Febbraio 3 2016

Compagnia aerea che parte, compagnia aerea che viene

compagnia aerea

Si era detto di non fare affari con gli stati che finanziano i terroristi. Si era detto che il turismo può aiutare la nostra Italia. Si fa tutto il contrario di quello che si dice, ovviamente!

Ad ottobre Ryanair chiuderà le sue basi di Alghero e Pescara, taglierà alcune rotte e  chiuderà tutti i voli a Crotone. Il motivo è la decisione del nostro formidabile governo di aumentare ancora le tasse, danneggiando il turismo italiano, il traffico e i posti di lavoro. La compagnia irlandese contesta al governo italiano di aver aumentato le tasse di circa il 40% (da 6,50 a 9 euro) per ciascun passeggero in partenza dall’Italia dal 1°gennaio di quest’anno per sussidiare il fondo per la cassa integrazione degli ex piloti Alitalia.
Ryanair ha dunque deciso di spostare aeromobili e posti di lavoro Ryanair fuori dall’Italia verso altre basi Ryanair in Spagna, Grecia e Portogallo (dove non vengono addebitate tali tasse per passeggero).
Ryanair ha messo in guardia dal danno che l’aumento di questa tassa avrà negli aeroporti regionali italiani, che perderanno non solo rotte e traffico, ma anche i visitatori verso queste regioni, oltre ai posti di lavoro creati e sostenuti dal turismo. A nulla sono valse le sollecitazioni di Ryanair al buon Renzi, affinché elimini questa tassazione dannosa, così come hanno fatto i governi di Belgio, Irlanda e Paesi Bassi con tasse simili. Volete vedere cosa succede ai tre aeroporti regionali di Alghero, Pescara e Crotone? Eccovi una tabella in cui potete vedere l’astuzia del governo Renzi:compagnia aerea

Ci facciamo prendere anche in giro dal campo dell’ufficio commerciale di Ryanair, David O’Brien, che dichiara: “Dopo un anno da record per il turismo in Europa e un altro anno importante davanti, il Governo italiano ha deciso di darsi la zappa sui piedi aumentando le tasse sui passeggeri di circa il 40%, per gonfiare il fondo per la cassa integrazione degli ex piloti Alitalia. Quale compagnia aerea più grande in Italia, volando su 26 aeroporti e trasportando 27 milioni di clienti all’anno da e per l’Italia, a Ryanair non è stata lasciata altra scelta se non quella di chiudere due delle sue 15 basi italiane (Alghero e Pescara) e spostare i suoi aeromobili, piloti ed equipaggi verso paesi con costi più bassi per il turismo. Interromperemo anche tutti i nostri voli all’aeroporto di Crotone e saremo costretti a effettuare ulteriori tagli alle rotte sui nostri aeroporti italiani”.
Si era detto che in Italia era necessario puntare sul turismo, ebbene quella tassa danneggerà seriamente il turismo italiano, particolarmente presso gli aeroporti regionali dove Ryanair porta milioni di visitatori ogni anno, contribuendo all’economia locale per milioni di euro attraverso turisti, supportando migliaia di posti di lavoro. Chiaramente in un momento in cui la disoccupazione giovanile supera il 40%, il turismo, ci sembra logico, che  debba essere danneggiato. Uno dei pochi settori che può stimolare la rapida creazione di posti di lavoro per i giovani delle regioni d’Italia. Se questo non basta, l’Italia si è resa poco competitiva e meno attrattiva per le compagnie aeree e i turisti e poiché sempre più clienti evitano quest’anno il Medio Oriente e il Nord Africa per prenotare vacanze nel Mediterraneo, l’Italia consegnerà un’opportunità d’oro per la crescita alle destinazioni in Spagna, Portogallo e Grecia che hanno costi minori per il turismo.

Per una compagnia aerea che va, ce n’è una che viene

Peccato che sia la Qatar Airways. L’accordo tra Matteo Renzi, il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, quello dei Trasporti, Graziano Delrio, e Akbar Al Baker, numero uno del gruppo arabo – l’ultimo pochi giorni fa a Roma – sarebbe ormai pronto e quindi la Qatar Airways entrerà In Italia  prendendo in mano il 49% della linea aerea sarda, Meridiana. Una quota (la stessa che ha permesso ad Etihad di entrare in Alitalia) che consentirebbe al Qatar di avere accesso a tutti i diritti di volo italiani e internazionali attualmente in possesso di Meridiana.

Per quanto ci possa stare a cuore la sorte dei  tanti lavoratori di Meridiana la cui cassa integrazione scadrà a giugno, fare affari con il Qatar ci sembra una totale contraddizione con la lotta globale al terrorismo internazionale: non fare affari con gli stati che finanziano il terrorismo.

Il Qatar è inescusabilmente negligente nel contrastare i finanziamenti privati al terrorismo internazionale

La lista delle mancanze del Qatar nella lotta al finanziamento dei gruppi violenti estremisti è parecchio lunga. Ci limitiamo a fare un esempio che speriamo possa utile per la comprensione di come il Qatar sia inesorabilmente negligente. Il dipartimento del tesoro americano ha imposto sanzioni su due cittadini del Qatar accusati di fornire fondi ad Al Qaeda in Pakistan, così come ad Al Nusrah Front in Siria e agli estremisti nel Sudan. Il Dipartimento del tesoro ha descritto i due uomini come i maggiori facilitatori e i finanziatori responsabili per il supporto al terrorismo internazionale nel Medio Oriente. Una più attenta disamina di come il Qatar ha affrontato il caso di questi due uomini: Sa’d bin Sa’d al-Ka’bi,e altri individui Abd al-Latif bin ‘Abdallah al-Kawari, ci fornisce ulteriori conferme che Doha è stata inescusabilmente negligente quando si tratta di interrompere ogni possibilità di finanziamento per i terroristi. Il Qatar non ha arrestato i due uomini.
Ka’bi anche conosciuto come Umar al – Afghani ha fornito supporto al braccio siriano di Al Qaeda e ad Al Nusrah Front dal 2012 e ha messo su una campagna di donazioni, in Qatar, per tutto il 2014 in risposta ad una richiesta di finanziamenti dall’affiliato di Al Qaeda per armi e cibo. Inoltre è stato coinvolto nella facilitazione di pagamenti per riscatti per gli ostaggi detenuti da Nusrah. Il Qatar ha giocato un ruolo prominente nel rilascio degli ostaggi di Al Nusrah Front e pare che abbia pagato molti di questi riscatti. Gli Stati Uniti hanno inoltre dichiarato che Ka’Bi lavorava a stretto contatto con Hamid bin Hamad al ‘Ali un religioso del Kuwait che è stato messo nella lista degli individui sanzionati dalle Nazioni Unite e dagli Stati uniti per il legami con i gruppi estremisti, egli stesso si è dichiarato come facente parte del “commando Al Qaeda”.
L’altro individuo, Kawari è accusato dal governo americano di aver prestato servizio come ufficiale di sicurezza e di raccoglitore del supporto finanziario per il gruppo. Quest’ultima attività, secondo gli Stati Uniti, risale a più di una decade fa, indicando che ha lavorato per finanziare al Qaeda in Pakistan in partneriato con un cittadino del Qatar e con un saudita il cui soprannome è Hassan Gul. Nel marzo del 2013 è stato scoperto che la campagna di finanziamento lavora sotto l’ombrello del Qatar Centre for voluntary work, un entità identificata anche su facebook come un’organizzazione governativa fondata nel 2001 con un decreto di stato. Il suo board è nominato dal ministro del Qatar della gioventù e dello sport ed il centro è supervisionato dal ministro della cultura del governo del Qatar. Un articolo sul sito del ministero della cultura del Qatar descrive assistenza umanitaria in – kind trasportata in Siria dal Volunteer Centre.
Kawari è fisicamente in Qatar, secondo informazioni rilasciate dal Dipartimento del Tesoro americano. Anche se sia lui che Ka’bi devono essere detenuti in Qatar, il paese ha un record nel rilascio di individui designati dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite come finanziatori del terrorismo internazionale. La mancanza di efficaci e visibili pene attraverso il sistema giudiziario del Qatar ci indica che altri potenziali finanziatori del terrorismo internazionale girano indisturbati e possono commettere crimini nel presente e nel futuro. Non c’è un singolo caso in cui il Qatar ha detenuto, o indicato le accuse o incriminato un cittadino del Qatar in relazione a reati di finanziamento del terrorismo internazionale dopo che diversi cittadini del Qatar sono stati iscritti nelle liste speciali degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite per la lotta al finanziamento del terrorismo internazionale. Le leggi il Qatar le ha varate, solo dopo la pressione internazionale, ma non le applica.
Non c’è una ragione che ci persuade a credere che il Qatar abbia cambiato registro su quello che è sempre stato un ambiente permissivo del finanziamento al terrorismo internazionale. Piuttosto, il Qatar sembra aver del tutto violato e dimenticato le promesse fatte in occasione dell’ultimo anniversario dell’11 settembre quando si diceva impegnato a combattere il finanziamento dello stato islamico e di tutti i gruppi violenti estremisti e mettere fine all’impunità e portare i colpevoli davanti alla giustizia come prezzo per essersi unita alla coalizione anti ISIS.

