, ma vuole avere  le più moderne, sofisticate e letali bombe nucleari che il suo programma possa raggiungere. Questo è il quarto test nucleare del Nord Corea dal 2006 ed è il terzo durante l’amministrazione Obama. Le sanzioni internazionali dopo i tre test nucleari non stanno affatto ritardando lo sviluppo del programma.  Il leader nord coreano lo scorso dicembre ha dichiarato che il suo paese deve diventare: “un potente stato di armi nucleari pronto a detonare la bomba ad idrogeno”. Potrebbe essere una dichiarazione fasulla e non ci sorprenderebbe perché siamo abituati al tintinnio di sciabole del regime. E’ possibile che il Nord Corea abbia un’arma “più potente”, una che usi una piccola quantità di fusione per sostenere il processo di fissione.

Prima di ragionare in qualsiasi modo a proposito della leadership nord coreana e delle sue mosse, chiariamoci alcuni punti fondamentali quando si parla di bomba ad idrogeno.

Cosa è una bomba ad idrogeno?

Usa la fissione nucleare per dividere atomi e produrre energia. Dopo la detonazione, questa energia viene rilasciata risultando in una grande esplosione. Hiroshima e Nagasaki ve le ricordate? Ecco lì fu utilizzata la bomba ad idrogeno.

Tuttavia le bombe ad idrogeno, possono avere una varietà di configurazioni. Conosciuta anche come bomba termonucleare, generalmente comprendono un sistema di strati dove un’esplosione ne provoca un’altra – come la fissione nucleare o la fusione nucleare. In un tipo di bomba ad idrogeno, la reazione di fissione emette raggi X che provocano la fusione di due isotopi d’idrogeno, trizio e deuterio. Questo a sua volta provoca un enorme rilascio di energia. Queste sono considerevolmente più potenti delle bombe atomiche.

Come si fa a sapere che si è detonata una bomba?

Grazie alle letture sismologiche da una varietà di sismometri nel mondo. Questi sono capaci di rilevare forme d’onda da grandi eventi sismici. In questo caso, la forma d’onda inizia all’improvviso e poi sbiadisce, coerente con un’esplosione, e non con un evento naturale come un terremoto.

Era una bomba ad idrogeno?

Le letture sismologiche, tra i 4.9 e i 5.1, sono consistenti con i loro test precedenti, che erano di bombe al plutonio. Il Nord Corea, tuttavia, dichiara che era una bomba ad idrogeno “rimpicciolita”. Gli esperti sono scettici. Potrebbe essere che Il Nord Corea menta, come dicevamo all’inizio, oppure che sono diventati più efficienti con la fissione. Potrebbe anche essere che la parte di idrogeno del test non ha funzionato molto bene ovvero la parte di fissione non ha funzionato benissimo.

Il Nord Corea è nella politica internazionale una categoria a sé stante

E’ l’unico stato che si è formalmente ritirato dal Trattato di Non Proliferazione nucleare. Le armi nucleari sono parte delle disposizioni della sua costituzione mostrando alcun interesse nel perseguire la denuclearizzazione in termini che per ogni altro paese sarebbero accettabili. E’ l’unico paese a testare armi nucleari nel 21° secolo. Gli sforzi nucleari nord coreani persistono come uno schiaffo in faccia alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e alle sanzioni. La leadership si vanta dell’ampliamento del programma costantemente ed in questi termini “100 per cento basato sul nostro sapere, sulla nostra tecnologia e sul nostro potere, abbiamo alzato orgogliosamente il grado di stato nucleare”.

La leadership nord coreana ha perciò convinto essa stessa che la sua esistenza come stato autonomo deriva direttamente dal suo possesso di armi nucleari. Esplicitamente contrasta la sua continua sopravvivenza con il destino di Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia, asserendo che le armi nucleari sono essenziali per assicurare la sopravvivenza del regime. Non sorprende che il Nord Corea caratterizzi presunti disegni maligni di potenze esterne per giustificare i costi prodigiosi di un tale programma e le gravi implicazioni per il benessere dei suoi cittadini.

