Dicembre 31 2015

I quesiti lasciati in sospeso dal 2015

2015

Il 2015 ci lascia con questioni in sospeso: i giochi delle potenze a spese delle popolazioni già dilaniate da guerre civili. Africa, Medio Oriente, Europa, auguriamoci che il 2016 porti qualche risposta efficace.

I quesiti che il 2015 lascia aperti, sono purtroppo tanti. Alcuni più pressanti.

La Russia trionferà o sarà un epic fail in Siria?

Quest’anno il presidente Putin ha deciso di intervenire in Siria e questo avrà necessariamente un effetto di lungo termine sulla risposta che le grandi potenze daranno nelle prossime crisi. Se Mosca riuscirà ad aggiudicarsi un accordo di pace congeniale ai suoi interessi, i falchi dalla Cina e dagli Stati Uniti diranno che la forza militare è ancora un efficace mezzo nell’arte di governare mettendo una grande ombra sulle lezioni che si dovrebbero apprendere dal fallimento degli Stati Uniti in Iraq.
A Washington gli analisti invece prevedono che la Russia finirà per restare intrappolata in un pantano creato da essa stessa. Se questo sarà il caso allora le maggiori potenze diventeranno riluttanti nell’intervenire nelle nuove guerre.

Le coalizioni arabe sunnite riusciranno ad assumere il ruolo di “stabilizzatori” del Medio Oriente e del Nord Africa, minando ogni intervento esterno?

Uno degli interventi militari più significativi di quest’anno è stato l’incursione guidata dall’Arabia Saudita per cacciare i ribelli Houthi dallo Yemen. Riyadh è riuscita a mettere insieme una coalizione di alleati arabi sunniti, supportati da mercenari ben pagati. Questo intervento non è proprio andato liscio come l’olio, ha finito per rafforzare il potere dell’affiliato locale di Al Qaeda e gli arabi potrebbero rivolgersi alle Nazioni Unite per mandare i peacekeepers nel 2016. Tuttavia se i sauditi e i loro alleati concludono che malgrado i costi l’operazione in Yemen sia valsa la pena, potrebbero lanciare queste “missioni di stabilizzazione” nel Medio Oriente, Nord Africa negli anni a venire, minando i tentativi di incursione esterni nella regione.

L’Unione Europea sarà finalmente pronta per la gestione delle crisi?

L’Unione Europea si è sforzata di diventare una forza militare convincente per due decadi. Un po’ meglio è andata nel 2015, con le opzioni navali per gestire il traffico di migranti nel Mediterraneo. Tuttavia la crisi dei rifugiati, gli attacchi di Parigi, il disordine in Nord Africa gradualmente hanno spaccato l’Unione in cui ogni stato membro ha fatto i propri giochi di potere. Potremmo augurarci che il 2016 sia finalmente l’anno della serietà dell’Unione Europea nelle questioni di sicurezza.

Le potenze africane riusciranno a controllare il loro continente?

L’Unione Africana sta lavorando su piani di intervento per fermare la discesa verso il caos del Burundi. Se avesse successo potrebbe essere un buon passo verso la costruzione di qualcosa di meglio che le improponibili ed inefficaci missioni di stabilizzazione in Somalia ed il dispiegamento confuso nella Repubblica Centrafricana.

Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Kabila, riuscirà ad umiliare le Nazioni Unite?

Kabila sta cercando con grande determinazione e tenacia di aggirare la costituzione per vincere il terzo mandato al comando del più grande paese dell’Africa sub – sahariana, che ha ospitato i peacekeeper per 15 anni. Questo potrebbe rivelarsi un’enorme crisi di reputazione per le Nazioni Unite per aver “costruito” stati funzionanti che alla fine si rivelano dei grandi danni essi stessi. Tuttavia se Kabila decidesse di farsi da parte, sarebbe un segnale di successo per i caschi blu dopo le recenti battute d’arresto in Sud Sudan e Mali.

Riusciranno le grandi potenze ad eleggere come segretario generale delle Nazioni Unite, un vero manager delle crisi?

Nel 2017 ci sarà l’elezione del nuovo segretario generale ONU, in questo anno riusciranno a trovare uno diverso da Ban Ki – moon che ha sempre preferito stare nelle conferenze diplomatiche?

Ci auguriamo che il 2016 porti risposte concrete efficaci. BUON ANNO!

Dicembre 19 2015

Qatar e Turchia: alleanza strategica

Turchia e Qatar

Il Qatar e la Turchia costruiscono un’alleanza strategica per definire un nuovo equilibrio di potere nel Medio Oriente favorevole ai propri interessi.

Il viaggio di Erdogan in Qatar circa due settimane fa è il suo secondo viaggio nel piccolo stato arabo ricco di petrolio e gas da quando è stato eletto presidente della Turchia. La visita riveste un’importanza estrema perché inaugura il primo incontro del Consiglio di Cooperazione strategico di alto livello tra i due paesi: meccanismo creato lo scorso anno per intensificare la cooperazione bilaterale in settori strategici.
Durante la visita di Erdogan sono stati firmati 16 distinti accordi che regolano diversi settori, dall’educazione agli affari marittimi, ai viaggi e all’energia. Alcuni degli accordi sono di natura puramente tecnica come quelli concernenti la cooperazione sugli archivi, le credenziali di riconoscimento nell’industria marittima e nella gestione della finanza pubblica. Altri, di alto livello, come l’addestramento per protocolli di sicurezza e l’accordo per promuovere legami energetici, non includono molti dettagli.

La cooperazione bilaterale Qatar – Turchia diventa alleanza de facto

Questa recente visita di Erdogan in Qatar ha un doppio ruolo: da un lato istituzionalizzare la cooperazione bilaterale tra la Turchia ed il Qatar e, dall’altro, inviare segnali strategici di quella che è diventata una alleanza de facto.
Negli anni recenti c’è stato un livello di coordinazione senza precedenti tra Ankara e Doha soprattutto sulle questioni di politica estera. I due stati hanno hanno intrapreso senz’altro una posizione decisa contro il blocco di Gaza da parte di Israele; si sono opposti al colpo militare (sponsorizzato dall’ Arabia Saudita) dei Fratelli Musulmani in Egitto; espliciti oppositori di Bashar al Assad. A sottolinerare questo fronte comune è il loro supporto per le fazioni islamiche nella regione, a capo delle quali troviamo i Fratelli Musulmani e le organizzazioni affiliate.
Tuttavia questa alleanza ha causato problemi su numerosi fronti per entrambi i paesi. La Turchia ed il Qatar sono stati accusati dai paesi occidentali di tacita cooperazione, o almeno tolleranza passiva, degli estremisti che operano nella loro sfera d’influenza, specialmente i gruppi ribelli radicali in Siria.

