Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.

Luglio 15 2017

Stati Uniti e Iraq: ora non ripetete gli errori del passato!

Stati Uniti

La liberazione di Mosul dall’IS (Islamic state) è una buona notizia, ma l’IS è ben lungi dall’essere stato eliminato. A questo punto gli Stati Uniti devono valutare attentamente le prossime mosse, per evitare gli errori del passato, quando, dopo il 2007, lasciarono l’Iraq senza una strategia precisa e il paese cadde nuovamente vittima dell’estremismo religioso.          

Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi dichiara Mosul libera dalle forze dell’IS, il risultato di una delle più lunghe e devastanti battaglie urbane del ventunesimo secolo. In altre parti dell’Iraq l’IS è vicino alla perdita di gran parte del territorio che una volta era sotto il suo controllo. Lungo la frontiera con la Siria, le Forze Democratiche Siriane, sostenute dagli Stati Uniti, stanno spingendo il gruppo fuori dalla roccaforte di Raqqa.

Le notizie sembrano buone, ma l’IS è lontano dall’essere eliminato. Molti dei suoi foreign fighters stanno tornando a casa, verosimilmente portando il terrorismo con loro. Alcuni dei suoi leader e combattenti restano in Iraq. Il gruppo sta ricorrendo alla guerriglia, incluso attacchi contro i civili in aree densamente popolate dell’Iraq.

L’operazione per riprendere Mosul, particolarmente la parte occidentale della città è stata violenta fin da febbraio, ed è giunta ad un costo incredibilmente alto. Centinaia di civili feriti ed uccisi nei combattimenti.

Mosul e i civili, incluso bambini, hanno pagato il prezzo di questa operazione.

Human Rights Watch e Amnesty International hanno diffuso un rapporto congiunto circa un mese fa in cui, rivolgendosi in particolare alla coalizione a guida americana, raccomandavano di fare più attenzione nella campagna di bombardamenti e particolarmente alle tipologie e alle dimensioni delle bombe che sceglievano di lanciare. A causa di queste grandi bombe lanciate sempre più di frequente, c’è stato un aumento nelle vittime civili sul terreno.
Questa operazione ha dislocato più di 700 mila civili che non saranno in grado di ritornare a causa dell’alto livello di distruzione.

Gli Stati Uniti stiano attenti a non ripetere gli errori del passato

Tutto ciò sta a significare che gli Stati Uniti devono valutare bene le loro prossime mosse, nella speranza che riescano ad evitare gli errori compiuti nel passato.

Alcuni anni fa, quando l’Iraq sembrava aver sconfitto i suoi estremisti interni dopo il picco della presenza di forze americane nel 2007, gli Stati Uniti ritirarono le loro forze. L’allora presidente George W. Bush firmò il SOFA (status of force agreement) con l’Iraq che stabiliva la rimozione di tutte le truppe di combattimento americane entro il 2011.
Sebbene i generali americani avessero fatto presente a Washington che né il governo iracheno né le sue forze di sicurezza erano pronte a funzionare senza un’assistenza americana di vasta scala; dopo essere entrato in carica nel 2009, il presidente Obama (che aveva corso alla presidenza nel 2008 con la promessa di ritirare le truppe dall’Iraq), non fece nulla per rinegoziare l’accordo firmato da Bush.

Va detto però che era improbabile che l’allora primo ministro dell’Iraq Nouri al-Maliki avrebbe accettato un continuo dispiegamento americano. Maliki era chiaramente impegnato a consolidare la dominazione sciita nel governo iracheno e sulle forze di sicurezza e riconosceva che una presenza militare americana avrebbe impedito ciò. Inoltre, egli sopravvalutò l’efficacia del suo apparato militare mentre sottostimava l’estensione dell’estremismo tra gli iracheni sunniti.

Adesso c’è l’opportunità di fare le scelte giuste. Abadi sembra comprendere meglio le sfide politiche e le minacce estremiste che l’Iraq deve affrontare. Questo crea un’opportunità per l’impegno americano per aiutare a prevenire la ripresa dell’IS e diminuire la dipendenza di Baghdad dall’Iran.

In altre parole le relazioni Stati Uniti-Iraq hanno un disperato bisogno di ricomporsi e di correggere gli errori compiuti tra il 2008 e il 2011.
Questo non accadrà se Trump non si impegna pienamente in ciò. Per raggiungere questo obiettivo, l’amministrazione Trump dovrebbe proporre che una forza militare americana, modesta, resti in Iraq anche dopo la sconfitta sul campo dell’IS. Una forza residuale molto simile a quella che i comandanti militari americani consigliarono a Bush ed Obama di lasciare nel paese dopo il 2007.

La missione primaria dovrebbe essere di sostenere e rinforzare le forze di sicurezza irachene e guidare le missioni di combattimento. Molta di questa forza dovrebbe concentrarsi sull’intelligence, aiutando gli iracheni ad identificare i luoghi dell’IS e informare su ogni nuova manifestazione di estremismo. Dovrebbe anche includere unità delle operazioni speciali in grado di colpire l’IS, in Iraq e in Siria, ma solo quando assolutamente necessario.

Se…

…Abadi o chiunque lo segue agiranno come Maliki, utilizzando il governo e le forze di sicurezza per reprimere gli arabi sunniti, o degradano l’apparato militare selezionando i leader su base settaria o per fedeltà politica piuttosto che per competenze professionali, gli Stati Uniti dovranno disimpegnarsi dall’Iraq una volta per tutte, magari mantenendo legami di sicurezza solo con il governo della regione curda.

Il Presidente Trump non ha dato indicazioni precise di voler mantenere un ruolo duraturo nel complesso lavoro di stabilizzazione dell’Iraq dopo la sconfitta sul campo di battaglia dell’IS. Se il Presidente degli Stati Uniti non si impegna nel reimpostare la relazione con l’Iraq, semplicemente la relazione non avrà futuro.

Senza un effettivo coinvolgimento americano, c’è una buona opportunità che l’estremismo si manifesterà nuovamente in Iraq, giocando un ruolo ancora più grande.

Se gli Stati Uniti non aiuteranno a riempire gli spazi da cui l’IS trae forza e “legittimazione” la nuova coalizione che comprende la Russia, l’Iran, Hezbollah, milizie sciite irachene e iraniane lo farà.

Non si può affermare con assoluta certezza che gli sforzi americani saranno sufficienti a prevenire ciò, ma sicuramente l’assenza di tali sforzi aumenterà le possibilità che questo accada a detrimento degli Stati Uniti e della pace e sicurezza internazionale.

Maggio 21 2017

Relazioni di vicinato: l’Iran e la Turchia nel “dopo Mosul”

relazioni

Dopo la piena riconquista di Mosul quali saranno le relazioni tra  due vicini eccellenti dell’Iraq: Iran e Turchia?

La Turchia è preoccupata che tutto quello che ha ottenuto finora il governo iracheno a maggioranza sciita, amico dell’Iran, sia parte di una più ampia strategia di Teheran per espandere la propria influenza nelle aree sunnite dell’Iraq del nord.

