Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.

Novembre 6 2020

Le linee strategiche della politica estera di Francia e Turchia

Turchia Francia politica estera

Quando Macron è salito al potere sembrava non avere preconcetti su come gestire le relazioni della Francia con la Turchia, che si sono deteriorate prima che lui s’insediasse nel 2017. La Francia ha approvato, nel 2001, una legge che riconosce ufficialmente il genocidio armeno da parte dei turchi ottomani – un evento che la Turchia moderna continua a negare – e i funzionari francesi hanno ripetutamente messo in discussione l’appartenenza della Turchia all’Unione Europea.

Anche se la Francia ha espresso non poca riluttanza sull’accordo Unione Europea – Turchia del 2016 sulla gestione delle migrazioni, la visita a Parigi del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 si è svolta in un clima disteso.

Le relazioni tra i due Paesi hanno preso una piega negativa a causa delle politiche divergenti in Siria e Libia.

Nel nord della Siria, la Turchia ha cercato di schiacciare le forze di milizia curde del YPG (Unità di Protezione Popolare) che sono dei partner e protégés della Francia sul terreno e i cui leader sono stati ospitati due volte a Parigi, nel 2018 e nel 2019.

In Libia, Ankara ha, sin dal 2019, sostenuto il governo di Accordo nazionale a Tripoli laddove Parigi ha, non ufficialmente, sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar, anche se Macron ha ripetutamente cercato di mediare tra le due fazioni.
Vi sono altri motivi di nervosismo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi:

  • un deciso aumento del sostegno da parte del governo francese alla causa armena, con Macron che istituisce un giorno del ricordo per il genocidio;
  • la crescente affermazione, in Francia, delle reti della diaspora turca associate con il partito di Erdogan Giustizia e Sviluppo;
  • l’indurimento della posizione di Macron verso l’Islam radicale in Francia, che implica investigazioni molto più scrupolose sugli imam stranieri, di cui la metà sono turchi.

Soltanto nel giugno di quest’anno la crisi tra le due capitali è esplosa: quando una fregata russa punta il suo radar di individuazione obiettivi su vascello francese che stava imponendo l’embargo di armi stabilito dalle Nazioni Unite contro la Libia come parte di un’operazione NATO. La Turchia successivamente ha moltiplicato le sue incursioni nelle acque contese dalla Grecia e da Cipro nel Mediterraneo – Est, permettendo a Macron di presentare la Francia – ed egli stesso – come il difensore delle frontiere europee e della sovranità di fronte alla crescente affermazione, se non aggressività, della Turchia.

Macron è stato abbastanza astuto: si è tacitamente associato con la Germania che ha giocato il ruolo di negoziatore quieto con Ankara, permettendo alla Francia di assumere il ruolo di tutore dell’ordine.

La Francia ha ospitato il summit speciale del Med7, un Gruppo di 7 paesi litoranei del Mediterraneo, a settembre, per dimostrare la solidarietà europea alla Grecia e a Cipro. Ha esercitato pressione in seno al Consiglio dell’Unione Europea affinché, agli inizi di ottobre, la Turchia fosse avvertita di potenziali sanzioni. A metà ottobre sia Berlino che Washington pubblicamente hanno irrigidito la loro posizione verso Ankara, che per il momento ha dichiarato la sua volontà di negoziare con Atene per risolvere i loro contrasti.

Per comprendere l’approccio tagliente di Macron alla Turchia, ci aiuta tornare indietro all’ottobre del 2019 e all’intervista all’Economist, in cui suggerisce che la NATO era “cerebralmente morta”. Dichiarando ciò, non si riferiva all’unilateralismo degli Stati Uniti, alla percezione, all’incerto impegno americano verso l’alleanza dell’amministrazione Trump. Egli voleva puntare il dito su ciò che lui riteneva essere incompatibile con gli interessi dei membri NATO in Siria: la Turchia. Ciò riflette la realtà indiscutibile che la Turchia è vista, adesso, come un piantagrane al Consiglio NATO.

Tuttavia le osservazioni di Macron confondono due visioni della NATO: da una parte l’alleanza di difesa reciproca e dall’altra un club di Stati membri che palesemente la pensano allo stesso modo. In effetti, la NATO come alleanza non ha niente da dire sulle azioni dei membri prese individualmente né Siria né in Libia, laddove invece l’allineamento della Francia con la Russia sfoca le linee tra avversari e alleati.

Il commento di Macron sulla NATO “morta cerebralmente” rischia di diventare una profezia autoavverante. Dopo tutto, la Francia stessa non sempre consulta i suoi alleati o cerca il loro supporto prima di intraprendere iniziative diplomatiche. A malapena lo ha fatto in Libia.

Turchia

Il 24 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di devoti nelle strade attorno alla storica Basilica di Santa Sofia ad Istanbul, per un momento doppiamente simbolico. Circondato da un nugolo di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella cattedrale attraversando le giganti porte una volta aperte con la forza dai soldati ottomani nel 1453. All’interno ha letto la preghiera islamica canonica, facendo diventare la cattedrale di 1500 anni una moschea.

In questo modo Erdogan ha voltato pagina a nove decadi di storia recente, durante i quali questa struttura straordinaria e sito patrimonio mondiale UNESCO era stata globalmente riconosciuta come simbolo di una Turchia secolare. Dal 1934, Santa Sofia non era stata né una cattedrale, né una moschea, ma un museo secolare, stabilito come tale dal reale fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk.

Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno Stato secolare quel giorno; scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche mettendo in discussione le intere fondamenta dello status internazionale della Turchia moderna.

Fu in questa data che nel 1923 la Turchia di Ataturk firmava il Trattato di Losanna, che poneva fine ad anni di guerra e occupazione, mentre conferiva un riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica di Turchia. Questo Trattato era stato formalmente sospeso dal predecessore della Repubblica, l’impero ottomano, che un tempo si estendeva dal Caucauso allo Yemen, dall’Iraq alla Libia. Ratificando il Trattato di Losanna, Ankara rinunciava a tutte le rivendicazioni su quei territori, e con esse, la sua precedente grandeur imperiale.

Ora la Turchia sta compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo che il Trattato di Losanna aveva fondamentalmente stabilito.

Il nesso con la Libia

Nel novembre del 2019, la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico di Tripoli, noto come governo di accordo nazionale (GNA).

Il conflitto civile in Libia contrappone il GNA alle forze del generale Khalifa Haftar e il suo esercito nazionale libico, che è fedele al governo basato a Tobruk. Nel corso del 2019, il conflitto in Libia è divenuto una guerra proxy conclamata.

Turchia e Italia sostengono il GNA;

Russia, gli Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia hanno fornito supporto – incluso assistenza militare – alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi ogni formale sostegno.

In risposta ad una improvvisa offensiva delle forze di Haftar nell’aprile del 2019 che si sono spinte alla periferia di Tripoli, Ankara ha iniziato ad inviare i mercenari siriani allineati con la Turchia in sostegno del GNA, insieme ad addestratori, forze speciali, armi ed equipaggiamenti. L’accordo del novembre del 2019 ha formalizzato questo sostegno, decisivo per il GNA che ha spinto l’esercito nazionale libico dalla periferia di Tripoli alla città costiera di Sirte ad est.

Allo stesso tempo, l’accordo delineava anche la frontiera marittima tra la Turchia e la Libia. Secondo la posizione turca per cui le isole non possiedono la zona economica esclusiva, le isole greche che sono tra la Turchia e la Libia – Creta, Rodi e Castelrosso – non hanno tale tipo di zona. Dunque, in base a tale visione, tra le coste della Turchia e della Libia vi sarebbero solo le acque del Mediterraneo.

Dalla prospettiva di Ankara, l’elemento marittimo del suo accordo con la Libia concede alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo nelle acque di Cipro, ma al di là delle coste delle isole greche come Creta e Castelrosso. Sicuro di ciò, quest’estate, a luglio, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia acquisirà questo diritto: avvierà ricerche sismiche e invierà delle navi da trivellazione in quelle che Atene e la maggior parte di altri governi nel Mediterraneo ritengono essere acque territoriali greche.

Il 10 giugno di quest’anno, il presidente francese Macron interviene dopo le tensioni tra una fregata francese e tre navi da guerra turche a largo della costa libica. La nave francese che operava in un’operazione NATO per applicare l’embargo di armi alla Libia sancito dalle Nazioni Unite , ha cercato di fermare ed ispezionare una nave cargo battente bandiera della Tanzania sospettata di trafficare armi. Secondo il ministro della difesa francese, da una delle navi turche che accompagnava la nave cargo si è visto lampeggiare il radar per acquisizione di obiettivi verso la fregata francese e i marinai turchi a bordo hanno indossato i loro giubbotti anti-proiettili e preso posizione dietro le armi. La Turchia asserisce che quella nave cargo trasportava aiuti umanitari.

Successivamente Macron descrive la Turchia come “sostenitrice di una responsabilità storica e criminale” per il suo intervento in Libia. Invita la NATO ad aprire un’inchiesta così come l’Unione Europea ad apporre sanzioni alla Turchia sulla sua campagna di trivellazioni nel Mediterraneo -Est. A luglio, Bruxelles segue questo invito ed impone sanzioni a funzionari di alto livello dello Stato turco e della compagnia petrolifera e di esplorazione di gas.

La posizione degli Stati Uniti favorisce qualcun’altro?