Gli interessi turchi

Essenzialmente la Turchia vede il Qatar come un trampolino di lancio per espandere la sua impronta militare nel Golfo. L’emiro Tamin bin Hamad bin Khalifa al Thani riafferma le posizioni “costanti ed identiche” dei due paesi su le questioni regionali e esprime gratitudine per le posizioni ferme e decise della Turchia verso la causa araba, particolarmente la questione palestinese, e la crisi siriana. Tuttavia le dichiarazioni di al Thani non includono la parola “alleanza” per se, presumibilmente per la sensibilità con le relazioni del Qatar con l’Arabia Saudita e il resto del GCC.
Il vecchio equilibrio di potere nel Medio Oriente si è sbriciolato, i turchi sono determinati ad agire per assicurare che la transizione al nuovo equilibrio sia favorevole ai loro interessi.
I protocolli di sicurezza firmati da Erdogan con il Qatar s’inseriscono in un accordo militare iniziato nel dicembre del 2014 che permetterà ad ogni paese di impiegare le proprie forze militari nel territorio dell’altro. L’accordo comprende l’uso dei porti, degli aeroporti, dello spazio aereo e delle infrastrutture militari, incluso maggiore condivisione di informazioni di intelligence e cooperazione nel contro – terrorismo.

Come parte dell’accordo, la Turchia sta stabilendo una base militare in Qatar che vedrà lo stazionamento di personale militare che va dalle 3000 alle 5000 unità, principalmente per addestramento militare congiunto e, usando le parole dell’ambasciatore turco in Qatar, “per confrontarsi contro i nemici“.

La presenza della base manda un forte messaggio: la Turchia si sta muovendo verso il voler assumere il ruolo di robusta potenza  nella regione. Una base operativa avanzata in Qatar da alle forze armate turche un elemento di profondità strategica che non hanno nella penisola araba da più di 100 anni, da quando le ultime truppe ottomane lasciarono il territorio del Qatar nel 1915.

Al di là dei legami militari, la Turchia sta anche cercando di espandere le esportazioni di difesa nel Golfo. Per i turchi, il Qatar non è solo un cliente di valore per l’industria di difesa turca, ma anche una porta per il resto del GCC, che la Turchia ha identificato come priorità per la crescita del suo mercato.
Due mesi fa, un gruppo di 67 imprese di difesa turche, ha organizzato un’esibizione a Doha per mostrare i loro più nuovi prodotti, incluso l’elicottero ATAK, il TRJet ed  una vasta gamma di veicoli armati. L’esposizione si è conclusa con accordi per un valore di circa 500 milioni di dollari.

Il Turkstream e la Russia versus il Qatar e l’LNG del Qatar

Il viaggio di Erdogan in Qatar si colloca anche in quella che oramai è diventata una seria crisi tra Ankara e Mosca. Quello che preoccupa di più i turchi è la decisione dei russi di sospendere i colloqui per TurkStream, un gasdotto che porterebbe il gas naturale dalla Russia attraverso il Mar Nero alla Turchia e ai mercati europei.  Lo scorso anno, la Russia rappresentava 27.4 miliardi di metri cubi, circa il 55%, delle importazioni totali di gas naturale della Turchia. La Russia non ha dato nessuna indicazione che siano disposti, o che ci stiano pensando, alla riduzione dei flussi esistenti di gas verso la Turchia previsti da un accordo decennale tra i due paesi.  Tuttavia visto che il TurkStream  è accantonato, almeno per adesso, i turchi stanno seriamente considerando il futuro dei loro legami energetici con la Russia.
Non sorprende che il Qatar veda il deteriorarsi delle relazioni turco – russe come un’opportunità d’oro per espandere la sua posizione globale come massimo esportatore di gas naturale liquefatto (LNG). A seguito della visita di Erdogan, l’ambasciatore del Qatar ad Ankara, el – Shafi, ha espresso la prontezza di fornire alla Turchia “qualsiasi quantità” di gas naturale “che richieda”. Malgrado lo scetticismo circa la circostanza che le esportazioni di gas del Qatar possano rimpiazzare i flussi di quello russo nel breve termine, in parte perché la Turchia manca di infrastrutture per LNG e di depositi, Erdogan presumibilmente continuerà a mandare a Mosca messaggi di attenzione sulla possibilità di perdere un cliente energetico di lungo corso.

Dicembre 11 2015

L’ Arabia Saudita tra petrolio e fondamentalismo islamico

Arabia Saudita

L’ Arabia Saudita ed il suo petrolio sono troppo importanti per gli Stati Uniti. La vendita di armi all’ Arabia Saudita ammonta a circa 1 miliardo di dollari al mese. L’unica monarchia assoluta al mondo che si muove sui dettami del fondamentalismo islamico.

Per molti anni, troppi, gli Stati Uniti ed in generale l’Occidente, hanno chiuso un occhio sul supporto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita ai gruppi estremisti di matrice islamica. Il petrolio era, ed è, troppo importante per l’economia globale, e non solo. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti hanno esportato 934 milioni di dollari in armi all’Arabia Saudita dal 2005 al 2009. Dal 2010 al 2014 hanno esportato 2.4 miliardi di dollari in più. Questo mese hanno approvato un’altra spedizione di 1 miliardo di dollari. Gli Stati Uniti forniscono addestramento, condividono intelligence e danno supporto logistico all’apparato militare saudita.

La monarchia stringe un patto con il diavolo: Muhammad Ibn al – Wahhab

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Nel 1744 un predicatore itinerante chiamato Muhammad Ibn Abd al- Wahhab si unisce alle forze di coloro che crearono il primo regno saudita. Mentre i sauditi fornivano leadership militare e politica, Wahhab e i suoi discendenti fornirono legittimazione e leadership religiosa. Wahhab e i suoi discepoli praticavano una versione settaria e puritana dell’Islam sunnita che chiamava ad un ritorno al fondamentalismo letterale e intolleranza per ogni forma di deviazione dalla loro linea conservatrice di quello che costituiva l’originale fede del profeta Maometto.
L’attuale re Salman ha spostato il regno ancora più vicino, se possibile, all’establishment wahhabita. Salman, immediatamente dopo essere salito al trono, licenza l’unica donna ministro; l’inizio di una linea sempre più conservatrice.

