Luglio 5 2017

Rifugiati: occhi chiusi per 6 anni e poi la colpa è del maggiordomo

rifugiati

I numeri sono questi:

65.6 milioni di persone nel mondo sono state dislocate forzosamente alla fine del 2016, di questi 40.3 milioni dislocate all’interno dei loro stessi paesi, mentre 22,5 milioni hanno varcato frontiere internazionali come rifugiati. Un ulteriore 2,8 milioni sono richiedenti asilo.

Un campo rifugiati può essere molto utile quando le persone immediatamente abbandonano la guerra o la persecuzione. È un modo per fornire cibo, vestiti e riparo. Ma la tragedia è che queste persone restano bloccate in un limbo per molti molti anni.
Oggi, circa il 54% dei rifugiati nel mondo sono in quelle che vengono definite situazioni di rifugiati protratte. Sono state in esilio per almeno 5 anni. Secondo le Nazioni Unite, la media di durata di un un esilio è di 26 anni.

Dalla prospettiva di un rifugiato, il sistema internazionale dei rifugiati di fatto dispone di tre opzioni.

  • La prima è di andare in un campo, dove usualmente non lavori. E sì, hai un grado di assistenza umanitaria, ma la tua vita è messa in attesa. E comprensibilmente, una proporzione in diminuzione di rifugiati intraprende questa opzione. Circa il 10% dei siriani, per esempio sono nei campi di rifugiati.
  • L’opzione due è spostarsi in un’area urbana. Oggi i rifugiati sono  in aree urbane che in altri posti. Circa più del 50% sono nelle città. Ma la sfida nelle città è che i rifugiati spesso non hanno il diritto di lavorare e spesso non hanno alcuna assistenza umanitaria.
  • La terza opzione è di imbarcarsi in pericolosi viaggi in Europa.

Queste opzioni sono scelte impossibili.

Un modello di sviluppo economico realizzato da rifugiati insieme ai cittadini della nazione che li ospita

Il governo inglese ha aperto la strada a questo tipo di modello con un’iniziativa per la Giordania chiamata “Jordan Compact” che è iniziata nel febbraio del 2016 al summit di Londra per la Siria.

Le basi di questo modello: il sostegno ad opportunità di lavoro simultaneamente per i rifugiati siriani e per i cittadini giordani in parte attraverso l’autorizzazione ad entrambi a lavorare nelle zone economiche speciali. Il governo inglese ha incoraggiato l’Unione Europea a fornire un segmento nel commercio a 52 categorie di prodotti per compagnie manifatturiere che operano in 18 zone economiche speciali che impiegano una certa proporzione di rifugiati siriani. Un certo numero di aziende siriane, che precedentemente operavano in Siria, stanno impiegando rifugiati siriani e cittadini giordani, dando loro accesso a permessi di lavoro assegnati in modo conveniente dal governo, che fornisce accesso alla sicurezza sociale, un salario minimo e protezione dei diritti dei lavoratori.
Quello che manca a questo progetto, al momento, è un sufficiente investimento da parte di imprese multinazionali e di imprese in Europa preparate a lavorare con queste imprese che permetterebbe un modello di crescita industriale. Il governo della Giordania e i maggiori donatori si sono impegnati a creare 200,000 posti di lavoro per i siriani dai 3 ai 5 anni. Fin’ora i permessi di lavoro sono stati concessi a 51,000 persone in solo un anno o poco più. Sebbene sia un grande passo in avanti è necessario un investimento che raggiunga il livello di sostenibilità che permetta alla Giordania, che deve affrontare grandissime sfide di sviluppo e sicurezza, di convincere il suo elettorato che la presenza di rifugiati può essere un beneficio per la società giordana e per la sua economia.

La noncuranza dell’Unione Europea rispetto ai conflitti e alle crisi nei paesi al di là del mare

È molto interessante che i movimenti dei rifugiati siriani siano iniziati intorno al 2011 e fino all’ottobre del 2014 quasi tutti i siriani sono rimasti nei paesi vicini. Ma intorno ad ottobre 2014, tutti e tre i paesi ospitanti: Turchia, Libano e Giordania, hanno introdotto restrizioni. Queste ultime e la riduzione dell’assistenza umanitaria in questi paesi ha fatto sì che per i rifugiati diventasse molto più necessario muoversi altrove o imbarcarsi in pericolosi viaggi.