Quello che inquieta maggiormente il presidente turco Recep Tayipp Erdogan è il potenziale asse pro-iraniano lungo la frontiera del nord dell’Iraq che comprende elementi del Kurdistan Workers’ Party o PKK così come le milizie yazide dell’area.

Per questo motivo la retorica turca si è alzata di livello, inasprendosi, tanto che Erdogan si è riferito, lo scorso mese, alle milizie irachene pro-governative (al-Hashad al-Shaabi – unità di mobilitazione popolare) come un’organizzazione terroristica.

Erdogan ha certamente le capacità di anticipare ogni imminente asse iraniano-curdo nel nord dell’Iraq. L’esercito turco ha una stima di 2,000 truppe all’interno dell’Iraq. Una buona parte di questa forza è focalizzata nel combattere i militanti del PKK sulle montagne Qandil del Kurdistan iracheno, con altre 500 truppe stazionate nel campo Bashiqa, circa 50 chilomentri dalla periferia di Mosul.

Ankara ha anche una influenza politica e militare sul clan Barzani dominante nel Kurdistan iracheno e sulle famiglie influenti arabe sunnite intorno a Mosul, incluso la famiglia Nujaifi.  Infine, Erdogan ha segnalato la sua volontà di utilizzare bombardamenti aerei per dissuadere un significativo consolidamento delle forze pro-iraniane; l’aviazione turca ha recentemente colpito posizioni del YPG, la principale milizia curda siriana a Sinjar.

La Turchia, teoricamente, potrebbe chiedere aiuto ad altri paesi. L’Arabia Saudita e i suoi alleati arabi del Golfo hanno anche loro preoccupazioni circa l’espansione dell’Iran nelle aree irachene sunnite. Il potenziale per un’alleanza più stretta e coordinata nell’area tra queste potenze sunnite non può essere esclusa.

I rischi della strategia turca

Se la Turchia volesse lanciarsi a capofitto in uno scontro con le milizie alleate dell’Iran dovrebbe affrontare un nemico molto capace e ben equipaggiato. Inoltre, proprio queste milizie hanno già minacciato di ingaggiare direttamente le forze turche se Erdogan dovesse ordinare ulteriori incursioni nel territorio iracheno.

La profondità strategica dell’Iran in Iraq fornisce a queste milizie un rifornimento illimitato di combattenti: sciiti motivati da reclutare e far combattere per una lunga e sanguinosa campagna contro la Turchia.

Gli interessi della Turchia e dell’Iran 

Primo: la Turchia e l’Iran abilmente utilizzano la loro relazione come un contrappeso alla presenza (e potenza) occidentale nella Regione. In questo contesto si vedono l’un l’altro come una sorta di valvola di sicurezza contro la pressione esterna esercitata dall’occidente.

Erdogan non è certamente spaventato dal “gioco” di Iran e Russia contro Stati Uniti, ad esempio, nell’intento di esercitare pressione su Washington affinché non sostenga più l’YPG (che ha legami con il PKK; ma partner americano affidabile sul terreno contro lo “Stato islamico”). Questo tipo di “gioco” si è pienamente manifestato  a dicembre 2016, quando la Turchia ha contribuito ad un nuovo corso di colloqui di pace sulla Siria con l’Iran e la Russia senza il coinvolgimento degli Stati Uniti.

L’Iran, dalla parte sua, conta sulla Turchia per resistere agli sforzi occidentali di isolarla completamente nella regione.

Secondo: sebbene la Turchia e l’Iran appoggino elementi curdi separati in Iraq, entrambi i paesi condividono delle valutazioni ampiamente sovrapposte sulla questione del nazionalismo curdo. Mentre Ankara ha recentemente mostrato una maggiore volontà di lavorare con il Kurdistan iracheno semi-autonomo, la sua posizione è improbabile che cambi quando deve opporsi alla piena indipendenza curda. La visione dell’Iran è simile. Lo scorso mese, entrambi i paesi hanno fortemente protestato contro la decisione del governo regionale curdo di Irbil di alzare la bandiera curda vicino a quella irachena su un palazzo governativo locale a Kirkuk; alcuni politici curdi hanno interpretato questi messaggi come delle velate “minacce”.

Gli interessi economici che non possono essere ignorati

Consideriamo ad esempio i legami energetici: la Turchia al momento importa 30 milioni di metri cubici di gas Iraniano, volume che entrambe le parti sembrano intenzionate ad accrescere nei prossimi anni.

Per cui malgrado qualche retorica accesa tra la Turchia e l’Iran, il risultato più probabile è qualche sorta di accordo in Iraq.

L’Iran potrebbe accordarsi nel “trattenere” i leader delle milizie più anti-turche nelle forze popolari di mobilitazione irachene, mentre limita il loro supporto agli elementi del YPG in Iraq. La Turchia in cambio potrebbe accordarsi nel migliorare le sue relazioni tese con il governo centrale a Baghdad e coordinare meglio la lotta all’IS con l’Iraq e l’Iran.

Se e quando l’IS sarà sconfitto nel nord dell’Iraq, l’immediato vuoto politico nel cuore sunnita sicuramente sarà un banco di prova per le relazioni turco-iraniane.

Sebbene i legami tra due vicini eccellenti dell’Iraq continueranno a flettersi, è improbabile che si spezzino.

Ankara e Teheran hanno una storia di compartimentalizzazione delle loro relazioni nelle passate decadi. Continueranno ad essere profondamente in disaccordo su certe questioni nella regione, ma nessuna parte ha al momento un interesse profondo nel permettere che questi disaccordi mettano a rischio le loro funzionanti relazioni bilaterali.

Novembre 7 2016

Mosul: la riconquista e dopo? Qualcuno ci ha pensato?

Mosul

Nei giorni successivi al lancio dell’operazione per la “liberazione” di Mosul mi sono venute in mente queste domande:

“la battaglia per riprendere il controllo di Mosul dallo “Stato islamico” è iniziata, ma qualcuno ha pensato al dopo? Siamo sicuri che si tenga in considerazione l’estrema razionalità dei comandanti militari dello “Stato islamico”? E se gli Stati Uniti volessero utilizzare la ritirata dei combattenti del gruppo estremista islamico per erodere le vittorie russe in Siria?”

Proviamo a ragionare sulle possibili risposte, ma prima facciamo un riassunto della situazione per chi si fosse perso alcuni momenti.