Quindi ricapitolando,

il turismo regionale, chisenefrega; i posti di lavoro persi, chisenefrega, evviva i soldi del Qatar che con una mano li da all’Italia e con l’altra li da ad Al Qaeda e ad altri gruppi violenti estremisti.

Gennaio 31 2016

Guerra del terrore: dinamiche locali e affiliati

guerra del terrore

L’ascesa dello stato islamico e la capacità di recupero di Al Qaeda hanno molto a che fare con fattori e dinamiche locali che guidano anche le scelte degli affiliati dei due gruppi, molto più dell’ideologia.

L’ideologia è importante quando si tratta di valutare una minaccia, guida le relazioni del gruppo, così come le traiettorie degli attacchi e finanche le motivazioni di attori individuali, come ci mostra la storia del salafismo militante. Dal momento che questi gruppi spesso offrono l’ideologia come un razionale per le loro attività e azioni, le spiegazioni ideologiche possono alle volte essere preferite a meno esoteriche realtà. Come risultato, fattori come denaro, infrastrutture, persone, risorse, senso di legittimazione e beneficio percepito e reale – tutti possono condurre ad alleanze politiche – sono spesso trascurati. Meno attenzione è data alla sostenibilità delle alleanze, anche se gruppi militanti salafisti competono molto più spesso l’uno contro l’altro.

Guerra del terrore: dinamiche locali

Nella guerra del terrore che vede l’ascesa dello stato islamico e la resilienza di Al Qaeda, la lotta per la leadership del movimento jihadista globale, ha molto a che fare con fattori locali.
Diversamente da Al Qaeda, lo stato islamico non ha una rete di emissari di lunga data e di finanziatori attraverso cui può costruire favori in una regione o finanziarsi in tempi bui.
Le relazioni tra individui e le connessioni di lunga durata in particolari regioni sono importanti non solo per il finanziamento, ma anche per mantenere l’autorità e la rete d’influenza. Al Qaeda, ad esempio, è resiliente in Yemen ed in Somalia perché i suoi legami e la sua presenza nei due paesi, in termini di persone ed infrastrutture, risale a 20 anni fa. Gli emissari di Al Qaeda hanno generalmente operato in entrambi i paesi senza molta interferenza.
Il “localismo” è il cuore del modello di state building dell’ISIS. Per evitare che i movimenti jihadisti continuino a sfruttare la rabbia interna, la frustrazione, il disincanto, offrendosi di punire le autorità percepite come oppressive e cercando di sostituire il loro sistema di controllo, le potenze regionali, come l’Iran e l’Arabia Saudita, dovrebbero rompere le frontiere della loro politica vetusta e perseguire il multilateralismo. Malgrado l’accordo per il nucleare, non deve essere consentito all’Iran di continuare liberamente a sostenere dittatori e a render operative milizie armate per rafforzare i suoi interessi nel Medio Oriente e contrastare l’influenza sunnita.

Al Qaeda dal canto suo, pur in maniera nascosta, ma sempre crescente, ha usato il “localismo” per sviluppare le sue radici tra comunità lacerate dai conflitti, nell’assenza di una governance, tuttavia la perdita dei ranghi più anziani della leadership potrebbe catalizzare un processo di disgregazione interna. Questo perché la perdita della fedeltà nella nuova leadership potrebbe spingere i gradi inferiori dell’organizzazione ad una competizione con l’ISIS imitandolo nelle pratiche più brutali.

Sono questi processi interni di trasformazione, a mio avviso, che vanno sfruttati, perché potrebbero incrementare il dibattito interno che si catalizzerebbe su posizioni opposte e dare il vita alla disintegrazione degli affiliati in fazioni più piccole e quindi obiettivi più vulnerabili.

Dall’altra parte, la strategia dello stato islamico si muove proprio dalla perdita della leadership centrale di Al Qaeda, soprattuto dalla morte del Mullah Omar, e continuerà a sfidare la credibilità di Al Qaeda come leader tradizionale del lesser jihad. Lo stato islamico potrebbe tentare di acquisire più affiliati di Al Qaeda o smantellarli incoraggiando la defezione. Al – Shabab appare il più vulnerabile, e la resilienza di AQAP malgrado la morte di al – Wuhayshi potrebbere essere messa alla prova, intensificando le dinamiche settarie nello Yemen. La guerra del terrore all’interno del più grande movimento jihad si muove quindi sfruttando le dinamiche locali in ogni regione.

Le dinamiche degli affiliati dell’ISIS e di Al Qaeda

La promessa di fedeltà dei gruppi jihadisti non deve essere vista come vincolante o durevole, piuttosto come una condizione temporanea. Quando la fortuna di un gruppo svanisce o la leadership cambia, le alleanze si muovono rapidamente verso formazioni che si provano più vantaggiose al gruppo o al suo leader. Prestigio, soldi, manodopera sono queste le forze che guidano le alleanze molto più dell’ideologia.
Il problema degli affiliati di entrambi i gruppi è che finché sia Al Qaeda che lo Stato islamico possono erogare denaro ai gruppi affiliati, questi li seguiranno, ma quando i soldi verranno a mancare, essi guarderanno altrove per sostenersi: per cui affiliati distanti cercheranno nuovi spasimanti o creeranno nuove imprese.
Inevitabilmente, alcuni affiliati guarderanno agli stati desiderosi di finanziarli in guerre proxy contro i loro avversarsi. L’Iran invece di combattere lo stato islamico in Siria, potrebbe essere interessato nel supportare la tattica del terrorismo dello stato islamico nelle frontiere dell’Arabia Saudita. Attenzione non ci confondiamo: l’Iran usa Hezbollah come proxy – da sempre – per tenere in piedi il regime di Assad. L’Arabia Saudita potrebbe usare facilmente AQAP come un alleato contro gli Houthi (supportati dall’Iran) nello Yemen. Le nazioni africane potrebbero trovare più semplice pagare i gruppi jihadisti che minacciano i loro paesi piuttosto che affrontare i persistenti attacchi nelle loro città. Quando il denaro scarseggia, gli affiliati di Al Qaeda e dello stato islamico si faranno sicuramente ben pochi scrupoli nel prendere i soldi dai i loro nemici ideologici se questi condividono gli stessi interessi a breve termine.

Resta essenziale tenere bene a mente che concentrarsi sulle valutazioni globali di ampio raggio fanno trascurare le sfumature regionali e locali; e sono proprio queste ultime che guidano l’ascesa o la caduta di organizzazioni come Al Qaeda o l’ISIS e che delineano i contorni della guerra del terrore.

Gennaio 17 2016

Balcani a rischio ISIS

Balcani

Nei Balcani molti religiosi islamici si radicalizzano. Le connessioni con il crimine organizzato e le crisi di legittimità delle istituzioni facilitano il diffondersi dell’estremismo violento: l’ISIS ci sguazza.

Per i militanti dell’ISIS, i foreign fighters che vengono dai Balcani rivestono una particolare importanza visti i legami storici con l’Islam. La loro terra è vicina alle altre dell’Europa occidentale e le dispute etniche nella regione rimangono  appena sotto la superficie. Un video diffuso nel giugno del 2015 dal centro d’informazione dell’ISIS, l’Hayat Media Center, per esempio, enfatizza l’importanza strategica della penisola balcanica per lo stato islamico analizzando lungamente il significato storico che i musulmani dei Balcani hanno avuto nello sfidare “i crociati europei” durante l’impero ottomano, così come le durevoli avversità durante i regimi di Enver Hoxha e Josip Broz durante il comunismo di Tito, rispettivamente in Albania e Yugoslavia. In uno degli ultimi numeri di Dabiq, la rivista in inglese dell’ISIS, l’organizzazione continua a riferirsi all’importanza dei Balcani e chiama i suoi seguaci nella regione a condurre attacchi.

