Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.

Febbraio 13 2019

Stati Uniti e Africa: la strana similitudine con la strategia della Cina

Africa e Stati Uniti

La nuova strategia degli Stati Uniti in Africa, svelata lo scorso dicembre, ha come scopo complessivo quello di contenere l’influenza economica della Cina nel Continente.

Secondo il consulente di sicurezza nazionale americano John Bolton, le “pratiche predatorie della Cina inibiscono la crescita economica in Africa, minacciano l’indipendenza finanziaria delle nazioni africane, bloccano le opportunità di investimento degli Stati Uniti, interferiscono con le operazioni militari degli Stati Uniti e pongono una minaccia significativa agli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Fino al 1990, i politici americani hanno visto l’Africa attraverso le lenti delle rivalità della Guerra Fredda ed il Continente era generalmente assente dai calcoli strategici geopolitici. Agli inizi degli anni 1990, le priorità di Washington sono cambiate verso la good governance, democratizzazione e sviluppo di capacità locali per fornire servizi pubblici come sanità ed istruzione. Nel 1998, gli attacchi di Al Qaeda alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya hanno aggiunto la sicurezza ed il contro-terrorismo all’equazione. Fino al Summit del 2014 che portò 50 capi di Stato africani a Washington per discutere di opportunità economiche, gli interessi americani nel promuovere gli affari, la crescita del commercio e del settore privato in Africa erano minimi.

La strategia degli Stati Uniti in Africa

La strategia degli Stati Uniti è costruita su tre pilastri:

1.l’accrescimento della prosperità americana e africana attraverso l’incremento dei legami economici degli Stati Uniti in Africa; l’aumento della sicurezza attraverso sforzi di contro-terrorismo;

2.la promozione sia degli interessi americani che dell’autonomia africana attraverso un utilizzo più selettivo degli aiuti esteri degli Stati Uniti;

3.il miglioramento del clima degli affari e l’espansione del settore privato e del ceto medio africano.

L’influenza cinese in Africa sta crescendo più rapidamente di quella americana, ma l’ossessione degli Stati Uniti per la Cina avrà come risultato solo quello di minare gli sforzi di controllo della Cina e compromettere lo sviluppo di un Continente africano prospero attraverso gli investimenti americani.

L’aver ammesso, palesemente, che l’Africa non è ancora una priorità della politica estera americana, renderà più difficile per le imprese americane incontrare la benevolenza dei mercati africani o vincere contratti governativi.

È opportuno evidenziare che l’incremento dei legami commerciali con i Paesi africani allo scopo di accrescere la prosperità, la sicurezza e la stabilità è esattamente ciò che la Cina già sta facendo in Africa da decadi.

Sostanzialmente la nuova strategia dell’amministrazione Trump consolida le riforme esistenti dell’aiuto estero degli Stati Uniti compiute in tutto lo scorso anno. Agli inizi del 2018, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti ha lanciato la “trasformazione” della sua struttura organizzativa per gestire al meglio l’apparato di aiuto estero del settore privato. USAID ha svelato la sua nuova politica di impegno nel settore privato che afferma: “il futuro dello sviluppo internazionale è guidato dalle imprese” ed incoraggia lo staff a sostenere approcci imprenditoriali allo sviluppo. Lo scorso ottobre gli Stati Uniti hanno revisionato i loro strumenti di investimento nel settore privato all’estero attraverso la creazione di una nuova International Development Finance Corporation. Essa raddoppierà il tetto dei crediti per gli investimenti nel settore privato a 60 miliardi di dollari, permetterà pratiche di credito più flessibili.

Ironicamente, gli Stati Uniti, perseguendo una relazione con l’Africa guidata più dai mercati, stanno abbracciando molti dei principi che sorreggono la strategia della Cina in Africa.

Pechino ha iniziato incoraggiando le sue imprese statali e le imprese del settore privato ad “andare fuori” e cercare nuovi mercati in Africa agli inizi degli anni 1990 e si è dotata di diverse grandi istituzioni finanziare di sviluppo per fornire il sostegno finanziario necessario alle imprese cinesi. Investimenti di imprese piccole, medie e grandi in Africa ha avuto come risultato il sorpasso degli Stati Uniti da parte della Cina come principale partner commerciale del Continente già nel 2009.

Non è mai stato un segreto che Pechino destini il suo aiuto, che per definizione include accordi di investimento e commercio, a seconda dei suoi interessi di politica estera.

In linea generale, la nuova strategia degli Stati Uniti in Africa riflette il tradizionale, lento, spostamento della comunità dei Donatori dall’aiuto verso l’investimento, spronato parzialmente dalla crescita in Africa di nuovi attori non-tradizionali guidati, ma non limitati, dalla Cina. Questi nuovi attori vedono i Paesi africani come partner economici e non come destinatari di aiuto e portano molte proprie differenti esperienze di sviluppo.
Se gli Stati Uniti vogliono competere con successo con la Cina in Africa, dovrebbero rendere disponibile molto più sostegno finanziario e diplomatico.
Il limite principale degli Stati Uniti è che Washington continua a considerare l’aiuto allo sviluppo della Cina all’interno dei suoi paradigmi di come l’aiuto estero dovrebbe essere.

Piuttosto che fissarsi sulla Cina, Washington, come del resto qualsiasi Stato che voglia investire in Africa, dovrebbe concentrarsi sui Paesi africani ascoltando non solo di cosa hanno bisogno, ma anche cosa vogliono loro. Oltre a più sviluppo finanziario, dovrebbe essere offerto più supporto per le imprese africane costante nel tempo. In questo modo è possibile rivaleggiare con la Cina per l’influenza economica, mentre si promuove una reale prosperità dei Paesi del Continente africano.

Febbraio 3 2019

Mali: il conflitto che non trova pace

Mali

Fin dagli inizi del 2017, più di 1200 civili, per la maggior parte di etnia Fulani, sono stati uccisi negli scontri nel Mali centrale.

La violenza viene perpetrata, spesso, utilizzando questa tattica: uomini armati conducono raid letali bruciando i villaggi e rubando tutto il bestiame che possono. Questo tipo di violenza è attribuibile ai membri delle cosidette milizie di autodifesa create dai gruppi etnici Dogon e Bambara, sebbene anche gli estremisti islamici e i soldati con la complicità dell’esercito del Mali abbiano condotto assassini.
In risposta a ciò anche i Fulani hanno creato i loro propri gruppi di autodifesa i quali sono stati implicati nella morte di dozzine di Dogon.
Per lunghi anni si sono verificate tensioni tra le differenti comunità del Mali centrale per l’accesso alla terra e alle risorse idriche, attriti esacerbati dai cambiamenti climatici.

Le milizie di autodifesa sono, relativamente, un nuovo fenomeno. Molte di esse si sono formate nel contesto del conflitto che è iniziato nel nord del Paese nel 2012, l’anno in cui gli estremisti islamici hanno preso il controllo di metà del Mali. I ranghi delle milizie di autodifesa hanno continuato ad ampliarsi in risposta alle uccisioni extragiudiziali ad opera delle forze di sicurezza del Mali e la relativa assenza dello Stato nella Regione.
Human Right Watch rivela che nel giugno del 2018 nell’attacco a Gourou la milizia di autodifesa conosciuta come Dan Na Ambassagou, ha aperto il fuoco su dozzine di abitanti del villaggio nel momento in cui stavano riunendosi per un battesimo nella casa del capo villaggio. Sebbene il motivo preciso dell’attacco sia ignoto, Human Right Watch nel suo rapporto fa notare che Gourou è nota per l’abbondanza di bestiame e che dopo l’attacco, i miliziani hanno depredato gli animali così come le riserve di cibo e i gioielli.

Questo tipo di violenza rappresenta l’ultima manifestazione dell’insicurezza cronica che affligge parti del Mali da più di una decade.

Mali

Non vi è solo la sfida della sicurezza che il governo del Presidente Ibrahim Boubacar Keita, salito al potere nel 2013 e rieletto lo scorso anno, deve affrontare. Oltre alla violenza etnica nel Mali centrale, l’amministrazione Keita è alle prese con una ribellione Tuareg di lungo corso nel nord del Paese e con la crescente rete di gruppi estremisti islamici che possono condurre attacchi in ogni luogo del Paese.
In questo ambiente di fragile sicurezza, i funzionari governativi stanno cercando di stabilire un equilibrio tra riconciliazione e giustizia; sostenuti dalle Nazioni Unite e da donatori internazionali, hanno intrapreso una serie di iniziative per cercare di andare oltre il conflitto. Azioni che includono il disarmo, una Commissione di Verità, e sforzi per portare i perpetratori davanti ai giudici e rompere il ciclo di impunità.

