Dicembre 22 2016

Yemen: storia di una morte nell’indifferenza generale

Yemen

Lo Yemen non è in cima all’agenda politica internazionale di nessuno e lentamente muore la sua popolazione sull’orlo della carestia, con una crisi monetaria, il blocco navale, nella generale noncuranza di tutti anche dei mezzi di informazione.

Nel periodo natalizio, se ci fate caso, spuntano sempre quei servizi giornalistici di grande pathos su un qualche paese in guerra con le immagini di bambini pieni di polvere se non di quelli morti, con delle bambole di pezza, soli con intorno soltanto macerie. I bambini yemeniti non hanno questo privilegio, non compaiono mai. La guerra nello Yemen è una delle guerre dimenticate di questo mondo, quelle che non suscitano la commozione e l’indignazione di nessuno, quelle che neanche per Natale vale la pena di nominare. Eppure nello Yemen si gioca una partita politica locale e regionale importante. Eppure nello Yemen ogni 10 minuti un bambino muore e molti altri sono costretti a diventare bambini soldato. Eppure 2.2 milioni di bambini yemeniti hanno urgente bisogno di assistenza sanitaria. Eppure centinaia di migliaia di persone yemenite sono incapaci di far fronte ai bisogni essenziali quali il cibo, non hanno accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici. Qualcosa come 3.5 milioni di yemeniti sono senza casa.

Lo Yemen: uno shock dopo l’altro

Sin dalla primavera araba del 2011, lo Yemen ha vacillato da uno shock politico ad un altro. Il suo leader autoritario, il Presidente Ali Abdullah Saleh fu cacciato dal potere da una pressione popolare, ma il suo successore, Mansour Hadi, non ha saputo guadagnarsi il sostegno del suo paese. I ribelli Houti hanno preso il potere nel settembre del 2014 e a marzo dell’anno successivo, il Presidente Hadi è stato forzato all’esilio nella capitale saudita, Ryhad.

Da allora, il paese è imploso dal momento che la coalizione a guida saudita ha iniziato a combattere i ribelli Houti, che beneficiano, come è ampiamente ritenuto, del sostegno finanziario e delle armi iraniane.

L’influenza di attori esterni ha esacerbato il conflitto in uno Stato che già combatteva per mantenere insieme la struttura nazionale dopo decadi di governo autoritario.

Sull’orlo del baratro: la carestia

Il governo riconosciuto internazionalmente, che è stato spinto fuori dalla capitale Sanaa dagli Houti nel 2014, ha completamente rigettato l’ultima proposta delle Nazioni Unite, mentre i ribelli lo scorso mese hanno annunciato la formazione di un nuovo governo.

Tra queste posizioni politiche divergenti e lo stallo militare, esacerbato dalla crisi monetaria e dal blocco navale, le agenzie umanitarie hanno, ancora una volta, avvertito che lo Yemen, già in una crisi umanitaria su vasta scala, è sull’orlo della carestia.

Le importazioni chiave di cibo sono già scese al di sotto della metà dei bisogni del paese e condizioni di carestia si riscontrano in molte aree.

Secondo l’UNICEF, almeno 462,000 bambini yemeniti sono severamente malnutriti, con 2.2 milioni in necessità di urgente assistenza sanitaria.

Ogni 10 minuti un bambino muore in Yemen.

L’appello umanitario delle Nazioni Unite per lo Yemen, in questo anno, è stato finanziato solo per il 58% del suo bisogno.

Malgrado tutto ciò, la situazione umanitaria ed economica di questo paese, difficilmente appare essere al primo posto dell’agenda delle potenze politiche che guidano questa guerra ovvero dei loro sponsor regionali.

Il rifiuto del piano di pace e la formazione di un governo ribelle sono solo gli ultimi episodi di una serie di mosse “tit-for-tat”del governo in esilio del Presidente Abd Rabbu Mansour Hadi e dei suoi rivali, un’alleanza dei ribelli sciiti Houti e dei fedelissimi dell’ex Presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh.

Ad ottobre, Hadi ha emanato un decreto per spostare il quartier generale della Banca Centrale dello Yemen da Sanaa ad Aden, tagliando effettivamente l’accesso al settore bancario internazionale, separandosi anche da centinaia di tecnocrati preparati che lavoravano nella banca dalla capitale. Lo spostamento della banca ha generato la paura che l’economia potesse essere usata come arma, parte della guerra.