La radicalizzazione religiosa islamica nei Balcani

Le comunità musulmane in Albania, Kosovo e Bosnia praticano una visione moderata dell’Islam, basata sulla giurisprudenza Hanafi e sulla tradizione Sufi ereditata da decadi di regno ottomano. Tuttavia, gli sforzi guidati dai sauditi in seguito alla caduta dei regimi comunisti hanno cercato di fare dei Balcani un bastione della pratica delle dottrine salafiste ed wahhabiste. Uno dei risultati di questo processo è che negli ultimi due anni, più di 1000 foreign fighter dai balcani dell’ovest si è unito all’ISIS. Queste reclute provengono dalle comunità musulmane in tutta la regione incluso l’Albania, il Kosovo, la Bosnia Herzegovina, la Serbia ed il Montenegro.
L’anno scorso le autorità nella regione hanno condotto una serie di arresti di gruppi ed individui presumibilmente coinvolti nell’ispirare e facilitare il flusso dei foreign fighter verso lo stato islamico. In Albania, per esempio, le autorità hanno intrapreso una serie di operazioni di sicurezza nel marzo del 2014 contro una presunta rete di reclutatori basati in due moschee nei sobborghi di Tirana e hanno arrestato 9 individui per aver facilitato il reclutamento e finanziamento di attività terroristiche. Tra questi individui, due imam strumentali nella radicalizzazione dei seguaci del gruppo. In più, dall’agosto del 2014, le autorità di sicurezza in Kosovo hanno arrestato ed interrogato più di 100 individui durante  investigazioni sul reclutamento del giovane albanese e due donne del Kosovo per l’ISIS. Operazioni simili sono state condotte in Macedonia, Bosnia, Serbia.

Restano aperte le questioni circa la continuità della dottrina religiosa conservatrice in queste aree e i modi attraverso cui è utilizzata per stabilire roccaforti di supporto tra le comunità più piccole. Sebbene molti dei paesi in questa regione restano entusiasti di entrare nell’Unione Europea, alti livelli di corruzione e crimine organizzato hanno creato un ambiente in cui le ideologie più conservatrici si diffondono, specialmente in paesi con popolazione a predominanza musulmana, come il Kosovo e la Bosnia.

Mancano misure preventive contro questo boom radicale che potrebbe, potenzialmente, fare del radicalismo religioso una delle più grandi minacce alla sicurezza della regione insieme con il crimine organizzato.

La rabbia condivisa per alti livelli di disoccupazione ed estesa corruzione governativa sono state ulteriormente alimentate da una diffusa disaffezione per il processo di integrazione UE troppo lungo.

Questi elementi sono diventati il pezzo forte della narrativa che molti leader islamisti hanno promosso per vincere il supporto locale infuocando sentimenti anti – occidentali e anti – governativi tra i loro seguaci.

In aggiunta, la disaffezione con lo status quo spiega anche il graduale aumento delle persone del Kosovo e dell’Albania che migrano nell’Europa occidentale nella speranza di trovare occupazione. Per esempio i migranti albanesi si posizionano al terzo posto dopo i siriani e gli afghani in cerca di asilo in Germania.
Più le istituzioni statali mancano di credibilità maggiore è la spinta di iman radicali e gruppi simili a riempire il vuoto, rimpiazzando i leader religiosi moderati e altri attori sociali nelle comunità.
Mentre la religiosità era già una componente integrale di una società che storicamente promuove la coesistenza pacifica tra le religioni, molti in Kosovo hanno gradualmente abbracciato le ideologie salafiste e wahhabite, dando il via ad uno spostamento delle loro visioni e attitudini. Centinaia di religiosi conservatori dal Kosovo si sono uniti allo stato islamico negli anni recenti.
Oltre al cambiamento di approccio verso la religione della gioventù dei Balcani, i conservatori vicini allo stato islamico hanno apparentemente stabilito una presenza fisica nella regione comprando beni immobili e ristabilendo quelle “vecchie” linee di contatto tra fazioni combattenti locali dei conflitti del 1990. Questo è stato maggiormente visibile in Bosnia, dove questi tipi di proprietà sono spesso molto danneggiate nelle aeree remote o che sono state abbandonate dalle autorità statali. Secondo un rapporto sui combattenti bosniaci in Siria, queste tipi di acquisti sono comuni tra i salafisti locali. Le odierne comunità che abitano in questi villaggi non sono affatto timide nel fare pubblicità al loro supporto per lo stato islamico, sia facendo sventolare le bandiere del gruppo oppure mediante altri simboli del gruppo.

Il caso dell’Albania

L ’Albania è stata a lungo nella storia un paese di transito e destinazione della cannabis, dell’eroina e della cocaina ed è stata a lungo considerarla una fonte per la cannabis ai paesi dell’UE. Anche se recentemente il ministro dell’interno albanese ha dichiarato che recentemente quasi tutte le piante di marijuana nel nord e nel sud del paese, sono state distrutte a seguito di operazioni di polizia, le questioni rimangono su chi gestisce queste aree e  chi profittava dai lucrativi guadagni. Sebbene diretti legami tra lo stato islamico e gruppi organizzati in Albania, non siano confermati, la rampante corruzione in tutti i settori della società, incluso il sistema giudiziario, e sospetti di legami con la prostituzione e la droga nell’establishment politico sono un campanello d’allarme sia per l’Albania che per il resto dei Balcani perché particolarmente vulnerabili ai gruppi estremisti che vogliono stabilire la propria presenza in Europa.

Dicembre 16 2015

Come riconoscere una strategia efficace contro l’ISIS

Strategia efficace

Una strategia efficace contro l’ISIS: come riconoscerla in 5 punti.

In Italia sentiamo dichiarazioni come queste: “no intervento senza strategia“, oppure: “la cultura è la risposta al terrorismo“. Nel nostro paese, nessuno si sbilancia a mettere nero su bianco una strategia efficace e con un chiaro obiettivo finale, per combattere l’ ISIS. Il ministro della difesa ci ripete come una poesia imparata a memoria: “l’Italia addestra i peshmerga e usa i droni“. Vorrei aprire una brevissima ed essenziale parentesi sul recente annuncio di Renzi: “450 militari italiani a difesa della diga di Mosul“. I 450 militari italiani aiuteranno un’impresa italiana, che si è aggiudicata l’appalto per la diga di Mosul, a proteggere l’infrastruttura. Mi pongo una domanda: se l’appalto per la diga l’avesse vinto un’impresa polacca, Renzi avrebbe mandato i nostri soldati a Mosul?”.

Il Presidente Obama dal canto suo e in maniera meno teatrale, burlesca del nostro premier,  insiste che la sua amministrazione ha una strategia effettiva basata su 4 componenti: attacchi aerei contro gli obiettivi dello stato islamico, supporto alle forze di sicurezza irachene e alle milizie irachene che combattono l’ISIS; miglioramento delle operazioni di contro – terrorismo e aiuti umanitari ai civili che sono scappati dal conflitto nell’est della Siria e nell’ovest dell’Iraq.

La verità è che questa potrebbe essere il contorno di una strategia, ma non una vera e propria strategia che includa tutti gli aspetti del problema, compresi i dettagli.

Allo stesso tempo, nessuno ha suggerito una strategia comprensiva alternativa; si fa affidamento sempre di più alle banalità e ad aforismi. Spesso i dibattiti più accesi raccomandano una più feroce aggressione senza spiegarne la finalità, i mezzi e il significato.
Il fallimento di sviluppare una strategia comprensiva contro l’ISIS è debilitante.

I 5 punti per riconoscere una strategia efficace

Prima di tutto, è necessario porsi questa domanda: “qual è l’obiettivo finale accettabile e fattibile?”. Sì, giacché un obiettivo finale, l’endstate,  deve essere sia accettabile che fattibile e i dettagli sono importanti. Il diavolo si nasconde nei dettagli! Non è abbastanza dire: l’obiettivo è di “sconfiggere” o “eradicare” lo stato islamico, una strategia coerente deve spiegarci cosa vuol dire: l’organizzazione non avrà più il controllo effettivo di qualsiasi porzione di territorio, cioè non sarà più un “califfato”? Resterà in vita nella forma di una rete terroristica sotterranea come ha operato tra il 2008 e il 2014? Oppure non ne rimarrà traccia in nessuna forma?

La fattibilità di un obiettivo finale strategico deve riflettere una seconda questione chiave: quali sono i costi strategici? Questi costi includono il denaro, le truppe, la perdita di focus da qualche altra parte. Incorrere in questo tipo di costi è accettabile? È di vitale importanza ricordare che ogni assetto strategico, che sia militare o di intelligence, devoluto al combattimento dello stato islamico non è utilizzato per altre situazioni che restano pressanti e importanti. Una strategia inclusiva, poi, deve spiegare se il conflitto con lo stato islamico giustifica lo spostamento di risorse dall’Asia, dall’Europa o da qualche altra parte e accettare che ci sia minor deterrenza in questi posti. Il conflitto con il gruppo legittima il crescente sforzo sulla componente militare (soprattutto in relazione agli Stati Uniti) con ulteriori impegni sul campo, posponendo l’addestramento e l’ammodernamento della forza?

