Dicembre 30 2018

Perché è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS

vittoria IS

L’impronta fisica dello Stato Islamico (IS) e la sua leadership di più alto livello sono state erose dalla coalizione globale che è stata in grado di limitare le capacità dell’organizzazione nei teatri di conflitto in un modo tale per cui le possibilità che l’IS lanci un’altra offensiva di vasta scala in Siria ed Iraq risultano essere sempre più esili.

Tuttavia, è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS : secondo stime ufficiali, tra i 20 e i 30 mila militanti IS, incluso migliaia di Foreign Fighters, restano in Siria ed in Iraq.

L’IS con tutta probabilità si è ritirato in aree meno popolate e rurali e ha iniziato ad operare in maniera più nascosta e decentralizzata.

Molte delle previsioni fatte dopo il collasso dello Stato islamico nel 2017, per cui ci furono dichiarazioni di vittoria di alcuni, tra cui i Presidenti degli Stati Uniti, dell’Egitto, dell’Iraq, della Russia e delle Filippine, non raggiungevano una precisione ed un’accuratezza tale per cui poi si sono materializzate pienamente.

Il 9 dicembre 2017, la sconfitta dell’IS in Iraq fu proclamata fragorosamente dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dalla sua controparte irachena, il Primo Ministro Haider el-Abadi.

La loro dichiarazione è giunta davvero troppo presto.

L’IS è un gruppo multidimensionale che simultaneamente opera sia come un proto-Stato che come una rete transnazionale estremista che utilizza la tattica del terrorismo. (Per un approfondimento sulla struttura e la composizione di questo gruppo vi rimando al libro: “Governare l’estremo“).

Le azioni cinetiche di successo contro la prima dimensione non hanno risolto la minaccia della seconda. Se volessimo ragionare secondo categorie è possibile affermare che se IS non è più uno Stato, esso resta una potente organizzazione estremista religiosa.

La minaccia globale, inoltre, potrebbe essersi incrementata, dal momento che i Foreign Fighters di ritorno drenano intelligence, risorse politiche e simpatizzanti nei loro Paesi di origine. Essere stati lasciati senza un Califfato a cui fare ritorno,  vuol dire che potrebbero invece rivolgere la loro attenzione ad obiettivi nei loro Paesi e focalizzarsi su nuovi modus operandi.

La prospettiva dell’IS di cooperare con altre organizzazioni jihadiste come Al Qaeda, è improbabile perché, malgrado siano entrambe parte del movimento jihadista globale, esse differiscono troppo in termini di ambizioni ideologiche e strategiche.

Inoltre, dal momento che IS, senza un suo proprio proto-Stato, sarebbe incapace di imporre tasse ai civili, probabilmente cercherà di trovare altri mezzi con cui finanziarsi.

Malgrado il  collasso materiale dell’IS – cioè del suo territorio – sia innegabile,

l’ideologia su cui si basa rimane viva e vegeta.

Agli occhi dei suoi sostenitori più devoti, non esiste qualcosa come uno stato “post-Califfato”. Al contrario, l’IS è diventato abile ed esperto ad etichettare i suoi fallimenti come meramente fasi di una strada più lunga verso la vittoria. Ed è cruciale che i decisori politici tengano nella dovuta considerazione tutto ciò.

La battaglia per sconfiggere completamente l’IS sarà difficile.

L’organizzazione ha, ora, solo cambiato traiettoria; si concentra su operazioni “colpisci-e-fuggi” calibrate verso l’indebolimento della stabilità e il discredito dello Stato. Tutto questo è realizzato attraverso un’attenta strategia di destabilizzazione: le reti di cellule “dormienti” stanno lavorando in maniera sistematica allo scopo di sovvertire la sicurezza nei territori liberati dalla presenza dell’IS. Ad esempio a Raqqa e nei suoi dintorni, in località come Kirkuk nell’est dell’Iraq,  attacchi IED (Improvised Explosive Device) e assassini vengono perpetrati su base quasi quotidiana; l’IS sta continuando a prendere slancio, apparentemente senza freni. Perciò, anche senza le sue ultime roccaforti urbane, l’IS continuerà, presumibilmente, a fare tutto quello che può per perpetuare l’instabilità regionale.