L’alleanza Saleh-Houti ha reagito, lo scorso mese, nominando un nuovo governo, un colpo preciso ad Hadi che è riconosciuto internazionalmente come il legittimo leader dello Yemen, ma il cui governo fa poco nel governare attualmente, visto che ha perso Sanaa, insieme a molte istituzioni governative.

L’annuncio degli Houti del nuovo governo è stato oggetto di discussione sin da ottobre quando Abdulaziz bin Habtoor, l’ex governatore di Aden, è stato nominato primo ministro dei ribelli. Bin Habtoor è stato scelto dal Consiglio Supremo Politico, recentemente formatosi, un organo politico composto da Houti e membri dell’alleanza “General People’s Congress” pro-Saleh, per rappresentare i loro interessi congiunti. Il Consiglio è guidato da Saleh al-Sammad; formato nel tardo luglio 2016, è stato visto come un serio impedimento per gli sforzi delle Nazioni Unite di negoziare una tregua e i colloqui di pace per porre fine ad un conflitto di 20 mesi. Questo governo guidato da bin Habtoor non farà altro che aumentare questo senso di impedimento.

L’inviato delle Nazioni Unite per lo Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, ha espresso frustrazione per la nomina di un governo dei ribelli, che con molta probabilità spingerà Hadi verso una posizione ancora più difensiva.

L’amministrazione Obama ha bloccato qualche settimana fa alcuni dei sostegni militari alla campagna dell’Arabia Saudita in Yemen proprio per il gran numero di vittime civili. Tuttavia, il supporto americano continuerà in altre aree, in particolare rifornendo gli aerei della coalizione e condividendo più intelligence.

Futuro incerto

Con il presidente eletto, Donald Trump, che inizierà il suo lavoro il 20 gennaio ed il nuovo Segretario Generale delle Nazioni Unite, Guterres, che inizierà l’11 gennaio, il vuoto di potere internazionale renderà ogni svolta politica sempre più improbabile.

Lo Yemen era già difficilmente in cima all’agenda internazionale dunque le vittime della “guerra dimenticata” in Yemen possono aspettarsi poco respiro.

Le principali vittime del conflitto

Le principali vittime del conflitto in Yemen non sono le forze armate delle due parti, ma persone ordinarie. Queste sono persone incapaci di far fronte ai loro bisogni essenziali di cibo e che mancano dell’accesso ad acqua pulita e ai bagni. Qualcosa come 3.5 milioni di Yemeniti sono senza casa: o si sono spostati in altre parti del paese o sono rifugiati in altri paesi.

I cessate-il-fuoco di 48 o 72 ore, anche se rispettati dalle parti in lotta, sono come un granello di sabbia nel deserto quando si tratta degli immensi bisogni che il conflitto ha generato. Non è sicuramente abbastanza tempo per ricostruire le case distrutte, i negozi, le cliniche, gli ospedali, neanche per salvare centinaia di bambini yemeniti costretti a diventare bambini soldato.

Anche se cessate-il-fuoco brevi offrono una finestra sufficiente per le agenzie umanitarie, che potrebbe essere estesa, c’è, in ogni caso, un significativo ostacolo: le risorse per l’aiuto. Sebbene l’Unione Europea, così come gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, abbiano promesso aiuto ed assistenza allo Yemen nel quadro del piano di risposta umanitaria, alcuni hanno promesso fondi che non si sono mai materializzati.

 

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.

Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.

Agosto 24 2015

L’insospettabile protagonista in Yemen

Gli Emirati Arabi Uniti insospettabili protagonisti di una campagna terreste in Yemen, si tolgono dallo schiaffo della monarchia saudita mostrandole chi ha i muscoli nella Regione. Alleati con gli Stati Uniti sono pronti a difendere la propria sicurezza in Yemen e dovunque sia necessario.

In Yemen  le forze fedeli al Presidente Abdrabbuh Mansour Hadi combattono contro i ribelli conosciuti come Houthi. Fosse solo così sarebbe una guerra civile come tante, ma la situazione è complicata dall’emergere verso la fine del 2014 di un affiliato yemenita del gruppo che si conosce con il nome di Stato Islamico (IS) , Wilayat al-Yemen, o Provincia dello Yemen, che cerca di eclissare la presenza di Al Qaida della Penisola Araba (AQAP). Sia Hadi che gli Houthi sono opposti ad AQAP e IS.  Dopo che a fine marzo di quest’anno i ribelli avevano preso d’assalto Aden, una coalizione, guidata dall’Arabia Saudita, ha risposto ad una richiesta di Hadi di intervenire e così è stato. La coalizione comprende 5 Stati del Golfo aArabo, Giordania, Egitto, Marocco e Sudan.