I gruppi armati

Il conflitto in Mali, che per molte persone non è mai realmente terminato, è iniziato nei primi mesi del 2012, quando l’etnia Tuareg nel nord del Paese, marginalizzata, ha lanciato una rivoluzione e dichiarato il suo proprio Stato indipendente – Azawad -, che comprendeva tutto il nord Mali.
I ribelli avanzavano velocemente, spingendo fuori un esercito del Mali poco equipaggiato e disorganizzato. Infuriati con l’allora Presidente Amadou Toumani Toure per la sua incapacità di gestire la crisi, un gruppo di soldati, a Bamako, organizzano quello che alcuni hanno descritto come un “coup accidentale”, marciando verso il Palazzo presidenziale incitando Toure alla fuga.

La confusione prodotta da tale evento ha come conseguenza l’ulteriore intensificazione del conflitto, con i Tuareg che perdono quasi i due terzi dei territori, per poi vedere gli stessi territori e con essi la loro ribellione, sottratti dai gruppi armati estremisti islamici.

Gli estremisti islamici prendono il controllo delle città di Kidal, Gao, Timbuktu, impongono la legge della Shariah nella loro maniera e modalità, ma quando essi minacciano di avanzare su Bamako agli inizi del 2013, la Francia invia le sue truppe che, con l’aiuto degli alleati africani, riprendono rapidamente il controllo delle città del nord del Mali. Tuttavia anche se i gruppi estremisti islamici si erano ritirati nelle aree rurali, essi restano una presenza giacché da questa parte del Paese migrarono nelle parti centrali.

Nel 2015 colloqui di pace tenuti ad Algeri producono un accordo tra le tre parti principali: il governo del Mali, i gruppi armati arabi e Tuareg pro-indipendenza facenti parte del Movimento di coordinamento Azawad; gruppi armati pro-governativi  indipendenti dalle forze armate del Mali. L’accordo prevede l’utilizzo di due strumenti principali per dirigere il conflitto verso la fine: disarmo e giustizia transitoria.
La componente disarmo comprendeva il consentire ai gruppi armati di deporre le loro armi ed essere integrati nell’esercito del Mali o ritornare alla vita civile. Uno degli obiettivi di questo sforzo di integrazione era quello di creare un esercito nazionale che poteva essere più rappresentativo della società del Mali, vale a dire meno dominato da coloro che abitavano il sud del Paese.

A nord un totale di 36,000 combattenti di diversi gruppi armati si registrano per il disarmo; di questi solo 15,000 sono parte del processo perché registrati con un’arma; gli altri si presentano soltanto con munizioni.

Il processo di disarmo prevede la creazione di un’unità speciale denominata “Meccanismo operativo di cooperazione” composta da tre battaglioni: uno a Timbuktu, uno a Gao e uno a Kidal.
Nei primi giorni del gennaio 2017, quando 600 membri del battaglioni stavano aspettando il loro primo impiego, i gruppi estremisti islamici fanno esplodere la loro caserma, uccidendo 77 persone, nell’attacco più sanguinoso che sia mai accaduto sul territorio maliano. L’attacco, rivendicato dal Gruppo al-Mourabitoun legato ad Al Qaeda, ha sottolineato una delle più grandi minacce all’accordo di pace: il fatto che i gruppi estremisti islamici restano la più grande sfida alla sicurezza e al disarmo.

Il Sistema giudiziario

La presa del potere da parte dei gruppi estremisti islamici ha spinto molti giudici alla fuga verso il nord del Paese, altri sono stati attaccati prima che potessero scappare, molti uccisi o rapiti. Gli estremisti hanno creato un sistema di giustizia parallelo che ha distrutto la già fragile infrastruttura giuridica della Regione. Malgrado la firma dell’accordo di Algeri, la persistente insicurezza ha avuto delle serie conseguenze nelle azioni volte a ristabilire la legge e l’ordine nel nord del Mali. A settembre dello scorso anno, secondo la missione delle Nazioni Unite di peacekeeping, un terzo dei giudici nel nord non si trovava al loro posto di lavoro, mentre coloro che erano impiegati non andavano spesso a lavoro ovvero venivano ricollocati per ragioni di sicurezza.
Allo scopo di mantenere in funzione il sistema di giustizia durante il conflitto, la Corte Suprema ha trasferito la giurisdizione per alcuni crimini commessi nel Nord ai due tribunali a Bamako – uno per i reati di violenza sessuale e l’altro per i crimini legati al terrorismo. Nel 2015, la Corte Suprema ha ripristinato la giurisdizione per i tribunali del Nord, ma essi non erano operativi. Come risultato, la documentazione di molti casi giaceva ancora nei tribunali a Bamako che non avevano l’autorità legale per perseguire i criminali.
L’accordo di Algeri prevede la creazione di una Commissione di Verità, Giustizia e Riconciliazione per fare luce sugli abusi di diritti umani commessi dal 1960, quando terminarono circa sette decadi di governo coloniale francese. La Commissione doveva creare una politica di indennizzo ed indagare le cause alla radice del conflitto.
La Commissione ha iniziato ad ascoltare i testimoni nel 2016 e ha raccolto più di 10,000 accuse di illeciti da tutto il Paese, tuttavia deve ancora iniziare le indagini per produrre un rapporto con le raccomandazioni indirizzate alle autorità.

Così come per i tribunali, la mancanza di sicurezza ha investito le operazioni della Commissione. L’apertura dell’ufficio a Kidal è avvenuta solo lo scorso mese e i membri della Commissione sono riluttanti nello spostarsi a nord perché ritengono di poter essere obiettivo dei gruppi estremisti islamici.
I tribunali locali e la Commissione non sono gli unici apparati che indagano i crimini commessi in Mali. Una commissione d’indagine internazionale, con mandato delle Nazioni Unite, al momento nella fase di pianificazione, indagherà crimini di guerra, crimini contro l’umanità e la violenza sessuale legati al più recente conflitto allo scopo di produrre un rapporto per il Segretario generale delle Nazioni Unite per l’ottobre 2019.

Ciò che più preoccupa è una legge promossa dal Presidente Keita, per concedere l’amnistia a coloro che presero parte alla ribellione del 2012. L’amnistia si applicherebbe a tutti i reati, anche ai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e la violenza sessuale. Secondo i termini della proposta di legge, gli ex combattenti avrebbero sei mesi per ammettere i loro crimini e deporre le armi ai giudici, sindaci e commissari di polizia.
Il voto era previsto per dicembre, ma il dibattito è stato rimandato ad aprile dopo proteste di organizzazioni non governative internazionali.

Gennaio 23 2019

Sud Sudan: l’ennesimo accordo di pace

Sud Sudan

In Sud Sudan la guerra civile  imperversa da ben 5 anni: abusi di diritti umani, violenze, una situazione umanitaria drammatica.

Un nuovo accordo di pace, firmato lo scorso anno, sembra essere l’unico strumento in grado di porre fine alla guerra. Tuttavia sono poche e fragili le speranze che questo accordo regga.

Il governo e l’opposizione hanno 5 mesi per implementare l’accordo e formare un governo transitorio.

Sulla carta, l’accordo di pace del Presidente del Sud Sudan Salva Kiir e dell’ex vice-Presidente, Riek Machar, che poi è diventato il leader dell’opposizione armata  (il 12 settembre 2018), ha fermato un conflitto che conta  383,000 morti e per cui la maggior parte della popolazione versa in condizioni di malnutrizione e severa insicurezza alimentare.

Nel 2015, un accordo di pace molto simile a quest’ultimo, tra gli stessi leader, è miseramente fallito nel luglio 2016, a causa di violente proteste che hanno devastato la capitale Juba e spinto Machar a lasciare il Paese e trovare ospitalità nella Repubblica Democratica del Congo. Nei due anni successivi Machar è stato agli arresti domiciliari in Sud Africa.

In quel periodo, il conflitto è peggiorato: i gruppi armati si sono moltiplicati, le condizioni umanitarie sono diventate tragiche. In questo quadro le forze governative e l’opposizione si sono rese colpevoli di atrocità nella più totale impunità.

L’accordo prevede che il governo transitorio assuma i poteri nel maggio di quest’anno prima che si tengano le elezioni nazionali tra tre anni.

Sud Sudan

Un accordo di pace implementato parzialmente aumenta i rischi di un ritorno al conflitto.

Sebbene questi rischi potrebbero essere mitigati, in qualche maniera, dalle continue misure di “costruzione della fiducia” e presumibilmente attraverso emendamenti all’accordo stesso allo scopo di concedere più tempo, ogni ritardo potrebbe introdurre incertezza in quella che già è una situazione volatile.

Gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali si sono mostrati molto più moderati nel promettere finanziamenti per l’implementazione dell’accordo. Tuttavia, se da una parte l’amministrazione Trump ha già dichiarato che rivaluterà molto attentamente l’intera assistenza al Sud Sudan, la Cina, dall’altra, resta il principale investitore nel settore petrolifero del Paese e la nazione che contribuisce maggiormente alla missione di peacekeeping nel Sud Sudan.

Fondamentalmente l’accordo resta un patto tra le elite politiche che proteggono coloro che sono i maggiori responsabili per la violenza in Sud Sudan e come tale la sua sostenibilità è discutibile.

Il governo, da parte sua, ha iniziato a ricalibrare i suoi sforzi allo scopo di attrarre investimenti esteri, soprattutto nel settore petrolifero. L’impresa russa Zarubezhneft ha firmato un Memorandum of Understanding per esplorare quattro blocchi petroliferi; mentre un Fondo del Sud Africa ha promesso di investire 1 miliardo di dollari incluso la costruzione di una nuova raffineria e il miglioramento dell’esistente infrastruttura dell’oleodotto. La Oranto Petroleum International della Nigeria ha accordato un investimento di 500 milioni di dollari, mentre la Petroliam Nasional Bhd della Malesia ha concordato di investire 300 milioni di dollari.

Tutto ciò è interessante, ma restano delle promesse e non vi è garanzia che tali investimenti si materializzeranno o, se sarà quello il caso, l’ammontare sarebbe identico.

Violazioni documentate all’embargo delle armi e continui abusi dei diritti umani, in particolar modo la violenza sessuale, contribuiscono a minare la probabilità che l’accordo regga. Gli Stati Uniti e le Nazioni Unite hanno imposto l’embargo sulle armi agli inizi dell’anno scorso, l’Unione Europea ne ha imposto uno nel 2011, l’anno in cui il Paese ha ottenuto l’indipendenza. Il governo del Sud Sudan ha lavorato con Paesi regionali, particolarmente l’Uganda, in un sistema che, allo scopo di fornire garanzie agli utilizzatori finali, permette la manifattura di armi in Romania, Bulgaria e Slovacchia in maniera tale da soddisfare i requisiti legali. Una volta che queste armi arrivano in Uganda, esse poi vengono “ri-trasferite” nel Sud Sudan. Anche i gruppi di opposizione hanno utilizzato questa tattica per acquisire armi.

Diversamente dal 2015, vi è un forte interesse regionale a porre fine alla guerra civile in Sud Sudan. I leader dell’Africa dell’Est sono sempre più stanchi del conflitto, così come dei flussi migratori che ne derivano e dell’instabilità che tali flussi creano.

Il Sudan e l’Uganda hanno forti incentivi economici per sostenere l’accordo, dal momento che il Sudan otterrebbe nuovamente il controllo delle preziose aree petrolifere nella Regione dell’alto Nilo, mentre l’Uganda godrebbe del quasi monopolio delle risorse naturali nell’Equatoria nel sud del Sud Sudan (la regione del Nilo Bianco).

Tutto è nelle mani dei leader del governo e dell’opposizione del Sud Sudan, ancora, come nel 2015.

 

Luglio 14 2018

Somalia: dove l’influenza dell’Occidente svanisce

Somalia

La Somalia, uno dei Paesi più poveri al mondo, sempre in conflitto, uno Stato fragile che combatte al – Shabaab un gruppo estremista islamico che utilizza la tattica del terrorismo.

Dopo il collasso dello Stato e la guerra civile del 1991, cerca di ricostruire le sue istituzioni, mentre la comunità internazionale guidata dall’Occidente, semplicemente sollecita i leader somali a lavorare insieme per un obiettivo comune.

Le contese e i feudi regionali per strapparsi risorse, influenza e prestigio in Somalia

Somalia

La maggior parte del denaro degli Stati del Golfo è andato all’Etiopia e al Sudan per l’agricoltura e il settore manifatturiero, somme più piccole sono state incanalate verso la Somalia, principalmente all’élite politica. Le recenti lotte politiche interne, nel Paese, su chi appoggiare negli Stati del Golfo hanno diviso la Somalia in campi rivali con la maggior parte dei sei Stati federali allineati con gli Emirati Arabi Uniti (EAU).

Il governo centrale di Mogadiscio ha mantenuto una posizione formalmente neutrale, ma da alcuni ciò è visto come un tacito supporto al Qatar e per estensione alla Turchia.

Tali divisioni interne, alimentate dall’esterno, minacciano il processo somalo di costruzione di uno Stato federale e minano le sue stesse istituzioni peraltro già deboli. Non è chiaro se il Presidente somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed sarà in grado di navigare in questa odierna turbolenza.

I legami dei somali con il Golfo ed il resto del mondo arabo risalgono a secoli fa, con ondate di migrazione e commercio attraverso il Golfo di Aden. Tuttavia mentre il denaro del Golfo potrebbe essere un’opportunità economica per la Somalia, esso perpetua una spirale di clientelismo e corruzione.

La vendita illecita di carbone

Oltre ad essere un danno ambientale per la Somalia, è spesso legato al finanziamento dei gruppi estremisti. Il commercio del carbone, benché vietato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 2012 e nominalmente anche dal governo somalo, nell’assenza di alternative economiche sostenibili, è un’attività che continua a prosperare. Il denaro del Golfo alimenta tale commercio.

Il commercio all’ingrosso di carbone vale all’incirca 120 milioni di dollari e al-Shabaab guadagna almeno 10 milioni di dollari all’anno dalla tassazione e dalla produzione del carbone.
Gli Stati del Golfo,in Somalia, in effetti, finanziano entrambe le parti del conflitto.

Gli EAU quasi in maniera perversa spendono decine di milioni di dollari ogni anno per addestrare e pagare l’esercito nazionale somalo per combattere al-Shabaab, mentre operano come principale snodo di commercio per il carbone nel Golfo.

L’Unione Europea ha speso più di 1,5 miliardi di euro nella passata decade per finanziare AMISOM, la missione di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia, il cui mandato prevede il contrasto ad al-Shabaab. I soldati kenioti impegnati nella missione, presumibilmente, traggono dei benefici proprio dal commercio del carbone.

Similmente all’oppio in Afghanistan che ha creato un narco-Stato ed ha contribuito ai finanziamenti a disposizione per i Talebani, il commercio del carbone somalo sovvenziona direttamente alcune amministrazioni regionali governative come Jubbaland nel sud della Somalia, incluso le loro forze di sicurezza, che si suppone stiano combattendo al-Shabaab.

Simile agli schemi nel Sahel, la Banca Mondiale e altre istituzioni multilaterali internazionali potrebbero apporre pressione affinché si annulli il debito della Somalia, ancorando le condizioni per tale operazione all’eradicazione del commercio del carbone o alla costruzione di alternative economiche.

Le vie della soft-power degli Stati del Golfo in Somalia

L’influenza del Golfo in Somalia e nella Regione segue vie più blande di soft-power.

L’Arabia Saudita ha iniziato a finanziare in modo aggressivo gli studiosi salafiti e organizzazioni musulmane sunnite conservatrici nel Corno d’Africa per contrastare l’influenza iraniana dopo la rivoluzione iraniana del 1979.

Molto dell’aiuto e dell’assistenza del Qatar alla Somalia fluisce attraverso beneficenza individuale o sostegno ad ospedali e scuole islamiche che colmano il vuoto del sistema formale d’istruzione.

Centinaia di migliaia di lavoratori ogni anno viaggiano verso il Golfo come collaboratori domestici, autisti e operai creando un’ancora di salvezza per coloro che restano a casa; inoltre, essi spesso abbracciano una versione più conservatrice dell’Islam ed è con queste convinzioni religiose che poi fanno ritorno in Somalia.

Allo stesso tempo la Turchia, che promuove le sue proprie credenziali islamiche, ha fatto della Somalia, il suo più grande beneficiario di aiuti in Africa. Lo stretto legame del Qatar e della Turchia, percepito come promozione dell’Islam politico e della Fratellanza Musulmana, che sia EAU e l’Arabia Saudita hanno designato come organizzazione terroristica, hanno delle potenziali conseguenze nefaste sulla sicurezza in Somalia.

L’influenza occidentale svanita nel Corno d’Africa e queste visioni in conflitto nella Regione, si potranno solo intensificare minacciando più di tutto l’unità della Somalia.