Pur volendo porre Siria e Iraq da una parte, la marea di sfide presentante dalla rete globale dell’IS continuano a metastatizzarsi. I suoi affiliati continuano ad affermare se stessi al di là della Regione del Medio Oriente, particolarmente in Paesi in cui mancano istituzioni statali forti; in alcuni casi, hanno accelerato le loro operazioni. In Afghanistan, ad esempio, la “Provincia Khurasan” del Califfato è stata ascendente nel 2018. Sebbene operativamente sia confinata ad un piccolo territorio nell’est del Paese, la sua capacità di impiegare il terrorismo suicida nel resto dell’Afghanistan è sconcertante e, in maniera preoccupante, mostra pochi segnali di indebolimento.

Qualcuno ha pensato alla minaccia derivante da altri gruppi jihadisti?

L’IS è lontano dall’essere il solo gruppo jihadista lì fuori. Sebbene abbia dominato molto del discorso concernente l’impatto di lungo termine del conflitto siriano e la politica di contro-terrorismo, lontani dall’attenzione pubblica ci sono gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che, basato nella provincia siriana di Idlib, si è sviluppato e ha impiegato un’agenda politica pragmatica e scaltra rivelatesi funzionale con le popolazioni locali. In netto contrasto con l’IS, HTS è stato relativamente permissivo sulla questione delle politiche religiose. Inoltre, perseguendo una strategia di socializzazione concepita per primo da Abu Firas al-Suri – un ex ufficiale della Shariah in Jabhat al – Nusra (predecessore di HTS), il gruppo ha sospeso l’implementazione delle punizioni corporali e capitali per promuovere una misura di interdipendenza tra esso e la popolazione che governa. Dato che questo tipo di pene, conosciute come hudud, sono considerate una parte centrale del codice penale islamico, pene che si applicano a crimini e reati contro Dio (non contro lo Stato o gli uomini), ciò è controverso, e ampiamente criticato all’interno della comunità jihadista. Tuttavia ciò sembra aver pagato: HTS è, adesso, profondamente inserito nel cuore della Siria del nord, e, proprio come fece l’IS, fornisce servizi essenziali di governance. Ha creato consigli locali e gestisce (e quindi sfrutta) le risorse locali. Mentre HTS non è più parte di Al Qaeda, la sua ideologia jihadista rimane strettamente allineata ad esso. Resta preoccupante che esso sia stato in grado di stabilirsi come gruppo politico e militare predominante nella Regione. Mentre, a questo stadio, le sue priorità appaiano più interne alla Siria, esso potrebbe un giorno cambiare e i decisori politici dovrebbero prenderlo in considerazione.

Altre forme di estremismo

Ultimamente si è verificato uno sbilanciamento politico strutturale per cui si rischia di considerare il contrasto ai gruppi jihadisti come la priorità a spese del contrasto ad altre forme di estremismo. Negli anni recenti, l’estremismo ispirato dall’IS ha assorbito la porzione più grande di forze di sicurezza e di risorse di intelligence – e giustamente, vista l’estensione della minaccia del gruppo. Tuttavia, ciò è avvenuto ad un costo: quello di non investire quelle risorse da qualche altra parte e, nel frattempo, in Europa, gruppi estremisti di -estrema-  destra si sono sviluppati e attivati. Essi hanno beneficiato sia della crescente polarizzazione nelle società europee che di un ambiente di sicurezza inattivo, in cui i governi sono incapaci di rispondere in maniera appropriata alla loro ascesa. È cruciale che più risorse sia devolute verso la mitigazione di questa sfida emergente.

L’IS sta praticando un gioco lungo, dunque le politiche di contro-terrorismo devono continuare ad esercitare una pressione sulle reti logistiche di supporto all’organizzazione

L’IS sta praticando un gioco lungo, e i suoi leader sono ben consci del fatto che le loro capacità materiali sono legate ad un flusso di ascesa e discesa nel corso della battaglia. Con questo a mente, le politiche di contro-terrorismo in Europa devono continuare ad esercitare un alto grado di pressione sulle reti logistiche di supporto dell’IS, anche se il gruppo appare essere inattivo. Sebbene la prassi operativa dei jihadisti sembra essere diventata meno tecnologica rispetto al 2016 e al 2017, assalti complessi sono ancora nella lista. Inoltre, ora vi è un incentivo a (ri)tornare ad operazioni più sofisticate e di vasta scala, dato che le notizie ed il discorso pubblico iniziano ad essere assuefatti ad attacchi con coltelli e veicoli. Ragionando nel lungo-termine, i decisori politici devono cercare di sviluppare una legislazione efficace e strumenti sociali che affrontino la minaccia potenziale dei militanti estremisti di ritorno e degli ideologhi – e questo dovrebbe includere lo sviluppo di istituzioni penali all’interno dei Paesi in cui questi personaggi vivono.