L’Arabia Saudita e il supporto agli estremisti islamici

Sia il governo che individui all’interno dell’Arabia Saudita sono stati una delle maggiori fonti di supporto per gruppi estremisti internazionali ben prima dell’11 settembre 2001  ed hanno continuato nel corso degli anni. Si tende a dimenticare che molti degli attentatori dell’ 11 settembre venivano dall’ Arabia Saudita. Nel 2012, l’ambasciatore saudita in Pakistan ebbe contatti multi – livello con la rete Haqqani autrice degli attacchi del 2011 all’ ambasciata americana a Kabul. L’attuale re Salman, che era stato il governatore di Riyad, era incaricato di aumentare i finanziamenti privati per i mujahedeen dalla famiglia reale e da altri sauditi facoltosi. Incanalò decine di milioni di dollari ai mujahedeen e più tardi fece lo stesso per le cause dei musulmani in Bosnia ed in Palestina.
Questo supporto per il fondamentalismo islamico all’estero non dovrebbe sorprenderci più di tanto  dato che lo stato islamico abbraccia nella sua ideologia gli elementi chiave della setta estremista wahhabita sponsorizzata dall’Arabia saudita. La monarchia saudita ha speso più di 10 miliardi di dollari per promuovere il wahhabismo nel mondo attraverso organizzazioni caritatevoli come il World Assembly of Muslim Youth. 

L’uomo “americano” al potere: Muhammad Bin Nayef (MBN)

Principe ereditario ed erede al trono di re (il secondo in linea al trono).Studia all’FBI verso la fine degli anni ottanta e all’istituto di antiterrorismo di Scotland Yard dal 1992 al 1994. Tra il 2006 ed il 2009 l’ Arabia Saudita diventa un vero e proprio campo di battaglia giacchè Al Qaeda attacca obiettivi nel regno, incluso il quartier generale del ministero dell’interno a Riyadh. MBN lancia la controffensiva: il ministero dell’interno divulga una lista dei most wanted di Al Qaeda e poi procede alla loro caccia per poi ammazzarli. Le sue operazioni erano estremamente precise e senza vittime civili. MBN diventa il simbolo del regno contro il terrorismo, apparendo continuamente in tv.
MBN sembra essere il principe più pro – americano ad essere in linea per il trono. E’ probabilmente l’ufficiale di intelligence più capace nel mondo arabo oggi. Tuttavia Washington non si deve fare illusioni sul fatto che MBN possa prendere da conto il consiglio occidentale di riformare il regno. I sauditi aiutarono ad organizzare il colpo di stato del 2013 in Egitto e ripristinarono il regime militare nel paese arabo più grande.

Il futuro dell’Arabia Saudita

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L’Arabia Saudita è l’ultima monarchia assoluta che per questo riveste un enorme significato da un punto di vista geopolitico.

La famiglia reale non perderà il controllo della nazione, neppure perderà i suoi legami con i wahhabiti e il loro credo. Il re Salman, il principe ereditario MBN e il vice principe ereditario Muhammed bin Salman e virtualmente il resto dell’establishment saudita credono fermamente di essere sopravvissuti per due secoli e mezzo nella politica confusa del Medio Oriente non per la loro determinazione nel rimanere una monarchia assoluta, ma perché alleati con i religiosi wahhabiti.  Alcuni funzionari occidentali sostengono di imporre all’Arabia Saudita delle sanzioni per fermare il finanziamento ai gruppi estremisti di matrice islamica. Pur tuttavia ritengo che imporre un embargo sulle esportazioni di petrolio saudite come quello imposto all’Iran per il suo programma nucleare avrà sicuramente un effetto drammatico sul prezzo globale del petrolio almeno nel breve periodo.

Dicembre 3 2015

La Gran Bretagna, i bombardamenti illegali in Siria e l’ordine internazionale

Gran Bretagna

L’ordine internazionale si mantiene con le regole che gli stessi stati hanno stabilito anche attraverso la carta Nazioni Unite. Far diventare il mondo il Far West nuoce soprattutto ai cittadini.

Forse l’attimo di una telefonata, neanche il tempo di uscire dall’aula del parlamento inglese, che i tornado della RAF si sono alzati in volo dalla base aerea a Cipro per ottemperare alla decisione della Gran Bretagna: bombardare la Siria. Gli attacchi avevano come obiettivi i giacimenti petroliferi di Omar in mano all’ISIS nell’ est della Siria.

Le armi della Gran Bretagna

I tornado inglesi sono equipaggiati con quelle che vengono chiamate le Paveway bomb. I tornado della RAF posso portare fino a 5 Paveway IV bomb. Sono moderne e accurate munizioni che comunemente vengono usate contro obiettivi statici. I tornado hanno anche i missili Brimston che hanno un radar e un laser guida con due testate che possono essere usate contro veicoli e obiettivi multipli. Sono conosciuti come “scarica e dimentica”. La Gran Bretagna attraverso il suo ministero della difesa ha dichiarato che 93 missili Brimstone, ognuno dei quali costa più di 100,000 sterline, sono stati usati da gennaio a settembre nelle operazioni militari in Iraq.

Il dibattito nell’ House of Commons

Nel dibattito durato una decina di ore i parlamentari inglesi hanno anche sollevato la legalità di questi bombardamenti dal punto di visto di diritto internazionale. Soprattutto alla luce dell’ultima risoluzione del consiglio di sicurezza: UNSC n. 2249.
Cameron, nel suo discorso, argumenta che gli attacchi contro le forze dell’ISIS in Siria sarebbero un esercizio di legittima difesa indivuale e collettiva (facendo finta di niente sul punto che comunque c’è bisogno dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza). Egli fa leva su aspetti della risoluzione 2249 quali la circostanza che la risoluzione sia stata adottata unanimemente dal Consiglio di Sicurezza (e quindi?) e cita il passaggio in cui si richiamano gli stati a “take all necessary measures” per eradicare i safe heaven dell’ISIS e restringere le loro attività. Camoron prosegue dicendo che la risoluzione asserisce che l’ISIS è: “unprecedented threat to international peace and security”. (ancora: e quindi?)
Ascoltando solo Cameron, uno potrebbe avere l’impressione che un Consiglio di Sicurezza quanto mai unito ha autorizzato carta bianca per attaccare le forze ISIS in Siria.
Non è così. La risoluzione 2249 non autorizza chiaramente ed inequivocabilmente all’uso della forza armata in Siria.