Il riassunto:

La battaglia per cacciare i combattenti estremisti dalla città è la più grande operazione sul terreno in Iraq dall’invasione americana del 2003.
Alla fine della settimana scorsa le forze speciali irachene hanno dichiarato di aver ripreso sei distretti ad est di Mosul.
Il territorio ripreso dal governo è ancora solo una frazione della vasta città che è divisa in dozzine di distretti residenziali ed industriali, casa di 2 milioni di persone.
In un comunicato diffuso la settimana scorsa, il leader dello “Stato islamico” ha dichiarato che non ci sarà ritirata in una “guerra totale” contro le molteplici forze che combattono contro il suo gruppo, esortando i militanti a rimanere fedeli ai loro comandanti.
I 2 milioni circa di persone che vivono a Mosul rischiano di restare intrappolati nel mezzo di una brutale guerra urbana. I militanti estremisti hanno ucciso già centinaia di persone, 50 disertori e 180 ex impiegati del governo iracheno nei dintorni di Mosul. Hanno trasportato 1,600 persone dalla città di Hamman al – Alil (sud Mosul) a Tal Afar ad ovest, presumibilmente per usarli come scudi umani contro i bombardamenti e hanno imposto ai residenti di consegnare i bambini maschi sopra i 9 anni, in un apparente processo di reclutamento di bambini soldato.
Il numero delle persone che hanno lasciato le loro abitazioni dall’inizio della “campagna di Mosul” è arrivato a 30,000.
L’operazione dello “Stato islamico” per infiltrare il centro di Kirkuk attraverso Havika e collegarsi con le loro cellule dormienti nella città è stato il più importante sviluppo delle operazioni dei giorni 21-24 ottobre. A questo hanno fatto seguito informazioni e resoconti che indicano lo “Stato islamico” contro-attaccare a Rutbah nella provincia irachena di Anbar, non molto lontano dalla frontiera del paese con la Siria e la Giordania. Il 24 ottobre un attacco del gruppo estremista islamico contro Sinjar, che domina la strada vitale da Mosul alla Siria, è stato bloccato dalle forze yazide sostenute dagli aerei americani.

Le forze Hashd ash-Shaabi (unità di Mobilitazione Popolare) prevalentemente sciiti, si sono aggiunti alla campagna sabato, il loro compito è tagliare allo “Stato islamico” la via di rifornimento dell’ovest verso la Siria.

Mosul: le sfide e le insidie

La vera vittoria nella battaglia di Mosul potrebbe richiedere mesi o ancora settimane ma più difficile sarà la lotta politica. Le forze irachene devono mantenere la loro unità nel lungo periodo e deve essere concordato un più ampio accordo politico: qui non c’è molto margine per essere ottimisti.
Le sfide militari nell’operazione di Mosul sono considerevoli. Sebbene i militari americani abbiano stimato che ci siano soltanto dai 3,000 ai 4,500 combattenti dello “Stato islamico” a Mosul, paragonati alle decine di migliaia dei membri delle forze di coalizione, escludendo il vantaggio della potenza aerea americana, i militanti del gruppo estremista godono di considerevoli vantaggi all’interno della città: il territorio urbano è un incubo per le forze che attaccano.
Bisogna considerare che lo “Stato islamico” ha avuto tempo per prepararsi. Dopo che il gruppo ha preso il controllo di Mosul nel 2014, i militanti del gruppo hanno disseminato bombe e scavato tunnel, questi ultimi visti come la creazione di linee di comunicazioni e rifornimenti sicure pur avendo i droni che volteggiavano sulle loro teste. Più di un milione di civili sono letteralmente mescolati ai militanti, circostanza che complica gli sforzi della coalizione.

Una significativa insidia è rappresentata dalla variegata e variopinta accozzaglia di forze offensive.

Le forze che attaccano rappresentano un vero “chi è chi” delle multiformi forze armate e milizie. I curdi iracheni hanno capeggiato gli attacchi iniziali, “ripulendo” i villaggi ad est della città.  Hanno giocato un ruolo importante anche i membri delle tribù sunnite, le unità dell’esercito iracheno (specialmente la sua forza d’elite di contro-terrorismo) e le milizie sciite.

Questo miscuglio è un problema

I sunniti dominano Mosul e vedono il governo iracheno e specialmente le milizie sciite come ostili, le forze sostenute dall’Iran. Questo è del resto, anche se in parte, il motivo per cui molti locali hanno accolto lo “Stato islamico”, due anni fa, quando ha preso il controllo della città; sebbene poi molti si siano irritati per il governo brutale del gruppo.

I curdi reclamano parti di Mosul, altre minoranze come gli yazidi, gli assiri e i caldei rivendicano aree dentro o vicino a Mosul come storicamente parte delle loro terre natie. Per tutto questo gli americani stanno cercando di limitare i ruoli dei curdi e delle forze sciite, anche se queste forze sono tra le più competenti militarmente.

L’unità delle forze offensive durerà?

Le differenti fazioni hanno dunque  visioni divergenti e competitive di quello che l’Iraq dovrebbe essere.

I sunniti vedono un governo centrale forte come una minaccia per i leader locali di controllare le aeree locali e per ottenere supporto finanziario dal governo centrale.

I curdi aspirano ad un alto grado di decentralizzazione se non completamente indipendenza e vogliono controllare le aree popolate dai curdi anche quando i curdi sono insieme alla popolazione araba irachena.

I gruppi sciiti iracheni credono che la loro comunità, la più grande dell’Iraq, dovrebbe governare il paese e molti  politici sciiti dipingeranno ogni concessione alla minoranza sunnita come una svendita ai terroristi e ai loro sostenitori.

Il collasso del prezzo del petrolio e la corruzione irachena insieme alla cattiva gestione economica in generale rendono difficile per il governo riconoscere i sostenitori.

Alla diminuzione della minaccia dello “Stato islamico” corrisponderà una continua lotta da parte delle fazioni irachene per ottenere ciò che vogliono.
Inoltre, il governo di Abadi non ha un forte sostegno in tutte le comunità irachene e i sunniti locali e i curdi vorranno un più alto grado di autonomia.

Qualcosa che non si può controllare: 

il 23 ottobre, l’esercito iracheno e i peshmerga* dovevano lanciare attacchi simultanei sullo “Stato islamico” dagli assi di avanzamento, ma l’esercito iracheno semplicemente non ha attaccato. Non è chiaro il motivo.

Con un significato potenzialmente più grande: gli Stati Uniti hanno poca potenza aerea nella regione per soddisfare tutte le necessità richieste per il suo supporto alle forze di terra. Il 20 ottobre, gli Stati Uniti non hanno fornito alcun supporto aereo alle forze curde. Non è chiaro il perché, ma il personale americano sul campo si lamenta del fatto che semplicemente non ci sono abbastanza tempi aerei disponibili. Questo potrebbe rivelarsi un problema importante nel momento in cui i curdi e gli iracheni avanzeranno lungo 5 assi di attacco. Siccome i curdi e gli iracheni sono diventati pericolosamente dipendenti dai bombardamenti americani per avanzare, la potenza aerea della coalizione sembra essere spinta in troppe direzioni per sostenere troppe operazioni, lasciando troppo poco per molti settori e niente per altri. E se fosse fatto apposta? Una vera e propria strategia americana? Continuate a leggere e vi spiegherò il perché.

Lo “Stato islamico” cercherà di trarre vantaggio da tutti questi problemi. Si prepara ad andare sul terreno per ricominciare la sua campagna di assassinii contro i leader sunniti che vede come collaboratori e altri avversari; strategia che utilizzò con successo dopo il 2011 dopo essere stato devastato dalla campagna di contro-terrorismo guidata dagli Stati Uniti. Il gruppo estremista e altri gruppi con simili ideologie prenderanno di mira gli abusi del governo e delle forze sciite facendo leva sulla generale insoddisfazione dei sunniti.