Il terzo punto è: chi pagherà il conto? Le guerre non sono gratis. Non si può pensare che dispiegare delle forze sul campo, piuttosto che l’uso della componente marittima o dell’aviazione sia gratis, che ci sia un grande pozzo di denaro da dove si attingono queste risorse. Ritenere ingenuamente che gli aerei volino senza carburante che non si usurino, che le navi vadano a vapore. Tutti, in ogni paese del mondo evitano accuratamente di affrontare questa complessa faccenda. Una strategia coerente deve essere chiara sui finanziamenti: le tasse verranno innalzate? Questa guerra è importante a tal punto da aggiungerla al debito nazionale? Se la strategia è basata sull’ assunto che altre nazioni affronteranno porzioni dei costi, quali sono? Chi mette cosa? Dov’è il prospetto di ripartizione finanziaria dei costi?

La quarta questione è l’arco temporale della strategia. Se qualcuno ci dice teneramente: “eh ci vorrà molto tempo”, come il Presidente degli Stati Uniti, o peggio si ometta proprio di fornire un cronogramma, beh non stiamo parlando di strategia inclusiva. Una strategia coerente divide le azioni a breve, medio e lungo termine: dove sono queste ripartizioni?

Ultimo punto: i limiti.  Quali sono i limiti spaziali? Combatteranno lo stato islamico solo in Iraq e in Siria o anche in Libia, in Afghanistan in Yemen in Somalia in Nigeria ovvero ovunque?

L’esempio fallimentare della Francia

Diamo un’ occhiata ad una strategia fallimentare: la Francia nel Sahel. La punta di diamante della politica di sicurezza francese in Africa è l’Operazione Barkhane, una missione di combattimento di  anti – terrorismo. Si configura come l’attuale operazione militare francese più ampia, con circa 3,500 soldati stazionati in 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. L’operazione Barkhane ci dice chiaramente che Hollande ha posizionato la stabilità regionale in cima alle priorità di politica estera, disposto a mettere soldati francesi sul terreno e supportarli. In totale circa 8,000 soldati francesi sono stati impiegati in Africa.
Contrasto assoluto con la politica di Sarkozy che nel 2008 dichiarò che la Francia non deve giocare il ruolo di poliziotto in Africa e per questo motivo ridusse la presenza militare francese nel continente è s’impegnò a ridurre l’ intenso coinvolgimento nella politica di quei paesi.
Il collasso del governo del Mali nel 2012 precipita gli avvenimenti. Prima della guerra civile e dell’avvento dei gruppi estremisti islamici in Mali, gli interessi francesi nel continente giravano attorno ad affari economici, influenza politica e sicurezza energetica. Il Niger è la principale fonte di uranio per gli impianti nucleari della Francia. Ma con il collasso del Mali subito dopo la Libia, la Francia ha paura di un’implosione dell’intero continente che può quindi minare i suoi interessi diretti. Operation Serval che dispiegò 4,000 soldati francesi in Mali nel gennaio 2013 per cacciare i militanti islamici che avevano preso il controllo del nord del paese, inizialmente fu un successo, liberando tutto il territorio in mano ai gruppi estremisti. Tuttavia quando Serval si aggiunge al più ampio dispiegamento caratterizzato da Barkhane, getta le fondamenta per un’altissima presenza militare francese in tutta la regione. Il grande problema è che la Francia non ha una strategia di uscita nel Sahel. Il focus sul contro terrorismo ha messo le truppe francesi in prima linea nella battaglia sia contro gli estremisti sia contro le reti di traffici di armi e droga nella regione (per contro i militari statunitensi per la maggior parte si limitano all’ addestramento e all’ equipaggiamento delle forze locali, così come a fornire intelligence delle comunicazioni). Con l’esercito del Mali ancora nel caos e le forze governative in Niger ed in Ciad occupate dalla minaccia di Boko Haram ora affiliato e provincia dello stato islamico, sulle loro frontiere sud, i militari francesi hanno effettivamente preso il controllo delle remote frontiere del Sahel che legano la regione alle zone di guerra in Libia.
Tuttavia l’area di operazioni dei gruppi estremisti è aumentata nei recenti mesi con attacchi di alto profilo nella capitale del Mali, Bamako. Attacchi che hanno raggiunto la frontiera con la Costa d’Avorio nel sud.
Se, uccidere i sospettati di terrorismo potrebbe essere un veloce miglioramento che soddisfa gli strateghi militari e i portavoce di governo, l’approccio potrebbe rivelarsi fatale nel lungo termine.
L’ex diplomatico francese Laurent Bigor, scrivendo su Le monde, chiama l’operazione Barkhane una “licenza per uccidere nel Sahel” che minaccia di alienare la popolazione locale. I crimini come il traffico, che sono inestricabilmente connessi al terrorismo nel Sahel, sono anche semplicemente un’alternativa alle difficili condizioni socio – economiche. Le questioni di governance e corruzione non sono affrontate, perché la priorità è la risposta militare e di sicurezza.
“Prioritizzare” la sicurezza rispetto alle riforme presenta un enorme rischio, non da ultimo per i costi di questa nuova politica estera “muscolosa”. In risposta agli attacchi di Parigi, l’ operazione Sentinelle, il dispiegamento dei soldati francesi in Francia per la sicurezza nazionale è stato aumentato a 10,000 mentre l’aviazione militare francese ha espanso le sue operazioni in Iraq e in Siria. Fatti concreti che richiedono la sostenibilità dei costi.
Se questo modus operandi decadesse, sia perché la Francia non può più permetterselo oppure perché un’altra amministrazione ha altri interessi, il Sahel diventerà quello che la Francia voleva inizialmente prevenire: un assortimento di stati fragili dove gruppi estremisti e reti criminali possono cooperare liberamente, non molto lontano dall’ Europa.

Questo è appunto l’esempio di come quei 5 punti non sono stati per nulla tenuti in considerazione e come l’effetto di azioni non coerenti tra loro, parte di una strategia più ampia senza un chiaro obiettivo finale, possano causare dei danni molto più gravi e duraturi del problema iniziale.

Dicembre 11 2015

L’ Arabia Saudita tra petrolio e fondamentalismo islamico

Arabia Saudita

L’ Arabia Saudita ed il suo petrolio sono troppo importanti per gli Stati Uniti. La vendita di armi all’ Arabia Saudita ammonta a circa 1 miliardo di dollari al mese. L’unica monarchia assoluta al mondo che si muove sui dettami del fondamentalismo islamico.

Per molti anni, troppi, gli Stati Uniti ed in generale l’Occidente, hanno chiuso un occhio sul supporto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita ai gruppi estremisti di matrice islamica. Il petrolio era, ed è, troppo importante per l’economia globale, e non solo. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti hanno esportato 934 milioni di dollari in armi all’Arabia Saudita dal 2005 al 2009. Dal 2010 al 2014 hanno esportato 2.4 miliardi di dollari in più. Questo mese hanno approvato un’altra spedizione di 1 miliardo di dollari. Gli Stati Uniti forniscono addestramento, condividono intelligence e danno supporto logistico all’apparato militare saudita.

La monarchia stringe un patto con il diavolo: Muhammad Ibn al – Wahhab

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Nel 1744 un predicatore itinerante chiamato Muhammad Ibn Abd al- Wahhab si unisce alle forze di coloro che crearono il primo regno saudita. Mentre i sauditi fornivano leadership militare e politica, Wahhab e i suoi discendenti fornirono legittimazione e leadership religiosa. Wahhab e i suoi discepoli praticavano una versione settaria e puritana dell’Islam sunnita che chiamava ad un ritorno al fondamentalismo letterale e intolleranza per ogni forma di deviazione dalla loro linea conservatrice di quello che costituiva l’originale fede del profeta Maometto.
L’attuale re Salman ha spostato il regno ancora più vicino, se possibile, all’establishment wahhabita. Salman, immediatamente dopo essere salito al trono, licenza l’unica donna ministro; l’inizio di una linea sempre più conservatrice.