A proposito della Libia gli Stati Uniti hanno aumentato i loro sforzi di ottenere un cessate-il-fuoco dichiarato a luglio, pur tuttavia la loro posizione è controversa. Washington non vuole alienare i suoi alleati arabi che sostengono Haftar, dall’altra parte però vi è la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia.
Una riduzione del livello di coinvolgimento americano nel mediterraneo come priorità strategica è antecedente alla presidenza Trump. Vi è un diffuso sentore nelle capitali della Regione che con Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro abituale ruolo politico nella Regione.


Un’inaspettata conseguenza dell’assenza americana è stata quella di spingere sotto i riflettori un Paese che non ha mai esercitato un’importante influenza diplomatica nel Mediterraneo – Est dai tempi di Bismarck: la Germania.

Come economia più grande e più potente in Europa, la Germania ha un ruolo importante da giocare nel gestire la crisi, considerando che al momento detiene la presidenza dell’UE, che gli permette di plasmare le priorità politiche del blocco per sei mesi.
Da una parte vi sono la Grecia e Cipro, i due Stati membri dell’UE, sostenuti da un presidente francese che sembra credere che una ulteriore intensificazione sia la sola via per dissuadere Erdogan. Dall’altra parte vi è la Turchia, un mercato fondamentale per i beni dell’UE e una rete di protezione chiave per i rifugiati e i migranti che cercano di entrare in Europa. Non sorprende, quindi, che nel tardo luglio, la Germania abbia sostenuto un intervento diplomatico considerevole per cercare di disinnescare un confronto potenzialmente dannoso. Angela Merkel si è impegnata direttamente sia con Erdogan che con il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis; in seguito la Turchia ha dichiarato la sospensione almeno per un mese delle operazioni di trivellazione e ha annunciato un incontro ad Ankara tra funzionari turchi e greci.

Quindi la Merkel, temporaneamente, ha fermato un’intensificazione della crisi.

Il prezzo per risolvere la crisi nel Mediterraneo-Est potrebbe essere quello che fondamentalmente Erdogan vuole da molto tempo: una ri-negoziazione del Trattato di Losanna.

La politica estera della Turchia di Erdogan

Turchia

Vi è stato un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione turca per una politica estera che sposasse lo status quo e che fondamentalmente rifuggisse le avventure estere. L’autore di questa variazione è Recep Tayyip Erdogan.

La trasformazione della politica estera turca durante la sua leadership non ha seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche prevalenti:

  1. l’ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione lui stesso, in un ruolo di leadership globale;
  2. utilizzare – sempre – la nuova politica estera attivista turca come metodo per rafforzare la legittimità domestica del regime ed assicurare la sua sopravvivenza.

Il cambiamento reale della politica estera turca è iniziato attorno al 2010, tre anni dopo che la leadership militare del Paese sfida pubblicamente Erdogan cercando, e fallendo, di apporre il veto all’ascesa di Abduallah Gul alla presidenza. Ciò ha permesso ad Erdogan di consolidare il potere riconfigurando le istituzioni turche, portandole sotto il suo controllo diretto, e, attraverso un contestato referendum nel 2017, rimpiazzare il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. Il dissenso non era più consentito.

È proprio quando Erdogan soffoca le critiche dei militari e quelle all’interno del Paese che inizia a prendere forma la “sua” politica estera. Nel 2009 prima iniziativa: rimprovera Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una discussione al World Economic Forum a Davos, prima di andarsene infuriato. L’anno seguente si lega al Brasile per cercare di preservare un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare con grande fastidio da parte dell’amministrazione Obama. Un anno più tardi porta la Turchia nella guerra civile siriana proiettando il suo sostegno interamente all’opposizione armata a Bashar al-Assad. La Turchia e gli Stati Uniti si scontrano anche sulle operazioni contro lo Stato islamico, dal momento che Erdogan si rifiuta di ascoltare le richieste di Obama di combattere i miliziani estremisti violenti, sebbene essi fossero passati attraverso il territorio turco per unirsi al conflitto. Erdogan ordina addirittura un’invasione, lo scorso anno, nel nord-est della Siria, attaccando alcune forze curde che stavano combattendo lo Stato islamico insieme alle truppe americane.

Più recentemente, il comportamento di Erdogan assume una posizione molto più revisionista. In Libia, i droni turchi e i consulenti militari, per non menzionare le migliaia di militanti siriani reclutati da Ankara per combattere come mercenari, sono riusciti a cambiare il corso degli eventi in favore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli.

Nel sud del Caucaso, la Turchia è stata determinante nel pianificare e sostenere l’assalto dell’Azerbaijan nell’enclave contesa di Nagorno – Karabakh. Così come in Libia, i droni turchi ed i mercenari siriani hanno giocato un ruolo cruciale nell’ultimo round di combattimenti tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Nel Mediterraneo – Est, la sfida alla sovranità greca e cipriota di cui abbiamo già discusso.

Malgrado il pericolo intrinseco nella sua politica del rischio calcolato, Erdogan presume che altri membri della NATO interverranno per disinnescare ogni crisi, calcolando che egli può, nel frattempo, avanzare la sua posizione cambiando le circostanze nel Mediterraneo.

In tutti questi casi la risposta locale, in Turchia, è stata pienamente di sostegno. Erdogan è stato in grado di neutralizzare ogni opposizione facendo appello ai votatori turchi con una predisposizione nazionalista, mentre la stampa ampiamente addomesticata elogia ogni sua impresa “riuscita”. La narrativa che emerge è quella di un ritorno giusto della Turchia come grande potenza con il governo che produce video che legano il presente alle passate glorie ottomane.

Detto ciò, sarebbe sbagliato attribuire alla politica estera turca cambiamenti nella politica domestica.

Erdogan ha ottenuto una notorietà internazionale diventando un leader i cui capricci e richieste devono essere controllati. In questo senso, egli ha raggiunto ciò che si era prefissato di fare: trasformare la Turchia ed egli stesso in attori globali significativi.

Egli è finanche entrato nel discorso politico occidentale: é menzionato regolarmente, con la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, come uno dei tre leader più visibili accolto sul palco dittatoriale mondiale.

Erdogan è un calcolatore e pragmatico quando necessario. Non ci sono barriere protettive all’interno della Turchia che lo controllino, contornato da leccapiedi, nessuno si permette di contraddirlo. Continuerà ad incalzare fino a quando potrà, fino a quando colpirà un “posto di blocco”. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo spingeranno a scendere a compromessi su qualche questione, aprirà subito un altro fronte in qualche altra parte. Erdogan cercherà sempre di stare un passo avanti agli altri, costringendo i rivali e gli alleati a rimanere sulla difensiva.

*Fonti immagini: Aljazeera e BBC news

Novembre 30 2017

Qual è la vera frontiera in pericolo a sud dell’Europa?

Fezzan

La risposta è:

Il Fezzan

F

Un’area di circa 549,0775 chilometri quadrati con una popolazione per la maggior parte tribale di meno di 500,000 che vivono in oasi isolate o wadis (letti di fiume aridi spesso con acqua sotto la superficie). Nascosta da mari di sabbia e deserto roccioso il Fezzan è strategicamente rilevante per i giacimenti petroliferi vitali, l’accesso a enormi falde acquifere e importanti basi aeree dell’era Gheddafi.

La situazione della sicurezza nel Fezzan e nella maggior parte della Libia è divenuta terribilmente complicata dall’assenza di una ideologia unica rispetto  a quella dell’anti-Gheddafismo presente durante la rivoluzione libica del 2011. Ogni tentativo di creare un governo di unità nazionale da allora è miseramente fallito.

Competizione politica come ostacolo alla sicurezza

Al cuore del caos politico in Libia vi è l’Accordo politico libico mediato dalle Nazioni Unite del 17 dicembre 2015, che prevedeva un governo tripartito composto da un Consiglio di presidenza i cui 9 membri avrebbero avuto il compito di supervisionare le funzioni di Capo di Stato, un governo di accordo nazionale come organo esecutivo e la Camera dei Rappresentanti quale organo legislativo con un Alto Consiglio di Stato con funzioni consultive.

In pratica, la maggior parte di questi organi sono in conflitto tra loro o presentano alti livelli di dissenso interno, lasciando il Paese  governato dal caso e da milizie etniche, tribali e religiose, ben armate, spesso raggruppate in coalizioni instabili.

A contribuire al disordine c’è il governo di salvezza nazionale di Khalifa Ghwell che rivendica di essere il legittimo successore del governo del Congresso nazionale generale libico (2014-2016). Il governo di salvezza nazionale compie  periodici tentativi  di prendere il potere a Tripoli, il più recente nel luglio del 2017.

La più potente delle coalizioni militari libiche è quella denominata Esercito nazionale libico, una coalizione di milizie che nominalmente fanno capo alla Camera dei Rappresentanti che è locata a Tobruk, comandata da Khalifa Haftar, un potente cirenaico vissuto in Virginia (Stati Uniti) dopo essersi posto in contrapposizione a Gheddafi; ora  sostenuto ampiamente dalla Russia, Egitto, e gli Emirati Arabi Uniti.

Il Consiglio presidenziale di Tripoli, che, secondo l’Accordo politico libico dispone dell’autorità militare, sta ancora cercando di organizzare un esercito nazionale.

Nel frattempo, il Consiglio è sostenuto da varie milizie le cui sedi sono a Misurata e a Tripoli.

Il Consiglio presidenziale assieme al governo di unità nazionale, forma il governo della Libia riconosciuto internazionalmente, ma esso necessita ancora del voto di maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti di Tobruk per essere pienamente legittimo secondo quanto previsto dell’Accordo politico libico.

Vi sono addirittura divisioni tra i membri del Consiglio Presidenziale: tre membri si oppongono a Fayez Serraj (Presidente del Consiglio) e sostengono la Camera dei Rappresentanti e Haftar.