Le regole stabilite dalla Carta ONU

Partiamo innanzitutto dal fatto che l’art. 2, 4 della Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza, corrisponde al diritto internazionale generale, valevole quindi per tutti gli stati e non solo per i membri delle Nazioni Unite, appartenente allo jus cogens e contemplante un obbligo erga omnes. La carta delle Nazioni Unite contiene due espresse eccezioni: a) l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ottemperanza agli articoli 39 e 42 e, b) legittima difesa, con l’art. 51, che deve avere i requisiti di proporzionalità, necessità e immediatezza.
Un’eccezione extra carta Onu all’uso della forza in uno stato sovrano è quella che deriva dal consenso dello stato, un esplicito consenso a che la comunità internazionale aiuti lo stato nell’eradicazione della minaccia. Cosa avvenuta in Iraq. Il consenso dell’Iraq all’uso della forza da parte di altri stati sul suo territorio è espressamente dichiarata in una lettera datata 20 settembre 2014 dal governo iracheno indirizzata al presidente del Consiglio di Sicurezza. In questo caso lo stato che non è in grado di controllare il proprio territorio chiede assistenza alla comunità internazionale.  Di contro, Assad  ha inviato due lettere, la prima datata 16/9/2015 e l’altra 17/9/2015 in cui contesta l’interpretazione dell’art. 51 ONU da parte degli stati che intervenivano. Nella seconda lettera ufficialmente avverte che “se qualsiasi stato invoca la scusa del counter – terrorism per essere presente sul territorio sovrano siriano, sia terra, aria e acque territoriali, le sue azioni devono essere considerate una violazione della sovranità siriana”. La Russia è stata invitata da Assad nell’eradicazione dell’ISIS, pertanto legittimata dal consenso dello stato territoriale.

La risoluzione n.2249

Al punto 5, chiama tutti i membri, che hanno la capacità di farlo, a prendere tutte le misure necessarie, in ottemperanza al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite, al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale umanitario. Autorizza le misure lecite che potrebbero essere adottate senza rendere lecite quelle che non lo sarebbero. La risoluzione 2249 non fa riferimento al Capitolo VII della Carta ONU che disciplina il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite insieme al Capitolo VIII. Per intenderci il Capitolo VII all’ art. 39 regola le raccomandazioni; art. 40 misure provvisorie; art. 41 misure non implicanti l’uso della forza; art. 42 misure implicanti l’uso della forza.

Quando si parla di questa risoluzione NESSUNO legge cosa c’è scritto dopo il punto 5 e cioè  che la situazione in Siria continuerà a deteriorare ulteriormente in assenza di una soluzione politica al conflitto siriano ed enfatizza la necessità di implementare l’annesso II alla risoluzione 2118 (2013) – principi concordati e linee guida per una transizione a guida siriana. Il punto 9 ha come titolo: “Passi chiari nella transizione”.
a) Stabilire un ente/organo di transizione che può stabilire un ambiente neutrale in cui la transizione possa avere luogo. L’organo/ente di transizione deve esercitare pieni poteri esecutivi. Potrebbe includere membri del governo presente, l’opposizione e altri gruppi, ma che sia formato su base di mutuo consenso
b) Tutti i gruppi e segmenti della società devono partecipare al processo di dialogo nazionale
c) Su queste basi ci potrebbe essere una revisione dell’ordine costituzionale e del sistema legale. Il risultato della bozza costituzionale sarebbe soggetto ad approvazione popolare.

Ignorare le regole è pericoloso

Lo scopo del diritto internazionale è quello di rendere possibile la convivenza di tutti gli esseri umani e le comunità in un mondo privo di un’autorità universale. Ignorare questo vuol dire scavalcare le regole, vuol dire costruire un ponte verso il caos.

Gli stati esercitano, ciascuno, la propria autorità sugli individui che nel suo territorio, ed esiste un diritto che è comune a tutti gli stati: il diritto internazionale.

Tutti coloro che asseriscono senza ombra di dubbio che l’ONU sia inutile, che le regole siano inutili, evidentemente sono disposti ad andare in giro a farsi giustizia da soli. Molto probabilmente sono quelli che non rispettano le regole della vita quotidiana. Le azioni hanno delle conseguenze, non si può pensare che sia possibile agire unilateralmente senza peraltro una strategia a lungo termine, soltanto perché vittime della ricerca di consenso per le prossime elezioni.

La Gran Bretagna ha trovato la sua soluzione interna, almeno nel parlamento, leggendo la risoluzione 2249 come le faceva più comodo. Per la serie: “io ho bombardato il giacimento petrolifero dell’ISIS” e la mia coscienza è salva. Ahimè non risolverà la minaccia anzi avrà messo un mattoncino in più per il ponte verso il caos.

Dicembre 2 2015

La Russia e il petrolio

Russia petrolio

La Russia cerca un accordo con l’Arabia Saudita per alzare i prezzi del petrolio, ma la questione siriana rischia di rovinare i suoi piani.

L’economia russa è in caduta libera. La concomitanza delle sanzioni occidentali, i prezzi bassi del petrolio, un debole rublo hanno contribuito alla contrazione dell’economia russa del 3.4 % nella prima metà del 2015.

Non è la guerra in Siria, in se stessa, che manderà Putin in bancarotta. Anche ad un costo stimato di 4 milioni di dollaro al giorno, l’intervento in Siria sarebbe coperto da ingenti somme di denaro confluite nel budget della difesa russo. Secondo un calcolo fatto dal Financial Timesanche se la Russia continuasse i suoi attacchi aerei per un anno completo, userebbe meno del 3% dei fondi del budget della difesa nazionale nel 2016.

 

L’accordo con l’Arabia Saudita

Il problema economico russo potrebbe venire da un’altra parte. In estate, Mosca si è mossa per  raggiungere un accordo con l’Arabia Saudita e altre nazioni OPEC per far alzare i prezzi del petrolio. Tuttavia l’impegno russo in Siria e il suo focus su operazioni militari su gruppi che sono sostenuti da Riyadh rendono molto più difficoltoso il raggiungimento di un accordo. Considerando che la Russia fa affidamento su ricavi derivati dal petrolio per metà del suo budget nazionale, le speranze di Putin di far risalire l’ economia domestica non saranno positive se non ci sarà un aumento dei prezzi del petrolio. Inoltre, la Russia è già coinvolta in una “guerra dei prezzi” con l’Arabia Saudita, dal momento che entrambi i paesi stanno cercando di vendere il greggio a prezzi molto molto scontanti all’ Europa per catturare quote di mercato lì.