Cosa può essere fatto? La comunità internazionale, incluso la Cina e la Russia, hanno da tempo attenuato il gioco internazionale di “la colpa è tua”, ripartendosi la responsabilità per la persistenza e l’espansione degli sforzi del Nord Corea. Per il future indefinito, l’obiettivo dovrebbe essere di sostenere una coalizione il più possibile ampia, iniziando con un riconoscimento condiviso che lo sviluppo e la diversificazione dei programmi del Nord Corea è una minaccia comune, non diretta ad un solo paese. Ma interessi collettivi devono essere tradotti in azioni di stati singoli e la volontà di coordinare le loro azioni.

Un’ultima considerazione è d’obbligo:

perché la Cina non fronteggia il Nord Corea?

Tutti gli occhi sono puntati sulla Cina per vedere se il test nucleare produrrà un cambiamento nel supporto di Beijing al regime. Mentre potrebbe causare qualche limitazione d’assistenza nel breve periodo, è improbabile che causerà l’abbandono del Nord Corea da parte della Cina. La ragione risiede nella preoccupazione dei leader più anziani cinesi che se la Cina diventasse troppo intransigente con il Nord Corea esacerberebbe le relazioni bilaterali: Pyongyang si allontanerebbe e Beijing perderebbe quella piccola influenza che ha e le provocazioni inizierebbero ad aumentare. Sebbene la Cina non sia contenta della situazione odierna, mantenere il fragile status quo è preferibile all’incertezza del cambiamento. Anche se Beijing non è stata entusiasta della successione dinastica del dicembre del 2011, l’ha accettata credendo che potesse offrire una sorta di continuità e quindi conduttiva di una stabilità.

Negli ultimi 10 anni la diplomazia cinese nei confronti del Nord Corea si è mossa in due direzioni: non ha pubblicamente condannato il Nord Corea, ha stabilito un forum multilaterale con sei partecipanti: Nord Corea, Sud Corea, Cina, Russia e Giappone e Stati Uniti, per gestire la questione del nucleare nord coreano.

Le imprese cinesi investono un totale di 98.3 milioni di dollari nel Nord Corea. E’ il secondo investitore più grande in Nord Corea.

La politica cinese in Nord Corea sembra soffrire di inerzia e paura di poter rompere il fragile status quo, sostenendo i nord coreani con ogni strumento a disposizione. I leader cinesi preferiscono gestire il “problema nord corea” diplomaticamente ed economicamente, ma non significa che Beijing esiterà ad agire militarmente se gli interessi vitali di sicurezza della Cina fossero messi in pericolo da azioni scellerate dei nord coreani.

Ottobre 28 2015

Kamikaze e attentatore suicida non sono sinonimi

kamikaze e terrorist suicide bomber

Kamikaze non è sinonimo di attentatore terrorista suicida, eppure in Italia si continua ancora ad usare il termine kamikaze. I kamikaze giapponesi non hanno nulla in comune con i contemporanei attentatori terroristi suicida.

La stessa notizia in Italia viene diffusa così: Turchia, attacco Kamikaze , all’estero così: Turkish troops killed in suicide blast. Evidentemente, in Italia, non solo per i giornalisti, usare un termine impropriamente è all’ordine del giorno, peccato che si fa davvero una figuraccia se si sapesse a cosa si riferisce il termine kamikaze.

Chi sono i Kamikaze

La strategia Kamikaze è emersa tra il 1944 ed il 1945, come diretta risposta al fatto che la marina imperiale giapponese aveva perso la maggior parte delle sue navi da guerra e quasi tutte le sue portaerei  ed i rifornimenti di carburante dall’Indonesia erano stati per la maggior parte tagliati. Nel 1944 le truppe dell’esercito imperiale giapponese non riuscivano a sopravvivere: senza cibo e senza munizioni. La battaglia di Leyte Gulf (23 – 26 ottobre 1944)  vide il primo attacco kamikaze: i piloti giapponesi si schiantavano con i loro aeroplani contro obiettivi militari.