Ora non è il momento di lanciarsi in dichiarazioni di vittoria. Anche se la minaccia IS appare essere meno pressante di quanto lo fosse nel 2016 e nel 2017, la minaccia che esso rappresenta è reale e durevole.

La pressione del contro-terrorismo deve tenere il passo, anche continuando ad incoraggiare le società ad essere resilienti ed inclusive. Per fare ciò è necessario che gli interessi di breve-termine che ci concentrano sulle politiche elettorali non ostruiscano la realizzazione di politiche efficaci di lungo termine.

 

Gennaio 13 2018

Il nemico del nemico. Il nemico interno nella galassia estremista islamica.

nemico

La Siria, l’Egitto, l’Iraq, lo Yemen, la Libia, la Nigeria, la Regione del Sahel, la Somalia, la Cecenia, le Filippine, la Regione Afghanistan-Pakistan hanno tutti subito operazioni ovvero attacchi ad opera di organizzazioni estremiste islamiche, di differente intensità, ma con una caratteristica comune: il nemico principale è il governo nazionale e i gruppi religiosi opposti.

Curiosamente, l’intensificazione della lotta jihadista contro sia obiettivi occidentali che governi nazionali nel mondo islamico si pone in correlazione con la comparsa del più importante esempio di contesa e di competizione intra-jihadista nei tempi moderni tra Al Qaeda e l’Islamic State (IS)

La categoria del nemico interno

La competizione jihadista ha sottolineato l’importanza di una categoria di nemico frequentemente trascurata: il nemico interno, in riferimento ad altri gruppi all’interno della corrente jihadista.
Sia per Al Qaeda che per l’IS il nemico interno ha assunto un’importanza crescente, tuttavia i due gruppi hanno affrontato questa delicata questione in molti modi diversi.

La competizione inter-gruppo ha colpito la gerarchia degli obiettivi del nemico delle due organizzazioni estremiste islamiche.

La contesa e la competizione tra gruppi jihadisti non è una situazione nuova. Donatella dalla Porta ci spiega che « le organizzazioni radicali, come altre organizzazioni politiche, mirano ad attrarre simpatizzanti attraverso struttura, azioni e cornici che sono appropriate per la propaganda. Nel fare ciò, le organizzazioni clandestine competono in un campo affollato di organizzazioni dove hanno la necessità di offrire di più dei loro competitori».

Dal 2014 in poi in quasi tutte le riviste di Al Qaeda e IS è stata pubblicata una condanna implicita o esplicita all’altro gruppo.

Agli occhi dell’IS, Al Qaeda aveva deviato dalla corretta metodologia jihadista di Osama bin Laden; i suoi membri venivano chiamati addirittura gli “ebrei del jihad” mentre venivano diffusi i poster di “wanted dead” che ritraevano Zawahiri e altre figure di spicco di Al Qaeda.

Dalla prospettiva di Al Qaeda, l’IS è un gruppo di estremisti che senza alcun diritto hanno rivendicato di essere i soli legittimi sostenitori del jihad senza alcuna autorità. Quando Al Qaeda, nel gennaio del 2014 ha stabilito AQIS (Al Qaeda nel subcontinente indiano) l’emergente competizione con l’IS sicuramente ha giocato un ruolo importante.

L’introduzione della categoria “nemico interno” nella gerarchia del nemico dei gruppi jihadisti è una testimonianza della natura competitiva ed esclusivista dell’attuale jihadismo. Essa ha spinto i gruppi jihadisti a trovare ragioni fondamentali che legittimassero la lotta contro attori che naturalmente e storicamente erano considerati alleati e, in casi estremi, ha anche comportato l’etichettare altri jihadisti come apostati.

I gruppi jihadisti solitamente, quando si tratta di affermare chi combattono, vengono rinchiusi in caselle e spesso le conclusioni a cui giungono questo tipo di classificazioni non sono il risultato di una ricerca approfondita.

Fino a poco tempo fa, Al Qaeda era conosciuta come il più noto sostenitore del jihad globale, mentre l’ISI (Islamic State in Iraq) era conosciuto semplicemente come il nemico vicino dei regimi locali.