La Russia nel labirinto siriano

Al di là del “fronte petriolio” è verosimile che i sauditi e gli stati del golfo risponderanno alle strategie della Russia in Siria aumentando il loro supporto ai ribelli siriani. L’Arabia Saudita e gli stati del golfo, presenti sulla scena internazionale per arginare la Russia, avevano messo la Turchia in ultima fila, ed è questo il motivo per cui Erdogan ha deciso di abbattere l’aereo russo. La Turchia voleva disperatamente essere protagonista nelle vicende della regione già all’inizio della guerra civile in Siria nel 2011, ma non ci è mai riuscita. La questione dei curdi è un tarlo per Erdogan ed è disposto a tutto, anche ad un gesto azzardato come quello di abbattere un aereo russo, pur di non riconoscere neanche una zolla di terra ai curdi. La Russia ha risposto accusando la Turchia di voler proteggere il suo mercato illecito di petrolio con l’ISIS.

E’ difficile leggere questa situazione come qualcosa di positivo per Mosca, piuttosto la strada che pare stia intraprendendo la Russia sia più verso un isolamento nel Medio Oriente che verso una sua espansione. Malgrado si sia sforzata di dipingersi come il “mediatore” della questione siriana.
Il ruolo della Russia in Siria, come è spesso il caso negli interventi in Medio Oriente, potrebbe essere molto più lungo di pochi mesi.
Le ricadute dai primi due mesi di combattimenti in Siria per la Russia sono state: i civili russi morti nell’attentato in Sinai, aumento delle tensioni con gli stati del golfo o ora con la Turchia. Tutto ciò rischia di fare di Mosca un prigioniero degli eventi sul terreno in Siria e delle negoziazioni di Vienna sul futuro della Siria. Una volta entrati in questo tipo di guerre è difficile uscirne.

 

 

Novembre 21 2015

Convegno sulla realtà geopolitica in Medio Oriente

Locandina Convegno PerugiaOrganizzata dall’associazione Idee in Movimento un’ interessantissima opportunità per avere un quadro completo sulla realtà geopolitica del Medio Oriente. Il mio intervento verterà sullo “stato islamico” da un punto di vista politico – giuridico.

Le belle iniziative dell’Università degli studi di Perugia, dipartimento di Scienze Politiche.

Non per niente io mi sono laureata qui.

Novembre 18 2015

La Russia non è il benefattore che pensate

Russia

La Russia in Siria fa il suo gioco e non è certo il “salvatore” arrivato dall’est.

La Russia non è quella potenza totalitaria che ha invaso, occupato e preso la Crimea. Non è quella potenza totalitaria che tiene sotto scacco due regioni dell’Ucraina. Ci si dimentica facilmente di accadimenti recenti, per far posto alla superficialità di risposte “di pancia” , sull’onda dell’odio.

 

La Russia continua a dare priorità alla preservazione di Assad piuttosto che combattere l’ISIS atttraverso la sua campagna aerea in Siria.

Gli attacchi aerei russi, supportati dal regime con operazioni di terra, contro l’opposizione armata siriana (dal 13 al 15 novembre) si sono concentrati sulla parte sud della campagna di Aleppo altri  attacchi si sono concentrati nel nord della Siria mentre le forze del regime avanzavano.

La Russia continuerà a presentarsi come un partner decisivo per la lotta all’ISIS in Siria.

Agli occhi della comunità internazionale, la Russia vuole essere il “benefattore”, il “ci penso io”,mostrando come sia inutile l’Unione Europea ancora divisa sulla risposta alla minaccia al terrorismo internazionale. Quindi dichiarazioni di natura politica con temi forti come invocando la composizione di una “coalizione anti – Hitler”. Oggi addirittura l’annuncio della creazione di una commissione per combattere finanziamenti ai terroristi.

Cosa fa la Russia in Siria?

La campagna russa in Siria sta accelerando la radicalizzazione dell’opposizione armata al regime di Assad. La brutalità del regime di Assad contro la popolazione civile in 4 anni di conflitto armato ha portato i ribelli dritti in partnership con Jabhat al – Nusra, creazione in primis di Abu Bakr al Baghdadi e poi dimostratosi molto più vicino (per strategia) ad Al Qaeda centrale. Ufficiali del Pentagono hanno confermato che l’utilizzo di munizioni cluster* in aeree popolate ad Hama e nella Provincia di Idlib. Ci sono altre fonti che indicano che l’uso di munizioni cluster si è verificato anche nella provincia di Aleppo. Gli attacchi della Russia hanno ucciso 254 civili solo nel periodo 30 settembre – 26 ottobre, secondo il Syrian Network for Human Rights. Alla fine di ottobre 2015, secondo un rapporto di Medici senza Frontiere gli attacchi russi hanno avuto come obiettivi almeno 12 infrastrutture mediche in Siria. Il 12 novembre fonti locali hanno riportato l’uso di fosforo bianco** durante gli attacchi russi nelle provincia Idlib. L’intervento violento russo sta già avendo come conseguenza l’unificazione di ribelli in elementi estremisti ancora più potenti: tre gruppi di ribelli composti da foreign fighters  questi tre gruppi si sono fusi in un gruppo estremista di natura religiosa in particolare islamica che si chiama  Ahrar al-Shamhanno dichiarando alleanza a Jabhat al – Nusra.

Perché la Russia è in Siria?

Putin ha visto che un gran numero di ceceni si uniscono allo stato islamico ed è per lui una minaccia. Per la Russia la prorità è la preservazione dello stato siriano. Il leader russo guarda all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia e vede come gli interventi occidentali hanno avuto come risultato l’anarchia. E teme proprio questo.

Considerare la Russia un “alleato” vuol dire sottovalutare la portata e l’ampiezza dei suoi interessi personali di potenza mondiale. Il rispetto delle regole dell’ordine internazionale fa sì che questo sistema non si sgretoli di fronte alle minacce di gruppi terroristici transnazionali e abbandonare quel complesso di regole (togliere le sanzioni alla Russia, interventi di rappresaglia – sproporzionata) vorrebbe dire abbandonare quello che è stato costruito in anni e anni e trovarci in preda al vento di chi colpisce più forte.

 

 

 * Cluster bomb ovvero bombe a grappolo: ordigni contenenti un certo numero di sub – munizioni: le bomblets che, al funzionamento dell’ordigno principale (cluster), vengono disperse, secondo diversi sistemi, a distanza. (La Convenzione ONU sul divieto dell’utilizzo delle bombe ha grappolo non è stata né firmata né ratificata dalla Russia – e neanche dagli Stati Uniti)

**Fosforo bianco:  a contatto con l’ossigeno presente nell’aria produce anidride fosforica generando calore. L’anidride fosforica reagisce violentemente con composti contenenti acqua e li disidrata producendo acido fosforico. Il calore sviluppato da questa reazione brucia la parte restante del tessuto molle. Il risultato è la distruzione completa del tessuto organico.