L’Arabia Saudita e il supporto agli estremisti islamici

Sia il governo che individui all’interno dell’Arabia Saudita sono stati una delle maggiori fonti di supporto per gruppi estremisti internazionali ben prima dell’11 settembre 2001  ed hanno continuato nel corso degli anni. Si tende a dimenticare che molti degli attentatori dell’ 11 settembre venivano dall’ Arabia Saudita. Nel 2012, l’ambasciatore saudita in Pakistan ebbe contatti multi – livello con la rete Haqqani autrice degli attacchi del 2011 all’ ambasciata americana a Kabul. L’attuale re Salman, che era stato il governatore di Riyad, era incaricato di aumentare i finanziamenti privati per i mujahedeen dalla famiglia reale e da altri sauditi facoltosi. Incanalò decine di milioni di dollari ai mujahedeen e più tardi fece lo stesso per le cause dei musulmani in Bosnia ed in Palestina.
Questo supporto per il fondamentalismo islamico all’estero non dovrebbe sorprenderci più di tanto  dato che lo stato islamico abbraccia nella sua ideologia gli elementi chiave della setta estremista wahhabita sponsorizzata dall’Arabia saudita. La monarchia saudita ha speso più di 10 miliardi di dollari per promuovere il wahhabismo nel mondo attraverso organizzazioni caritatevoli come il World Assembly of Muslim Youth. 

L’uomo “americano” al potere: Muhammad Bin Nayef (MBN)

Principe ereditario ed erede al trono di re (il secondo in linea al trono).Studia all’FBI verso la fine degli anni ottanta e all’istituto di antiterrorismo di Scotland Yard dal 1992 al 1994. Tra il 2006 ed il 2009 l’ Arabia Saudita diventa un vero e proprio campo di battaglia giacchè Al Qaeda attacca obiettivi nel regno, incluso il quartier generale del ministero dell’interno a Riyadh. MBN lancia la controffensiva: il ministero dell’interno divulga una lista dei most wanted di Al Qaeda e poi procede alla loro caccia per poi ammazzarli. Le sue operazioni erano estremamente precise e senza vittime civili. MBN diventa il simbolo del regno contro il terrorismo, apparendo continuamente in tv.
MBN sembra essere il principe più pro – americano ad essere in linea per il trono. E’ probabilmente l’ufficiale di intelligence più capace nel mondo arabo oggi. Tuttavia Washington non si deve fare illusioni sul fatto che MBN possa prendere da conto il consiglio occidentale di riformare il regno. I sauditi aiutarono ad organizzare il colpo di stato del 2013 in Egitto e ripristinarono il regime militare nel paese arabo più grande.

Il futuro dell’Arabia Saudita

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L’Arabia Saudita è l’ultima monarchia assoluta che per questo riveste un enorme significato da un punto di vista geopolitico.

La famiglia reale non perderà il controllo della nazione, neppure perderà i suoi legami con i wahhabiti e il loro credo. Il re Salman, il principe ereditario MBN e il vice principe ereditario Muhammed bin Salman e virtualmente il resto dell’establishment saudita credono fermamente di essere sopravvissuti per due secoli e mezzo nella politica confusa del Medio Oriente non per la loro determinazione nel rimanere una monarchia assoluta, ma perché alleati con i religiosi wahhabiti.  Alcuni funzionari occidentali sostengono di imporre all’Arabia Saudita delle sanzioni per fermare il finanziamento ai gruppi estremisti di matrice islamica. Pur tuttavia ritengo che imporre un embargo sulle esportazioni di petrolio saudite come quello imposto all’Iran per il suo programma nucleare avrà sicuramente un effetto drammatico sul prezzo globale del petrolio almeno nel breve periodo.

Dicembre 3 2015

La Gran Bretagna, i bombardamenti illegali in Siria e l’ordine internazionale

Gran Bretagna

L’ordine internazionale si mantiene con le regole che gli stessi stati hanno stabilito anche attraverso la carta Nazioni Unite. Far diventare il mondo il Far West nuoce soprattutto ai cittadini.

Forse l’attimo di una telefonata, neanche il tempo di uscire dall’aula del parlamento inglese, che i tornado della RAF si sono alzati in volo dalla base aerea a Cipro per ottemperare alla decisione della Gran Bretagna: bombardare la Siria. Gli attacchi avevano come obiettivi i giacimenti petroliferi di Omar in mano all’ISIS nell’ est della Siria.

Le armi della Gran Bretagna

I tornado inglesi sono equipaggiati con quelle che vengono chiamate le Paveway bomb. I tornado della RAF posso portare fino a 5 Paveway IV bomb. Sono moderne e accurate munizioni che comunemente vengono usate contro obiettivi statici. I tornado hanno anche i missili Brimston che hanno un radar e un laser guida con due testate che possono essere usate contro veicoli e obiettivi multipli. Sono conosciuti come “scarica e dimentica”. La Gran Bretagna attraverso il suo ministero della difesa ha dichiarato che 93 missili Brimstone, ognuno dei quali costa più di 100,000 sterline, sono stati usati da gennaio a settembre nelle operazioni militari in Iraq.

Il dibattito nell’ House of Commons

Nel dibattito durato una decina di ore i parlamentari inglesi hanno anche sollevato la legalità di questi bombardamenti dal punto di visto di diritto internazionale. Soprattutto alla luce dell’ultima risoluzione del consiglio di sicurezza: UNSC n. 2249.
Cameron, nel suo discorso, argumenta che gli attacchi contro le forze dell’ISIS in Siria sarebbero un esercizio di legittima difesa indivuale e collettiva (facendo finta di niente sul punto che comunque c’è bisogno dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza). Egli fa leva su aspetti della risoluzione 2249 quali la circostanza che la risoluzione sia stata adottata unanimemente dal Consiglio di Sicurezza (e quindi?) e cita il passaggio in cui si richiamano gli stati a “take all necessary measures” per eradicare i safe heaven dell’ISIS e restringere le loro attività. Camoron prosegue dicendo che la risoluzione asserisce che l’ISIS è: “unprecedented threat to international peace and security”. (ancora: e quindi?)
Ascoltando solo Cameron, uno potrebbe avere l’impressione che un Consiglio di Sicurezza quanto mai unito ha autorizzato carta bianca per attaccare le forze ISIS in Siria.
Non è così. La risoluzione 2249 non autorizza chiaramente ed inequivocabilmente all’uso della forza armata in Siria.

Le regole stabilite dalla Carta ONU

Partiamo innanzitutto dal fatto che l’art. 2, 4 della Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza, corrisponde al diritto internazionale generale, valevole quindi per tutti gli stati e non solo per i membri delle Nazioni Unite, appartenente allo jus cogens e contemplante un obbligo erga omnes. La carta delle Nazioni Unite contiene due espresse eccezioni: a) l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ottemperanza agli articoli 39 e 42 e, b) legittima difesa, con l’art. 51, che deve avere i requisiti di proporzionalità, necessità e immediatezza.
Un’eccezione extra carta Onu all’uso della forza in uno stato sovrano è quella che deriva dal consenso dello stato, un esplicito consenso a che la comunità internazionale aiuti lo stato nell’eradicazione della minaccia. Cosa avvenuta in Iraq. Il consenso dell’Iraq all’uso della forza da parte di altri stati sul suo territorio è espressamente dichiarata in una lettera datata 20 settembre 2014 dal governo iracheno indirizzata al presidente del Consiglio di Sicurezza. In questo caso lo stato che non è in grado di controllare il proprio territorio chiede assistenza alla comunità internazionale.  Di contro, Assad  ha inviato due lettere, la prima datata 16/9/2015 e l’altra 17/9/2015 in cui contesta l’interpretazione dell’art. 51 ONU da parte degli stati che intervenivano. Nella seconda lettera ufficialmente avverte che “se qualsiasi stato invoca la scusa del counter – terrorism per essere presente sul territorio sovrano siriano, sia terra, aria e acque territoriali, le sue azioni devono essere considerate una violazione della sovranità siriana”. La Russia è stata invitata da Assad nell’eradicazione dell’ISIS, pertanto legittimata dal consenso dello stato territoriale.

La risoluzione n.2249

Al punto 5, chiama tutti i membri, che hanno la capacità di farlo, a prendere tutte le misure necessarie, in ottemperanza al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite, al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale umanitario. Autorizza le misure lecite che potrebbero essere adottate senza rendere lecite quelle che non lo sarebbero. La risoluzione 2249 non fa riferimento al Capitolo VII della Carta ONU che disciplina il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite insieme al Capitolo VIII. Per intenderci il Capitolo VII all’ art. 39 regola le raccomandazioni; art. 40 misure provvisorie; art. 41 misure non implicanti l’uso della forza; art. 42 misure implicanti l’uso della forza.