Contesto tribale del Fezzan

Il Fezzan consiste sostanzialmente di un mosaico di entità etniche e tribali che spesso si sovrappongono, inclini ai feudi e ad alleanze mutevoli. È possibile distinguere tre gruppi principali:

  • Gli arabi e i berberi-arabi, dei gruppi Awlad Buseif, Hasawna, Magarha, Mahamid, Awlad Sulayman, Qaddadfa, Warfalla. Gli ultimi tre comprendono migranti dal Sahel, discendenti dei membri tribali che scapparono dal dominio ottomano o italiano e tornarono dopo l’indipendenza. Sono collettivamente noti con il come di Aïdoun (coloro che sono tornati);
  • I Tuareg berberi i Tuareg Ajjar una confederazione libico-algerina e i Tuareg saheliani, tipicamente migranti dal Mali e dal Niger che arrivarono durante l’era Gheddafi;
  • I Tebu nilo-sahariani formati dai Tebu indigeni con piccole componenti di migranti di Teda e Daza dal Ciad e dal Niger.

Gli estremisti islamici

I jihadisti nord-africani con tutta probabilità utilizzeranno il caos politico a Fezzan per creare una profondità strategica per le operazioni in Algeria, Niger e Mali. I militanti fedeli ad Al Qaeda uniti il 2 marzo 2017 in Jama’at Nusrat al-Islam wa’l-Muslimin (JNIM) a seguito della fusione di Ansar al-Din, al-Mourabitoun, il Fronte di liberazione nazionale Macina, la branca sahariana di AQIM. Il leader del gruppo (un Tuareg) Iyad ag Ghali, cercherà di sfruttare le connessioni libiche nel Fezzan già stabilite dal capo di al-Mourabitoun: Mokthar Belmokhtar. Per adesso sembra che Ag Ghali possa contare solo sul supporto minimo della comunità Tuareg del Sahel a Fezzan.

IS (Islamic State) e Fezzan

L’IS ha annunciato nel novembre del 2014 la creazione della provincia del Fezzan. Dalla loro espulsione da Sirte lo scorso dicembre, i militanti dell’IS si sono schierati nel terreno irregolare del sud della costa, presentando una minaccia sfuggente. Il procuratore generale della Libia, dal suo ufficio a Tripoli ha annunciato che a seguito degli interrogatori di detenuti appartenenti all’IS, i libici erano una minoranza nel gruppo, con il numero più grande rappresentato da coloro che sono arrivati in Libia dal Sudan, altri dall’Egitto, Tunisia, Mali, Ciad e Algeria.

Alcuni militanti sudanesi dell’IS sono discepoli del predicatore sudanese Masa’ad al-Sidairah, il cui “Gruppo di devozione al Corano e alla Sunnah” ha sostenuto pubblicamente l’IS ed il suo leader fino a quando una serie di arresti lo hanno spinto a giurare di abbandonare il reclutamento per i campi di battaglia siriani e libici per conto dell’IS in Sudan. Molti dei militanti sudanesi dell’IS sono entrati in Libia attraverso le rotte dei trafficanti che passano per il punto di incontro Jabal ‘Uwaynat di Egitto, Sudan e Libia. Altri militanti dell’IS che sono fuggiti da Sirte si sono spostati nel Fezzan dove pare che si siano concentrati nella città al-‘Uwaynat, a nord di Ghat e vicino alla frontiera con l’Algeria. Questo gruppo si ritiene essere responsabile per gli attacchi del febbraio 2017 alle infrastrutture elettriche, inclusa la distruzione di circa 160 chilometri di tralicci dell’elettricità tra Jufra e Sabha.

Gli investigatori libici asseriscono che l’IS ha ricostruito l’ “esercito del deserto” composto da tre brigate sotto il comando di al-Mahdi Salem Dangou, conosciuto con lo pseudonimo di Abu Barakar, un libico islamista.

Riportare la sicurezza nel Fezzan

Il controllo delle rotte commerciali  nel Fezzan era basato su una tregua che risaliva al 1893. Essa concedeva ai Tuareg il controllo esclusivo di tutte le rotte che entravano dall’ovest Fezzan (Passaggio Salvador), mentre i Tebu avrebbero controllato tutte le rotte dal Niger e dall’est Ciad (Passaggio Toumou). L’accordo è stato sciolto a seguito delle battaglie Tebu-Tuareg nel 2014, alimentate dagli scontri per il controllo delle operazioni di traffici illeciti e dalla percezione popolare dei Tuareg come oppositori alla rivoluzione libica.

Oggi entrambi i valichi sono monitorati dai droni americani e dalle pattuglie della Legione straniera francese.

Il Ciad ha chiuso la sua porzione di frontiera con la Libia agli inizi del gennaio 2017 per prevenire che i militanti dell’IS in fuga da Sirte si infiltrassero nel nord del Ciad e da allora ha aperto solo un singolo passaggio.

Alcune milizie del sud si sono dimostrate efficaci nel “pattugliare” la frontiera quando si trattava di proteggere i propri interessi

Le idee “particolari” prodotte dai paesi dell’Unione Europea

Allarmati dai crescenti numeri di migranti che cercano di raggiungere l’Europa dalla Libia e dall’incapacità della Libia di controllare le sue frontiere, l’Italia e la Germania nel maggio 2017 hanno proposto la creazione di una missione dell’Unione Europea che pattugli la frontiera Libia-Niger.

Ignorando la sua reputazione in Libia, l’Italia ha suggerito finanche di impiegare i Carabinieri per addestrare le forze di sicurezza del sud ed aiutare a mettere in sicurezza la regione dai militanti dell’IS che presumibilmente fuggono in Libia dal Nord Iraq.

Un intervento europeo di questo tipo è fallito in partenza per il governo di accordo nazionale libico, il quale ha reso cristallino che esso non considera la Libia come un potenziale calderone di migranti illegali e che non ha alcun interesse in qualsiasi piano che preveda l’insediamento dei migranti in Libia.

Nel Fezzan, i migranti sono trafficati illegalmente attraverso la frontiera sud in città come Sabha, Murzuq, ‘Ubari, Qatrun in cambio di pagamenti in contanti ai gruppi armati Tebu e ai Tuareg che controllano quei Passaggi. In questo anno si ritiene che i gruppi più grandi di migranti provengano da Nigeria, Bangladesh, Guinea, Costa d’Avorio. Il principale centro del commercio di esseri umani è Sabha, dove si verificano comunemente scontri in strada tra fazioni di trafficanti in conflitto

L’Italia ha firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger che permetterà al Niger di dispiegarsi a fianco delle forze del cosiddetto SG5 il Gruppo di 5 del Sahel – una coalizione anti-terrorista e di sviluppo economico di cinque nazioni del Sahel- con il supporto della Francia, di altri Paesi tra cui la Germania, con l’obiettivo di stabilire un controllo effettivo della frontiera con la Libia.

Khalifa Haftar: l’uomo forte della Libia e i suoi giochi di potere

L’uomo forte della Libia Khalifa Haftar asserisce che le sue forze ora controllano 1,730,000 chilometri quadrati dei 1,760,000 dell’intera Libia.

Per controllare Tripoli e ottenere una qualche legittimità, Haftar si prefige innanzitutto di controllare il fronte sud attraverso il Fezzan.

Qual è il problema in due parole? Sebbene l’Europa e le Nazioni Unite riconoscano il Consiglio Presidenziale/Governo di Accordo Nazionale come il governo ufficiale della Libia (quello di Tripoli per intenderci), dal momento che tale riconoscimento non ha avuto alcun effetto nel limitare il flusso di migranti verso l’Europa, chiunque possa controllare questi flussi sarà il destinatario della gratitudine europea e dell’approvazione diplomatica.

Garantire la sicurezza di Tripoli significa prevenire che elementi armati che sostengono il Governo di Accordo Nazionale scappino nel deserto a sud.

Haftar vuole controllare gli acquedotti e gli oleodotti dal sud, mettere in sicurezza le frontiere e prevenire che i militanti dell’IS (Stato islamico), le milizie islamiste e i mercenari stranieri ritornino nel Fezzan ed alimentare un generatore di continua instabilità per la Libia.

Il punto di svolta del tentativo di Haftar di ottenere il controllo della Libia si è verificato con la presa del potere nel distretto Jufra del nord Fezzan, una regione con tre importanti città nel suo settore sud (Hun, Sokna, e Waddan), così come la base aerea di Jufra. La campagna militare condotta dall’esercito nazionale libico con l’ausilio degli aerei egiziani ha permesso ad Haftar di ottenere il controllo della città di  Bani Walid, un centro importante, a livello strategico, della rete libica di traffico di esseri umani a 100 chilometri a sud-ovest di Misurata e 120 chilometri a sud-est di Tripoli. Il luogo offre accesso via strada ad entrambe le città. Il controllo di Bani Walid potrebbe permettere all’esercito nazionale libico di separare il governo di accordo nazionale a Tripoli dai suoi sostenitori militari più forti a Misurata.

A settembre 2017, nella sua visita a Roma, Haftar ha insistito affinché si ponga fine all’embargo di armi sulla Libia solo per l’esercito nazionale libico, aggiungendo che egli avrebbe potuto fornire il personale necessario per rendere sicura la frontiera sud della Libia, ma che avrebbe avuto la necessità di avere droni, elicotteri, visori notturni e veicoli.