Luglio 10 2018

Sahel: tante missioni = nessuna stabilità

Sahel

Il SahelSahel è diventato un mosaico, complesso, di operazioni di peacekeeping e contro-terrorismo.

I peacekeeper delle Nazioni Unite pattugliano il Mali, dove le truppe francesi sono anche a caccia di cellule legate ad Al Qaeda. Parigi ha anche sostenuto le forze africane di stabilizzazione per contenere i jihadisti nella Regione.

La Cina  ha dispiegato dei peacekeeper in Mali, peraltro subendo anche delle vittime.Vi ricordate il  recente viaggio di Macron a Pechino dove ha tentato di apporre pressione per più finanziamenti cinesi alle operazioni africane?

Lo scorso anno, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sborsato circa 130 milioni di dollari per aiutare i governi del Sahel in una nuova missione di contro-terrorismo multilaterale: il G5 Sahel.

Il Sahel sembra un laboratorio per una nuova era di gestione della crisi, con una vasta gamma di poteri locali, occidentali e non-occidentali posizionati piuttosto a casaccio che mettono assieme le loro risorse per promuovere la stabilità.
Tutti questi attori esterni hanno delle buone ragioni per farlo.

Mentre gli Stati Uniti si agitano per i terroristi, gli europei si preoccupano molto per i flussi di rifugiati.

La Cina – ebbene si ancora lei – ha compiuto grandi investimenti nel Mali.

Tutti vogliono limitare i costi di controllo della Regione, che non è un punto geopolitico cruciale e di possibile implosione al pari della Siria o della Penisola Coreana.

Il risultato netto è la proliferazione di sforzi militari di contro-terrorismo e di stabilizzazione connessi in maniera lasca.

Anche missioni individuali come il G5 Sahel possono risultare abbastanza incoerenti, coordinando eserciti con qualità differenti i cui leader hanno differenti priorità di sicurezza.

L’odierna miscela di missioni di gestione di crisi nel Sahel potrebbe essere sufficiente a limitare i problemi della Regione, ma sicuramente è improbabile che assicuri una più ampia stabilità.

Un tale tipo di approccio è relativamente flessibile e sostenibile, ma ha dei chiari limiti, perché alcune missioni nel Sahel potrebbero mettere benzina sul fuoco; oltre che è chiaro che sia la rappresentazione di risposte semplicistiche a problemi complessi.

Manca una direzione strategica complessiva.

La mancanza di risorse è un problema ricorrente per le operazioni nella Regione. Le unità occidentali potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno, ma le forze locali no. La missione delle Nazioni Unite in Mali conta su unità africane equipaggiate scarsamente, molte delle quali non hanno neanche veicoli corazzati.  La forza sostenuta dall’Unione Africana creata per combattere Boko Haram ha impiegato più di un anno per acquisire l’equipaggiamento militare finanziato dall’Unione Europea.
Queste missioni inoltre mancano di una chiara direzione politica, concentrandosi su misure di breve termine per creare la stabilità ed eliminare i terroristi piuttosto che affrontare le radici profonde di tensioni economiche e sociali.

Il G5 Sahel, secondo l’International Crisis Group rischia di spingere più persone nelle braccia di gruppi armati attraverso la frequente condotta inappropriata e gli abusi contro i civili durante le operazioni o mentre cercano di frenare i traffici illeciti.

Qualche settimana fa i militanti islamisti hanno attaccato la città di Sevare, in Mali, nella base del G5 Sahel, uccidendo molti soldati. Questo attacco e altri colpi messi a segno hanno avuto come obiettivo i soldati maliani e francesi e sono stati rivendicati da un affiliato di Al Qaeda conosciuto con il suo acronimo JNIM.

Le varie sfide che deve affrontare il G5 Sahel non sono destinate a scomparire nell’immediato futuro; i gruppi militanti in Mali, ad esempio, incrementeranno gli attacchi in vista delle elezioni presidenziali nel Paese previste per il 29 luglio.

Il futuro del peacemaking e della gestione delle crisi protratte

Il Sahel non offre un esempio luminoso di come affrontare crisi protratte, ma il futuro del peacemaking è incline a coinvolgere esattamente la sorta di confusione, complessità e indefinitezza internazionale che sta emergendo ora.

I conflitti odierni in Siria, Iraq e Yemen presumibilmente non si concluderanno con una chiara composizione politica regionale e un quadro di pace sostenibile. Attori esterni e regionali potrebbero facilmente finire con il mantenere l’ordine e combattere i jihadisti attraverso una mescolanza fangosa di missioni di stabilizzazione e operazioni di contro-terrorismo, qualche volta cooperando, qualche volta scontrandosi.

Gli interessi geopolitici in tale scenario potrebbero essere più elevati e le risorse militari più grandi che in Mali o in Niger, ma potrebbe essere la migliore opzione disponibile per il Medio Oriente.

La gestione della crisi – protratta –  nel Sahel è incline ad essere un affare indefinito, con attori esterni che investono solo in termini di denaro e assetti militari per contenere i gruppi jihadisti e restringere grandi movimenti di rifugiati e migranti.

Il futuro della gestione della crisi risiede più in ampie coalizioni di Stati dall’utilizzo immediato, che mettono assieme differenti assetti su basi ad hoc con strutture di comando decentralizzate.

Giugno 16 2018

Il Marocco, l’Iran e l’Arabia Saudita: storie di politica internazionale

Marocco

Il Marocco non più di un mese fa ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran.

Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi erano state riprese nel gennaio 2017 dopo che Rabat aveva accusato Teheran di interferenza negli affari diplomatici dello Stato africano.

Questa volta le accuse riguardano l’ingerenza iraniana nel Sahara Occidentale, un territorio su cui il Marocco rivendica la sovranità, ma che è casa del movimento separatista: Fronte Polisario.

Marocco

Secondo il ministro degli esteri del Marocco, la ragione di questa rottura diplomatica è il sostegno iraniano al Fronte Polisario con armi che il Fronte riceve attraverso Hezbollah, trafficate attraverso l’ambasciata iraniana ad Algeri. L’Algeria ha sostenuto a lungo le rivendicazioni del Polisario nel Sahara Occidentale e nel territorio algerino vi sono diversi campi di rifugiati che hanno condotto a relazioni tese tra i due Paesi.

Se fosse confermato, in maniera inequivocabile che gli iraniani stanno addestrando e armando il Fronte Polisario, avrebbe un senso ritenere che il sostegno iraniano ai separatisti nel Sahara Occidentale avviene in ritorsione alla decisione, del marzo 2018, presa dal Marocco di arrestare ed estradare negli Stati Uniti,  il finanziare libanese Kassim Tajideen, sospettato di essere un sostenitore di Hezbollah. Tale arresto è ancora più interessante se si considera il fatto che il Marocco è uno dei pochi Paesi al mondo che non ha un Trattato di estradizione con gli Stati Uniti.

Vi sono considerazioni politiche legate al conflitto nel Sahara Occidentale che con tutta probabilità hanno determinato la tempistica della decisione. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 27 aprile 2018, ha rinnovato per altri 6 mesi la missione  per il referendum nel Sahara Occidentale, o MINURSO.  MINURSO svolge una serie di compiti incluso il monitoraggio del cessate-il-fuoco nel Sahara Occidentale, supervisionando il rilascio di prigionieri politici e organizza il referendum, a lungo promesso, nel territorio. Dato che i precedenti rinnovi del mandato erano stati di un anno, la sequenza temporale più breve suggerisce che il Consiglio, e gli Stati Uniti in particolare, intendono apporre più pressione al Marocco per procedere con il referendum.
Dunque sembra che queste accuse contro l’Iran siano volte più a distrarre l’attenzione dal rinnovato supporto internazionale per il referendum che per le azioni di Teheran, anche perchè il Marocco non ha sollevato accuse contro l’Iran, l’Algeria ed Hezbollah nel contesto del rinnovo di MINURSO.

La rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran da parte del Marocco è stata anche modellata a seguito di sviluppi globali.

Il Marocco è entusiasta di rafforzare i suoi legami con un alleato di lungo corso: l’Arabia Saudita, una relazione che al momento è tesa per l’ostinazione del Marocco di restare neutrale nella disputa Arabia Saudita – Qatar. Per vendetta il governo saudita si è rifiutato di sostenere la candidatura del Marocco per la Coppa del Mondo nel 2026. (A complicare ulteriormente la questione: il Qatar ospiterà la competizione del 2022). Il Marocco cerca anche di rafforzare i suoi legami con l’amministrazione Trump.

L’influenza crescente e forte del Marocco in Africa probabilmente ostacolerà la presenza iraniana nel Continente.