La campagna Kamikaze è unica: i partecipanti ci hanno lasciato una vasta quantità di lettere, poemi, memorie. Le analisi condotte soprattutto dall’ Institute of Cognitive and Decision Sciences Evolution & Cognition Focus group dell’ Università dell’Oregon ci dicono che i piloti erano motivati dalla conoscenza che la loro morte, presumibilmente, avrebbe aiutato a migliorare le fortune dell’apparato militare giapponese in declino. La maggiore fonte di piloti kamikaze era l’ Air Force Cadet Officer System, venivano reclutati all’università e al liceo su base volontaria.

Perché non è possibile usare il termine Kamikaze come sinonimo di attentatore terrorista suicida ?

I piloti kamikaze: a) non agivano sotto coercizione; b) non erano fortemente motivati dalle attitudini culturali giapponesi verso il suicidio per se; c) non erano fortemente motivati dalla religione.

Non è possibile comparare la mentalità dei kamikaze con quella dei terroristi che si fanno saltare in aria. Un’importante differenza risiede nel fatto che gli attacchi kamikaze erano realizzati e legittimatati dall’apparato militare di uno Stato, mentre gli attacchi degli attentatori suicida sono generalmente pianificati e autorizzati da organizzazioni che si posizionano al di fuori della struttura dello Stato. In contrasto con i contemporanei attentatori suicida i loro obiettivi sono sempre stati aeroplani militari, navi e soldati, mai civili. Durante gli ultimi mesi della guerra del pacifico, gli obiettivi militari erano gli unici che i kamikaze potevano sfidare, secondo le condizioni di guerra. Per i piloti kamikaze l’obiettivo finale delle loro azioni non era uccidere i soldati nemici o raggiungere la vittoria della guerra, ma forzare gli Alleati a fare concessioni per terminare la guerra, terrorizzandoli con gli attacchi suicida.

 Le parole sono la più potente droga usata dall’uomo. (Rudyard Kipling)

Ottobre 18 2015

L’Afghanistan oggi: seconda parte

Afghanistan

L’Afghanistan è oggi territorio di scontro tra i Talebani e l’ISIS per la supremazia della jihad globale.

Akhtar Mohammed Mansoor leader dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan (che conosciamo come i “talebani”), successore del Mullah Omar ex ministro dell’aviazione civile e dei trasporti durante il regime talebano dal 1996 al 2001, ex “governatore ombra” della provincia di Kandhar, manda un messaggio al leader dell’ISIS: Abu Bakr al – Baghdadi chiedendo che lo Stato Islamico combatta sotto la bandiera dei talebani in Afghanistan e porre fine alle divisioni tra i jihadisti in tutto il mondo.

ISIS in Afghanistan

Baghdadi ha stabilito lo Stato Islamico nella provincia di Khorasan lo scorso anno accogliendo tra le proprie fila talebani delusi e comandanti jihadisti. La cosidetta Khorasan region comprende: Afghanistan, Pakistan e parti dell’area circostante queste due nazioni. L’ISIS ha minacciato recentemente i Talebani, ma non si è limitato solo a questo, ci sono stati attacchi ai Talebani nella provincia di Nangarhar in Afghanistan. Recenti dati ci mostrano che più di 17.000 famiglie nel Nangarhar sono andate via a causa della violenza dell’ISIS. Alcune delle peggiori atrocità sono state perpetrate nel distretto di Achin. Entrano nei villaggi chiedendo una lista delle vedove e delle donne non sposate. In alcuni villaggi, l’ISIS ha dichiarato che i matrimoni celebrati e riconosciuti dal governo dell’Afghanistan sono invalidi.