Novembre 13 2015

La brigata delle donne dello “stato islamico”

donne

Lo “stato islamico” ha creato una brigata di solo donne il cui compito è di far rispettare la Sharia. Troppo semplicistico chiamarle “spose jihadiste”

Per conto dello  “stato islamico”  chi recluta le donne è una donna ed usa nickname di: “al Khansala”. Questo nome corrisponde ad una poetessa tra le prime donne convertire all’islam ai tempi del profeta Maometto, conosciuta per aver ordinato ai suoi figli di andare in battaglia per l’Islam. Tutti e quattro sono morti. Al  Khansala è sempre stata attiva sui forum legati ad Al Qaeda, ben prima che apparisse sulla scena lo “stato islamico”. Aprì il suo primo account su Twitter nel 2012. Il suo interesse è sempre stato quello di connettere le donne che supportano la jihad una all’altra e alla rete più grande di Al Qaeda. Dopo aver defezionato da Al Qaeda si è unita allo “stato islamico” guidando una vera e propria brigata online che condivide il suo nome e si occupa di reclutare le donne che vogliono unirsi all’ISIS.

La brigata rosa vestita di nero

Agli inizi di quest’anno i sostenitori online di questa brigata “rosa” hanno fatto circolare un documento dal titolo: “Women In The Islamic State: Manifesto And Case Study” redatto allo scopo di reclutare, sostenere e dissipare miti circa il ruolo delle donne. Il testo fu dapprima diffuso online in arabo poi tradotto in inglese da un think – tank anti estremista. La propaganda per il reclutamento delle donne si traduce nell’adempimento del loro ruolo spirituale e divino che è quello di essere moglie di un forte jihadista e madre della prossima generazione.

Per entrare a far parte di questa brigata è essenziale che le ragazze siano nubili e di età compresa tra i 18 e i 25 anni.  Ogni donna riceverà un salario mensile pari a meno di 200 dollari. Dopo un mese di addestramento, imbracciano le armi con l’ordine di far rispettare la legge della Sharia nelle due più grandi città conquistate dal ISIS: Raqqa e Mosul. Le punizioni vengono assegnate da Umm Hamza, una donna descritta in un’intervista/confessione di una donna appartenente alla brigata delle donne dell’ISIS.

Unirsi alla brigata al – Khansala: più motivazioni per un fenomeno complesso

E’ importante evitare la generalizzazione quando si parla di forze che spingono le donne ad unirsi a questo tipo di gruppi. Asserire che le donne si uniscono allo “stato islamico” per diventare le “spose jihadiste” è troppo semplicistico ed ignora i diversi e complessi fattori che portando un numero sempre più crescente di donne ad unirsi a questo gruppo. Idee stereotipate invece suggeriscono l’idea che le donne sono o forzate o raggirate dagli uomini e che possono unirsi a gruppi di questo tipo per le stesse ragioni di un uomo.

Fattori che possono spingere le donne “occidentali” ad unirsi all’ISIS includono dei sentimenti di isolamento politico, sia culturale che sociale che comprendono sentimenti di insicurezza legati all’appartenenza alla cultura occidentale. Un’altra ragione chiave è il sentimento che la comunità musulmana internazionale è perseguitata e quindi prevale la frustrazione della percezione per la mancanza d’ intervento.

Entrano in gioco anche fattori come obiettivi idealistici legati al dovere religioso di quello che è visto come un utopico califfato, un senso di appartenenza e di “sorellanza” nel romanticismo di un gruppo estremista.

Potrebbero essere anche essere spinte da ragioni economiche o per prendersi una rivincita da un trauma personale, come lo stupro, la tortura o la perdita di un membro della famiglia.

Storie come quelle delle due adolescenti da Vienna, età 15 anni e 16 anni che lasciarono casa per recarsi a Raqqa, in Siria, dove sono state fatte sposare a combattenti ceceni che hanno scritto alle loro rispettive famiglie perché volevano scappare, rimaste peraltro incinte, ci fanno capire la complessità di questo fenomeno. Soprattutto dovrebbero portarci a riflettere al di là del nostro naso. Gruppi estremisti di matrice religiosa come lo “stato islamico” non fanno altro che focalizzare l’attenzione di eventuali sostenitori sulla semplicità della dicotomia: buono/cattivo. Evidentemente le nostre società sono molto più cattive di quello che pensiamo se le “nostre” ragazze volano nel nero.

Novembre 11 2015

Quando a farsi esplodere è una donna.

donna

L’impiego di donne come attentatori ovvero suicide bomber è una realtà.

Il ruolo della donna nella jihad non è chiaro neanche nel Corano e nella comunità islamica ci sono due grandi categorie che possono essere utilizzare per caratterizzare le idee dei gruppi di estremisti di matrice islamica riguardo al ruolo della donna. Un ruolo supportivo contro un ruolo attivo.
Tra i gruppi che sostengono l’idea del ruolo attivo delle donne nella jihad c’è HAMAS, fondato nel 1987 e attiva in Palestina. Hamas ha chiaramente dichiarato la sua posizione nell’ art. 12 del suo statuto: “resistere e soffocare il nemico diviene un compito individuale di ogni musulmano, uomo o donna. Una donna può andare a combattere il nemico senza il permesso di suo marito e così anche la schiava, senza il permesso del suo padrone”. Hamas utilizza donne come suicide bombers  in numero sempre maggiore. Huda Naim una delle donne leader, membro di Hamas, asserisce che molte donne in Palestina vogliono diventare più attive nella jihad.
Un’altra organizzazione che permette alle donne un ruolo attivo nella jihad è l’Islamic Jihad Union, gruppo attivo in Afghanistan ed in Pakistan.
Dal 2005, il numero di suicide bomber al femminile in Iraq è incrementato ed è cresciuto di più ogni anno. Il 9 novembre 2005, ad Amman, Giordania, ci sono stati 3 attacchi suicidi ad Hotel occidentali, il Radisson Hotel, il Grand Hyatt Hotel e il Days Inn, che hanno ucciso dozzine di persone. L’attacco al Radisson ha visto anche un suicide bomber donna. Sajida Mubarak al – Rishawi, 35enne irachena e suo marito anche lui 35enne, cercarono di farsi esplodere in una festa di nozze che si teneva in una delle sale da ballo dell’hotel. Il marito detonò la sua cintura esplosiva per primo, ma quando la donna cercò di farsi esplodere, la sua cintura non esplose. La donna raccontò l’accaduto in una confessione registrata.
Pur tuttavia l’impiego di donne suicide bomber non è nulla di nuovo visto che  agli inizi degli anni ’80, all’età di 16 anni un membro del Partito sociale nazionalista siriano: Sana’a Mehaidli si fece esplodere in una Peugeot vicino ad un convoglio israeliano durante l’occupazione del sud del Libano.
Un altro esempio del ruolo attivo giocato dalle donne è quello delle donne cecene che combatterono dopo che i loro mariti furono uccisi dalle forze russe.