Quando si parla di questa risoluzione NESSUNO legge cosa c’è scritto dopo il punto 5 e cioè  che la situazione in Siria continuerà a deteriorare ulteriormente in assenza di una soluzione politica al conflitto siriano ed enfatizza la necessità di implementare l’annesso II alla risoluzione 2118 (2013) – principi concordati e linee guida per una transizione a guida siriana. Il punto 9 ha come titolo: “Passi chiari nella transizione”.
a) Stabilire un ente/organo di transizione che può stabilire un ambiente neutrale in cui la transizione possa avere luogo. L’organo/ente di transizione deve esercitare pieni poteri esecutivi. Potrebbe includere membri del governo presente, l’opposizione e altri gruppi, ma che sia formato su base di mutuo consenso
b) Tutti i gruppi e segmenti della società devono partecipare al processo di dialogo nazionale
c) Su queste basi ci potrebbe essere una revisione dell’ordine costituzionale e del sistema legale. Il risultato della bozza costituzionale sarebbe soggetto ad approvazione popolare.

Ignorare le regole è pericoloso

Lo scopo del diritto internazionale è quello di rendere possibile la convivenza di tutti gli esseri umani e le comunità in un mondo privo di un’autorità universale. Ignorare questo vuol dire scavalcare le regole, vuol dire costruire un ponte verso il caos.

Gli stati esercitano, ciascuno, la propria autorità sugli individui che nel suo territorio, ed esiste un diritto che è comune a tutti gli stati: il diritto internazionale.

Tutti coloro che asseriscono senza ombra di dubbio che l’ONU sia inutile, che le regole siano inutili, evidentemente sono disposti ad andare in giro a farsi giustizia da soli. Molto probabilmente sono quelli che non rispettano le regole della vita quotidiana. Le azioni hanno delle conseguenze, non si può pensare che sia possibile agire unilateralmente senza peraltro una strategia a lungo termine, soltanto perché vittime della ricerca di consenso per le prossime elezioni.

La Gran Bretagna ha trovato la sua soluzione interna, almeno nel parlamento, leggendo la risoluzione 2249 come le faceva più comodo. Per la serie: “io ho bombardato il giacimento petrolifero dell’ISIS” e la mia coscienza è salva. Ahimè non risolverà la minaccia anzi avrà messo un mattoncino in più per il ponte verso il caos.

Dicembre 1 2015

Decidere come definire l’ISIS

isis

Stabilire come definire l’ISIS è di cruciale importanza per decidere come combatterlo.

Le discussioni sull’ISIS si sono concentrate su quello che non si sa: le oscure connessioni in occidente, la propaganda che, a parte l’ Al – Hayat media centre, si diffonde sui social network non si sa bene da dove. Tuttavia decidere come considerare l’ISIS è cruciale per poter poi definire una strategia efficace per combatterlo. Obama parla di una strategia che si può definire containment plus: contenere il gruppo in Siria ed in Iraq e accelerare la caduta con attacchi aerei costanti e il supporto degli alleati regionali. I critici, invece, propongono una serie di opzioni: a partire dal permettere alle forze locali di sconfiggere il gruppo, a rendere le regole d’ingaggio più “morbide”. Dispiegare una forza di terra per combattere che dovrebbe consistere in circa 50 mila uomini, di cui 20 mila sarebbero soltanto americani.

Qual’è la strategia giusta?

La risposta dipende in parte da che tipo di nemico noi pensiamo sia l’ISIS. E’ un gruppo terroristico transnazionale con enormi risorse finanziarie che controlla porzioni sostanziali di territorio, che pianifica attacchi, coordina e addestra operativi e gestisce una complessa rete finanziaria? Oppure è uno stato che sponsorizza attacchi di natura terroristica?

Se lo consideriamo come un’organizzazione terroristica transnazionale allora il “contenimento” è una strategia difficile, perché anche se contenuto, potrebbe continuare a sostenere attacchi in altre parti del mondo. Tuttavia, se lo vediamo come un proto – stato, allora la prospettiva cambia decisamente: un proto – stato che combatte su tre fronti: Iraq ad Est, curdi a Nord e Siria e altri altri gruppi di ribelli ad Ovest.

ISIS = proto stato

Il paradosso creato dallo “stato islamico” è che al suo interno si comporta come un proto – stato. Quello che potremmo definire “pro- stato” capitalizza le privazioni dei sunniti in Siria ed Iraq e cresce nel caos causato dalla guerra civile in Siria.
Il progetto politico di cambiamento sociale messo in atto dall’ ISIS, ha permesso di sostenere il proprio modello di governance e di espanderlo capitalizzando le privazioni dei sunniti in Iraq e Siria. Ha combinato l’amministrazione municipale (polizia, educazione, servizi) con la gestione delle infrastrutture e l’assistenza umanitaria.

Centrale per la governance dello “stato islamico” è l’implementazione di una stretta forma della legge della shari’a. Ciò include l’imposizione di pene fisse per una serie di crimini; imposizione della partecipazione alle 5 preghiere quotidiane; divieto di droghe, alcool e tabacco; controllo dell’abbigliamento e di come ci si presenta; divieto del gioco d’azzardo. Imposizione di una forma di “protezione” sui monoteisti non islamici, che è apparsa a Raqqa dalla fine del febbraio 2014 e Mosul dal 7 luglio 2014. Pagando la tassa fissa, attenendosi a delle rigide regole, inclusa la non costruzione di altre infrastrutture lavorative, rimozione di tutti i segni visibili di fede, non utilizzare armi, non vendere né consumare alcool o carne di maiale. Se non si sottostava a questo “patto di protezione” si doveva abbandonare la città in 48 ore. Nei riguardi delle religioni non monoteiste, lo “stato islamico” si è rivelato completamente irremovibile. Nell’ottobre del 2014 l’ISIS ha ammesso di aver etichettato gli Yazidi come politeisti e dunque satanisti che potevano quindi essere ridotti in schiavitù e le cui donne potevano diventare le concubine dei combattenti dello “stato islamico”.
Immediatamente dopo la cattura di un territorio, l’ISIS cerca di stabilire l’ordine e la legge. Forze di polizia maschili e femminili, vengono formate rapidamente e dispiegate per i controlli. La rapidità di una tale mobilitazione viene spesso facilitata da salari generosi. Si stabiliscono corti “della shari’a”.
Un altro elemento chiave della governance politico – religiosa dell’ISIS è l’educazione religiosa e il proselitismo.
Significative risorse sono destinate alla fornitura di servizi sociali. Dopo aver preso il controllo, nella municipalità conquistata, di industrie, servizi e strutture municipali, assicura quello che l’ISIS percepisce come una più egalitaria ed efficiente distribuzione dei servizi. Esercita autorità di controllo su elettricità, acqua, gas industrie locali e persino panetterie (a Deir Ezzor ha abbassato i prezzi del pane nel giugno del 2014). Bus gratis, sanità gratis, vaccinazioni gratis per i bambini, pasti per i poveri, scuole, mutui per progetti di costruzione e persino l’ufficio per la protezione del consumatore.
Come proto – stato è estremamente debole, geograficamente vulnerabile, con risorse non sostenibili a lungo termine e con gravi problemi sul supporto della popolazione.

Decidere di confrontarci con l’ISIS – proto stato –

Ci sono tre punti fondamentali da prendere in considerazione se si decide di confrontarsi con l’ISIS come proto – stato.

  1. Finanziamento
    Sentiamo parlare molto del flusso di denaro dell’ISIS, che è ingente per un gruppo terroristico transnazionale, ma minuscolo per uno Stato. Nei primi anni di esistenza dell’ISIS, i suoi ricavi per la vendita di petrolio erano un grande problema per tutti, recenti stime estrapolate da una provincia ci dicono che i ricavi sono di circa 500 milioni di dollari all’anno solo per il petrolio. Tuttavia l’estrazione del petrolio e del gas non sono una risorsa finanziaria sostenibile. La produzione di petrolio sta crollando perché il gruppo manca di ingegneri e a causa del bombardamento alle infrastrutture petrolifere. Inoltre, il petrolio che l’ISIL può vendere deve avere un prezzo estremamente scontato rispetto ai prezzi di mercato mondiali, a causa delle sanzioni (risoluzione Consiglio di sicurezza n.2199 – 2015: oil trade) e delle limitazioni fisiche per trasportare il prodotto al mercato mondiale.
    Una risorsa alternativa di finanziamento, oggetto di molta attenzione è stata il saccheggio delle antichità. Nel lungo termine il sostegno finanziario che ne deriva sarebbe limitato; nel breve termine, il gruppo ha riempito il mercato di oggetti antichi per aumentare il denaro contante, ma i prezzi cadranno a meno che la domanda per questo tipo di beni  sia molto elastica, circostanza che sembra improbabile.
    Dunque l’ISIS resta con quella che si è rivelata la sua principale fonte di guadagno: le tasse alla popolazione sotto il suo controllo e l’estorsione. Ma anche questo tipo di finanziamento è insostenibile visto che molti residenti scappano, portandosi via i loro capitali (sia capitale umano che fisico), l’inflazione erode il valore delle tasse e le persone esposte ad eccessiva tassazione smettono di investire in attività produttive.
  2. Popolazione
    Ci sono due fonti scientificamente valide le cui stime combinano i dati di censimento che le immagini del satellite per stimare i numeri di popolazione nel mondo. Dunque mappe e stime insieme ci suggeriscono che le aree che l’ISIS tassa avevano una popolazione pre – guerra tra i 2.8 milioni e i 5.3 milioni di persone. Tuttavia il gruppo ha sofferto di massicce partenze dai suoi territori, talmente tante che la sua propaganda ha attaccato coloro che lasciavano i suoi territori.