Continuo conflitto tra Al Qaeda e l’ISIS in Afghanistan esacerbato dalla morte del Mullah Omar.

Quando il leader dell’ISIS ha rifiutato l’autorità di Al Qaeda e ha poi dichiarato il Califfato, ha diviso il già frammentato movimento jihadista.

Le 1500 Ulema (i consigli religiosi in Afghanistan) hanno scelto e promesso alleanza alla leadership dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan secondo la sharia. L’argomentazione di Mansoor sull’unità dei jihadisti in Afghanistan prende spunto dal Corano che secondo la sua tesi richiama fortemente all’unità tra i mussulmani e che l’Emirato islamico dell’Afghanistan è stato appoggiato dalla leadership mussulmana così come dal fondatore di Al Qaeda.

La conferma della morte del  Mullah Mohammed Omar alza la posta in gioco per la battaglia per la supremazia jihadista globale tra Al Qaeda e l’ISIS. Omar era la colonna portante del rifiuto di Al Qaeda delle richieste dell’ISIS di alleanza. Primo, perché Al Qaeda aveva già garantito alleanza ad Omar e quindi non poteva farlo anche al leader dell’ISIS. Secondo: Abu Bakr al Baghdadi aveva illegittimamente usurpato il titolo di Amir al Mumineen (comandante del fedele)ad Omar. La morte di quest’ultimo lascia libero chi ha promesso alleanza a lui. Tuttavia né la promessa né il titolo di Amir al Mumineen sono automaticamente ereditati dal suo successore. Il 31 agosto 2015 i Talebani confermano la morte del Mullah Omar ( Taliban officially announce Mullah Omar death), dopo aver celato di fatto la sua morte per ben due anni: Omar era morto il 23 aprile 2013.

Questo fatto aggiunge un altro fattore di attrito. Se è morto due anni fa, la posizione di Amir al Mumineen potrebbe essere stata verosimilmente vacante quando Baghdadi la rivendicò subito dopo la dichiarazione del califfato, distruggendo eleoquentemente l’argomentazione pro – Al Qaeda che l’ISIS ha usurpato l’autorità legittima di Omar. L’annuncio della morte di Omar è un bel punto a favore dell’ISIS che lo sfrutta condannando la mendacità di condurre un’organizzazione divulgando ordini e linee guida in nome di un leader morto in virtù della strategia conosciuta con il nome di: “weekend at Bernie” (il celebre film: il week end con il morto).

Se l’emiro di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri non è anche lui un “Bernie” a questo punto è davanti ad un dilemma. La sua letargica conduzione di Al Qaeda ha diminuito fortemente la sua abilità di sfidare Baghdadi direttamente sulle basi della sua autorità.  A parte la promessa al Mullah Omar, pochi sono gli argomenti contro l’egemonia dell’ISIS: brutalità della tattica, focus settario, mancanza di consultazione con gli altri gruppi di jihadisti al momento della dichiarazione del Califfato.

Zawahiri ha poche opzioni a sua disposizione: continuare ad affidarsi alla sua attuale strategia che sembra sia quella di sperare ardentemente che l’ISIS vada semplicemente via, non pare la più efficace.

La battaglia tra Al Qaeda e l’ISIS ha poco a che fare con la legittimazione da un punto di vista tecnico o con la giurisprudenza, ma piuttosto con l’anima dell’intero mondo jihadista.  La morte del Mullah Omar ha colpito Al Qaeda nei due emisferi e fornisce una via conveniente per quei sostenitori irrequieti che hanno resistito finora al richiamo dell’ISIS. Il supremo comandante dell’ISIS nel Khorasan è Hafiz Saeed Khan che era un membro dei Talebani pakistani. Con i suoi guerriglieri è scappato in Afghanistan dopo che le forze regolari del Pakistan hanno condotto un’offensiva nella aeree tribali, proprio quest’anno.