La competizione intra-jihadista che è comparsa nei primi mesi del 2014 ha cambiato significativamente questa percezione stereotipata. Il risultato è stato un importante cambiamento nelle gerarchie del nemico di questi due  gruppi jihadisti.

La crescente “ibridizzazione” della gerarchia del nemico dell’IS ha avuto come conseguenza l’adozione da parte dell’organizzazione estremista di un forte focus sul nemico lontano (l’Occidente) sia nei discorsi che nell’azione.
La diminuzione dell’ “ibridizzazione” di Al Qaeda ha avuto come conseguenza che tale organizzazione si astenesse da attacchi contro l’Occidente, fatta eccezione per i discorsi.
Il nemico interno è diventato un obiettivo legittimo.

Chi offre di più?

Nella letteratura sul terrorismo, il concetto di “offrire di più” ha ricoperto un ruolo dominante nella teoria che spiega l’effetto della competizione tra i gruppi terroristici sul loro comportamento. La logica dell’offrire di più dimostra le capacità del gruppo, la dedizione e le intenzioni del gruppo agli altri gruppi.
La competizione si verifica quando gruppi che condividono un’ideologia (o quasi la stessa ideologia) iniziano a prendersi di mira l’un l’altro attraverso parole ovvero azioni o quando adottano nuove strategie ovvero tattiche determinate dal successo del gruppo rivale.
Sembra plausibile poter sostenere che la competizione tra Al Qaeda e l’IS è emersa realmente dal febbraio del 2014 in poi quando iniziarono a verificarsi delle lotte interne in maniera regolare.

La crescita dell’IS, senza dubbio ha influenzato come gli altri gruppi jihadisti, incluso Al Qaeda, vengono percepiti sia riguardo all’essere “estremisti” sia in termini di minaccia. Ciò ha rappresentato per Al Qaeda un’opportunità di posizionarsi in una luce positiva in contrasto alla barbarie dell’IS. Il rischio per Al Qaeda, tuttavia, è che sia superata e considerata obsoleta.

Dalla prospettiva della lotta per il potere all’interno del movimento jihadista globale, sembra che si siano attivati due meccanismi:

  1. per l’IS il processo di offrire di più inizia attorno al 2014 come modo per sfidare la supremazia di Al Qaeda. L’intensificazione di tattiche raccapriccianti come la registrazione video delle decapitazioni e il bruciare i prigionieri possono essere considerati esempi dell’offrire di più a livello tattico mentre il suo concentrarsi sempre di più su obiettivi internazionali equivale ad un offrire di più a livello strategico.
  2. Già preoccupata della sua immagine popolare molto prima della nascita dell’IS, Al Qaeda ha esitato a seguire l’esempio del suo competitore più violento, malgrado il suo iniziale successo, e si è bloccato su un approccio basato sulla diversificazione del rischio. Per diversificazione del rischio s’intende un approccio più conservatore per cui un attore si astiene dal prendere una posizione chiara con l’obiettivo di non compiere un errore futuro. Nel caso di Al Qaeda, come parte della sua mutata strategia si è per lo più astenuta dall’organizzare o dirigere attacchi in Occidente con l’obiettivo di vincere il sostegno delle popolazioni locali nelle sue aree di operazioni. Allo stesso tempo Al Qaeda continua a porre enfasi sull’Occidente nei suoi discorsi allo scopo di non perdere il supporto dalla sua base più radicale.

Quale nemico combattono?

Il nemico interno è una questione molto delicata sia da un punto di vista giurisprudenziale islamico, dal momento che riguarda l’illegalità di spargere sangue musulmano che dovrebbe essere evitato perché potrebbe dare luogo ad una dissidio interno (fitna), sia da una prospettiva strategica.

Combattere il nemico interno inteso come altri gruppi che sono considerati parte della comunità jihadista sunnita e che condividono in una qualche maniera una simile ideologia, è una circostanza che raramente si è verificata prima della contesa esplosa tra Al Qaeda e l’IS.

Le lotte interne tra i gruppi jihadisti si verificano ora su base regolare in Siria e  in altre aree dove entrambi i gruppi sono presenti. Ad esempio dopo aver annunciato la creazione della provincia Khorasan nel gennaio del 2015, l’IS ha iniziato a combattere contro i Talebani.

Il contesto

L’ideologia esercita un’influenza enorme nella definizione delle gerarchie nemiche, tuttavia è altrettanto importante  il contesto in cui questi gruppi si trovano.