Inoltre, i diritti (umani soprattutto) non sono protetti, le regole cambiano costantemente. Ci sono molti rapporti che rivelano che il gruppo forza le persone a restare e ci sono significative tensioni tra i combattenti locali e i combattenti stranieri che ricevono un trattamento diverso, preferenziale.

Il gruppo, chiaramente chiama persone che si uniscano alla sua causa. Queste persone sono più una moltitudine di combattenti con poco addestramento, piuttosto che ingegneri, amministratori o imprenditori di cui un’economia avrebbe bisogno.

La competenza del pro – stato come regime

L’ISIS sarebbe condannato come stato. La storia moderna ci mostra che imprevedibili regimi autocratici soffrono sempre di economie terribili e di scarsa crescita. Ogni stato che nello scorso secolo ha avuto una governance basata sull’estorsione (alte e imprevedibili tasse amministrate da una leadership autocratica che redistribuisce i guadagni a coloro che fanno parte dell’elite del regime) ha visto  la sua economia, nel corso del tempo, sgretolarsi.

Le istituzioni di governo dell’ISIS sono pessime viste da una prospettiva di attività economica: pochi diritti di proprietà, tassazione imprevedibile, nessun investimento in capitale umano, nessun mercato di credito o assicurazioni. A meno che la leadership dell’ISIS non abbia pianificato una maniera radicale per gestire la produzione che nessun altro paese ha ideato, la loro economia produrrà molto poco.

E’ impossibile predire in quanto tempo l’economia del proto – stato crollerà. Tuttavia il suo crollo nel tempo è certo.

Il problema ha afflitto stati molto più legittimi dell’ISIS. Lo Zimbabwe: ricco, prima che le sue istituzioni di governo lo condannarono alla stagnazione e poi al declino. Stati come lo Zimbabwe non svaniscono, in parte perché sono parte del sistema globale che valuta la loro stabilità ed in ultima analisi li tengono in vita. L’ISIS non ha ancora questa salvezza.

Il beneficio ideologico di farlo crollare da solo.

Se permettiamo all’ISIS di fallire da solo, sarebbe chiaro che il fallimento sarebbe dell’ISIS come idea, come progetto politico. Non sarebbe lo stesso se fosse sconfitto dalla potenza militare occidentale. Viste i suoi punti deboli strutturali e il suo valore simbolico nella guerra delle idee, la miglior strategia potrebbe essere quella basata sul contenimento, facendo sì che proprio l’ideologia che motiva il gruppo lo distrugga dall’interno.

Riempire i vuoti di potere in Iraq e in Siria.

L’ISIS si è inserito come un serpente in Iraq, facendo leva sul malcontento dei sunniti, in Siria nel vuoto di potere causato dalla guerra civile. Promuovendo le già accordate misure degli accordi di Ginevra che fanno peraltro parte dell’annesso I alla risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza reiterate nell’ultima risoluzione 2249 del 21 novembre 2015, quindi compiendo i passi necessari verso la transizione politica in Siria è molto più effettivo ed efficace che mandare 50 mila uomini e donne a distruggere il già distrutto.

Novembre 29 2015

Come affrontare una conversazione da bar sull’ ISIS

ISIS conversazione da bar

Le conversazioni da bar sull’ ISIS sono insidiose, è facile perdere ed essere costretti ad uscirne sconfitti. Ecco una breve guida per uscirne vincitori e farvi magari offrire un caffè.

L’ISIS è indubbiamente l’argomento di conversazione che va per la maggiore in questo periodo. Dopo gli attacchi di Parigi anche al bar, tra un cappuccino, un cornetto e il caffè ci si ferma a “sragionare” su chi sono questi assassini. Vi propongo una serie di affermazioni a cui potreste rispondere e uscire vincitori dalla conversazione.

“Riguarda l’Islam”

Sì. L’ISIS combatte per ristabilire il Califfato che aveva governato i territori del Medio Oriente e del Nord Africa fino al Medioevo. Maometto, il fondatore dell’Islam, e i 4 rightly guided Caliph poi, usarono la violenza per stabilire uno stato basato sulla religione. Il leader dell’ISIS, Abu Bakr al – Baghdadi, ha un dottorato in “Sharia Law” e studi coranici.

No. L’ISIS ha bruciato vivo un pilota musulmano e l’ha filmato. L’ISIS ha giustificato l’atto crudele asserendo che l’uomo era un apostata che meritava di essere bruciato perché gettava bombe sui musulmani. Le scritture islamiche espressamente dicono che gli apostati non devono essere bruciati vivi. L’ISIS ignora questo fatto e tutti quelli che limitano l’uso della violenza. L’ideologia su cui si basa l’ISIS appartiene alla corrente conservatrice all’interno dell’islam sunnita: contiene elementi sia di salafismo che di whhabismo. Correnti estremiste, conservatrici appartengono a tutte le religioni monoteistiche.

“Questi dell’ISIS sono dei pazzi assassini senza cervello”

Sì. Alcuni di coloro che combattono per l’ISIS sono degli assassini tout court. Cercano solo un’opportunità per vivere le loro fantasie più nere ed orrifiche.

No. La leadership dell’ISIS pensa attentamente alla sua strategia. Non si stabilisce un “proto – stato” e lo si fa sopravvivere a dispetto di nemici molto potenti solo per fortuna o per caso. Il manuale di strategia utilizzato dal gruppo “the management of savagery”, spiega come stabilire un califfato e assicurarne la sua sopravvivenza.

“La strategia contro l’ISIS sta funzionando?”

No. L’ISIS continua a mantenere il suo governo in Siria e in Iraq e continua ad essere un “proto – stato”.  Si è espanso al di là della Siria e dell’Iraq attraverso una rete di affiliazione, concepita come un vero e proprio arcipelago di province, nel Medio Oriente, in Africa e persino del Nord Caucaso. Ha addestrato operativi in Europa che potenzialmente possono costituire una grande minaccia.

Sì. Con la campagna di bombardamenti l’ISIS ha perso circa il 25% dei suoi territori, perso milioni di dollari di ricavi e decine di migliaia di soldati nell’ultimo anno. I bombardamenti a Raqqa, agli obiettivi logistici dell’ISIS, hanno fatto sì che il tempo che l’ISIS ricollochi la sua logistica possa essere utilizzato dalla coalizione per tracciare e seguire gli spostamenti dell’ISIS (tracciare quindi individui, proxy e flussi di denaro).

Questo non vuol dire che i bombardamenti siano una strategia efficace a lungo termine.

“I soldati neri possono infiltrarsi in occidente con i rifugiati siriani e condurre attacchi”

Sì. Qualcosa di simile è accaduto già, quando due uomini legati ad Al Qaeda in Iraq sono arrivati negli Stati Uniti come rifugiati dalla guerra in Iraq per procurarsi armi. Uno degli attentatori di Parigi potrebbe essere arrivato in Europa con un passaporto siriano falso.

No. Un’organizzazione come l’ISIS che guadagna circa 2 milioni di dollari al giorno, non farebbe rischiare ad uno dei suoi operativi la vita per infiltrarsi in Europa via barcone, rischiando peraltro la vita e quindi con la possibilità di non poter realizzare ciò per cui era stato mandato. In almeno 6 video messaggi distribuiti dalla leadership dell’ISIS attraverso le sue province si asserisce chiaramente che coloro che abbandonano la terra del Califfato con i barconi non sono dei devoti musulmani. I messaggi invitano inequivocabilmente a non abbandonare la loro terra per andare nella terra degli infedeli. Il problema semmai risiede in coloro che sono cittadini europei e che seguono le direttive dell’ISIS in merito alla Hijra (migrazione): coloro che sono impossibilitati al raggiungimento del Califfato possono restare in occidente e combattere i crociati lì.

Probabilmente molti di voi resteranno delusi perché ad ogni affermazione non c’è mai un solo sì o un solo no. Il fenomeno del terrorismo internazionale è complesso e quello dell’ISIS lo è ancora di più soprattutto per la particolarità di essere un “proto – stato” al suo interno ed un’organizzazione transnazionale terroristica nella sua proiezione esterna.