Il ministro degli esteri iraniano Jawad Zarif ha un ruolo centrale negli sforzi dell’Iran di trovare nuovi alleati nel Continente. Nel 2015, ha visitato il Kenya, l’Uganda, il Burundi e la Tanzania. Nel 2016: Nigeria, Ghana, Guinea e Mali e nel 2017: Mauritania, Sud Africa, Uganda e Niger. Nel 2018 ha già visitato il Senegal e la Namibia.

Tuttavia l’Arabia Saudita è dominante nell’Africa dell’Est, il che rende tale Regione un’improbabile preda dell’influenza iraniana.

Nel frattempo, il Marocco ha intensificato i suoi legami in Africa. Nel 2017, ha ottenuto la riammissione all’Unione Africana ed è stato accettato, in linea di principio, come membro della Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali anche detta ECOWAS, sebbene la formale adesione sia ancora in sospeso.

Come risultato, l’Iran presumibilmente inizierà ad allontanarsi dall’Africa occidentale verso l’Africa centrale e meridionale, visto che continua a cercare partner economici e diplomatici.

Per il Marocco, la rottura delle relazioni con l’Iran è anche un segnale chiaro per l’Arabia Saudita e gli altri Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo. La più aggressiva politica estera del Marocco richiederà un delicato equilibrio per mantenere l’indipendenza dall’Arabia Saudita e dagli altri Stati del CCG, esercitare influenza e un impegno economico più ampio con gli Stati africani vicini e restare in buoni rapporti con l’Arabia Saudita, che cerca anche lei un impegno maggiore con gli Stati africani.

Febbraio 13 2018

L’Africa tra due fuochi: il potere a vita e i regimi militari

Africa

L’Africa è una terra stretta tra due fuochi: uno è quello del potere a vita che detengono i Presidenti e i funzionari pubblici, l’altro è quello rappresentato dai regimi militari al potere in molti Paesi dell’Africa.

Per quale motivo in molti Paesi dell’Africa il potere resta nelle mani di pochi a vita?

Un primo tentativo di risposta potrebbe essere che mantenere il prestigio è una delle principali ragioni per cui i funzionari pubblici si aggrappano al potere. Tuttavia, la questione è molto più profonda di ciò.

Non è possibile comprendere pienamente l’ossessione di restare il potere senza analizzare innanzitutto la natura della politica in molti Paesi del continente africano.

Diverse economie nella Regione sono caratterizzate da amministrazioni dello Stato stracolme, un settore privato inefficiente e un ampio settore informale. In molte ex colonie francesi, i cittadini si sono trovati a fare i conti con un incremento del costo della vita fin dalla svalutazione del franco CFA nel 1994.

Con l’eccezione del Senegal, Benin e fino a poco tempo fa del Mali e della Costa d’Avorio, gli “esperimenti di democrazia” in questi Paesi sono falliti miseramente.

Gli Stati africani non solo sono incapaci di combattere la corruzione in maniera efficace, ma i loro leader sembrano avere una mancanza di volontà politica nel creare le condizioni per la crescita di un settore privato attivo, uno strumento essenziale per la creazione di lavoro e di benessere.
L’amministrazione pubblica è inadeguata, l’impiego privato e le opportunità di investimento sono estremamente limitati.

Coloro che hanno ricevuto un’istruzione superiore, in molti Paesi africani, sfruttano i giochi della politica per trarne vantaggio personale. I giovani disoccupati nella Repubblica Democratica del Congo e della vicina Repubblica del Congo,  finiscono per offrire i loro servizi – incluso lo spionaggio, il reclutamento di gang e la sollevazione popolare – a politici benestanti in cambio di denaro contante.

Molti partiti politici difficilmente possono essere considerati partiti, ma piuttosto organizzazioni di un solo uomo con nessuna reale base popolare. Quando non sono creati con l’aiuto di partiti stabiliti, essi sono di solito lanciati da uomini calcolatori la cui principale ambizione è la loro stessa prosperità finanziaria. Questi aspiranti politici hanno imparato come sfruttare il panorama politico, specialmente attraverso i mezzi di comunicazione. Appaiono spesso in talk show, dove rilasciano dichiarazioni alternativamente in favore o contro il governo – qualsiasi posizione che spinga in avanti la loro posizione. L’idea è quella di fare tanto rumore sufficiente ad essere notati, nella speranza di assicurarsi una posizione nel governo, o almeno un supporto finanziario per essere eletti a livello locale o nazionale. Come risultato questi politici con più probabilità oppongono resistenza al cambiamento politico per via dei loro interessi finanziari. Quindi lavorano duramente affinché venga preservato lo status quo, dal momento che è quasi impossibile per loro vivere al di fuori della politica.

La politica lucrativa, unitamente all’inabilità di molti Paesi nell’Africa centrale e occidentale dipendenti dalle risorse  a diversificare la loro economia, hanno creato un ambiente perfetto per la corruzione.

Di 167 Paesi, la RDC e la Repubblica del Congo sono classificare 147° e 146°, rispettivamente, nell’indice di Trasparency International del 2015.
L’incontrollato accesso ai fondi pubblici ha incoraggiato funzionari pubblici corrotti a condurre stili di vita insostenibili e stravaganti. Tuttavia, dal momento che i loro beni acquisiti illegalmente non sono produttivi, si trovano rapidamente senza soldi una volta decaduti dal loro incarico. Per cui è nel loro interesse aggrapparsi alle loro posizioni politiche redditizie con ogni mezzo necessario.

Nell’assenza di una vigilanza efficace e di meccanismi di responsabilità, molti funzioni pubblici di alto livello sono indotti a credere che fin tanto che essi restano al potere non verranno perseguiti. Questo è particolarmente vero per Paesi in cui sono consolidati i sistemi clientelari, come i due Congo, dove le nomine di posizioni di livello più elevato, incluso le autorità giudiziarie ed elettive, sono molto spesso basate sui servizi resi che sull’esperienza professionale. All’apice di questo sistema c’è il Presidente, che si sente in debito con coloro che l’hanno aiutato a prendere il potere. In queste condizioni, è incredibilmente difficile rimuovere o perseguire funzionari di governo corrotti e incompetenti. Così non è insolito che funzionari pubblici di alto livello commettano gravi crimini durante il loro mandato, malgrado siano pienamente coscienti che probabilmente sarebbero perseguiti una volta che decadranno dal loro mandato. Tuttavia, anche se finiscono per guadagnare qualche grado di immunità mentre sono in carica, rimangono un obiettivo per la giustizia vigilante dei cittadini ordinari, che sono stati a lungo perseguiti. Ciò spiega perché molti ex funzionari dell’Africa Centrale e Occidentale scelgono di vivere in esilio.

Date queste condizioni economiche e strutturali lo stile del “vincitore prende tutto” in politica è diventata un’alternativa fattibile per i politici disperati. Ma la soluzione va oltre il dialogo tra governi e partiti di opposizione sostenuti da inviti internazionali a rispettare la regola di legge.

Migliorare il clima finanziario per investitori locali e stranieri aiuterebbe il settore privato in molti Paesi dell’Africa centrale ed occidentale ed offrirebbe ai cittadini più opportunità economiche al di fuori della politica. I governi dovrebbero anche considerare di offrire dei benefici più grandi per il pensionamento di funzionari pubblici, specialmente per coloro che sono stati in carica per un esteso periodo di tempo, che potrebbe scoraggiare la continua frode dei fondi pubblici.

Il potenziamento di misure di sicurezza per gli ex funzionari pubblici potrebbe incoraggiare i funzionari di oggi a lasciare le loro posizioni senza paura di rappresaglie.

Infine, sforzi devono essere compiuti per ricomporre le tensioni tra le parti in guerra: la creazione di commissioni per la riconciliazione per la gestire dei conflitti, la formazione di governi di unità nazionale e l’emanazione di disposizioni legislative volte a regolamentare la condivisione del potere equa in tutte le più importanti istituzioni statali. Nel lungo periodo, è quasi impossibile raggiungere trasferimenti di potere democratici senza una riconciliazione politica concreta.

Il potere in mano ai regimi militari

È quasi indiscutibile che l’Africa fosse un continente di coup, dove i colpi di Stato militari erano il principale meccanismo di cambiamento di regime. I dati raccontano la loro storia, con oltre 200 coup e tentativi di colpo di Stato per l’indipendenza di molti Paesi nei primi anni 1960 e 2012. La narrativa post-indipendenza diventa stancamente familiare, con periodi di governo civile interrotti da prese di potere da parte dei militari.