Perché le donne?

Per le donne di gruppi estremisti che usano come tecnica il terrorismo è più facile ottenere l’accesso ai luoghi degli obiettivi indossando l’esplosivo sotto i loro vestiti. Gli atti terroristici delle donne posso attrarre molta più attenzione e quindi maggiore pubblicità rispetto a quelli degli uomini. Il “pubblico” è sia ripugnato che affascinato dalle donne che uccidono. Un altro punto importante è che indossare una cintura esplosiva e farla detonare non richiede grande addestramento e questa disponibilità immediata delle donne reclutate effettivamente raddoppia il numero dei potenziali attori per la causa del gruppo estremista.
Ci sono altre organizzazioni che hanno impiegato donne come suicide bomber: Al Aqsa Martyr’s Brigade, Palestinian Islamic Jihad, Hamas, Chechen rebels, Kurdistan Workers Party, Liberation Tigers of Tamil Eelam.
Le percentuali variano enormemente da gruppo a gruppo. Al Qaeda non ha usato donne fino al 2003, invece più del 50% dei terroristi suicidi sia per i ceceni che per il Kurdistan Workers’ Part erano donne.
Se si dovesse fare una graduatoria di celebrità nell’utilizzo di donne, al primo posto possiamo senz’altro mettere le Liberation Tigers of Tamil Eelam (che combattevano per secedere dallo Sri Lanka), le quali hanno compiuto circa 200 attacchi suicidi nel periodo dal 1980 al 2003 utilizzando le donne nel 30-40% dei casi. L’unità delle Tamil Tigers di donne suicide bomber si chiama: Black Tigress. La donna delle Black Tigress con il numero più alto di vittime si chiamama Thenmuli Rajaratnan, conosciuta anche come Dhanu. Secondo alcuni Dhanu era stata stuprata, i suoi quattro fratelli uccisi, da soldati indiani che erano parte della forza di peacekeeping che era entrata nello Sri Lanka per reprimere la rivolta delle Tamil Tiger. Per Boko Haram ora affiliato dello “stato islamico” che si fa chiamare ISWA (islamic state in west africa), l’impiego delle donne come suicide bomber è una tattica comune in Nigeria da almeno due anni. Uno degli attacchi più feroci c’è stato il 27 novembre 2014: due donne hanno ucciso 78 persone e ferito molte altri a Maiduguri. Dal giugno 2014, il gruppo estremista ha impiegato almeno 52 donne di età compresa tra i 9 e i 50 anni come suicide bomber in Nigeria e in Cameroon.

Il martirio delle donne ha un valore aggiunto.

Un atto perpretato da una persona considerata per natura non violenta può rappresentare la testimonianza che l’oppressione della sua gente è così grave che persino le donne sono disperate a tal punto da usare la violenza. Supponiamo che la società da cui viene la donna terrorista è caratterizzata da una profonda ineguaglianza di genere e che la società glorifichi il martirio per una casa giusta e suprema, come difendere la fede o difendere le persone contro una forza minacciosa. In questo quadro, un atto suicida di una donna assume un significato speciale che non è disponibile per i terroristi uomini. Questi ultimi possono diventare martiri per la fede del loro popolo oppure per la sopravvivenza come comunità. Tuttavia soltanto il martirio delle donne per la stessa causa può acquisire il valore aggiunto di promuovere una sorta di inusuale equità di genere tra i membri della società in questione.

“La violenza distrugge ciò che vuole difendere: la dignità, la libertà, e la vita delle persone.” – Giovanni Paolo II – 

Ottobre 22 2015

L’equilibrio precario dell’Iraq

Iraq

L’Iraq di oggi è in uno stato di equilibrio precario tra curdi armati dall’Unione Europea, ISIS e bombardamenti. L’errore dell’assistenza senza condizioni e senza responsabilità.

In Iraq si è cercato di accelerare la creazione di consenso e il processo di  decision making, ignorando la complessità del paese e soprattutto tenendo l’ ex primo ministro Nuri al – Maliki in carica fino al 2010. Quello che iniziò nel 2007 conosciuto come “Sunni Awakening” era il risultato di un senso di opportunità politiche create dalle promesse che i sunniti sarebbero stati inclusi nella politica di Baghdad, con l’ accesso ai posti di governo. Il primo ministro: Abadi, da un anno in carica, ha studiato ingegneria in Gran Bretagna, opposto al regime di Saddam Hussein che uccise i suoi due fratelli, nei circoli dei dissidenti iracheni si è guadagnato la reputazione di uno che cambia opinione a seconda delle circostanze.

Riprendere Mosul dalle mani dell’ISIS.