Quindi anche se la battaglia di Mosul ha successo militarmente, proclamare la vittoria sarebbe una mossa da evitare. Le vittorie potrebbero essere invertite o almeno minate, perché probabilmente lo “Stato islamico” utilizzerà la sua postura di gruppo terroristico transnazionale per lanciare attacchi in altri paesi.
Sebbene sia impossibile sapere con certezza le intenzioni del gruppo estremista, sembra che l’attacco a Kirkuk del 21 ottobre sia stato un attacco a lungo pianificato. Il gruppo è “famoso” per tentare la rappresaglia orizzontale: attaccare da qualche altra parte per compensare una perdita, come l’assalto a Ramadi dopo che la coalizione aveva ripreso Tirkit nel 2015.

I piani post liberazione? Mistero!

Uno degli aspetti più sorprendenti e forse tragici dell’operazione è che si conosca poco o niente di piani post-liberazione: per la sicurezza, il governo e la ricostruzione di Mosul.

Nessuna della parti curde, nessuno dei gruppi iracheni coinvolti nell’operazione, né i turchi né la forza di Mobilitazione Popolare sono consapevoli che ci sia un piano specifico a riguardo. Tutti dichiarano di aver ricevuto istruzioni in termini generali e non gli è stato chiesto di firmare un piano più dettagliato. I curdi si sono accordati per tenere i peshmerga a diversi chilometri di distanza dalla città e lasciare l’assalto in sé alle forze di sicurezza irachene. Ai leader di altri gruppi che parteciperanno all’operazione sono stati assegnati settori di assalto e fornite direttive su cosa gli altri faranno per prendere la città, ma niente su quello che accadrà quando la città sarà presa.
Tutto ciò sembra suggerire che gli Stati Uniti hanno deciso di permettere al governo iracheno di prendere la guida del post liberazione di Mosul e gestire la situazione. Mossa che contiene considerevoli rischi. Il governo iracheno ha mostrato solo una modesta capacità di condurre questo tipo di operazioni. L’entità dell’operazione e la necessità di seguire le manovre correnti simultaneamente da altre parti potrebbe far inabissare le capacità del governo iracheno. Inoltre, perseguire questo tipo di approccio potrebbe anche dire giocare a dadi con i vari attori al di fuori del pieno controllo del governo iracheno: Hashd ash-Shaabi, Atheel al – Nujayfi – le guardie di Nivive – varie tribù sunnite, il partito dei lavoratori curdi, i turchi. In assenza di un piano concordato e condiviso che da ad ognuno di questi attori una missione ben definita e i confini sia geografici che operativi, alle loro attività ognuno potrebbe scegliere di prendersi tutto quello che vuole.

La domanda che ci si pone è se lo “Stato islamico” resisterà a Mosul per mesi come ha fatto a Fallujah e a Ramadi o si scioglierà senza apporre una forte e sostenuta resistenza.

Lo “Stato islamico” sembra essere acutamente cosciente dell’esistente battaglia che affronta contro i peshmerga, le tribù arabe sunnite della provincia di Ninive, le forze regolari e le milizie sciite. Il gruppo estremista islamico mostra segnali di voler di lanciare una nuova ondata di terrore con contro-attacchi e con autobomba e attacchi suicidi.
Sembra abbastanza probabile che lo “Stato islamico” cerchi di creare una guerra civile etnico-settaria in Iraq mandando uomini e donne suicida nei luoghi religiosi sciiti e nelle moschee e nei territori disputati come Kirkuk e quelli tra Erbil e Baghdad.
Analizzando la prima settimana dell’operazione di Mosul si nota che per ritardare l’avanzata del nemico nel centro di Mosul, lo “Stato islamico” ha fatto ricorso, nei villaggi vicini, ai cosiddetti attacchi “colpisci e scappa”. Più di 20 attacchi con veicoli bomba sono stati registrati nella periferia di Mosul dall’inizio dell’operazione. Per lasciare senza poteri la massa delle forze della coalizione intorno a Mosul, il gruppo estremista islamico li ha distratti con operazioni a Kirkuk e a Rutbah, che senza dubbio hanno un alto valore simbolico. In breve: lo “Stato islamico” è determinato a rimanere e combattere.

La leadership militare dello “Stato islamico” aderisce a strategie militari razionali, in contrasto con i suoi militanti sul terreno, che sono motivati da ideologie salafiste/jihadiste con una visione apocalittica.

Abbiamo visto quanto siano razionali i comandanti militari del gruppo estremista, quando il 16 ottobre, invece di cercare di difendere l’importante simbolo di Dabiq contro l’assalto del Free Syrian army appoggiato dalla Turchia, si sono ritirati verso al-Bab. Il comando militare dello “Stato islamico” ha agito razionalmente durante il loro periodo di difensiva da gennaio a giugno e stanno agendo razionalmente adesso che sono sotto una pesante pressione.

Dunque, se è questo il caso cosa dice il pensiero militare razionale per Mosul?

Molto semplice: difendere più che puoi. Minare le intenzioni offensive del nemico. Dettare il ritmo. Rendere il combattimento statico. Espanderlo su un lungo periodo in modo da rompere la coesione del nemico che già appare come un assortimento di forze. Se non c’è necessità di ritirarsi, non esitare a raggrupparsi organizzarsi e colpire di nuovo.

Con questa linea di pensiero molto probabilmente lo “Stato islamico” resisterà a Mosul il più a lungo che potrà e poi evacuerà la città in fasi e muoverà la sua forza principale a Deir ez-Zor e Raqqa o nel terreno rurale popolato dai sunniti di Diyala.

Non sembra che il gruppo estremista islamico sia pronto a concedere Mosul facilmente. Un’indicazione che il gruppo intende combattere duramente per Mosul, ci è fornita dall’esecuzione di 60 prigionieri e dal divieto di cellulari e connessioni internet.
Poi c’è l’ampia realtà di centinaia di posizioni di combattimento del gruppo fortificate da bombe sulla strada, tunnel, cecchini e uomini e donne suicida.
Se i militanti dello “Stato islamico” non potranno porre fine all’assedio di Mosul con la loro resistenza, si faranno la barba, si mescoleranno ai civili e ai combattenti stranieri e si ritireranno in altri luoghi per riorganizzarsi. Il terreno rurale di Diyala, con le sue caratteristiche desertiche, le sue colline, fornisce un luogo ideale per riorganizzarsi.
Se lo “Stato islamico” perdesse Mosul,  la Siria, l’Iraq e il resto del mondo devono essere pronti ad avere a che fare con il fenomeno dello “Stato islamico” senza Stato e con un territorio in diminuzione. Ci si dimentica della parte transnazionale del gruppo e si sottovaluta forse l’incremento delle attività di propaganda  in paesi vicini come la Giordania e la Turchia a seguito di perdite di territorio. Lo “Stato islamico” potrebbe, verosimilmente, spostare le proprie attività in Turchia per addestrare e esportare cellule in altri paesi.