Tuttavia c’è stato un cambiamento percettibile dagli anni 1990 in poi come risultato dell’ondata democratica che ha investito l’Africa a seguito della fine della Guerra Fredda. Sebbene fragile, incompleta e imperfetta, questa ondata ha prodotto una intolleranza popolare sia per i colpi di Stato che per i regimi militari esistenti. Ciò è stato rafforzato da due ulteriori fattori: una nuova ortodossia internazionale che caldeggiava per la democrazia liberale come nuova regola di governance e una robusta opposizione ai colpi di Stato da parte di varie organizzazioni africane inter-governative. Questa opposizione è diventata prima evidente nell’Organizzazione di Unità Africana, e poi si è sviluppata più robustamente nel suo successore: l’Unione Africana (UA) dal 2002. L’UA ha adottato la posizione per nulla ambigua che ogni regime che raggiungesse il potere attraverso un coup militare sarebbe stato immediatamente sospeso da membro dell’Unione. Questo è stato rafforzato dalle posizioni di varie organizzazioni sub-regionali guidate da ECOWAS, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale e dalla SADC la Comunità di sviluppo dell’Africa del Sud.

Sebbene i coup, nella politica africana, non siano stati ancora consegnati alla storia , come è evidente dalle prese di potere da parte dei militari in Mauritania, Guinea e Guinea – Bissau nel 2008, in Niger nel 2010 e in Mali nel 2012; un declino complessivo dei coup non ha significato esattamente una perdita d’influenza dei militari nel continente, dal momento che molti eserciti mantengono il potere in varie forme. La fragilità statuale, il conflitto intra-statale o il potenziale per il conflitto continuano ad assicurare ai militari un ruolo di alto profilo in molti Stati africani dove spesso i nuovi meccanismi e gli apparati statali sono stati creati per fare spazio all’influenza militare.

Infatti in Stati segnati dai conflitti, non è inconsueto che ai militari sia accordato un effettivo sebbene informale veto politico su temi come la strategia militare, i budget di difesa, i colloqui di pace con i ribelli e alleanze estere. In alcuni Stati come il Lesotho e il Sud Africa, ciò assomiglia ad una sorta di “democrazia di caserma”. L’influenza dei militari continua ad essere pervasiva e coercitiva, dal momento che sorveglia e appone pressioni sul processo politico, creando una costante minaccia di intervento militare qualora le proprie necessità non vengano soddisfatte.

L’assistenza militare americana è stata proporzionale alla crescita del potere e dell’influenza dei militari in Africa

Gli eserciti africani hanno visto la loro influenza ed il loro potere crescere con un’assistenza militare americana sempre più importante, come parte della “guerra globale al terrore” dopo l’11 settembre, coordinata dal comando americano per l’Africa AFRICOM. Sebbene l’assistenza americana può rafforzare la capacità di questi eserciti di intercettare e sgominare le reti terroriste, è una lama a doppio taglio, dal momento che essa rischia di spingere la loro capacità politica mettendosi contro il loro stesso governo e la popolazione. Il fatto che l’aiuto militare americano spesso ha molto più peso rispetto all’assistenza politica o di altro genere invia il messaggio che l’esercito è il principale agente di potere in molti Paesi.

Sebbene Paesi con una lunga storia di interventi militari stanno ora compiendo dei solidi progressi democratici – in particolare il Ghana, ma anche la Nigeria, il Benin, il Burkina Faso e la Guinea Bissau, c’è ancora motivo di preoccuparsi visto che i loro eserciti restano gli attori più potenti. Inoltre, i conflitti in atto in Stati come il Mali, il Sudan, il Sud Sudan aumentano lo spettro dell’intervento militare, particolarmente se le gerarchie militari sono persuasi che i fallimenti del governo civile siano la causa delle battute d’arresto sul campo di battaglia o delle perdite.

In Stati come il Sudan o il Gambia sono diventati la scenografia di regimi quasi-militari dove governi civili solo nominalmente, sono stati massicciamente popolati con – e spesso guidati da – ex personaggi militari. Questi “soldati in doppio petto” possono aver formalmente rassegnato le loro dimissioni come militari, ma mantengono dei legami stretti con i militari.

Non sorprende quindi che le linee tra le forme di governo civili e militari siano sempre più sfumate. Potrebbero non esserci dei regimi militari nel senso convenzionale, ma ci sono dei governi profondamente militarizzati che con più probabilità cercano di restringere lo spazio politico disponibile all’opposizione e alla società civile. I loro leader sono cresciuti con una cultura militare dall’alto verso il basso, radicata nell’ordine e nell’obbedienza piuttosto che nel dibattito, nella libertà di parola, dissenso e partecipazione pubblica che sono la linfa della democrazia liberale.

Infine, c’è il regime ibrido – formalmente civile, ma il partito al governo e la leadership militare si fondono e spesso impiegano le forze di sicurezza contro i loro oppositori.

Lo Zimbabwe è l’esempio più chiaro, dove il cosidetto Comando delle operazioni congiunte ha effettivamente guidato il Paese fin dal 2008. Costitutito da figure di altro livello del ZANU- PF (Unione Nazionale Africana di Zimbabwe – Fronte Patriottico), così come da elementi dell’esercito, delle agenzie di polizia. Il Comando ha bypassato il Parlamento dello Zimbabwe e sovvertito l’esito delle consultazioni elettorali rifiutandosi di abbandonare il potere.

La facciata esterna civile è un’illusione indispensabile, progettata per celare la realtà sottostante dove una élite politico-militare che non rende conto a nessuno ha stabilito se stessa come il centro nevralgico del governo.

Non esistono rimedi immediati per aiutare le forze democratiche in Africa per vincere queste nuove manifestazioni di potere militare. Invece la soluzione deve essere ricercata nelle riforme economiche e politiche di lungo termine, nella buona governance e nel promuovere le materie prime della democrazie. Queste ultime includono forti istituzioni per aiutare a costruire una cultura di costituzionalismo e ad assicurare la trasparenza e l’obbligo di rispondere per le azioni compiute. Una crescita inclusiva, uno sviluppo economico condiviso e l’aumento delle opportunità educative sono tutte condizioni necessarie; così come coltivare una classe media. Una sfida più ampia, ma vitale, è lo sviluppo di una vivace società civile che può aiutare a riallineare le relazioni civili-militari e consolidare concetti come la subordinazione dell’esercito all’autorità civile e la non-interferenza nella politica.

In società pluraliste complesse, con molti spazi di potere e autorità, il prospetto di colpi di Stato militari diventa sempre più remoto. Se si verifica un tentativo di coup, essi si rivelano fondamentalmente insostenibili, dal momento che essi sono tipicamente un sintomo di una cultura politica arretrata o repressa. Tuttavia i vai tipi di regimi militarizzati che resistono in Africa combatteranno duramente contro questi cambiamenti, dal momento che una robusta infrastruttura democratica pone una minaccia esistenziale al loro potere. L’autocrazia nelle sue varie forme cercherà di resistere, contenere e, dove possibile, capovolgere gli avanzamenti democratici. Questa battaglia con tutta probabilità diventerà una caratteristica distintiva della lotta continua per la democrazia in Africa, che è ancora in corso anche se il bilancio di potere si sta spostando gradualmente, sebbene non ancora in maniera irreversibile, in favore delle forze democratiche.

Gennaio 29 2017

In Gambia carri armati risolvono una crisi politica: e le regole della sicurezza globale?

Gambia

La crisi politica in Gambia si è chiusa tra soldati di ECOWAS  per le strade del paese, un Presidente eletto che giura nell’ambasciata del Gambia in Senegal ed un Presidente uscente che va via con 11 milioni di dollari nel portafoglio.

Questa crisi politica ci interessa (e avrebbe dovuto interessare molti altri) per due motivi: il potere crescente di ECOWAS in Africa Occidentale e il ricorso all’intervento militare che pone una sfida al sistema di sicurezza globale.

Intanto iniziamo con il riassumere i fatti:

Il nuovo Presidente del Gambia, Adama Barrow, finalmente è tornato nel paese, il suo arrivo formalmente segna la fine di una crisi politica durata 6 settimane. Barrow è stato eletto Presidente il 1 dicembre 2016; il suo oppositore Yahya Jammeh, al potere dal 1994,  rifiutava di dimettersi, anzi  ha tentato, in varie maniere, di manovrare lo stato d’emergenza, cercando di estendere, attraverso il Parlamento, i suoi poteri: tutto allo scopo di bloccare la transizione.