Un elemento importante del contesto è il grado di dissenso intra-jihadista e la potenziale, successiva, competizione.
Il conflitto all’interno del movimento jihadista ha conseguentemente invaso e dominato le dinamiche del jihadismo sunnita.

Gli attacchi a Parigi del gennaio del 2015: uno ad opera dei fratelli Kouachi contro Charlie Hebdo e rivendicato da Al Qaeda e l’altro ad opera di Coulibaly, che giurava alleanza all’IS, sono interessanti in questo contesto dal momento che Coulibaly presumibilmente aiutò i fratelli Kouachi.

Ciò mostra che ci è voluto un po’ di tempo affinché la rivalità jihadista si manifestasse al di fuori della Regione del Medio Oriente. Una simile cooperazione oggi è altamente improbabile se non impensabile.

In conclusione:

In maniera interessante, le dinamiche che si sono scatenate dalla relazione competitiva all’interno del movimento jihadista hanno colpito enormemente la gerarchia del nemico sia in termini di scopo che di priorità e di categorie. Non solo l’IS ha superato Al Qaeda come principale perpetratore di attacchi in Occidente, ma la sua aggressività contro altri gruppi jihadisti ha dato vita all’introduzione di una nuova categoria estremamente delicata: il nemico interno.
Per l’IS il processo di “offrire di più” intra-jihadista ha condotto all’espansione strategica del focus sull’Occidente, il cosidetto “nemico lontano”; mentre per Al Qaeda la logica della diversificazione del rischio ha rafforzato la sua nuova strategia, già adottata, per vincere i cuori e le menti dei musulmani distanziandosi essa stessa dall’eccessiva violenza dell’IS.
Le gerarchie del nemico sono tuttavia dinamiche per cui la diminuzione degli attacchi di Al Qaeda in Occidente non deve portarci alla conclusione che esso non è più un gruppo jihadista globale, ma piuttosto deve condurci a considerare che le preferenze, le capacità, hanno subito, temporaneamente, un cambiamento come risultato di un contesto.

Settembre 6 2017

La comunicazione dei terroristi: l’assecondiamo o la combattiamo?

comunicazione

Negli ultimi mesi l’organizzazione estremista religiosa, IS (islamic state), ha dedicato molto tempo e risorse alla realizzazione e diffusione delle sue campagne di comunicazione, soprattutto nell’intento di reclutamento e di stimolo per i suoi seguaci sul campo di battaglia.

Partiamo dal presupposto che al cuore di qualsiasi campagna di omunicazione inclusiva vi sono due tipi di strategia di messaggistica: difensiva ed offensiva (d’attacco):

per definizione la contro-narrative sono intrinsecamente difensive.

Le campagne di comunicazione di successo uniscono sia la messaggistica difensiva che quella offensiva, con l’ultima che domina.

Le contro-narrative rispondono meramente ai messaggi di opposizione, permettendo agli ideatori di questi ultimi di stabilire il terreno su cui sarà combattuta la battaglia della comunicazione e mantenere il controllo della narrativa.

A meno che non sia assolutamente necessario, le campagne di comunicazione dovrebbero evitare di rispondere ai messaggi di opposizione perché ciò semplicemente ripete e rinforza il loro messaggio.

Di per sé, una campagna si conclude parlando di quello che l’oppositore vuole si parli, permettendogli di stabilire la narrativa. Rispondendo ai messaggi dell’oppositore, gli permettiamo di stabilire il terreno su cui la battaglia della comunicazione sarà combattuta.

I messaggi offensivi cioè ostili, per contrasto, attaccano l’oppositore spingendolo sulla difensiva, richiedendogli un dispendio di risorse per contrastare il messaggio.

I mezzi attraverso cui prendere il controllo della narrativa che stabiliscono i termini del dibattito, sono fondamentali.

Diversamente dalla messaggistica difensiva che si concentra sul messaggio dell’oppositore, “andare all’attacco” conferisce l’opportunità di diffondere i propri messaggi chiave.

L’IS ha sviluppato una strategia sofisticata di “esca mediatica” in cui diffondono propaganda costruita per ottenere una risposta tipica, allo scopo di creare opportunità per essi stessi di sfruttare flussi di messaggistica secondaria precedentemente confezionati.