Il Re Salem e suo figlio Salman, avrebbero voluto guidare anche una coalizione di terra, ma dopo aver chiesto aiuto all’Egitto e nella visita al Cairo aver ricevuto un sonoro no, nonostante l’Egitto sia legato a Riyadh da finanziamenti per billioni di dollari. Altro paese indebitato con l’Arabia Saudita a cui è stato chiesto aiuto per un invasione di terra: il Pakistan, ha declinato un coinvolgimento in questo senso. L’azione in Yemen della monarchia saudita quindi si risolve in bombardamenti aerei, blocco navale, addestramento di soldati anti – houthi aiutati dall’Egitto e dal Senegal.

Ed ecco che sulla scena compare un insospettabile protagonista: gli Emirati Arabi Uniti, ma non come satellite di Riyadh ovvero al suo comando. Pur condividendo gli stessi interessi politici e di sicurezza, soprattutto per la minaccia Iran e dei gruppi islamisti e avendo lavorato fianco a fianco sostenendo el Sissi in Egitto ed ora contro gli Houthi in Yemen, le strategie politiche delle due potenze sembrano prendere decisamente due strade diverse.

Gli Emirati Arabi Uniti possiedono una delle più potenti aviazioni militari  della regione, con più di 60 versioni avanzate dell’F-16 fighter jet (prodotto in America), un numero simile di Mirage 2000 fighter (produzione francese). Nel 2011 hanno partecipato  alle operazioni contro il Col. Geddafi in Libia, a fianco degli Stati Uniti contro lo Stato Islamico in Libia e nello Yemen. Gli Emirati hanno intenzione di usare la forza contro i militanti islamisti molto di più di quanto abbia fatto l’Arabia Saudita. Quest’ultima s’era opposta alla Fratellanza Islamica in Egitto MA insieme alla Turchia supportano in Siria: Jaish – al – Fatah ovvero the Army of Conquest, una struttura di comando per gruppi jihadisti che include anche Jabhat al Nusra. Army of Conquest ha un centro di comando nelle provincia del nord siriano di Idlib. Ufficiali turchi hanno ammesso di fornire supporto logistico e di intelligence al quartier generale di Army of Conquest che ha al suo interno ben sette gruppi jihadisti. Materiale di supporto come armi e denaro invece arriva dai sauditi con i turchi che facilitano il passaggio attraverso i villaggi di frontiera di Guvecci, Kuyubasi, Hacipasa, Basalan, Kusakli, Bukulmez.

Abu Dhabi ha instaurato una forte relazione con gli Stati Uniti, inter alia, ospita gli F-22 Raptor e ad Al – Dhafra ospita l’Air Warfare Center dal 2004. La realtà è che gli Emirati hanno bisogno di partner fuori dalla regione per garantire la propria sicurezza: diventando militarmente utile per questioni di mutuo interesse, aumenta il proprio valore agli occhi degli Stati Uniti.

Agli inizi di agosto di quest’anno hanno deciso di fare di più inviando 3500 soldati in Yemen (sud del paese) con veicoli armati e armi pesanti. Sbarcati ad Aden si sono aggiunti alle 100 forze speciali che si trovano nel paese dallo scorso maggio. Ricordo che gli ostaggi inglesi sono stati liberati proprio dalle forze speciali degli Emirati. Notizia passata così un po’ sottotono. Ed invece la campagna terrestre del sud dello Yemen che ha cacciato gli Houthi da Aden e dalla provincia Lahj (sede della più grande base militare del paese)  pianificata e condotta  dagli Emirati segna la prima volta che uno Stato del Golfo manda propri cittadini in una guerra dopo l’esercito del Kuwait che fu sonoramente battuto da Saddam Hussein in Iraq nel 1990.

L’interesse di Abu Dhabi è che possa in questo modo forzare  la formazione di un governo a loro congeniale a Sanaa. Fatto più importante:  Abu Dhabi ha messo in chiaro una volta per tutte che  a) non ha paura a mandare proprie truppe in altri paesi per stabilizzare conflitti fucina di gruppi fondamentalisti e che non è affatto il fanalino di coda della monarchia saudita, ma è pronta ad allearsi con le potenze occidentali per la propria sicurezza e di altre parti della Regione. Per la serie : watch out!

 

 

*fonte foto: www.armyrecognition.com