Inaspettatamente per un leader eccentrico autoritario stile Gheddafi, che prometteva di governare il Gambia per un miliardo di anni, rivendicando l’abilità di curare l’AIDS e l’infertilità, la presa al potere del Presidente Jammeh era stata condannata dalla comunità internazionale. In un incontro dei leader del blocco regionale dell’Africa Occidentale, la comunità economica degli stati dell’Africa occidentale – ECOWAS–  adotta una risoluzione il 17 dicembre che riconosce i risultati dell’elezione del 1° dicembre, impegnandosi a partecipare alla cerimonia d’insediamento del Presidente eletto Barrow il 19 gennaio e decidendo di adottare tutte le misure necessarie per far applicare i risultati elettorali.

A seguito del fallimento degli sforzi di mediazione, ECOWAS lancia un ultimatum al Presidente Jammeh: o lascia il potere per la mezzanotte del 19 gennaio oppure ECOWAS interverrà con la forza per mettere al potere il Presidente eletto Barrow. Per dimostrare che si faceva sul serio, forze ECOWAS dal Senegal e dalla Nigeria si mobilitano alla frontiera con il Gambia e avvertono che interverranno se Jammeh non si sarebbe conformato all’ultimatum. Il 21 dicembre una dichiarazione del Presidente del Consiglio di Sicurezza indica che il Consiglio accoglie ed è incoraggia le decisioni di ECOWAS. Similmente l’African Union Peace and Security Council sostiene i risultati elettorali e annuncia che non riconoscerà Jammeh come Presidente del Gambia dopo il 19 gennaio.

La scadenza dell’ultimatum per il 19 gennaio passa senza risultato. Barrow giura nell’ufficio dell’ambasciata del Gambia a Dakar e le forze senegalesi attraversano la frontiera per far rispettare la risoluzione di  ECOWAS del 17 dicembre, apparentemente a seguito di una richiesta del Presidente Barrow, e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta all’unanimità la risoluzione 2337, la sua prima del 2017. La risoluzione prospettata dal Senegal, non autorizza l’uso della forza da parte di ECOWAS. Piuttosto, agendo secondo il Capitolo VI (della Carta delle Nazioni Unite), il Consiglio di Sicurezza appoggia la decisione di ECOWAS e dell’Unione Africana di riconoscere Barrow come Presidente, accoglie la decisione di ECOWAS del 17 dicembre ed esprime sostegno per l’impegno di ECOWAS nell’ “assicurare, innanzitutto attraverso mezzi politici, il rispetto del volere del popolo del Gambia”. Con le truppe di ECOWAS già nel paese, il 21 gennaio il Presidente Jammeh lascia il Gambia, apparentemente con 11 milioni di dollari nel portafoglio.

Il potere crescente di ECOWAS nel comporre le crisi politiche dell’Africa occidentale.

Sebbene le azioni di ECOWAS nella crisi del Gambia non mostrino esplicitamente una volontà crescente da parte del blocco di utilizzare la forza contro i leader dell’Africa occidentale che non vogliono lasciare il potere dopo moltissimi anni, nondimeno nel caso del Gambia hanno sfidato le regole fondanti della sicurezza globale.

La linea generale, in Africa Occidentale, rispetto alla passata decade, suggerisce che ECOWAS esamina le crisi politiche caso per caso.  Eppure le azioni di ECOWAS sono  dettate dall’opportunità politica del blocco come tale nel non perdere credibilità all’esterno e non minare la coesione interna.

In Senegal nel 2012, l’allora Presidente Abdoulaye Wade correva per il terzo mandato. Wade sosteneva che il limite, in Senegal, dei due mandati non si applicava a lui, dal momento che il suo primo mandato era iniziato prima che il limite fosse imposto; i suoi oppositori videro la sua candidatura come incostituzionale. ECOWAS propose un compromesso: se eletto, Wade doveva servire un periodo di due anni e poi tenere nuove elezioni. Tuttavia, fortunatamente per ECOWAS, Wade perse l’elezione.

In Mali, 2012, ci fu una crisi complessa che includeva un coup contro il presidente uscente, una ribellione di separatisti e un’occupazione jihadista delle città del nord. Dopo il coup, ECOWAS repentinamente impose sanzioni che spinsero i leader del coup a dimettersi in cambio dell’amnistia. Rimettere il Mali assieme, tuttavia era molto più difficile. I leader del coup inizialmente esercitavano una certa influenza in politica e il nord del paese rimaneva da mesi in mano ai jihadisti. ECOWAS piano piano prepara l’intervento militare, ma nel gennaio del 2013, quando i jihadisti si spingono nel Mali centrale furono i francesi ad intervenire.

Perchè dunque ECOWAS ha agito in maniera differente in Gambia?

Una prima motivazione risiede nella reputazione estremamente scarsa  a livello internazionale di Jammeh. Visto come un pazzoide e criticato aspramente per la violazione dei diritti umani, Jammeh era oramai isolato internazionalmente negli ultimi anni. Nel 2013, ritira il Gambia dal Commonwealth, un gruppo di 54 paesi composto principalmente da ex colonie britanniche, forse per protestare contro le preoccupazioni della Gran Bretagna sui diritti umani. Nel tardo 2016, gli Stati Uniti impongono un divieto di visa per i funzionari del governo del Gambia.

L’isolazionismo di Jammeh si estende ad ECOWAS. Prima delle elezioni in Gambia del 2011, ECOWAS si rifiuta di mandare osservatori, statuendo che “le preparazioni e l’ambiente politico non contribuivano alla condotta di libere eque e trasparenti votazioni”. ECOWAS si era stancata del comportamento negli anni di Jammeh che aveva pochi amici in occidente.

Un’altra ragione per il comportamento deciso di ECOWAS in Gambia è la dimensione del paese. 4000 miglia quadrate, il Gambia è il più piccolo membro del blocco dell’Africa occidentale, salvo l’isola di Capo Verde. Contemplare la logistica di un intervento militare in Gambia era molto meno spaventosa che quella nel nord del Mali o per gli interventi militari in Liberia ed in Sierra Leone negli anni 90.

E non da ultimo la motivazione dell’intervento risiede nella credibilità stessa dell’organizzazione che se si fosse “piegata” a Jammeh, sarebbe stata inesorabilmente minata.

Il ricorso all’intervento militare di ECOWAS potrebbe minare l’ordine e la sicurezza globale.

La sicurezza globale è assicurata anzitutto dal divieto generale dell’uso della forza e della minaccia dell’uso della forza sancito dall’art. 2,4 della Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale generale. I singoli Stati non possono ricorrere all’uso unilaterale della forza militare a meno che non dimostrino la sussistenza di una giustificazione prevista dal diritto internazionale vigente.

La situazione in Gambia e le reazioni internazionali sfidano alcuni aspetti dello jus ad bellum*.  La Carta delle Nazioni Unite ammette due eccezioni al divieto generale dell’uso della forza e della minaccia dell’uso della forza: la forza utilizzata in legittima difesa contro un attacco armato e l’uso della forza autorizzata dal Consiglio di Sicurezza secondo il Capitolo VII della Carta.

Se basato su una richiesta del Presidente Barrow, l’intervento ECOWAS a guida senegalese, iniziato il 19  gennaio si confà, sebbene imperfettamente, con le regole stabilite dallo jus ad bellum. Come confermato dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso “attività armate sul territorio del Congo”, lo jus ad bellum permette ai governi di invitare stati stranieri ad intervenire militarmente sul loro stesso territorio. Infatti, precedenti interventi di ECOWAS, come quello in Sierra Leone e in Liberia erano giustificati dalla richiesta dei governi di questi Stati. Il problema potenziale con questo intervento di ECOWAS in Gambia, tuttavia, è che è stato intrapreso a seguito di una richiesta da quello che era essenzialmente un governo in esilio. Adama Barrow probabilmente non si qualifica neanche come governo in esilio, ma piuttosto, come un Presidente in esilio. Il diritto di un Presidente in esilio, che non ha mai esercitato l’autorità di governo o l’effettivo controllo sul territorio di uno Stato, di autorizzare l’intervento armato straniero è discutibile e non sostenuta da ampi, sufficienti precedenti.

Inoltre, la rapidità dell’intervento di ECOWAS in Gambia pone una sfida anche al divieto della minaccia dell’uso della forza**.

La decisione di ECOWAS del 17 dicembre, che chiedeva a Jammeh di lasciare il potere e autorizzava l’uso di tutte le misure necessarie per far rispettare il risultato elettorale, unitamente alla mobilitazione delle forze ECOWAS nelle settimane precedenti al 19 gennaio, costituisce una minaccia all’uso della forza.