Questo era evitabile.

Se i paesi europei non avessero incrociato le braccia, chiuso gli occhi e non si fossero letteralmente girate dall’altra parte e fatto così poco per aiutare questi tre paesi, si sarebbero create molte più opportunità rispetto ad oggi, opportunità per i rifugiati insieme al sostegno per i paesi ospitanti.

Del resto le politiche UE sull’asilo e l’immigrazione sono state fangose fin dall’inizio della così detta “crisi dei rifugiati” e gli stati membri continuano ad avere difficoltà nel trovare una azione collettiva sostenibile. Ovviamente è corretto che i paesi europei e i loro elettorati siano preoccupati di una migrazione irregolare non gestita, ma hanno responsabilità quando si tratta di protezione dei rifugiati.
Molte delle odierne politiche riguardano la costruzione di muri de facto e la creazione di partneriati puramente con l’obiettivo di controllare l’immigrazione. Così molti di questi partneriati con paesi terzi in Africa, Sudan Niger e Libia, per esempio, sono con regimi che hanno realmente gravi problemi con i diritti umani e che sono progettate per implementare restrizioni alla mobilità e nessuna opzione per la riammissione di migranti economici. Questa è una strada insostenibile per gestire questo movimento di persone. Se realmente vogliamo aiutare i rifugiati e fermarli nei viaggi verso l’Europa, dobbiamo creare ancore. Noi dovremmo creare ragioni per cui le persone scelgono di restare nelle loro regioni e questo vuol dire creare opportunità sostenibili per una protezione effettiva, accesso ai diritti umani ma anche opportunità socio-economiche.

Ottobre 29 2016

Venezuela: verso l’abisso dell’autoritarismo

Venezuela

Venezuela: sempre di più nell’abisso dell’autoritarismo. La resistenza civile potrebbe essere una soluzione se sostenuta dalla comunità internazionale.

Venezuela: la situazione politica

Il Presidente Maduro ed il suo governo socialista stanno muovendo costantemente il paese verso l’abisso. Sebbene Maduro sia stato eletto con voto popolare nel 2013 il sistema di governo del Venezuela non può più, ragionevolmente, essere denominato “democrazia”.

La scorsa settimana il Consiglio nazionale elettorale ha ordinato all’opposizione di fermare la pressione per il referendum popolare sul governo Maduro. L’opposizione si è adoperata con grande fatica nell’ottemperare a tutti gli stringenti requisiti necessari per indire il referendum, disposizioni contenute nella Costituzione del Venezuela che però fu scritta sotto la stretta supervisione di Chavez.

Nel momento in cui l’opposizione si prepara a lanciare la campagna per le firme di massa, le autorità elettorali dichiarano di aver riscontrato irregolarità e fermano l’intero processo. Questo vuol dire che il partito unito socialista di Maduro (PSUV) resterà al potere fino alla fine  del 2019.

Se il referendum venisse tenuto prima del 10 gennaio e Maduro perdesse, si dovrebbero tenere delle nuove elezioni immediatamente. Se invece si tenesse dopo questa data, la costituzione delega il vice presidente a portare a termine il mandato che appunto scade nel 2019.

Con il paese che affonda sempre più nella disperazione, l’opposizione ha aggrappato le sue speranze alle disposizioni costituzionali che permettono, per plebiscito, di rimuovere un presidente eletto. Quando il Consiglio elettorale ha frantumato le speranze sul plebiscito, l’opposizione si è riunita in una sessione d’emergenza e ha dichiarato che Maduro ha condotto un coup d’état, accusandolo di aver distrutto l’ordine costituzionale in un assalto contro “la costituzione e il popolo venezuelano”. Quindi ha stabilito di lanciare il procedimento di messa in stato d’accusa contro di lui.
A questo punto il governo dichiara che è stata l’Assemblea Nazionale ad aver condotto il coup, cercando di far decadere il presidente legittimo del paese.