Cosa si potrebbe fare?

Sfruttare questa divisione del movimento jihadista, diminuendo la minaccia, indebolendolo. Questa guerra interna va contro quello che rivendica l’intera organizzazione e se diminuisce la presa sui volontari jihadisti perché sentono di star combattendo una guerra fratricida piuttosto che il regime di Assad, gli americani, gli sciiti o qualsiasi altro nemico, allora inizieranno i guai seri. Sfruttare la mutevolezze della fedeltà. Saaed non è un caso isolato. L’altra faccia della medaglia di questa guerra intestina al movimento jihadista è che la violenza contro gli Stati Uniti, o più in generale contro l’occidente potrebbe diventare più intensa, dal momento che sia Al Qaeda che l’ISIS vogliono dimostrare che il gruppo è più forte e rilevante dell’altro.

Non ci illudiamo: fare la stampella del governo dell’Afghanistan non è la soluzione per la minaccia che proviene da Al Qaeda e dall’ISIS e meno che mai servirà a impedire che possano verificarsi attacchi da parte delle due organizzazioni in lotta fuori dal territorio dell’Afghanistan. Ricordiamoci che l’attacco a Parigi del gennaio 2015 è arrivato dopo 14 anni di missione internazionale in Afghanistan.

Ottobre 17 2015

L’Afghanistan di oggi: prima parte

Afghanistan oggi

L’Afghanistan oggi è un governo frutto di coercizione diplomatica, un territorio insicuro e un popolazione che oscilla tra i Talebani e il governo di unità nazionale.

Afghanistan: le truppe americane rimarranno per tutto il 2016, parola di Obama! Dunque gli Stati Uniti restano: perché? Molto semplice: nell’ autunno del 2014 il segretario di stato americano John Kerry si rivolge al team di Abdullah asserendo che se non avessero trovato un accordo per un governo di unità, gli Stati Uniti non sarebbero stati più in grado di supportare l’Afghanistan. La dichiarazione di Kerry non era un’offerta che Ghani ed Abdullah potevano rifiutare. Il governo attuale non è certo un trionfo di consenso forse più un caso di studio nel campo della “coercizione diplomatica” e la sua sopravvivenza sarebbe stata in serio pericolo se gli americani si fossero attenuti alla data di completamento del ritiro fissata per la fine del 2016.

L’Afghanistan di oggi è un paese sì, dove ci sono più bambini nelle scuole, più accesso ai servizi sanitari di base che prima dell’invasione del 2001, accesso internet: più connessioni al mondo esterno. Una delle prime cose che ha fatto il nuovo presidente Ashraf Ghani è stata quella di creare un ponte con Islamabad. Differentemente dal suo predecessore, Ghani ha intuito che sarebbe stato meglio essere carino con il suo vicino piuttosto che con New Delhi.
Sia Ghani che Abdullah Abdullah cercano di far funzionare il governo di unità nazionale, ma l’avanzata dei Talebani a Faryab e a Kunduz non si è arrestata per i loro buoni propositi. Politici influenti come Rashid Dostum (vice presidente di Ghani) e Atta Nor (il potente governatore della provincia di Balkh)hanno dichiarato con forza e spesso, che secondo loro, le forze afghane da sole, non sono in grado di mettere in sicurezza l’intero paese.