Ricapitoliamo:

La strategia militare di Haftar appare essere quella di mettere in sicurezza le basi aeree del deserto a sud di Tripoli e inserire le forze dell’esercito nazionale libico nella costa occidentale di Tripoli, spingendo i suoi oppositori in un angolo della capitale e a Misurata prima di lanciare un’offensiva sostenuta anche da una forza aerea, con tattiche simili a quelle che gli hanno reso possibile la cattura di Jufra. Haftar cerca di “vendere” la conquista di Tripoli come un passo necessario per porre fine alla migrazione illegale dai porti libici verso l’Europa. Tale strategia gode di un sostegno politico: il Primo Ministro della Camera dei Rappresentanti Abdullah al-Thinni ha rifiutato in maniera consistente le proposte internazionali per un accordo mediato alla crisi libica, insistendo, come ex militare professionista, che solo uno sforzo militare può unire il Paese.
Il prolungato tentativo dell’esercito nazionale libico di ottenere il controllo di Benghazi ci suggerisce sia la difficoltà della guerra urbana sia la debolezza dell’esercito nazionale libico relativamente alle sue ambizioni di potere nelle più grandi città della Libia.

Il ritiro delle milizie alleate al Consiglio Presidenziale/governo di accordo nazionale da Jufra potrebbe essere visto come un’azione preparatoria di una posizione/campagna più consolidata contro Haftar. Peccato che questa strategia avrebbe come effetto l’indebolimento della sicurezza nel sud, aprendo verosimilmente nuovi spazi ad attori non-statali violenti.

Il Fezzan resta un obiettivo allettante e di lungo periodo per i jihadisti che potrebbero trovarvi delle opportunità per sfruttare o anche rubare la direzione di una resistenza protratta nel Fezzan e l’imposizione di un governo di un nuovo uomo libico forte. Nell’assenza di un singolo gruppo forte abbastanza per resistere all’esercito nazionale libico di Haftar, tutti i tipi di alleanza anti-Haftar sono possibili, con la possibilità aggiuntiva di un eventuale intervento straniero da parte dell’occidente o dai partner di Haftar.

Immagine del Fezzan: “Diplomacy”

Marzo 7 2016

Il labirinto libico

labirinto libico

Il labirinto libico è fatto di divisioni politiche, fazioni estremiste, lo stato islamico e le risorse idriche che se cadessero in mano del gruppo di Abu Bakr al – Baghdadi potrebbero disegnare scenari peggiori di un semplice caos.

In questi giorni le notizie sulla Libia sono state riportate creando, se possibile, più caos di quello che c’è in Libia. Mi sono sempre chiesta: ma come fa una persona che non è del “mestiere” a capire che diavolo succede in Libia?. Cerco allora di aiutarvi a mettere in ordine le idee, se non altro per cambiare canale quando sentite le frasi “beduini del deserto che cambiano idea ogni secondo”. 

Il 17 dicembre 2015 dozzine di delegati delle due compagini governative rivali libiche, così come municipalità locali e la società civile, hanno firmato un accordo delle Nazioni Unite (NU) per formare un governo di unità nazionale. I colloqui sono andati avanti per quasi un anno. Il nascente Governo di Accordo Nazionale (GNA) deve ancora essere pienamente formato. Un consiglio presidenziale di 9 membri è stato stabilito e sta funzionando anche se lavora per la maggior parte da Tunisi. Nel complesso, il processo di divisione del potere indicato nell’accordo è indietro rispetto alla programmazione. La precedente pressione dalla comunità internazionale per restare incollati ad una sequenza temporale spesso affrettata ha dato il via ad errori fatali in Libia, come le elezioni del 2014 senza una massiccia registrazione ed un accordo tra le fazioni per rispettare il risultato. La riconciliazione richiede tempo.
Dopo tutto i due speaker dei parlamenti rivali restano opposti all’accordo. Il leader dell’House of Representatives (HoR) a Tobruk, Agila Saleh, ha ammorbidito la sua posizione dopo che importati tribù nell’est della Libia hanno appoggiato l’accordo, sebbene con la condizione che il ruolo dell’esercito nazionale libico e il suo leader, il Generale Khalifa Haftar sia preservato. A Tripoli, Nuri Abu Sahmain, lo speaker del General National Congress (GNC), ha offerto una concessione al nuovo mediatore delle NU, Martin Kobler, accordandosi per facilitare lo spostamento della Missione Speciale NU per la Libia nella capitale. Nelle ultime settimane, diverse municipalità hanno appoggiato il nuovo governo di unità nazionale con l’offerta del consiglio locale di Benghazi di una capitale temporanea per la Libia, fino a che il governo non sia riportato a Tripoli.

Labirinto libico: i problemi

Il nuovo primo ministro designato, Faize Serraj e Kobler affrontano diversi problemi. Il più stringente è l’ISIS. Il gruppo ha espanso le sue operazioni in Libia, lanciando un’offensiva contro le più grandi istallazioni di petrolio sulla costa e uccidendo dozzine di reclute della polizia. Catturando la piccola città di Ben Jawad, lo stato islamico ha mosso le sue “frontiere” dell’area che controlla lungo la costa libica di 29 km ad est.

L’offensiva dell’ISIS sui giacimenti di petrolio è particolarmente preoccupante. Gli jihadisti sembrano tesi a distruggere piuttosto che prendere il controllo e sfruttare le istallazioni di petrolio, che danneggerebbero permanentemente il budget della Libia, rendendo il lavoro del nuovo governo ancora più arduo. Se avesse successo, l’ISIS potrebbe attrarre nuovi foreign fighters dalla vicina Tunisia, dal Sudan, e dall’Algeria. Questo compenserebbe la mancanza di significativi numeri di reclute libiche che è stata la principale debolezza del gruppo.
L’offensiva dell’ISIS è stata contrastata dalla combinazione di attacchi aerei da Misurata e forze di terra delle Petroleum Facilities Guard, due forze che recentemente si sono allineate rispettivamente con il governo di Tripoli e Tobruk.
I vertici più anziani dell’ISIS sono composti da foreign fighters dall’Iraq, Arabia Saudita e Yemen arrivati la scorsa estate per coordinarsi con i jihadisti locali. Come l’ISIS in Iraq e Siria i ranghi in Libia sono variegati, con cittadini tunisini, sauditi e libici che portano a termine le loro missioni suicide. Il gruppo ha anche intercettato gli jihadisti libici che hanno combattuto con altri gruppi estremisti locali, come Ansar al- Sharia così come i libici che sono tornati dai combattimenti per lo stato islamico in Iraq e Siria.
Mentre lo stato islamico manca di una maggiore base di supporto locale in Libia, la sua presenza nel paese è cresciuta costantemente nei mesi recenti. Il gruppo beneficia della mancanza di una strategia della comunità internazionale. Inoltre, l’ISIS non deve rimanere popolare in Libia per dominare ed espandersi, tutto quello di cui ha bisogno è la perpetuazione dello status quo.
L’altro problema sono le emblematiche radici del caos in Libia. Un mese dopo l’accordo di divisione del potere, il paese ora ha 3 governi, il non ancora funzionante GNA, Tobruk e il governo di Tripoli allineato agli islamisti. Questa settarietà si trascina, malgrado il fatto che 17 paesi che hanno supportato l’accordo di pace, incluso gli Stati Uniti e l’UE, si sono impegnati ad avere a che fare solo con il GNA, una mossa che il Consiglio di Sicurezza ha sostenuto il 23 dicembre 2015.
Inoltre, le divisioni fanno sì che la capitale Tripoli resti isolata. Gheddafi aveva creato uno stato altamente centralizzato, e tutte le leve di potere sono ancora a Tripoli: i ministeri, le agenzie governative e, più importante, la Banca Centrale e la National Oil Corporation: la prima gestisce i soldi del petrolio e la seconda i contratti petroliferi. Per aiutare a riconnettere queste istituzioni chiave con il governo, le Nazioni Unite stanno guidando delle negoziazioni di sicurezza sotto la gestione del generale italiano Paolo Serra, che sta mediando tra le differenti milizie per raggiungere un accordo affinché il nuovo governo possa operare in sicurezza a Tripoli.
Il terzo problema è istituzionale. L’accordo di unità nazionale fa dell’House of Representatives a Tobruk il principale organo legislativo della Libia. Non funziona effettivamente dalla scorsa estate; nei mesi scorsi ha ripetutamente fallito nel raggiungimento di un quorum anche solo per discutere l’accordo politico. Senza la HoR il nuovo governo di unità non può operare pienamente perché manca del voto di fiducia. In più, l’accordo di divisione del potere deve essere supportato da emendamenti costituzionali che devono essere approvati dal parlamento a Tobruk. Il GNC, basato a Tripoli dovrebbe formare buona parte di una seconda camera consultiva conosciuta come State Council la quale, congiuntamente, deve nominare le più importanti istituzioni militari e finanziarie. Ma lo speaker non ha ancora dato il via libera.
Queste nomine militari sono la sfida finale che deve affrontare il nuovo governo di unità.