Nel momento in cui l’Assemblea dibatteva la messa in stato d’accusa del Presidente, i militari dichiarano di stare a fianco di Maduro. Tutto ciò non è una sorpresa dal momento che Maduro e prima di lui, Chavez, si sono assicurati che le fila dei militari fossero riempite da loro fedelissimi.

Il governo ha preso il controllo di praticamente tutte le istituzioni, mentre la Suprema Corte, dominata dai socialisti ha fatto diventare l’Assemblea Nazionale un apparato simbolico, per il quale ogni disputa di grande importanza in chiave elettorale diventa un oltraggio alla Corte.

Maduro, inoltre, ha assunto i poteri d’emergenza che gli permettono di aggirare la legislatura, infatti recentemente ha unilateralmente promulgato un nuovo budget nazionale.

I venezuelani si riversano nelle strade come hanno fatto anche il 26 ottobre, ma il governo risponde con misure che esacerbano le tensioni rendendo una pacifica soluzione politica sempre più difficile.

Venezuela: la vasta crisi umanitaria

La crisi che assume un carattere sempre più nefasto travolge i venezuelani in una rapida spirale economica che ha già devastato le condizioni di vita dei cittadini creando una vera e propria crisi umanitaria di larga scala.

Il tasso di povertà in Venezuela è salito al 75% della popolazione; la povertà è cresciuta di pari passo con il deterioramento economico e sociale.

Il crimine è balzato alle stelle e milioni di persone sono affamate per la mancanza di cibo, medicine e di ogni prodotto immaginabile.

Secondo Human Right Watch il Venezuela è nel mezzo di una profonda crisi umanitaria peggiorata da un risposta del governo inadeguata e repressiva.
Il Fondo Monetario Internazionale predice che l’economia si contrarrà per un altro 10% quest’anno, con un’inflazione al 475% che quadruplicherà l’anno prossimo.

Malgrado molti osservatori sono d’accordo nel ritenere che la principale causa del collasso economico siano le politiche economiche errate, l’inettitudine manageriale e la corruzione, Maduro continua a dare la colpa al “complotto capitalista”.

Venezuela: il dialogo è la via di uscita dalla crisi?

La crisi in Venezuela ha creato allarme tra i paesi vicini e gli osservatori. Lunedì scorso, dopo le pressioni di Papa Francesco, Maduro ha dichiarato di essere d’accordo nel tenere colloqui con l’opposizione. Tuttavia ci sono flebili speranze che ciò accada e che produrrà risultati.

Per i governi vicini in particolare, il dialogo è ancora visto come la migliore via per tentare di risolvere la crisi venezuelana. L‘Unione delle Nazioni sud americane ha sponsorizzato uno sforzo di mediazione da parte degli ex presidenti di Panama (Martin Torrijos), della Repubblica domenicana (Leonel Fernandez) e l’ex primo ministro spagnolo (José Luis Zapatero). Papa Francesco ha intrapreso un ruolo prominente nel processo di dialogo, annunciando un nuovo inviato della Santa Sede l’arcivescono Emil Paul Tscherrig in Venezuela. La Santa Sede ha il vantaggio di essere uno dei pochi attori esteri che gode del rispetto sia del governo venezuelano che dell’opposizione. Persino l’Argentina, il Brasile, la Colombia ed il Messico sempre più critici per la deriva non democratica del paese ritengono che la migliore soluzione sia il dialogo.

Non è chiaro se ci sia qualcosa che il governo voglia discutere

Le recenti decisioni di sospendere la richiesta di referendum e le elezioni dei governatorati sono state pessime scelte per il governo. Per cui andare incontro alle richieste dell’opposizione, come il rilascio dei prigionieri politici o riconoscere i diritti costituzionali e le prerogative della legislatura sembra piuttosto improbabile.

Le proteste contro il regime del 26 ottobre hanno incontrato l’ampia repressione (fuori dalla capitale Caracas) della polizia e della Guardia Nazionale che hanno lavorato insieme con organizzazioni informali paramilitari chaviste conosciute come colectivos.