Sembra probabile che se perdesse Mosul, il gruppo modificherà la sua strategia di combattimento e si attivi in modalità “clandestina” incoraggiando le sue operazioni di propaganda nel cyberspace e sposti le attività di addestramento in Giordania e in Turchia mentre incrementerà gli atti di terrore per veicolare il messaggio: “siamo ancora forti”.

Se lo “Stato islamico” diventasse più un’organizzazione terroristica “clandestina”, potrebbe diventare un proxy rilevante nello sviluppo della lotta di potere Stati Uniti-Russia in Siria ed Iraq.

Gli Stati Uniti fanno il doppio gioco?

Gli Stati Uniti vedono che con il coinvolgimento della Russia, l’esercito siriano ha svolto meglio i suoi compiti e sta per porre fine alla battaglia di Aleppo. Per indebolire i militari russi e degradarli economicamente, gli Stati Uniti potrebbero mettere in pratica l’opzione di non annientare lo “Stato islamico” a Mosul, ma lasciare che si ritiri in Siria attraverso il fianco occidentale di Mosul, che è stato lasciato aperto. Se questo schema funzionasse, i combattenti dello “Stato islamico” si riorganizzerebbero a Raqqa – Deir ez-Zor così da formare una linea difensiva tale da impedire alle forze del presidente siriano Assad di attraversare l’est della linea Aleppo – Palmira.
Gli Stati Uniti permettendo ai militanti dello “Stato islamico” di ritirarsi in Siria da Mosul potrebbero sperare di utilizzare l’organizzazione per erodere le vittorie militari della Russia e del regime di Assad.
Ci si chiede se gli Stati Uniti non stiano ridisegnando un nuovo Afghanistan in Siria per esaurire militiarmente ed economicamente la Russia.

* il nome si traduce in “coloro che affrontano la morte”. Sono i combattenti curdi nel nord dell’Iraq. Quindi non è necessario scrivere “peshmerga curdi” perché la parola “peshmerga” indica già chi sono.

Aprile 6 2016

Iraq: i civili tra l’avanzata delle forze irachene e l’ISIS

Iraq

Iraq: civili che restano intrappolati tra l’avanzata delle forze governative e l’ISIS, paralisi politica e crisi finanziaria. Si pensa all’ISIS, ma chi pensa alla ricostruzione dell’Iraq?

Ci si dimentica facilmente di ciò che non è vicino a noi e così dell’Iraq, dove si combatte per liberare le città dall’ISIS, non si parla più. Eppure proprio la settimana scorsa, decine di centinaia di civili iracheni sono rimasti intrappolati tra l’avanzamento delle forze governative nella battaglia contro lo stato islamico nella provincia occidentale di Anbar. Così come rivela il portavoce del contro – terrorismo iracheno al The Guardian, i civili sono letteralmente intrappolati tra le linee delle forze governative e gli estremisti.

I civili nel mezzo dei due fronti di combattimento

Iraq

La scorsa settimana gli attacchi aerei della coalizione sono stati circa 17. I comandanti preparano i piani di evacuazione per le famiglie, le forze irachene lanciano volantini per informare i civili di quali strade possono percorrere in maniera sicura, ma pare che questo non sia sufficiente a prevenire che i civili restino intrappolati.

L’ISIS però aveva già dimostrato, nella battaglia di Ramadi, che all’avanzamento delle forze governative irachene loro indietreggiavano e prendevano in ostaggio civili, rallentando significativamente l’avanzamento delle truppe di terra. Mentre il centro di Ramadi è stato dichiarato sotto il controllo del governo lo scorso dicembre è stato soltanto due giorni dopo che le forze irachene e della coalizione hanno potuto dire che la città era pienamente liberata.

L’ Iraq rivuole Mosul

Le forze militari irachene stanno facendo quel genere di operazioni che la coalizione a guida americana definisce: shaping operations” prima di pianificare l’offensiva per riprendere Mosul. Le forze irachene sono riuscite a spingere fuori l’ISIS da alcuni villaggi vicino a Makhmour. La settimana scorsa si è celebrata la vittoria della “riconquista” della città di Kubaisa nella provincia di Anbar dalle mani dell’ISIS.

Iraq
Gli Stati Uniti hanno impiegato assetti aggiuntivi in Iraq l’artiglieria a Makhmur e sistemi avanzati lancia missili. Ci sono circa 5000 soldati americani in Iraq.

La paralisi politica

Il primo ministro Abadi ha commesso un bel po’ di passi falsi: non si è consultato con i personaggi influenti prima di annunciare la sua agenda di riforme. Ha ripetuto lo stesso errore annunciando un rimpasto di governo, vedendosi svanire nel nulla il suo sforzo perché osteggiato da vari partiti politici in particolare dai gruppi sciiti rivali.
Lo staff del primo ministro sta lavorando su una serie di riforme politiche ed economiche di lungo termine, le riforme strutturali sebbene necessarie richiedono inevitabilmente un lungo periodo di tempo prima che possano mostrare dei risultati.
La riconciliazione tra sunniti e sciiti rimane fievole. Il presidente Fuad Massoum ha riunito un comitato sulla riconciliazione per cercare di spingere in avanti il processo, ma il comitato si incontra raramente e quando lo fa non raggiunge che poco. I leader sunniti sono contenti della volontà di Abadi di decentralizzare l’autorità e le risorse ai governatori delle province di Anbar e di Salah al – Din per aiutare la ricostruzione di Ramadi e Tikrit, ma continuano a guardarlo con sospetto, temendo che queste risorse sostituiscano la possibilità di avere un posto al tavolo a Baghdad.
La leadership sunnita rimante fortemente frammentata, ma il governo fa pochi sforzi per unificarli.

La crisi finanziaria dell’Iraq rimane acuta risultato di prezzi del petrolio persistentemente bassi. Inoltre, le frustranti lungaggini burocratiche e l’aumento di problemi di sicurezza nel sud Iraq (risultato dello spostamento delle forze di sicurezza irachene a nord, per combattere l’ISIS), hanno creato grandi problemi alle compagnie petrolifere internazionali che operano nel sud del paese.
L’Iraq sta negoziando con il Fondo Monetario Internazionale un aiuto finanziario che dovrebbe ammontare complessivamente a più di 9 miliardi di dollari.