La grande incognita della falda acquifera Nubian Sandstone

labirinto libicoLa scorsa primavera tre delle quattro nazioni sotto cui si snodano le acque del Nubian Sandstone, il Ciad, l’Egitto ed il Sudan, si sono accordate a continuare il coordinamento per estrarre l’acqua della falda e per una divisione della gestione delle responsabilità. Tuttavia, il caos politico in Libia, la quarta nazione che condivide la falda acquifera, potrebbe far affondare gli sforzi regionali per uno sviluppo sostenibile di questa risorsa vitale.
L’ammontare stimato di acqua accessibile va dai 150 milioni di metri cubici agli 8 bilioni di metri cubici. Come le più grandi falde acquifere del mondo, questa riserva sotterranea si espande in una grande area geografica. Il territorio libico ed egiziano, hanno la quota da leone dell’acquifero e sono stati i più attivi estrattori rispetto al Ciad ed al Sudan.
Nel 2013, la falda acquifera è stata completamente mappata da un gruppo di geologi inglesi, e la Libia ha seguito le altre tre nazioni nel firmare un accordo supportato dalle Nazioni Unite per il coordinamento dell’estrazione dell’acqua e per le abilità dei paesi di monitorare i prelievi così che la falda potesse essere sviluppata sostenibilmente. Due anni dopo, quando i paesi dovevano rinnovare i loro impegni, la Libia era assente.
La connessione tra il caos politico in Libia e la sicurezza delle risorse idriche in Libia non è immediata ma c’è. Per decadi, uno dei più grandi progetti di Gheddafi era il così detto Great Man – Made River, un massiccio progetto infrastrutturale responsabile per l’estrazione e il trasporto dell’acqua della falda sotto e sopra i centri maggiori di popolazione del deserto del Sahara a nord. La rete di trasporto dell’acqua è stata un enorme orgoglio civile soprannominato “l’ottava meraviglia del mondo”. Oggi resta centrale all’identità nazionale del paese e critica per il suo sviluppo economico. Non sorprendentemente l’infrastruttura è diventata il primo obiettivo per i gruppi di insorti che cercavano di far cadere il regime.

Dal momento che i militanti affiliati all’ISIS hanno guadagnato territorio lungo la Libia, hanno visto come possibile obiettivo il controllo dell’infrastruttura lungo il Great Man- Made River. In questo si possono vedere evidenti similitudini con quanto accaduto in Iraq e Syria, (guerra dell’acqua, ISIS e dighe). La Libia è particolarmente vulnerabile a questo proposito. Il sistema di distribuzione dell’acqua si estende per distanze enormi, terreni scarsamente popolati e poco sicuri.

labirinto libico

Diverse settimane fa, i militanti affiliati all’ISIS hanno rivendicato (anche se non è stato confermato) di aver preso il controllo di installazioni lungo il Great Man – Made River, che se vero potrebbero avere enormi implicazioni per il futuro della Libia.
Nel deterioramento della situazione di sicurezza del paese, il comportamento della Libia, su tutte le questioni strategiche, incluso la negoziazione dei diritti delle risorse idriche della falda acquifera Nubian Sandstone, sarà imprevedibile. Inoltre, se gli affiliati dell’ISIS alla fine si assicureranno le infrastrutture libiche per l’estrazione ed il trasporto delle acque del Nubian Sandstone, e le lezioni dall’Iraq e la Siria ne sono un’indicazione, non si preannuncia niente di buono.
Le conseguenze del controllo dei gruppi affiliati all’ISIS della fornitura di acqua della Libia è importante perché la falda acquifera Nubian Sandstone non è una risorsa illimitata. Questo sistema d’acqua sotterranea è conosciuto come una “falda acquifera fossile”, ciò vuol dire che è geologicamente sigillato dalla superficie e non può essere ricaricato da mezzi naturali, come la pioggia che filtra dalla superficie. Mentre la falda acquifera Nubian Sandstone può essere considerata la più grande falda acquifera fossile al mondo: una volta che le acque della falda sono estratte se ne sono andate per sempre! Se i gruppi affiliati all’ISIS prendessero il controllo delle infrastrutture dell’acqua (assumendo che non l’hanno ancora fatto), rapidi e irregolari estrazioni possono facilmente risultare nello svuotamento della vasta falda acquifera più velocemente di quanto ci si aspetti.

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.

Gennaio 7 2016

Libia: lo scandalo ONU che nessuno racconta

Libia

Libia martoriata da un guerra civile, dallo scellerato intervento del 2011, viene mortificata ancora dallo scandalo del rappresentante ONU. Non ricercate le colpe nei libici, ma nei carrozzoni burocratici occidentali.

Certo l’ISIS che diffonde le foto dei suoi raid sulle infrastrutture petrolifere libiche non è il massimo, aver ottenuto dei successi a Sirte e aver preso il controllo di due città nell’area: Bin Jawad e Nawfaliyah, preoccupa. Preoccupa perchè il vuoto politico non si colma ed anzi si colora di ombre gettate proprio dalle Nazioni Unite. Passato del tutto inosservato dal mondo intero, perchè fa comodo pensare che la colpa sia dei terroristi.

La Libia mortificata dal funzionario corrotto delle Nazioni Unite

Il rappresentante speciale per le Nazioni Unite in Libia, Bernardino Leon, ha negoziato un lavoro per 35000 sterline al mese con gli Emirati Arabi Uniti (UAE),che supportano una delle parti in lotta nella guerra civile in Libia, come direttore generale della sua “accademia diplomatica”. Fatto poi annunciato ufficialmente da UAE.

Leon se la cava dicendo che non è affatto un conflitto di interessi perché voleva lasciare il suo ruolo il 1 settembre 2015. Le email diffuse dal The Guardian mostrano che l’incarico fu offerto a Leon a giugno 2015 e che ad agosto 2015 proprio Leon aveva già intenzione di andare con la sua famiglia ad Abu Dhabi. L’ONU lo rimuove e manda Kobler, un tedesco ed il fatto viene chiuso, archiviato, mai accaduto.

Le mail che fanno più orrore di un bombardamento

Erano passati 5 mesi da quando era stato nominato mediatore in Libia e la prima mail che Leon invia risale al 31 dicembre 2014 indirizzata al ministro degli esteri UAE, Sceicco Abdullah bin Zayed, dalla sua casella di posta privata.

Leon dice che, “siccome ci sono progressi molto lenti nei colloqui di pace, l’Europa e gli Stati Uniti chiedono un piano B, una classica conferenza di pace“. Secondo Leon è una pessima opzione perché tratterebbe le due parti come attori uguali. Continua dicendo che il suo piano è quello di rompere un’alleanza pericolosa tra i mercanti benestanti di Misurata e gli islamisti che tengono a galla  il GNC (la formazione politica con sede a Tripoli). Dice che vuole rinforzare l’HOR (l’altra formazione politica con sede a Tobruk), l’apparato supportato dall’UAE e dall’Egitto. Dichiara che non sta lavorando ad un piano che includa tutti, che ha una strategia che delegittima completamente il GNC. Ammette che tutti i suoi movimenti e le sue proposte sono state prese in consultazione e, in molti casi direttamente con l’HOR e l’ambasciatore UAE in Libia Aref Nayed e l’ex primo ministro libico che sta in UAE, Mahmud Jibril.

Prima di firmare e spedire l’email, Leon afferma che lui può aiutare e controllare il processo mentre è li. Che tuttavia non ha pianificato di starci molto. Che ha avvertito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Europa di lavorare con l’UAE.

Leon insiste che le mail sono state manipolate che stava considerando di dimettersi dal suo ruolo in Libia già a gennaio 2015. L’ambasciatore libico alle Nazioni Unite accusa i servizi d’intelligence britannici di aver dato le mail al giornale britannico. Al-Dabbashi aggiunge che questo dimostra il desiderio degli americani e degli inglesi di far scivolare il paese nel caos fino a quando i loro cittadini che hanno origini libiche abbiano l’opportunità di governare la Libia oppure di dividerla in mini stati.

La Libia e i libici ne pagano le conseguenze

La risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza sulla Libia viene adottata il 23 dicembre 2015 e tutti applaudono alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale, pace e stabilità, evviva! La realtà non è affatto così. L’azione scellerata di Leon ha gettato una grande ombra di legittimità sulle Nazioni Unite. Si crede in Libia che ci sia un gruppo politico a Tripoli, uno a Tobruk ed un terzo a New York. La sensazione per alcuni, la certezza per altri, che il governo sia stato paracadutato dall’occidente non aiuta per nulla. Il fatto che si sia approvato un piano scritto da un funzionario corrotto non fa altro che inasprire la situazione.

I bombardamenti diretti allo stato islamico in Libia forse aiuteranno gli interessi occidentali ma non aiutano affatto la Libia.

Un esempio su tutti. Il movimento politico Tabu ha reiterato che il non riconoscimento della tribù Tabu da parte dell’assemblea costituente viola l’art. 30 della dichiarazione costituzionale ad interim. L’art. 30 obbliga l’assemblea a considerare i punti di vista degli Amazigh, Tabu e Tuareg circa le leggi da adottare nella bozza della costituzione. Il 5 gennaio 2016 l’HOR non si riunisce ufficialmente a causa della mancanza di quorum. I membri dovevano incontrarsi per votare l’accordo politico firmato a Skhirat e il suo Faiez Serraj Government of National Accord  (GNA).

Certo è colpa dei libici che non si mettono d’accordo, in fondo è loro il paese perché non si danno una mossa a mettersi d’accordo? Ed è la fulminante dichiarazione del capo della politica estera europea: Mogherini, che richiama all’unità. Certo è ovvio: la colpa è dei libici. Come se la transizione politica di un paese si potesse fare dall’oggi al domani.

Punti deboli dell’Accordo Politico

Secondo l’accordo il 26 gennaio tutte le posizioni come il governatore della banca centrale libica e il comandante in capo dell’esercito nazionale libico andranno per default al GNA. Sempre in questa data la comunità internazionale dovrà e potrà indirizzarsi unicamente al GNA escludendo ogni contatto con i due governi precedenti.

Come già anticipato in un precedente post l’accordo politico ha molti punti critici che non fanno presagire un buon risultato. La procedura di selezione del primo ministro del governo di unità e dei suoi due deputati è il punto più critico per l’implementazione dell’accordo. Insieme queste tre posizioni formeranno il Consiglio Presidenziale, ognuno con un uguale potere di vero su decisioni governative chiave, soprattutto per il settore sicurezza. A loro verrà anche dato il compito di proporre una linea di governo. Altro limite: l’accordo di Skhirat non prevede una procedura concordata su come queste figure chiavi verranno scelte.