Interessante che il regime abbia deciso di aumentare il suo braccio repressivo affidandosi ai paramilitari piuttosto che all’esercito regolare; conseguenza delle latenti spaccature all’interno delle forze armate venezuelane.

Fondamentalmente, Maduro e il suo circolo non possono rischiare negoziazioni che potrebbero condurre alle elezioni come programmato originariamente che quasi certamente perderebbero.

Perdere il referendum, qualora si dovesse tenere entro quest’anno, vorrebbe dire nuove elezioni presidenziali, con il rischio che funzionari del regime coinvolti in corruzione, traffico di droga e abusi dei diritti umani siano resi responsabili di tali crimini.

Svolgere le elezioni nei governatorati vuol dire per Maduro un altro rischio per se stesso. Ad oggi, la maggioranza dei governatori in Venezuela provengono dal suo partito politico e sono la chiave per mantenere il potere del regime ed eseguire i suoi piani. Le elezioni quasi certamente rovescerebbero questa situazione ed il trasferimento di molte istituzioni a livello statale nelle mani dell’opposizione.

Resta difficile cogliere la ragione per cui il regime di Maduro dovrebbere correre il rischio di perdere l’impunità di cui gode oggi per impegnarsi in un dialogo significativo o permettere le elezioni.

Sono molto abili nel ponderare il rischio di permettere che istituzioni democratiche funzionino (presumibilmente conducendole a perdere potere) contro il costo di imporre un regime autoritario; costo, al momento, non molto alto per il regime, ma sempre più mortale per i venezuelani.

Ciò vuol dire che l’opposizione ha bisogno di incrementare i costi del regime nella sua odierna traiettoria autoritaria.

La resistenza civile

Nel libro: “Why Civil Resistance Works: the Strategic Logic of Nonviolent Conflict” di Erica Chenoweth e Maria J. Stephan (Columbia University Press) si afferma che le campagne di resistenza attiva sono più efficaci quando attraggono il supporto di massa, quando producono delle defezioni all’interno del regime al potere, quando coordinano l’uso di tattiche variegate e flessibili per aumentare la pressione sulla dittatura.

L’opposizione in Venezuela

Organizzata sotto il nome di Tavola rotonda di unità democratica (Mesa de Unidad Democrática – MUD) è stata in grado di riunire un grande numero di manifestanti. Tuttavia non è in grado di porre pressione sui servizi di sicurezza o indurre membri del governo a riconsiderare il loro sostegno a Maduro. Il MUD detiene il 54% del supporto tra i venezuelani, ma la sua unità è messa spesso a dura prova da disaccordi sulla strategia.

Che fare?

La società civile e politica potrebbe iniziare ad incrementare il sostegno alla resistenza civile dell’opposizione. Ciò include la fornitura di consulenti, incoraggiarli a sviluppare una campagna sostenibile. (Negli anni ’70 questo sostegno fu cruciale e potrebbe rivelarsi ancora tale).

Gli Stati potrebbero continuare ad alzare i costi, dove possibile, per l’amministrazione Maduro e i suoi sostenitori nel governo e nei servizi di sicurezza per il comportamento repressivo. Sanzioni precise, azioni penali, congelamento dei beni. L’azione diplomatica degli Stati di condanna alla deriva autoritaria del Venezuela è diminuita fortemente.

Una campagna di resistenza civile prolungata da parte dell’opposizione ed il sostegno internazionale dovrebbero cambiare l’equazione costi/benefici del regime di Maduro nel portare avanti l’attuale strategia. Fondamentalmente il cambiamento in Venezuela arriverà dall’interno.

È utile tenere a mente che le campagne civili di resistenza sono spesso lunghe e difficili: trascorsero 8 anni dalla fondazione del movimento Solidarność che portò dalla transizione alla democrazia in Polonia nel 1989.

Senza l’alterazione dell’equazione costi – benefici per il regime, è improbabile che il dialogo in Venezuela generi risultati significativi.