Se solo si implementasse la famigerata PHASE IV

E’ un fatto assolutamente acclarato e più volte sottolineato dagli analisti politici di tutto il mondo che la vittoria contro lo stato islamico potrebbe risultare effimera se non si crea un contesto politico che traduce le vittorie militari tattiche in obiettivi politici.
Si parla di Mosul, di toglierla dalle mani dell’ISIS, ma non si è mai sentito parlare di un piano di ricostruzione e stabilizzazione. Ricordiamoci che la famosa fase IV dei piani cioè quella appunto di ricostruzione e stabilizzazione nell’invasione dell’Iraq del 2003, non era stata evidentemente articolata e meno che mai fornita delle risorse necessarie, visto il catastrofico fallimento del post invasione nei successivi 3 anni. Non metto in dubbio che la fase sia stata pianificata effettivamente dai militari, ma evidentemente mai realizzata dalla parte civile, quando i militari si sono ritirati. Il ritorno alla guerra civile nella metà del 2014 è il risultato inevitabile di questi fallimenti, di entrambe le parti, civile e militare. Se si sta pianificando la riconquista di Mosul, e allora costruiamo un piano per la fase successiva, dandogli le risorse adeguate, piano che sarebbe stato meglio pianificare nello stesso momento in cui si pensava di riprendere Mosul.
Il grave problema è che il compito della missione della coalizione, della campagna militare, è quello di distruggere l’ISIS. Stabilizzare l’Iraq sembra essere un compito meno importante, e questo vuol dire meno risorse e meno attenzione. Forse sarà che è difficile imparare dal passato, ma il fatto di distruggere l’ISIS non significa automaticamente che tutti gli estremisti cadano in un buco nero, spazio – tempo, ma potrebbe presumibilmente verificarsi la nascita di una nuova formazione estremista, proprio dalle sue ceneri come fu per AQI (al Qaeda in Iraq) e poi ISIS.

La stabilizzazione e la ricostruzione è quella in cui il fulcro sono i civili. Le città, prima conquistate dall’ISIS, soggiogate ai suoi dettami, poi riconquistate dalle forze governative, non possiamo certo immaginare che non abbiamo bisogno di risorse specifiche o che siano intonse come quando furono costruite.

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.

Ottobre 22 2015

L’equilibrio precario dell’Iraq

Iraq

L’Iraq di oggi è in uno stato di equilibrio precario tra curdi armati dall’Unione Europea, ISIS e bombardamenti. L’errore dell’assistenza senza condizioni e senza responsabilità.

In Iraq si è cercato di accelerare la creazione di consenso e il processo di  decision making, ignorando la complessità del paese e soprattutto tenendo l’ ex primo ministro Nuri al – Maliki in carica fino al 2010. Quello che iniziò nel 2007 conosciuto come “Sunni Awakening” era il risultato di un senso di opportunità politiche create dalle promesse che i sunniti sarebbero stati inclusi nella politica di Baghdad, con l’ accesso ai posti di governo. Il primo ministro: Abadi, da un anno in carica, ha studiato ingegneria in Gran Bretagna, opposto al regime di Saddam Hussein che uccise i suoi due fratelli, nei circoli dei dissidenti iracheni si è guadagnato la reputazione di uno che cambia opinione a seconda delle circostanze.

Riprendere Mosul dalle mani dell’ISIS.

Alla fine del 2014, il governo iracheno in concerto con gli Stati Uniti pianifica una massiccia operazione per riprendere il controllo di Mosul, la più grande città del paese nelle mani dell’ISIS. Ma l’ISIS è più veloce dei piani iracheni e così  il focus si sposta a Tikrit, ripresa dalle forze regolari irachene  a marzo 2015. A maggio l’ ISIS prende il controllo della città di Ramadi e il governo iracheno si trova costretto ad impiegare più truppe ad Anbar, ritenendo che il controllo di questa provincia fosse più importante per la sicurezza dei dintorni di Baghdad e la città sacra degli sciiti: Karbala. Un’altra città da riprendere sotto il controllo del governo di Baghdad è Baiji, 200 km a sud, collegamento tra i guerriglieri ISIS di Anbar e la provincia siriana di Raqqa che fornisce combattenti e depositi armi per lo Stato Islamico. Anche se è più piccola di Mosul, la battaglia per Baiji ha stremato l’esercito iracheno e la Forza Popolare di Mobilitazione nonostante il supporto aereo della coalizione a guida americana (attacchi aerei in Siria e Iraq). Il 15 ottobre le forze irachene hanno dichiarato di aver ripreso molto del controllo della raffineria di petrolio della città di Baiji, punto focale delle operazioni. Lo stesso sindaco della città ha dichiarato che la polizia federale irachena ha ripreso il controllo di molte parti della città (difficile sapere se è vero perché è una zona molto pericolosa in cui i giornalisti non hanno accesso). – Le forze irachene riprendono la raffineria -Baiji
E’ difficile determinare il numero dei guerriglieri dell’ISIS che difendono Mosul (data l’abilità del gruppo nel manovrare le truppe di riserva dalla città di Raqqa ad Anbar) stime ci dicono tra i 10,000 e i 30,000. Ufficiali curdi riferiscono che l’ISIS potrebbe mettere a difesa di Mosul un numero di guerriglieri pari a 20.000 unità. In contesti militari di solito, una forza offensiva dovrebbe essere tre volte più forte di come ci si aspetti sia quella difensiva. Questo però non è il solo problema: combattere in zone residenziali neutralizzerebbe la potenza aerea della coalizione e il suo vantaggio e renderebbe le forze offensive vulnerabili alle mine dell’ISIS e farebbe in modo che i residenti locali combattano a fianco dello Stato Islamico.
Il parlamento iracheno è ancora riluttante nel creare una forza sunnita (National Guard Forces) che potrebbe fornire sicurezza alla città. In assenza di ciò, i residenti di Mosul, molti dei quali sunniti, restano opposti all’intervento delle forze sciite del regime, perché temono che con la scusa di prendere la città potrebbero esercitare ritorsioni con il pretesto che supportavano l’ISIS. Per la stessa ragione sono contrari alle forze peshmerga, soprattutto perché le ambizioni nazionaliste curde crescono ed è sempre più forte il desiderio di annettere territorio.

I gruppi paramilitari sciiti

Abadi si è avvalso del supporto dei gruppi paramilitari sciiti per combattere l’ISIS. Questi gruppi sono conosciuti come Popular Mobilisation Commitee ovvero Hashid Shaabi, comandano circa 100,000 combattenti e sulla carta ricevono più di un miliardo di dollari dal budget dello stato iracheno. Grandi somme di denaro le ricevono dall’Iran, che stando ad ufficiali delle milizie, li finanzia dal 2011. Ci sono tre grandi gruppi di milizie: 1) Amiri’s Badr Organization; 2) Asaib al – Haq; 3) Kataib Hezbollah, fedeli al leader religioso iraniano, Khameini, di cui usano l’immagine su manifesti e volantini. La crescita della potenza di questi gruppi è direttamente proporzionale alla crescita della minaccia dell’ISIS. Ed è stato proprio il più alto religioso sciita iracheno: Ali al – Sistani ha chiamare volontari per combattere l’ISIS. Elementi di questi gruppi paramilitari sciiti hanno preso, anche se in maniera parziale, il controllo del Ministero dell’Interno.

La forza combattente dei curdi iracheni

Conosciuta con il nome di “peshmerga”, che è il nome curdo per indicare: “coloro che affrontano la morte“. I curdi iracheni risiedono in tre province che formano il Governo Regionale del Kurdistan. I curdi iracheni hanno l’autonomia de facto dal 1991 quando la coalizione a guida statunitense stabilì la no – fly zone sull’area curda per proteggerli dagli attacchi di Saddam Hussein. Il Governo Regionale del Kurdistan fu ufficialmente riconosciuto come regione semi – autonoma nella costituzione del 2005.  I curdi si sono rivelati essere la migliore forza di terra contro l’ISIS. I peshmerga contano 15,000 truppe mentre l’esercito iracheno 271,500, controllano un territorio di 25.750 km. Le riserve di petrolio della regione curda ammontano a 4 miliardi di barili.