Il piano delle Nazioni Unite assume che ci siano solo due parti che combattono l’un altro, ma ci sono una moltitudine di differenti milizie di cui peraltro non è chiara quale sia la reazione dopo il 26 gennaio 2016.

Resta assente di un binario parallelo che si occupi soltanto di questioni legate alla sicurezza che avrebbe potuto creare un punto comune e quindi un ponte tra i gruppi armati rivali.

Nell’accordo non si menziona affatto il sistema giudiziario. L’ultima riforma della Corte Suprema risale al 1969. Numerosi sono stati i richiami di alcune organizzazioni internazionali al rispetto dei diritti umani nelle prigioni libiche. Il sistema carcerario nessuna menzione. La tortura: nessuna menzione.

Sì, continuiamo a dare la colpa ai libici perché in questa situazione l’occidente ha fatto molto bene: nel 2011 li ha bombardati, ha rimosso il leader (l’ha ucciso così per stare più tranquilli) e poi nel 2015 ha dato in mano le sorti del paese ad un funzionario delle Nazioni Unite corrotto. Ottimo lavoro! Sicuramente la colpa è dei folletti o negli unicorni!

Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.

Settembre 29 2015

I soldi dell’ISIS

L’ISIS guadagna due milioni di dollari. Conoscere e interrompere la loro rete di finanziamento sembra essere più razionale che tirare bombe in Iraq e Siria.

Il terrorismo (sia internazionale che nazionale) è come ogni altra forma di crimine organizzato, altamente determinato e calcolatore. Molta della forza delle organizzazioni terroristiche risiede nell’ interdipendenza, in particolar modo quella economica, che essi instaurano tra loro stessi e le regioni in cui operano. Diventando parte integrante di una regione i loro crimini  vengono sfruttati in maniera tale da generare profitto.

Il denaro “sporco” è un grande potere. Estorsione, assassini, rapimenti, traffico di esseri umani, contraffazione,  il commercio della droga e di opere d’arte (per dirne alcune) valgono una considerevole quantità di denaro. Questo contraddistingue il terrorismo internazionale come una vera e propria azienda che fa affari e anche con un considerevole successo.

Molti dei nomi di gruppi terroristici che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni ha mantenuto un alto livello di gioco di potere proprio attraverso robusti finanziamenti. E’ il supporto finanziario che si procurano attraverso affiliati che contribuisce al fiorire di questo giro di affari.

Partendo dal presupposto che è difficile tracciare somme di denaro che sono intese per non essere rintracciate e che per questa ragione molti dei soldi che appartengono alle organizzazioni terroristiche costituiscono una stima dei loro guadagni , vediamo chi sono i gruppi terroristici più ricchi al momento.

  • Boko Haram: oltre 70 milioni di dollari. Gruppo nigeriano che combatte per rovesciare il governo nigeriano per implementare un regime islamista. Ci ricordiamo forse che hanno sequestrato più di 200 ragazzine in una scuola della Nigeria in difesa di un loro slogan: “l’educazione occidentale è peccato”.
  •  Al-Qaeda: oltre 100 milioni di dollari all’ anno. Più di 30 milioni di dollari li ha avuti attraverso donazioni. Bin Laden era un multimilionario.
  • ISIS: 2 miliardi di dollari.

Per farci un’idea di come l’ISIS possa fatturare una tale somma di denaro vediamo brevemente da dove arrivano questi soldi.

Considerevoli somme provengono dal saccheggio di depositi di armi e di banche. Per mantenere la sua economia “nera”, l’ ISIS opera come una catena base di rifornimento compresa la predisposizione e implementazione di accordi con i proprietari dei camion che trasportano il greggio così come il controllo dei percorsi dei traffici di petrolio. Il greggio, sotto il loro controllo in Iraq e in Libia, è inviato a rudimentali raffinerie sotto controllo ISIS  (cosa che richiede un rifornimento sostenibile) tale per cui poi l’ISIS è in grado di vendere il prodotto raffinato. L’ ISIS fa inoltre affidamento anche su prodotti petroliferi trafficati illegalmente dal sud Turchia in cambio di greggio.

Chiariamo che l’impatto del controllo dell’ISIS sul commercio illecito di petrolio dal Nord Iraq e Est Siria non ha un significativo impatto sulle forniture del mercato globale di petrolio nel breve e medio termine. Questo perché il principale giacimento di petrolio nel nord dell’Iraq, a Kirkuk, che produceva approssimativamente 600,000 barili al giorno prima che fosse spento nel 2014, riacceso a dicembre a seguito di un accordo tra Baghdad e il governo regionale curdo è sotto protezione delle forze curde. Il resto della produzione di petrolio irachena che costituisce circa l’80% della produzione totale, è locata nel sud e continuerà ad essere disponibile  vista la distanza dei territori controllati dall’ISIS.

Ogni impedimento continuativo da parte dell’ISIS di bloccare gli sforzi governativi di raggiungere l’obiettivo di produrre 9 milioni di barili al giorno per il 2020 avrà un impatto deleterio sull’ abilità del mercato internazionale di petrolio  di prevedere e pianificare la disponibilità di rifornimenti di petrolio globali.

Il controllo e la vendita di petrolio rendono all’ISIS qualcosa come 1 milione di dollari al giorno.

I seguaci dell’ISIS sono stati perfettamente in grado di sviluppare una rete interna dedicata al sostegno finanziario e l’auto – sufficienza unitamente all ’indipendenza da potenziali donatori esterni vulnerabili.

Estorsione e tassazione illecita costituiscono una significativa fonte di guadagno. Prima della cattura di Mosul, l’ISIS già guadagnava circa 12 milioni di dollari al mese soltanto nella città. Ciò è stato replicato, in maniera più organizzata, nel territorio controllato dall’ISIS e ufficiosamente anche in aree di parziale influenza. Per fare un esempio: è stato sviluppato un sofisticato sistema di tassazione sulla via principale tra la Giordania e Baghdad che rimpiazza la tassa governativa di importazione facendo pagare tasse ridotte per il trasporto dei beni nella capitale irachena. Il sistema d’affari dell’autotrasporto lungo l’Iraq occidentale è principalmente controllato dai sunniti per cui, imponendo minori tasse, l’ISIS guadagna un entrata regolare e offre ai suoi garanti un’ opportunità di aumentare i loro guadagni. Sistemi  simili ci sono anche nell’est della Siria, con questo doppio focus nel guadagnare denaro e contemporaneamente comprarsi il favore delle tribù su cui l’ISIS fa affidamento per la sua sopravvivenza nella società.

Finora ci si è concentrati sulla circostanza che l’ISIS è particolarmente dipendente dal vendere il petrolio a clienti stranieri (Turchia, Kurdistan iracheno, Giordania per fare alcuni nomi). Invece non esiste un focus di mercato, l’ISIS si è progressivamente concentrato nello stabilire un durevole mercato interno per la produzione di petrolio, assicurandosi un’affidabile fonte di carburante per il suo parco veicoli e creando una fonte di dipendenza tra i civili e la sua capacità di fornire petrolio a prezzi inferiori.

Tutto ciò detto, ribadisco l’inutilità degli attacchi aerei che hanno avuto come obiettivi il petrolio alla sua fonte, piuttosto che i suoi mezzi di trasporto ovvero la vendita. Qualcuno lo compra questo petrolio, qualcuno fa passare i camion su strade e siamo così ingenui da credere che siano invisibili.

Ritengo che sia un punto importante il fatto che centinaia di membri ISIS abbiano un passaporto occidentale. Questo li rende portatori di interessi di servizi finanziari, legali, di sviluppo di proprietà. Controlli e legislazioni più rigide sul riciclaggio di denaro potrebbero sostituire le bombe che cadono inesorabili su territori oramai ridotti a cenere. Verificare che paesi come il Qatar e l’Arabia Saudita implementino seriamente quelle poche norme che hanno varato contro il terrorismo finanziario, sarebbe molto meglio che litigare su chi si unisce alla carovana dei bombaroli.

Settembre 20 2015

Libia: situazione politica

La complessità della situazione politica in Libia tra colloqui di pace svolti fuori dalla Libia, un accordo di unità nazionale pieno di lacune e la crescente minaccia del radicalismo religioso.