Il problema qui è che far rispettare i risultati elettorali o insediare un leader democraticamente eletto non sono basi legittime per l’uso della forza secondo lo jus ad bellum. Malgrado tentativi di pochi governi e di alcuni studiosi di sostenere la cosidetta “dottrina dell’intervento democratico”, che permette il ricorso alla forza per promuovere il governo democratico o prevenire prese di potere illegittime, l’opinione prevalente è che questa pratica viola la Carta delle Nazioni Unite. Curiosamente, tuttavia, il Consiglio di Sicurezza appare aver avallato questa minaccia dell’uso della forza da parte di ECOWAS contro il Presidente Jammeh.

Come detto sopra, la dichiarazione del Presidente del Consiglio di Sicurezza del 21 dicembre accoglie le azioni di ECOWAS, la risoluzione 2337, mentre non autorizza l’uso della forza ed esprime la sua preferenza per l’uso di mezzi politici per comporre il conflitto, accoglie la decisione di ECOWAS del 17 dicembre.

La catena di eventi e di risultati  di un singolo conflitto probabilmente non sono sufficienti ad alterare fondamentalmente regole che sono fondanti dell’ordine legale internazionale come i divieti della minaccia e dell’uso della forza.

La crisi in Gambia, tuttavia, pone alcune questioni giuridiche difficili e sfida alcuni aspetti dello jus ad bellum.

La volontà di ECOWAS e la prontezza di minacciare e usare la forza per promuovere la democrazia è solo uno degli esempi della pratica africana che sfida le regole che sono alla base dell’ordine e della sicurezza internazionale.

 

 

* jus ad bellum cioè il diritto di ricorso alla guerra, e così distinto dallo jus in bello, che è il diritto internazionale umanitario applicabile durante il conflitto.

** L’art. 2,4 della Carta NU vieta la stessa “minaccia” dell’uso della forza, ma non chiarisce cosa debba intendersi per “minaccia” vietata. La Corte Internazionale di Giustizia si è soffermata sulla questione nel parere sulle Armi nucleari del 1996 sostenendo che le nozioni di minaccia e di uso della forza dell’art.2,4 vanno insieme nel senso che è vietata ogni “minaccia” della forza il cui “uso” è vietato. In altre parole: se l’uso della forza in se stesso in un dato caso è illegale, per qualsiasi ragione, la minaccia all’uso di tale forza sarà anch’esso illegale.

Ottobre 11 2016

Somalia: la triste pagina del mondo che si gira dall’altra parte

Somalia

Somalia: emergenza dopo emergenza, il paese non riesce a trovare il suo equilibrio. Un fallimento della comunità internazionale e dell’Unione Africana che si fatica a riconoscere.

Somalia: i fatti

Il numero di somali che non ha abbastanza da mangiare è salito a 5 milioni, i bambini sono al più alto rischio di malattie e morte. Il numero è salito di 300,000 da febbraio di quest’anno per il protrarsi del conflitto tra il gruppo estremista islamico al-Shabaab e il governo somalo appoggiato dall’Unione Africana.
Decine di migliaia di rifugiati sono tornati in Somalia quest’anno dal più grande campo di rifugiati al mondo: Dadaad, in Kenya, visto che il governo keniota vuole chiuderlo entro novembre. Le autorità governative keniote adducono come motivazione della chiusura del campo che Dadaab, casa di più di 300,000 mila somali rifugiati è stato usato come base di al-Shabaab per attacchi sul suolo keniota

Il clima che non aiuta: scarse piogge riducono la produzione di cereali

Molti stanno tornando nel centro-sud della Somalia, la “pancia” del paese, dove però le poche piogge hanno ridotto la produzione di cereali almeno della metà.
Oltre 300,000 bambini al di sotto dei 5 anni sono malnutriti e più di 50,000 sono severamente malnutriti. (Vi ricordo che la maggioranza delle 260,000 persone che sono morte durante la carestia del 2011 erano bambini).

Vi invito ora a leggere una breve storia del paese, dal mio quaderno degli appunti. Le date degli avvenimenti più importanti ci aiuteranno a comprendere come questo paese, spartito da grandi potenze esterne e poi vittima di milizie locali ed estremismo non sia mai riuscito a camminare con le sue gambe.

Somalia

 

Anni di sforzi da parte della Nazioni Unite, dell’Unione Africana e di gruppi di supporto internazionale la Somalia ha un governo nazionale e una forza di sicurezza, ma resta uno stato precario economicamente, mentre politicamente e militarmente il potere rimane nelle mani di leader locali e di forze piuttosto che nelle mani del governo centrale.

Come se non ci fosse fine al peggio, i militanti jihadisti salafisti si radicano in Somalia

durante le decadi di frammentazione e diventano particolarmente violenti soprattutto quando un gruppo chiamato Harakat al–Shabab al– mujahedeen, o più semplicemente al–Shabab, si separa da un’organizzazione conosciuta come l’Unione delle Corti islamiche.
Nel 2012, al–Shabab giura alleanza ad Al–Qaeda ed inizia a rendere le complesse battaglie interne una scelta tra potere somalo ed estremismo islamico transnazionale.

I foreign fighters si uniscono ai militanti locali e ricoprono posizioni chiave, da qui al-Shabab inizia ad orchestrare attacchi negli stati vicini come in Uganda ed in Kenia per punirli della loro partecipazione alle missioni di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM).

Non era evidentemente abbastanza: lo “Stato islamico” stabilisce una presenza in Somalia.

Lo “Stato islamico” ha diffuso un video il 14 aprile 2016 del Campo di addestramento “comandante sceicco Abu Numan”, presumibilmente ubicato nella regione Puntland nel nord-ovest del paese. Il video, prodotto da Al Furat il media center dello “Stato islamico”, ritrae l’ex comandante di al-Shabab Abdiqar Mumin.

Il video mostra più di una dozzina di militanti nel campo di addestramento chiamato “Bashir Abu Numan”, un ex comandante che fu ucciso da Shabaab Amniyat, la branca di sicurezza e intelligence rivale all’interno del gruppo, dopo che defezionò nello “Stato islamico” nel tardo 2015.

Oltre alla promozione del suo campo, lo “Stato islamico” rivendica il suo primo attacco in Somalia il 25 aprile. In una dichiarazione diffusa sugli account nei sociali media, si rivendica la detonazione di un IED (improvised explosive devise) contro un “veicolo militare delle forze crociate africane a Mogadiscio”.

La comunità internazionale (compresi gli Stati Uniti) non hanno trovato alcun modo per spezzare le profonde radici che al- Shabab ha piantato e fatto crescere nella società somala.

Nei recenti anni, AMISOM ha respinto il gruppo estremista fuori da Mogadiscio e altre città maggiori, ma i militanti islamici controllano ancora territori importanti della campagna e continuano ad attaccare i peacekeeper soprattutto le loro linee di rifornimento, assieme a soft target come hotel ristoranti frequentati da stranieri o funzionari del governo nazionale somalo.

Ci si chiede dunque perché gli aiuti non bastino, gli appelli neanche e per quale motivo nessuno è stato in grado di contrastare il richiamo di Al–Shabab verso giovani uomini arrabbiati. La risposta è nella corruzione, nelle competizioni interne all’elite politica somala e nelle forze di sicurezza, l’incapacità del governo e delle forze di sicurezza di controllare efficacemente il territorio.

Piuttosto ci sembra che la strategia adottata dall’Unione Africana e dalla comunità internazionale più in generale sia quella di ignorare tutto quanto detto finora e creare strutture politiche nazionali e di sicurezza che però mancano di unità, coerenza e hanno una esile opportunità di sopravvivenza.

Quello che manca sono concetti strategici per gestire strutture di potere localizzate e sparpagliate.

Malgrado le ingenti somme di denaro provenienti da donatori stranieri, l’esercito nazionale somalo non è capace di mettere al–Shabab all’angolo, figuriamoci sconfiggerlo. Le élite locali e basate su un sistema di clan e milizie rimangono più importanti rispetto al governo.

Questo è un problema ricorrente quando potenze esterne basate su un’autorità centralizzata si coinvolgono in culture basate su tribù o clan dove il potere e l’autorità sono decentralizzate. Piuttosto che riuscire a trovare alleati locali e creare strutture nazionali anche a livello locale, le potenze esterne si accaniscono, con i loro alleati, a voler “aiutare” creando un sistema centralizzato effettivo.

La Somalia e l’Afghanistan sono due dei maggiori esempi dove la comunità internazionale capeggiata dagli Stati Uniti continuano a mantenersi ancorati all’idea del sistema centralizzato, non curanti del fallimento che continuano a perpetrare.

La Somalia difficilmente arriva ad essere oggetto di critiche o lezioni apprese, e ancora meno riesce ad arrivare ad un nostro telegiornale o giornale. Riflettiamoci.