La strategia europea: armare i curdi

I ministri degli esteri dell’Unione Europea, in un incontro di emergenza accolgono favorevolmente la decisione di diversi governi europei di armare i curdi. La ragione? “Ce l’ ha chiesto il presidente della Regione del Kurdistan iracheno“. Masoud Barzani, ha fatto un appello, ecco chi ha risposto:

  • Italia
  • Repubblica Ceca
  • Gran Bretagna
  • Olanda
  • Germania (la più generosa)
  • Francia
  • Albania

La politica estera europea si fa così mandando armi ai curdi e non al governo centrale iracheno. L’esercito iracheno ha solo 5 divisioni funzionanti, la cui prontezza di combattimento si aggira tra 60% e il 65%. La Nato nel 2004 si fece carico di assistere lo sviluppo delle istituzioni e strutture di addestramento delle forze di sicurezza irachene. I due maggiori contributori sono l’accademia militare irachena e i Carabinieri, ebbene sì, i Carabinieri italiani si occupano dell’addestramento della polizia federale. Recentemente proprio i Carabinieri hanno avviato un corso per la formare professionisti in grado di proteggere le infrastrutture economiche critiche. Oltre questo nulla. Mi chiedo quindi cosa pensa di fare il nostro ministro della Difesa quando dice che i nostri tornado dovrebbero cambiare il loro coinvolgimento in Iraq. A parte questi pochi corsi tutto il resto dell’assistenza internazionale si concentra sulla vendita di armi ai curdi iracheni. Viene da pensare che i burocrati occidentali preferiscano che il governo di Baghdad si sgretoli sotto il peso delle differenze etniche e che l’Iran prenda il controllo del paese, riproponendo una dittatura, prima che se lo prenda l’ISIS.

Esiste una via di uscita?

Una via potrebbe essere quella della costruzione di una rete di residenti locali opposti all’ISIS. Il problema è che Abadi è riluttante, benché si fosse dimostrato più aperto, a concedere più spazio ai sunniti nella vita politica e soprattutto ad armarli, condizione che gli permetterebbe di riprendere il controllo di Mosul.
La scelta di Abadi è limitata o l’aiuto americano o la dipendenza solo dall’Iran. Il fatto che Abadi pochi giorni fa abbia dichiarato che vorrebbe che i russi conducessero attacchi aerei anche in Iraq ci dimostra solo che lui vuole rinforzare la sua posizione. La coalizione capitanata dagli Stati Uniti che bombarda l’Iraq nel vano tentativo di contenere l’ISIS non ci offre un Iraq migliore. Il grande errore è stato proprio questo: concedere assistenza al governo di Baghdad senza che si mettessero in campo le riforme istituzionali necessarie, senza che prima Maliki e ora Abadi si assumessero alcuna responsabilità del processo decisionale.

 

Settembre 29 2015

I soldi dell’ISIS

L’ISIS guadagna due milioni di dollari. Conoscere e interrompere la loro rete di finanziamento sembra essere più razionale che tirare bombe in Iraq e Siria.

Il terrorismo (sia internazionale che nazionale) è come ogni altra forma di crimine organizzato, altamente determinato e calcolatore. Molta della forza delle organizzazioni terroristiche risiede nell’ interdipendenza, in particolar modo quella economica, che essi instaurano tra loro stessi e le regioni in cui operano. Diventando parte integrante di una regione i loro crimini  vengono sfruttati in maniera tale da generare profitto.

Il denaro “sporco” è un grande potere. Estorsione, assassini, rapimenti, traffico di esseri umani, contraffazione,  il commercio della droga e di opere d’arte (per dirne alcune) valgono una considerevole quantità di denaro. Questo contraddistingue il terrorismo internazionale come una vera e propria azienda che fa affari e anche con un considerevole successo.

Molti dei nomi di gruppi terroristici che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni ha mantenuto un alto livello di gioco di potere proprio attraverso robusti finanziamenti. E’ il supporto finanziario che si procurano attraverso affiliati che contribuisce al fiorire di questo giro di affari.

Partendo dal presupposto che è difficile tracciare somme di denaro che sono intese per non essere rintracciate e che per questa ragione molti dei soldi che appartengono alle organizzazioni terroristiche costituiscono una stima dei loro guadagni , vediamo chi sono i gruppi terroristici più ricchi al momento.

  • Boko Haram: oltre 70 milioni di dollari. Gruppo nigeriano che combatte per rovesciare il governo nigeriano per implementare un regime islamista. Ci ricordiamo forse che hanno sequestrato più di 200 ragazzine in una scuola della Nigeria in difesa di un loro slogan: “l’educazione occidentale è peccato”.
  •  Al-Qaeda: oltre 100 milioni di dollari all’ anno. Più di 30 milioni di dollari li ha avuti attraverso donazioni. Bin Laden era un multimilionario.
  • ISIS: 2 miliardi di dollari.

Per farci un’idea di come l’ISIS possa fatturare una tale somma di denaro vediamo brevemente da dove arrivano questi soldi.

Considerevoli somme provengono dal saccheggio di depositi di armi e di banche. Per mantenere la sua economia “nera”, l’ ISIS opera come una catena base di rifornimento compresa la predisposizione e implementazione di accordi con i proprietari dei camion che trasportano il greggio così come il controllo dei percorsi dei traffici di petrolio. Il greggio, sotto il loro controllo in Iraq e in Libia, è inviato a rudimentali raffinerie sotto controllo ISIS  (cosa che richiede un rifornimento sostenibile) tale per cui poi l’ISIS è in grado di vendere il prodotto raffinato. L’ ISIS fa inoltre affidamento anche su prodotti petroliferi trafficati illegalmente dal sud Turchia in cambio di greggio.

Chiariamo che l’impatto del controllo dell’ISIS sul commercio illecito di petrolio dal Nord Iraq e Est Siria non ha un significativo impatto sulle forniture del mercato globale di petrolio nel breve e medio termine. Questo perché il principale giacimento di petrolio nel nord dell’Iraq, a Kirkuk, che produceva approssimativamente 600,000 barili al giorno prima che fosse spento nel 2014, riacceso a dicembre a seguito di un accordo tra Baghdad e il governo regionale curdo è sotto protezione delle forze curde. Il resto della produzione di petrolio irachena che costituisce circa l’80% della produzione totale, è locata nel sud e continuerà ad essere disponibile  vista la distanza dei territori controllati dall’ISIS.

Ogni impedimento continuativo da parte dell’ISIS di bloccare gli sforzi governativi di raggiungere l’obiettivo di produrre 9 milioni di barili al giorno per il 2020 avrà un impatto deleterio sull’ abilità del mercato internazionale di petrolio  di prevedere e pianificare la disponibilità di rifornimenti di petrolio globali.