Poco più di mille km da Roma, la situazione politica della Libia è di poco interesse per nostri politici e per la stampa italiana., sottovalutando enormemente  la minaccia che potrebbe emergere da una Libia permanentemente instabile.
La situazione in Libia, merita un sunto di quello che è successo finora perché evidentemente ci siamo dimenticati cosa accade in un paese che quando fa comodo è l’amico del cuore dell’Italia, quando non fa comodo perché i nostri politicanti non hanno neanche idea di cosa fare allora via, la mettiamo fuori da ogni tipo di informazione.
La guerra civile libica è iniziata con proteste contro il regime di Gheddafi, durate dal 15 febbraio al 23 ottobre 2011 e finite con la morte di Gheddafi e la vittoria delle forze pro – opposizione. Gruppi di attivisti denunciarono il numero delle persone uccise: da 30,000 a 50,000, molti di questi erano civili le cui morti erano state causate dalle forze di Gheddafi. Questi numeri sono stati dimenticati in fretta.
Dopo la fine delle guerra, fu formato un governo ad interim (National Transitional Council) nel novembre 2011 e nel luglio 2012 viene eletto il General National Congress (GNC). Tuttavia, quello che seguì fu un diffuso collasso dell’ordine e una cronica mancanza del rispetto della legge di cui approfittarono gli ex gruppi di ribelli che conquistarono il controllo a livello locale. Molti di questi gruppi rifiutarono di allearsi con un comando militare unificato, riferendo invece a consigli militari locali che divennero dei governi locali de facto. Le milizie rivali frequentemente si scontravano l’un l’altro per il controllo del territorio, mentre omicidi per rappresaglia, furti, travolgevano la popolazione locale. 7.000 persone accusate di essere sostenitori di Gheddafi, la maggior parte civili (compreso donne e bambini), rimasero in prigione e furono torturati. Si formò un gruppo armato pro – Gheddafi chiamato Green Resistance che combatteva contro altri gruppi di ribelli.
La proliferazione delle armi divenne un grande problema: molti dei depositi di armi dell’era Gheddafi furono saccheggiati. L’influsso di armi in mani private ebbe effetti ben al di là delle frontiere della Libia, contribuendo ad irrobustire le capacità dei separatisti che presero il controllo del Mali nel 2012, così come di estremisti religiosi.
In questo periodo, il radicalismo religioso cresce e l’11 settembre 2012, estremisti attaccano il Consolato americano a Benghazi, uccidendo 4 americani. Tra i morti l’ambasciatore americano Stevens e due agenti della CIA.
Le forze islamiste e non, si sono contestate a lungo su chi fosse il legittimo “cuore” della rivoluzione del 2011. Le fazioni islamiste come il Partito Justice and Construction legato alla Muslim Brotherhood e il Loyalty to the Martyrs Bloc hanno dominato il GNC fino all’estate del 2013, quando l’aver approvato forzatamente la Political Isolation Law che di fatto espelleva tutti i membri dell’ex regime di Gheddafi (anche quelli che avevano combattuto contro il regime) dalla partecipazione nel governo per 10 anni. Alcuni membri più secolari come l’Alliance National Forces furono susseguentemente cacciate dal GNC. Sia per strategia che per conseguenza, le forze armate furono costrette a rimanere ai margini mentre il GNC autorizzava le milizie islamiste, sia ufficialmente e che semi- ufficialmente, a mettere in sicurezza il paese. Milizie non – islamiste basate a Zintan che si opponevano al Political Isolation Law, minacciarono di dissolvere il GNC.
Il 23 dicembre 2013 l’autorità legislativa della Libia: il GNC, unilateralmente estese il suo mandato di un anno basandosi sull’ interpretazione della Dichiarazione Costituzionale del 2011. Così si rifiutarono di tenere nuove elezioni previste per il gennaio 2014. A seguito di ciò, ci furono proteste pubbliche contro il GNC. Il malcontento originava da una presunta dominanza all’ interno dello stesso dei religiosi conservatori, soppressione dei dibattiti “non convenienti” e l’imposizione della segregazione di genere, pressando per l’introduzione di leggi islamiche come base ufficiale della legge nazionale.
Entra ora prepotentemente sulla scena il Generale Haftar. Brevemente vi spiego chi è. Insieme a Gheddafi era parte dei quadri di giovani ufficiali dell’esercito che presero il potere al Re Idris nel 1969. Gheddafi ripaga la sua lealtà dandogli il comando del conflitto contro il Ciad. Nel 1987 Haftar e 300 dei suoi uomini furono catturati dai ciadiani. Avendo precedentemente negato la presenza di truppe libiche nel paese, Gheddafi rinnega il generale. Tradimento che è causa due decadi più tardi della dedizione del generale alla deposizione del leader libico. Di tutti i posti del mondo Haftar si dedicò alla causa dall’esilio nello stato americano della Virginia. La sua prossimità al quartier generale della Cia a Langley diede adito a parecchie voci circa uno stretto rapporto con i servizi di intelligence americani che pare gli diedero il supporto in diversi tentavi di assassinio di Gheddafi.
La mattina del 16 maggio 2014, le forze sotto il comando del generale Haftar (che lui chiamò Operation Dignity) attaccarono le milizie più radicali dentro e intorno a Benghazi, dando la scintilla a quella che ora qualcuno chiama la seconda guerra civile libica. Il 25 giugno, si tennero nuove elezioni legislative per il Consiglio dei Deputati (anche conosciuto come House of Representative). Nazionalisti e liberali vinsero la maggioranza dei seggi nelle elezioni. Tuttavia, il blocco dei religiosi conservatori si autoproclamo il nuovo GNC, formato da politici che erano la parte perdente delle elezioni e si approfittarono del supporto della coalizione di milizie conosciuta come Libya Dawn per prendere il controllo della capitale: Tripoli. Subito dopo, l’appena eletto Consiglio dei Deputati (HoR) mosse la sede nella città dell’est: Tobruk con il supporto del generale Haftar. Nel corso dell’anno successivo, il GNC mise la propria base di potere nella parte occidentale del paese, controllando Tripoli, Misrata e Zliten e altre città. Invece l’ HoR che “guadagnò” il riconoscimento internazionale si stabilì nell’est e nel sud del paese con la sua capitale de facto a Tobruk, controllando la maggior parte degli oleodotti del paese. Forze alleate controllano anche delle citta nelle montagne a sud ovest di Tripoli. Una forza di guerriglieri Tuareg, alleate a Libya Dawn, prese controllo del pezzetto sud occidentale della Libia, contestandosi la più grande città: Sabha con i combattenti Tebu allineati al governo di Tobruk. Forze locali presero il controllo della fortezza di Gheddafi: Bani Walid.
Lo Shura Council dei Rivoluzionari di Benghazi, una coalizione di milizie di gruppi religiosi radicali prese il controllo di parti est della città di Derna e continuarono a contestare Benghazi con le forze di Operation Dignity (Haftar). In questo periodo la Libia ha assistito all’entrata del così detto Stato Islamico, che inizialmente si è stabilito a Derna, ma fu successivamente cacciato dallo Shura Council. Poi presero il controllo della città di Sirte, la città di Gheddafi, e l’area che la circonda, dopo aver espulso le forze del GNC. L’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti hanno condotto bombardamenti aerei in diverse occasioni sia contro il GNC che contro l’IS, in supporto del governo di Tobruk, mentre il Qatar e la Turchia danno il proprio supporto al GNC.
Ricapitoliamo quindi alcuni avvenimenti più significativi occorsi dal 2014 al 2015.
13.07.2014: i rappresentanti dei religiosi conservatori, il Libyan Central Shield con un milizia conservatrice alleata decisero di lanciare “Operation Libya Dawn”, una battaglia per il controllo dell’aeroporto di Tripoli (controllato dalle Zintan Brigade alleate ad Haftar). La battaglia continua per più di un mese, mentre la coalizione conservatrice cresce progressivamente, e acquisisce il supporto della Muslim Brotherhood e si fa chiamare Libya Dawn dal nome della sua missione “inaugurale”.
31.07.2014: lo Shura Council of Benghazi Revolutionaries, una nuova coalizione di milizie religiose radicali che include Ansar al – Sharia (il gruppo legato all’attacco del 2012 all’ambasciata Americana) prende il controllo di molta parte di Benghazi. Questo accade il giorno dopo che Ansar al – Sharia dichiara che Benghazi è un “emirato islamico”.
04.08.2014: il nuovo parlamento eletto si riunisce per la prima volta. A causa delle battaglie che si svolgevano a Tripoli e a Benghazi, il nuovo governo si riunisce nella città di Tobruk, ad est, una roccaforte del generale Haftar. Il numero dei rappresentanti nel parlamento scende da 200 a 115.
13.08.2014: il nuovo parlamento vota ufficialmente la revoca dell’appoggio a tutte le milizie, incluso le due parti coinvolte nella battaglia per l’aeroporto di Tripoli.
19-20.08.2014: le città occidentali di Nalut e Kabaw, seguite da Tarhouna, rifiutano l’autorità del nuovo parlamento, dichiarando il proprio supporto alle forze di Libya Dawn che assediavano l’aeroporto di Tripoli. I rappresentati delle maggiori città occidentali, incluso Misrata, Khoms e Zliten esprimono anche loro l’opposizione al nuovo parlamento.
23.08.2014: malgrado i duraturi bombardamenti di misteriosa origine, le forze di Libya Dawn ottengono pieno controllo dell’aeroporto di Tripoli dopo un mese di combattimenti. Il giorno dopo controllano l’intera città di Tripoli, dove esortano il GNC a tornare al potere.
01.09.2014: una settimana più tardi il GNC riconviene parzialmente a Tripoli con il supporto di Libya Dawn e nomina il suo primo ministro: Omar al – Hassi. Hassi diventa diretto rivale di Abdullah al – Thani che era stato scelto per guidare il nuovo parlamento a Tobruk. Il parlamento di Tobruk, appoggiato da Haftar rimane il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite (NU), mentre il parlamento in competizione a Tripoli ha il supporto di milizie che controllano molte parti del paese.
05.11. 2014: i combattenti Tuareg che supportano Libya Dawn, con l’aiuto da Misrata, prendono il controllo del oleodotto di Shararah.
07.01.2015: lo “Stato Islamico” stabilisce ufficialmente una sua branca in Libia.
16.01.2015: Libya Dawn (GNC) dichiara un cessate il fuoco con le forze allineate a Tobruk in vista dei colloqui di pace di Ginevra, supportati dalle NU.
27.01.2015: attacco al Corinthia Hotel di Tripoli da parte di un affiliato dello Stato Islamico.
08.02.2015: guerriglieri allineati allo Stato Islamico rivendicano la cattura di Nawfaliya, una città vicino al terminale dell’oleodotto di Sidra in un combattimento con le forze di Libya Dawn. Nei mesi successivi, il controllo della città resta conteso tra i due gruppi.
11.02.2015: colloqui di pace supportati dalle NU si tengono a Ghadames con l’obiettivo di formare un governo unificato tra il GNC di Tripoli e la HoR di Tobruk.
11-13.02.2015: guerriglieri che dicono di essere membri dello Stato Islamico muovono dentro Sirte, prendendo parti della città senza incontrare alcuna resistenza.
20.02.2015: milizie affiliate allo Stato Islamico fanno esplodere bombe all’interno di autovetture a Qubbah, presumibilmente per una rappresaglia per i bombardamenti egiziani nelle vicinanze di Derna, controllata dallo Stato Islamico.
02.03.2015: il parlamento di Tobruk nomina il generale Haftar come il comandante ufficiale delle forze armate libiche.
03.03.2015: gli impianti petroliferi di Mabrouk e Bahi sono controllati da combattenti religiosi estremisti, presumibilmente riconducibili allo Stato Islamico.
06.03.2015: rappresentanti da Tobruk e Tripoli s’incontrano in Marocco per un altro round di colloqui di pace con una sessione aggiuntiva in Algeria e in Belgio.
24.03.2015: guerriglieri dello Stato islamico attaccano soldati governativi a Sirte e Benghazi, uccidendo sia combattenti fedeli al governo di Tripoli che a quello di Tobruk.
12.04.2015: attacco all’ ambasciata del Sud Corea a Tripoli.
13.04.2015: attacco all ’ambasciata del Marocco a Tripoli da parte di miliziani affiliati allo Stato Islamico.
29.05.2015: militanti dello Stato Islamico prendono il controllo dell’aeroporto a Sirte.
09.06.2015: guerriglieri dello Stato Islamico catturano una centrale energetica a Sirte completando il controllo della città.
27.07.2015: il portavoce del governo di Tobruk asserisce che “tutti gli oleodotti” in Libia sono sotto il controllo delle forze militari governative. Nessuna specifica informazione viene data a proposito dei giacimenti di Mabrouk e Bahi presi a marzo dallo Stato Islamico.
13.08.2015: gruppi di ribelli sudanesi combattono a fianco del Generale Haftar a Kufra.