Da quando gli afghani hanno assunto il controllo della sicurezza del paese nel 2014, più civili sono stati uccisi, più soldati sono morti, più truppe afghane hanno disertato come mai prima e le forze di sicurezza stanno ancora torturando un terzo dei loro prigionieri. Secondo gli americani le vittime civili sono il risultato di “impegni di terra” tra gli afghani e gli “insorti” costituiscono l’8% dei primi tre mesi del 2015 comparati allo stesso periodo del 2014. L’ultimo rapporto di UNAMA (http://unama.unmissions.org/)ci dice che nella prima parte del 2015 le forze afghane hanno causato più vittime civili di quello che hanno fatto i Talebani. Le forze afghane stanno morendo a numeri da record. Nei primi 5 mesi del 2015, le vittime tra le forze di sicurezza erano del 70% rispetto allo stesso periodo del 2014. Secondo un rapporto americano la più grave lacuna è il fatto che se un soldato non si mostra a lavoro per più di un mese non viene più conteggiato come tale.
La presa di Kunduz, la sesta città più grande dell’Afghanistan, da parte dei Talebani, arriva in un momento inopportuno per il governo di unità nazionale, che ha completato il suo primo anno. Anche se pare che le forze di sicurezza afghane abbiano ripreso molto della città. In verità l’Emirato Islamico dell’Afghanistan ha ufficialmente dichiarato di essersi ritirato dalla città per il bene degli afghani in virtù dei bombardamenti americani sempre più frequenti (Taliban admit Kunduz withdrawl). L’incidente ci pone degli interrogativi circa l’efficacia dello stato afghano, l’approccio allo state – building e il piano americano di ritirare tutte le truppe.
A Kunduz, i Talebani hanno mantenuto con successo l’influenza nei distretti dove per anni hanno goduto del supporto e l’hanno capitalizzato in uno sforzo concertato per espandere la loro influenza al punto che i combattenti talebani si sono trovati essi stessi all’ingresso della città. La presa di Kunduz non è stata sviluppata notte tempo e la minaccia alla città richiederà di più che operazioni militari. Kunduz è un microcosmo dell’Afghanistan con parti uguali di tagiki, uzbeki, pashtun così come minori proporzioni di turkmeni e hazari. La provincia è una delle più stabili economicamente, baciata da una fertile agricoltura e da depositi di minerali e non da ultimo, importante crocevia logistico. Non solo è la principale via est – ovest tra le aeree del nord e lungo la via principale nord – sud verso Kabul, ma la sua frontiera con il Tagikistan fornisce una via di traffici illegali redditizia verso il centro Asia.
Importante sottolineare che i semi che hanno poi dato vita agli eventi a Kunduz sono stati piantati ben prima che il governo di unità  entrasse in carica.

Cosa si potrebbe fare?

Quello che deve necessariamente porre in essere questo governo è una politica bilanciata, assicurando un’equa distribuzione tra tutte le circoscrizioni elettorali etniche. Kunduz ci dimostra che la diversità per amore della diversità non solo può provarsi inefficace ma anche pericolosa e contro – produttiva. Come dicevamo la divisione del potere tra Ghani e Abdullah è il prodotto di una considerevole pressione diplomatica americana. Tutti gli accordi di divisione di potere sono fragili, particolarmente nelle condizioni di una guerra in corso. La maggior parte di questo genere di accordi in conflitto e post – conflitto arriva in gran parte attraverso la pressione internazionale e l’Afghanistan non fa eccezione. Gli Stati Uniti premettero su Karzai per anni e non ottennero buoni risultati. Hanno usato la pressione diplomatica per i meccanismi di divisione di potere anche in Bosnia e in Iraq ma con risultati pessimi. La vera domanda è: quanto questi accordi funzionano?  Non è possibile dare una risposta generalista. In Afghanistan Ghani e Abdullah erano i migliori candidati, si sono mossi nella direzione giusta nelle relazioni con il Pakistan. Superato il grande problema della composizione del governo, cercando le persone meno compromesse da reti di relazioni intrecciate con signori della guerra, fondamentalisti islamici, lo stato afghano ha necessariamente bisogno della stampella degli Stati Uniti per non sgretolarsi.
Il vero e unico problema, che ci ha mostrato Kunduz è la minaccia dei Talebani che oltre a costituire un pericolo per la sicurezza dello stato, affrontano una guerra con lo Stato Islamico per la leadership della jihad globale. Argomento questo che sarà oggetto del prossimo post. SEGUITEMI.