Il controllo e la vendita di petrolio rendono all’ISIS qualcosa come 1 milione di dollari al giorno.

I seguaci dell’ISIS sono stati perfettamente in grado di sviluppare una rete interna dedicata al sostegno finanziario e l’auto – sufficienza unitamente all ’indipendenza da potenziali donatori esterni vulnerabili.

Estorsione e tassazione illecita costituiscono una significativa fonte di guadagno. Prima della cattura di Mosul, l’ISIS già guadagnava circa 12 milioni di dollari al mese soltanto nella città. Ciò è stato replicato, in maniera più organizzata, nel territorio controllato dall’ISIS e ufficiosamente anche in aree di parziale influenza. Per fare un esempio: è stato sviluppato un sofisticato sistema di tassazione sulla via principale tra la Giordania e Baghdad che rimpiazza la tassa governativa di importazione facendo pagare tasse ridotte per il trasporto dei beni nella capitale irachena. Il sistema d’affari dell’autotrasporto lungo l’Iraq occidentale è principalmente controllato dai sunniti per cui, imponendo minori tasse, l’ISIS guadagna un entrata regolare e offre ai suoi garanti un’ opportunità di aumentare i loro guadagni. Sistemi  simili ci sono anche nell’est della Siria, con questo doppio focus nel guadagnare denaro e contemporaneamente comprarsi il favore delle tribù su cui l’ISIS fa affidamento per la sua sopravvivenza nella società.

Finora ci si è concentrati sulla circostanza che l’ISIS è particolarmente dipendente dal vendere il petrolio a clienti stranieri (Turchia, Kurdistan iracheno, Giordania per fare alcuni nomi). Invece non esiste un focus di mercato, l’ISIS si è progressivamente concentrato nello stabilire un durevole mercato interno per la produzione di petrolio, assicurandosi un’affidabile fonte di carburante per il suo parco veicoli e creando una fonte di dipendenza tra i civili e la sua capacità di fornire petrolio a prezzi inferiori.

Tutto ciò detto, ribadisco l’inutilità degli attacchi aerei che hanno avuto come obiettivi il petrolio alla sua fonte, piuttosto che i suoi mezzi di trasporto ovvero la vendita. Qualcuno lo compra questo petrolio, qualcuno fa passare i camion su strade e siamo così ingenui da credere che siano invisibili.

Ritengo che sia un punto importante il fatto che centinaia di membri ISIS abbiano un passaporto occidentale. Questo li rende portatori di interessi di servizi finanziari, legali, di sviluppo di proprietà. Controlli e legislazioni più rigide sul riciclaggio di denaro potrebbero sostituire le bombe che cadono inesorabili su territori oramai ridotti a cenere. Verificare che paesi come il Qatar e l’Arabia Saudita implementino seriamente quelle poche norme che hanno varato contro il terrorismo finanziario, sarebbe molto meglio che litigare su chi si unisce alla carovana dei bombaroli.

Settembre 27 2015

Attacchi aerei in Siria: ce ne accorgiamo solo ora?

Dopo 7,002 bombardamenti tra Siria e Iraq, l’opinione pubblica si accorge degli attacchi aerei e nessuno condanna una coalizione di bombaroli inutile e dannosa.

Questa notizia che viene rimbalzata ovunque come lo scoop del secolo, della Francia che ha iniziato attacchi aerei in Siria contro obiettivi riconducibili allo Stato Islamico o ISIS (nell’acrononimo più diffuso) mi fa veramente incazzare. Primo perché non si impara dalla storia, non basta l’emergenza umanitaria in Siria no, si deve ancora bombardare e le bombe non sono intelligenti e se lo fossero certo chi le sgancia non lo è affatto.

Secondo, una coalizione che conduce attacchi aerei (non da ieri) esiste già da un po’ e nessuno ne ha mai parlato.

La coalizione denominata: ” Operation Inherent Resolve” guidata dagli Stati Uniti contro l’ISIS, secondo dati diffusi dal ministero della difesa americano al 22 settembre 2015 ha condotto un totale di 7,002 attacchi aerei, BOMBARDAMENTI così divisi: Iraq = 4, 444; Siria= 2,558. Gli americani da soli hanno compiuto un totale di 5,461 attacchi in entrambi i paesi e specificatamente: 3,304 in Iraq e 2,427 in Siria.

La coalizione invece ne ha condotti: 1,541 di cui 1,410 in Iraq e 131 in Siria.

Sorprendiamoci ora per la composizione della coalizione:

In Iraq:  Australia, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda e Gran Bretagna 

In Siria: Australia, Bahrain, Canada, Giordania, Arabia Saudita, Turchia e Emirati Arabi Uniti

Per chi ha la memoria corta la Francia è stato il primo paese ad unirsi alla coalizione a guida americana conducendo attacchi aerei su obiettivi riconducibili allo Stato Islamico (ISIS) in Iraq. La Francia, inoltre, ha fornito armi a quello che IL GOVERNO FRANCESE considera ribelli moderati che combattono il regime del presidente Assad. 

Il rationale degli americani per gli attacchi aerei in Siria è il seguente: “siccome forniamo supporto e addestramento alle forze siriane è sensato fornire anche una copertura aerea contro ogni attacco”.
Partendo dal presupposto che in Iraq la questione fu diversa perché ci fu il consenso del governo agli attacchi contro obiettivi dell’ ISIS, è veramente dubbia la legalità di questo genere di operazioni in Siria. Gli Stati Uniti tirano la coperta dell’autorizzazione all’uso della forza militare del 2001 che secondo loro li legittima ad attaccare lo Stato Islamico, ma seppure vogliamo tirare questa coperta si scoprono i piedi del diritto internazionale dove non trova giustificazione l’attacco armato in un paese violando peraltro la carta delle Nazioni Unite. Può darsi che a me sia sfuggita la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizza l’uso della forza in Siria.

Ridicolo è poi l’attacco dell’ “occidente” alla Russia che in Siria pare abbia mandato i propri soldati in difesa di Assad. Certo è deprecabile la Russia che manda soldati e non chi bombarda. La tragedia di questi attacchi aerei è che non risolvono nulla. La situazione in Siria è questa: https://www.barbarafaccenda.it/siria-il-vostro-tavolo-da-gioco/ e l’idea che il nemico sia sempre e solo l’ISIS è  confezionata unicamente per mettere a tacere le proprie opinioni pubbliche. In nemico giurato ora sono loro, cosa importano i danni collaterali, cosa importa non trovare una soluzione, l’importante è annientarli. Radiamo al suolo tutto e diamo l’impressione ai nostri cittadini che noi stiamo facendo qualcosa di buono. Questo è in soldoni quello che pensa la Francia e tutti quelli che hanno aderito a questa folle coalizione. Bombardare la Libia con la scusa della responsabilità di proteggere fu un disastro e il risultato ce lo abbiamo sotto gli occhi, ma questo non basta perché fare una conferenza stampa e dire: abbiamo bombardato lo Stato Islamico rende potenti e tutti felici e contenti.

“Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo”. Sun Tzu “l’arte della guerra”.