Un esempio noto, sebbene crudele, è il video ” guarire il torace dei credenti”, in cui si mostrava il pilota giordano bruciato vivo: quando l’occidente ha risposto con messaggi di condanna della barbarie dell’IS, quest’ultimo era pronto a rispondere portando l’attenzione sull’ipocrisia della disapprovazione, dal momento che non vi erano stati simili manifestazioni di sdegno per i bambini musulmani bruciati vivi quotidianamente dai bombardamenti aerei, provando in tal modo che l’occidente si preoccupasse di più di un pilota che dei tanti civili musulmani uccisi nei bombardamenti.

In breve, la nostra fretta di rispondere ha fatto (e purtroppo continua a fare) il gioco dell’IS: con l’impazienza nella competizione per contrastare la loro narrativa, corriamo il rischio, al meglio, di combattere una guerra di parole sui loro termini cadendo nelle loro trappole e rafforzando la loro narrativa.

Un recente esempio è quello della diffusione massiccia di un post su Twitter in cui utenti di un canale Telegram suggerivano di colpire l’Italia. La diffusione attraverso ogni mezzo, tv, stampa, radio, dibattiti, non ha fatto altro che rafforzare la narrativa dell’IS, peraltro distribuendo il loro messaggio principale: terrore, paura e senso di insicurezza.

Probabilmente il limite maggiore in questi casi è l’approccio frammentario delle comunicazioni e la mancanza di comprensione della reale necessità di una campagna di comunicazione multidimensionale ed integrata. Campagne di comunicazione di successo sono una costruzione complessa, composta da molteplici, differenti, tipi di messaggi (offensivi, difensivi, identità, scelta razionale) distribuiti attraverso mezzi multiformi (online, stampa, tv, radio, discorsi pubblici), tutto a sostegno di una narrativa centrale che viene consolidata sincronizzandola con l’azione sul terreno.

Oltre che naïve è certamente destinata a fallire una campagna di comunicazione che risponde solo concentrandosi su un tipo di messaggistica in uno sforzo isolato quando contro vi è una campagna integrata.

La somma della campagna di comunicazione IS è sicuramente più grande delle sue singole parti.

Mentre i politici sembrano inclini a comprendere la portata e la sofisticazione delle campagne di comunicazione necessarie per farsi eleggere, è giunto il momento che comprendano che è necessario intraprendere lo stesso sforzo per fronteggiare la propaganda IS.

Luglio 15 2017

Stati Uniti e Iraq: ora non ripetete gli errori del passato!

Stati Uniti

La liberazione di Mosul dall’IS (Islamic state) è una buona notizia, ma l’IS è ben lungi dall’essere stato eliminato. A questo punto gli Stati Uniti devono valutare attentamente le prossime mosse, per evitare gli errori del passato, quando, dopo il 2007, lasciarono l’Iraq senza una strategia precisa e il paese cadde nuovamente vittima dell’estremismo religioso.          

Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi dichiara Mosul libera dalle forze dell’IS, il risultato di una delle più lunghe e devastanti battaglie urbane del ventunesimo secolo. In altre parti dell’Iraq l’IS è vicino alla perdita di gran parte del territorio che una volta era sotto il suo controllo. Lungo la frontiera con la Siria, le Forze Democratiche Siriane, sostenute dagli Stati Uniti, stanno spingendo il gruppo fuori dalla roccaforte di Raqqa.

Le notizie sembrano buone, ma l’IS è lontano dall’essere eliminato. Molti dei suoi foreign fighters stanno tornando a casa, verosimilmente portando il terrorismo con loro. Alcuni dei suoi leader e combattenti restano in Iraq. Il gruppo sta ricorrendo alla guerriglia, incluso attacchi contro i civili in aree densamente popolate dell’Iraq.

L’operazione per riprendere Mosul, particolarmente la parte occidentale della città è stata violenta fin da febbraio, ed è giunta ad un costo incredibilmente alto. Centinaia di civili feriti ed uccisi nei combattimenti.

Mosul e i civili, incluso bambini, hanno pagato il prezzo di questa operazione.

Human Rights Watch e Amnesty International hanno diffuso un rapporto congiunto circa un mese fa in cui, rivolgendosi in particolare alla coalizione a guida americana, raccomandavano di fare più attenzione nella campagna di bombardamenti e particolarmente alle tipologie e alle dimensioni delle bombe che sceglievano di lanciare. A causa di queste grandi bombe lanciate sempre più di frequente, c’è stato un aumento nelle vittime civili sul terreno.
Questa operazione ha dislocato più di 700 mila civili che non saranno in grado di ritornare a causa dell’alto livello di distruzione.