Novembre 21 2015

Al Qaeda versus ISIS: guerra del terrore

guerra

L’attentato in Mali ci rivela che è in corso una guerra intestina tra Al Qaeda e l’ISIS per la leadership del movimento jihadista globale.

Il gruppo che ha rivendicato, ieri, l’ attacco al Radisson Blue Hotel di Bamako, Mali è al-Mourabitoun.

Chi sono?

Il gruppo si è formato nel 2013 dalla fusione tra  al-Mulathamun (“The Masked Men”) Battalion (AMB) e Movement for Unity and Jihad in West Africa (MUJAO), dichiarando immediatamente che il movimento estremista della regione era ora più forte che mai. Al – Mourabitoun annuncia quindi le sue intenzioni di voler cacciare la Francia e i suoi alleati dalla Regione. Il gruppo ha condotto sistematicamente attacchi contro gli interessi francesi nella regione ed unità militari africane.

Belmokhtar è il suo leader ufficiale dal luglio 2015. Secondo il dipartimento di stato americano, Al – Mourabituoun è il gruppo che pone “la più alta minaccia medio termine agli interessi americani ed occidentali nel Sahel. Nel luglio del 2015 si allea ufficialmente con Al Qaeda rinominandosi: “Al Murabitoon – Al Qaeda in West Africa. Questo gruppo accusa la Francia di uccidere innocenti bambini, donne e anziani fin dal suo intervento in Mali nel 2013.

Cosa ci indica questo attentato?

Che è in atto una guerra intestina tra Al Qaeda e l’ISIS per la leadership del movimento jihadista globale. La guerra interna al terrore è iniziata quando il 31 agosto 2015 i Talebani confermano la morte del loro leader: il mullah Omar. Quest’ultimo era la colonna portante del rifiuto di alleanza con l’ISIS. La morte di Omar lascia liberi tutti coloro che avevano giurato alleanza a lui.  Il suo successore non eredita automaticamente nè il titolo di Amir al Mumineen (Commander of the Faithful) né le alleanze finora dichiarate. Visto che la morte di Omar risale al 23 aprile 2013 (fu dichiarata dai Talebani ufficialmente due anni più tardi), vuol dire che il titolo di Commander of the Faithful era presumibilmente vacante quando Abu Bakr al – Baghdadi ha rivendicato il titolo in concomitanza con la dichiarazione di califfato. Distruggendo in questo modo le argomentazioni pro – al Qaeda che l’ISIS aveva usurpato l’autorità legittima di Omar. Da questo punto in poi l’ISIS ha condotto la sua guerra interna contro al Qaeda diffondendo messaggi in cui si dipingeva al Qaeda come un’organizzazione mendace da cui provenivano ordini da un leader oramai morto da due anni. Argomenti che evidentemente hanno fatto leva su gli affiliati di Al Qaeda che quindi hanno spostato l’alleanza  (bayah) all’ISIS, ma ha sicuramente dato il via ad una guerra intestina che si gioca sugli assi del terrore.

Dov’è finito Zawahiri?

Se Zawahiri è ancora vivo, cosa fa in proposito? Finora abbiamo visto una sua guida che potremmo definire letargica, forse sperando che l’ISIS implodesse e che la situazione si risolvesse da sola. Presumibilmente non è più così. Questo attentato in Mali ci rivela molto di più di quanto sembra. La leadership di Al Qaeda non si tira in dietro nella guerra al terrore, ma questa volta la combatte contro il terrore interno che mina la sua stessa vita.

L’ISIS ha già eroso il territorio controllato da Al Qaeda.

Anche se nessuno ne parla l’ISIS ha tolto ad Al Qaeda 4 delle sei suddivisioni che formavano l’Emirato Islamico del Caucaso. (ISIS raggiunge il Nord Caucaso) Approfittando del vuoto di leadership dell’Emirato islamico, dopo l’uccisione del leader, Kebekov, da parte delle forze speciali russe, ha preso il controllo di 4 province e presumibilmente faranno da leva per le altre.

Questo è solo l’inizio della lotta del terrore nel terrore.

 

 

 

Novembre 18 2015

La Russia non è il benefattore che pensate

Russia

La Russia in Siria fa il suo gioco e non è certo il “salvatore” arrivato dall’est.

La Russia non è quella potenza totalitaria che ha invaso, occupato e preso la Crimea. Non è quella potenza totalitaria che tiene sotto scacco due regioni dell’Ucraina. Ci si dimentica facilmente di accadimenti recenti, per far posto alla superficialità di risposte “di pancia” , sull’onda dell’odio.

 

La Russia continua a dare priorità alla preservazione di Assad piuttosto che combattere l’ISIS atttraverso la sua campagna aerea in Siria.

Gli attacchi aerei russi, supportati dal regime con operazioni di terra, contro l’opposizione armata siriana (dal 13 al 15 novembre) si sono concentrati sulla parte sud della campagna di Aleppo altri  attacchi si sono concentrati nel nord della Siria mentre le forze del regime avanzavano.

La Russia continuerà a presentarsi come un partner decisivo per la lotta all’ISIS in Siria.

Agli occhi della comunità internazionale, la Russia vuole essere il “benefattore”, il “ci penso io”,mostrando come sia inutile l’Unione Europea ancora divisa sulla risposta alla minaccia al terrorismo internazionale. Quindi dichiarazioni di natura politica con temi forti come invocando la composizione di una “coalizione anti – Hitler”. Oggi addirittura l’annuncio della creazione di una commissione per combattere finanziamenti ai terroristi.

Cosa fa la Russia in Siria?

La campagna russa in Siria sta accelerando la radicalizzazione dell’opposizione armata al regime di Assad. La brutalità del regime di Assad contro la popolazione civile in 4 anni di conflitto armato ha portato i ribelli dritti in partnership con Jabhat al – Nusra, creazione in primis di Abu Bakr al Baghdadi e poi dimostratosi molto più vicino (per strategia) ad Al Qaeda centrale. Ufficiali del Pentagono hanno confermato che l’utilizzo di munizioni cluster* in aeree popolate ad Hama e nella Provincia di Idlib. Ci sono altre fonti che indicano che l’uso di munizioni cluster si è verificato anche nella provincia di Aleppo. Gli attacchi della Russia hanno ucciso 254 civili solo nel periodo 30 settembre – 26 ottobre, secondo il Syrian Network for Human Rights. Alla fine di ottobre 2015, secondo un rapporto di Medici senza Frontiere gli attacchi russi hanno avuto come obiettivi almeno 12 infrastrutture mediche in Siria. Il 12 novembre fonti locali hanno riportato l’uso di fosforo bianco** durante gli attacchi russi nelle provincia Idlib. L’intervento violento russo sta già avendo come conseguenza l’unificazione di ribelli in elementi estremisti ancora più potenti: tre gruppi di ribelli composti da foreign fighters  questi tre gruppi si sono fusi in un gruppo estremista di natura religiosa in particolare islamica che si chiama  Ahrar al-Shamhanno dichiarando alleanza a Jabhat al – Nusra.

Perché la Russia è in Siria?

Putin ha visto che un gran numero di ceceni si uniscono allo stato islamico ed è per lui una minaccia. Per la Russia la prorità è la preservazione dello stato siriano. Il leader russo guarda all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia e vede come gli interventi occidentali hanno avuto come risultato l’anarchia. E teme proprio questo.

Considerare la Russia un “alleato” vuol dire sottovalutare la portata e l’ampiezza dei suoi interessi personali di potenza mondiale. Il rispetto delle regole dell’ordine internazionale fa sì che questo sistema non si sgretoli di fronte alle minacce di gruppi terroristici transnazionali e abbandonare quel complesso di regole (togliere le sanzioni alla Russia, interventi di rappresaglia – sproporzionata) vorrebbe dire abbandonare quello che è stato costruito in anni e anni e trovarci in preda al vento di chi colpisce più forte.

 

 

 * Cluster bomb ovvero bombe a grappolo: ordigni contenenti un certo numero di sub – munizioni: le bomblets che, al funzionamento dell’ordigno principale (cluster), vengono disperse, secondo diversi sistemi, a distanza. (La Convenzione ONU sul divieto dell’utilizzo delle bombe ha grappolo non è stata né firmata né ratificata dalla Russia – e neanche dagli Stati Uniti)

**Fosforo bianco:  a contatto con l’ossigeno presente nell’aria produce anidride fosforica generando calore. L’anidride fosforica reagisce violentemente con composti contenenti acqua e li disidrata producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle. Il risultato è la distruzione completa del tessuto organico.