Alla fine del 2014, il governo iracheno in concerto con gli Stati Uniti pianifica una massiccia operazione per riprendere il controllo di Mosul, la più grande città del paese nelle mani dell’ISIS. Ma l’ISIS è più veloce dei piani iracheni e così  il focus si sposta a Tikrit, ripresa dalle forze regolari irachene  a marzo 2015. A maggio l’ ISIS prende il controllo della città di Ramadi e il governo iracheno si trova costretto ad impiegare più truppe ad Anbar, ritenendo che il controllo di questa provincia fosse più importante per la sicurezza dei dintorni di Baghdad e la città sacra degli sciiti: Karbala. Un’altra città da riprendere sotto il controllo del governo di Baghdad è Baiji, 200 km a sud, collegamento tra i guerriglieri ISIS di Anbar e la provincia siriana di Raqqa che fornisce combattenti e depositi armi per lo Stato Islamico. Anche se è più piccola di Mosul, la battaglia per Baiji ha stremato l’esercito iracheno e la Forza Popolare di Mobilitazione nonostante il supporto aereo della coalizione a guida americana (attacchi aerei in Siria e Iraq). Il 15 ottobre le forze irachene hanno dichiarato di aver ripreso molto del controllo della raffineria di petrolio della città di Baiji, punto focale delle operazioni. Lo stesso sindaco della città ha dichiarato che la polizia federale irachena ha ripreso il controllo di molte parti della città (difficile sapere se è vero perché è una zona molto pericolosa in cui i giornalisti non hanno accesso). – Le forze irachene riprendono la raffineria -Baiji
E’ difficile determinare il numero dei guerriglieri dell’ISIS che difendono Mosul (data l’abilità del gruppo nel manovrare le truppe di riserva dalla città di Raqqa ad Anbar) stime ci dicono tra i 10,000 e i 30,000. Ufficiali curdi riferiscono che l’ISIS potrebbe mettere a difesa di Mosul un numero di guerriglieri pari a 20.000 unità. In contesti militari di solito, una forza offensiva dovrebbe essere tre volte più forte di come ci si aspetti sia quella difensiva. Questo però non è il solo problema: combattere in zone residenziali neutralizzerebbe la potenza aerea della coalizione e il suo vantaggio e renderebbe le forze offensive vulnerabili alle mine dell’ISIS e farebbe in modo che i residenti locali combattano a fianco dello Stato Islamico.
Il parlamento iracheno è ancora riluttante nel creare una forza sunnita (National Guard Forces) che potrebbe fornire sicurezza alla città. In assenza di ciò, i residenti di Mosul, molti dei quali sunniti, restano opposti all’intervento delle forze sciite del regime, perché temono che con la scusa di prendere la città potrebbero esercitare ritorsioni con il pretesto che supportavano l’ISIS. Per la stessa ragione sono contrari alle forze peshmerga, soprattutto perché le ambizioni nazionaliste curde crescono ed è sempre più forte il desiderio di annettere territorio.

I gruppi paramilitari sciiti

Abadi si è avvalso del supporto dei gruppi paramilitari sciiti per combattere l’ISIS. Questi gruppi sono conosciuti come Popular Mobilisation Commitee ovvero Hashid Shaabi, comandano circa 100,000 combattenti e sulla carta ricevono più di un miliardo di dollari dal budget dello stato iracheno. Grandi somme di denaro le ricevono dall’Iran, che stando ad ufficiali delle milizie, li finanzia dal 2011. Ci sono tre grandi gruppi di milizie: 1) Amiri’s Badr Organization; 2) Asaib al – Haq; 3) Kataib Hezbollah, fedeli al leader religioso iraniano, Khameini, di cui usano l’immagine su manifesti e volantini. La crescita della potenza di questi gruppi è direttamente proporzionale alla crescita della minaccia dell’ISIS. Ed è stato proprio il più alto religioso sciita iracheno: Ali al – Sistani ha chiamare volontari per combattere l’ISIS. Elementi di questi gruppi paramilitari sciiti hanno preso, anche se in maniera parziale, il controllo del Ministero dell’Interno.

La forza combattente dei curdi iracheni

Conosciuta con il nome di “peshmerga”, che è il nome curdo per indicare: “coloro che affrontano la morte“. I curdi iracheni risiedono in tre province che formano il Governo Regionale del Kurdistan. I curdi iracheni hanno l’autonomia de facto dal 1991 quando la coalizione a guida statunitense stabilì la no – fly zone sull’area curda per proteggerli dagli attacchi di Saddam Hussein. Il Governo Regionale del Kurdistan fu ufficialmente riconosciuto come regione semi – autonoma nella costituzione del 2005.  I curdi si sono rivelati essere la migliore forza di terra contro l’ISIS. I peshmerga contano 15,000 truppe mentre l’esercito iracheno 271,500, controllano un territorio di 25.750 km. Le riserve di petrolio della regione curda ammontano a 4 miliardi di barili.

La strategia europea: armare i curdi

I ministri degli esteri dell’Unione Europea, in un incontro di emergenza accolgono favorevolmente la decisione di diversi governi europei di armare i curdi. La ragione? “Ce l’ ha chiesto il presidente della Regione del Kurdistan iracheno“. Masoud Barzani, ha fatto un appello, ecco chi ha risposto:

  • Italia
  • Repubblica Ceca
  • Gran Bretagna
  • Olanda
  • Germania (la più generosa)
  • Francia
  • Albania

La politica estera europea si fa così mandando armi ai curdi e non al governo centrale iracheno. L’esercito iracheno ha solo 5 divisioni funzionanti, la cui prontezza di combattimento si aggira tra 60% e il 65%. La Nato nel 2004 si fece carico di assistere lo sviluppo delle istituzioni e strutture di addestramento delle forze di sicurezza irachene. I due maggiori contributori sono l’accademia militare irachena e i Carabinieri, ebbene sì, i Carabinieri italiani si occupano dell’addestramento della polizia federale. Recentemente proprio i Carabinieri hanno avviato un corso per la formare professionisti in grado di proteggere le infrastrutture economiche critiche. Oltre questo nulla. Mi chiedo quindi cosa pensa di fare il nostro ministro della Difesa quando dice che i nostri tornado dovrebbero cambiare il loro coinvolgimento in Iraq. A parte questi pochi corsi tutto il resto dell’assistenza internazionale si concentra sulla vendita di armi ai curdi iracheni. Viene da pensare che i burocrati occidentali preferiscano che il governo di Baghdad si sgretoli sotto il peso delle differenze etniche e che l’Iran prenda il controllo del paese, riproponendo una dittatura, prima che se lo prenda l’ISIS.

Esiste una via di uscita?

Una via potrebbe essere quella della costruzione di una rete di residenti locali opposti all’ISIS. Il problema è che Abadi è riluttante, benché si fosse dimostrato più aperto, a concedere più spazio ai sunniti nella vita politica e soprattutto ad armarli, condizione che gli permetterebbe di riprendere il controllo di Mosul.
La scelta di Abadi è limitata o l’aiuto americano o la dipendenza solo dall’Iran. Il fatto che Abadi pochi giorni fa abbia dichiarato che vorrebbe che i russi conducessero attacchi aerei anche in Iraq ci dimostra solo che lui vuole rinforzare la sua posizione. La coalizione capitanata dagli Stati Uniti che bombarda l’Iraq nel vano tentativo di contenere l’ISIS non ci offre un Iraq migliore. Il grande errore è stato proprio questo: concedere assistenza al governo di Baghdad senza che si mettessero in campo le riforme istituzionali necessarie, senza che prima Maliki e ora Abadi si assumessero alcuna responsabilità del processo decisionale.