Gli Stati Uniti stiano attenti a non ripetere gli errori del passato

Tutto ciò sta a significare che gli Stati Uniti devono valutare bene le loro prossime mosse, nella speranza che riescano ad evitare gli errori compiuti nel passato.

Alcuni anni fa, quando l’Iraq sembrava aver sconfitto i suoi estremisti interni dopo il picco della presenza di forze americane nel 2007, gli Stati Uniti ritirarono le loro forze. L’allora presidente George W. Bush firmò il SOFA (status of force agreement) con l’Iraq che stabiliva la rimozione di tutte le truppe di combattimento americane entro il 2011.
Sebbene i generali americani avessero fatto presente a Washington che né il governo iracheno né le sue forze di sicurezza erano pronte a funzionare senza un’assistenza americana di vasta scala; dopo essere entrato in carica nel 2009, il presidente Obama (che aveva corso alla presidenza nel 2008 con la promessa di ritirare le truppe dall’Iraq), non fece nulla per rinegoziare l’accordo firmato da Bush.

Va detto però che era improbabile che l’allora primo ministro dell’Iraq Nouri al-Maliki avrebbe accettato un continuo dispiegamento americano. Maliki era chiaramente impegnato a consolidare la dominazione sciita nel governo iracheno e sulle forze di sicurezza e riconosceva che una presenza militare americana avrebbe impedito ciò. Inoltre, egli sopravvalutò l’efficacia del suo apparato militare mentre sottostimava l’estensione dell’estremismo tra gli iracheni sunniti.

Adesso c’è l’opportunità di fare le scelte giuste. Abadi sembra comprendere meglio le sfide politiche e le minacce estremiste che l’Iraq deve affrontare. Questo crea un’opportunità per l’impegno americano per aiutare a prevenire la ripresa dell’IS e diminuire la dipendenza di Baghdad dall’Iran.

In altre parole le relazioni Stati Uniti-Iraq hanno un disperato bisogno di ricomporsi e di correggere gli errori compiuti tra il 2008 e il 2011.
Questo non accadrà se Trump non si impegna pienamente in ciò. Per raggiungere questo obiettivo, l’amministrazione Trump dovrebbe proporre che una forza militare americana, modesta, resti in Iraq anche dopo la sconfitta sul campo dell’IS. Una forza residuale molto simile a quella che i comandanti militari americani consigliarono a Bush ed Obama di lasciare nel paese dopo il 2007.

La missione primaria dovrebbe essere di sostenere e rinforzare le forze di sicurezza irachene e guidare le missioni di combattimento. Molta di questa forza dovrebbe concentrarsi sull’intelligence, aiutando gli iracheni ad identificare i luoghi dell’IS e informare su ogni nuova manifestazione di estremismo. Dovrebbe anche includere unità delle operazioni speciali in grado di colpire l’IS, in Iraq e in Siria, ma solo quando assolutamente necessario.

Se…

…Abadi o chiunque lo segue agiranno come Maliki, utilizzando il governo e le forze di sicurezza per reprimere gli arabi sunniti, o degradano l’apparato militare selezionando i leader su base settaria o per fedeltà politica piuttosto che per competenze professionali, gli Stati Uniti dovranno disimpegnarsi dall’Iraq una volta per tutte, magari mantenendo legami di sicurezza solo con il governo della regione curda.

Il Presidente Trump non ha dato indicazioni precise di voler mantenere un ruolo duraturo nel complesso lavoro di stabilizzazione dell’Iraq dopo la sconfitta sul campo di battaglia dell’IS. Se il Presidente degli Stati Uniti non si impegna nel reimpostare la relazione con l’Iraq, semplicemente la relazione non avrà futuro.

Senza un effettivo coinvolgimento americano, c’è una buona opportunità che l’estremismo si manifesterà nuovamente in Iraq, giocando un ruolo ancora più grande.

Se gli Stati Uniti non aiuteranno a riempire gli spazi da cui l’IS trae forza e “legittimazione” la nuova coalizione che comprende la Russia, l’Iran, Hezbollah, milizie sciite irachene e iraniane lo farà.

Non si può affermare con assoluta certezza che gli sforzi americani saranno sufficienti a prevenire ciò, ma sicuramente l’assenza di tali sforzi aumenterà le possibilità che questo accada a detrimento degli Stati Uniti e della pace e sicurezza internazionale.

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.