Giugno 24 2015

EUNAVFOR Med: solo una pezza a colore

La gestione del flusso  dei migranti mi fa venire in mente le “toppe”, le “pezze a colori” che si mettono su un buco, uno strappo. L’altro giorno sono stata alla stazione Tiburtina, non ho visto nessun campo, ma ho pensato che quest’allestimento super pubblicizzato, quando per anni e anni alla stazione ci sono stati migliaia di senza tetto, di ogni colore che si addormentavano li, chi chiedeva l’elemosina, chi vendeva gli asciugapiatti, chi i calzini; e mi è parso proprio che l’intento dietro l’allestimento di questo campo sia quello di mettere la polvere sotto il tappeto e di fare dei gran bei spot pubblicitari per la Croce Rossa che non ho mai visto alla stazione Tiburtina quando per esempio pioveva e si bagnavano i cartoni dei barboni e le coperte tutte zuppe, non ho mai visto distribuire pasti gratis…che strano, davvero. Vado da anni tutte le settimane a Roma e non ho mai visto tutta questa carità prima d’ora…INCREDIBILE!

A parte questa riflessione di morale, che chiaramente non hanno tutti quei giornalisti che sono li a fare domande del tipo: “ma ti hanno sparato?”; “vieni dall’Eritrea e hai preso il barcone in Libia?”, ” ti hanno picchiato?”, cerchiamo di fare un po di chiarezza sull’operazione EUNAFOR MED.

Quest’operazione così pubblicizzata come la migliore idea per risolvere il problema è in assoluto l’operazione più ridicola che si potesse mai ideare e peggio ancora realizzare. Consta di tre fasi sequenziali. La prima: sorveglianza e valutazione del traffico di esseri umani, delle sue reti, la seconda e la terza: individuazione e distruzione degli assetti dei trafficanti sulla base del diritto internazionale e di una partnership con le autorità libiche. Vediamo quindi punto per punto l’idiozia insita in questo programma. Prima vorrei portare alla vostra attenzione quanto accaduto in sede di redazione del testo di questa operazione che ci viene spiegato dal nostro ministro della difesa: “in vista di un eventuale risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (non si sa bene poi cosa dovrebbe decidere) la parola “affondamento dei barconi” è stata modificata in “eliminazione”. Ovviamente è chiaro a tutti che affondare una barca è diverso da eliminare. Questo perchè evidentemente anche il nostro ministro della difesa è colto da quel disturbo cognitivo e comportamentale per cui se uno mette una parola più figa tutto suona molto meglio. Perchè chiaramente distruggere (disrupt) come recita il testo inglese vuol dire che sul barcone non rimane più nessuno se fosse in mare e invece ancorato al porto, è oltremodo palese che sulla barca del trafficante c’ ha scritto: “trafficante” e quindi sono in grado di effettuare un eliminazione selettiva rispetto a tutte le barche ancorate in un porto, sapendo che i porti della Libia sono talmente piccoli che ci saranno solo le barche dei trafficanti. Probabilmente saranno tutte quelle con scritto “Caronte”. Quindi il problema si risolve eliminando il mezzo di trasporto. Allora facciamo un esempio: io elimino tutte le imbarcazioni dei trafficanti e tutti coloro che hanno attraversato almeno altri due Stati per arrivare in Libia tornano indietro.

Altro punto del tutto trascurato: le autorità libiche. Mi sorge spontanea una domanda: “quali”? Non ci sono forse due compagini governative che pensano di essere entrambe le rappresentanti del popolo libico, non ci sono forse una serie innumerevole di schieramenti, più di 300 partiti politici e soprattutto l’ambasciatore alle Nazioni Unite del governo riconosciuto dalla comunità internazionale (e qui evito in questo post di parlare del riconoscimento degli stati perchè anche qui ci sarebbero una serie di argomentazioni che sconfesserebbero tutti quei luminari che insistono che siccome tre paesi l’hanno riconosciuto allora è un governo legittimo) ha dichiarato proprio mentre si redigeva il testo di EUNAVFOR MED che non avrebbe mai dato il consenso per eliminare le barche nel territorio libico (quindi anche nelle acque territoriali). Il governo di Tobruk dalla parte sua non ha assunto finora nessuna posizione ufficiale. Saranno ottimisti e penseranno che prima o poi lo daranno o ne faranno a meno come tante volte si fa per un Bene Superiore, quello di mettere le pezze ovviamente.

La parte che più mi fa ridere è la frase :”in accordo con il diritto internazionale”, che evidentemente nessuno conosce. L’uso della forza previsto dall’operazione viola la proibizione dell’uso della forza sancita dall’art. 2 (4) della Carta Nazioni Unite, a meno che non si applichi una di queste eccezioni. L’attacco alle navi potrebbe essere qualificato come “law enforcement” piuttosto che “uso della forza” (Guyama v Suriname), ma sarebbe ugualmente illegale nel territorio ovvero nelle acque territoriali di uno stato in assenza di queste eccezioni: l’auto – difesa e l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. L’eccezione dell’auto – difesa non è applicabile perchè non c’è un attacco armato contro un paese dell’UE da parte di Stati Africani o dai trafficanti (punto che sarebbe rilevante se si riconoscesse un diritto all’auto – difesa contro attori non – statali). Si potrebbe verificare il diritto degli Stati all’uso della forza per proteggere i propri cittadini, peccato che i cittadini europei non siano nè minacciati nè coinvolti nei traffici. L’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza secondo il capitolo settimo della Carta NU. Il Consiglio di Sicurezza concesse l’autorizzazione per l’Operazione Atalanta (anti pirateria, coste somale); tuttavia l’autorizzazione fu data a condizione che ci fosse il consenso del governo somalo. Altro problema: i 5 membri permanenti ed in particolare la Russia. La vedo difficile che non apponga il veto soprattutto dopo l’abuso che i paesi occidentali hanno perpetrato quando fu concessa l’autorizzazione del 2011 proprio in Libia. Il Consiglio di Sicurezza però emana l’autorizzazione all’uso della forza quando è necessario per “mantenere la pace e la sicurezza internazionale (art.42) ovvero in presenza di una minaccia o violazione della pace ovvero per un atto di aggressione (art. 39). Una via plausibile sarebbe quella di arguire che la situazione nel Mediterraneo costituisca una minaccia alla pace; con la Risoluzione 668 (Iraq: trattamento della popolazione curda) il Consiglio di Sicurezza stabilì che un massiccio flusso di rifugiati verso e oltre le frontiere internazionali costituisse una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale.

Inoltre se si concedesse l’applicazione delle norme di diritto internazionale umanitario, le navi dei trafficanti sarebbero intitolate alla protezione come “oggetti civili”. Le attività dei trafficanti non si qualificano come pirateria secondo l’articolo 101 della Convenzione sul diritto del Mare (UNCLOS) e in ogni caso secondo l’art. 105 la forza può essere utilizzata sono nelle acque internazionali.

Concludendo, l’uso della forza non avrà granchè di basi giuridiche e non risolverà il problema. Resta più facile far andare avanti il carrozzone così perché affrontare le condizioni degli Stati da cui provengono i migranti richiederebbe uno sforzo molto più grande e non di denaro giacché il costo di EUNAFOR MED è di 11, 82 milioni di euro solo per i due mesi di start up, ma uno sforzo di politica estera europea che richiederebbe una serie di expertise di cui evidentemente il carrozzone europeo non è assolutamente dotato ed avendo alla guida proprio della politica estera la persona più inadatta della storia di tutti i tempi: la Mogherini.