Marzo 2 2019

Vertice Kim-Trump: analisi di un fallimento

Kim

Forse qualcuno di voi si è chiesto perché il vertice tra Donald Trump e Kim Jong Un sia fallito.

L’ultima cosa che vuole Kim è un boom economico che creerebbe una élite, e persino un ceto medio,

meno dipendenti da lui.

Diversamente dall’Unione Sovietica dopo Stalin o dalla Cina dopo la morte di Mao, il Nord Corea non è governato da una élite collettiva convinta che le riforme economiche siano cruciali per la sopravvivenza del regime. Il Nord Corea resta una dittatura parassita con un obiettivo principale: tenere il leader massimo al potere. Nella psicologia contorta di un sistema totalitario, la dipendenza dal regime è più importante della prosperità.
Gli Stati Uniti insistono nel voler paragonare il Nord Corea con la Cina o il Vietnam, semplicemente perché è un Paese asiatico.

In questa visione fallace, Kim potrebbe essere come la Cina di Deng Xiaoping che pone fine alle ostilità con il mondo esterno per porre la nazione sulla strada delle riforme economiche.

In realtà il regime di Kim è più simile ad una dittatura personalista del Medio Oriente: l’Iraq di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi, la Siria di Bashar al-Assad.

Kim  comprende il paragone e, infatti, trae insegnamento da quei dittatori mediorientali. Dall’Iraq egli ha, presumibilmente, imparato che è una cattiva idea bluffare su le armi di distruzione di massa dal momento che ciò potrebbe essere stato il motivo dell’intervento americano. La sopravvivenza del regime dipende dall’averli davvero e dalla volontà di utilizzarli. Il punto ideale è di essere abbastanza folli da dissuadere gli Stati Uniti, ma non folli abbastanza da provocarne l’intervento. Dalla Libia ha imparato che firmare accordi con gli Stati Uniti per rinunciare alla capacità di armi di distruzione di massa, non porta abbastanza benefici in grado di respingere l’opposizione interna e che questo è estremamente pericoloso. Dall’Iran ha probabilmente imparato che raggiungere un accordo con gli Stati Uniti per limitare il programma nucleare non preverrà gli Stati Uniti dal minare il suo regime.

Sfortunatamente i politici americani e anche diversi commentatori non sembrano cogliere questa realtà preferendo trattare Kim come un nuovo Gorbačëv  o Deng piuttosto che come i suoi veri analoghi: Saddam, Gheddafi, Assad.

Quello che gli americani stanno facendo è quello che gli scienziati politici chiamano: mirror imaging, ipotizzando che il leader nord coreano veda il mondo come loro e, perciò, voglia essenzialmente le stesse cose. Tuttavia Kim non è un normale leader politico.
Avendo imparato da suo padre e suo nonno, egli sa che i dittatori personalisti muoiono quando indeboliscono la loro presa al potere, quando permettono che si eroda la dipendenza da loro o falliscono di dissuadere o distrarre un avversario come gli Stati Uniti.

Kim non vuole quel tipo di prosperità che renderebbe il Nord Corea: “una Potenza economica”, come gli è stato offerto da Trump e non ha bisogno di una vera alleanza con gli Stati Uniti. Tutto ciò di cui lui ha bisogno è un modesto alleggerimento della pressione economica, in particolare dalla Cina e dal Sud Corea.

Marzo 18 2018

Trump è un’anomalia o la nuova normalità nelle relazioni internazionali?

Trump

La politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha seguito una strada peculiare. Malgrado le molteplici differenze tra Repubblicani e Democratici, vi era un profondo accordo sull’obiettivo generale e sulla logica strategica americana. Inoltre, la maggior parte dei leader politici e di coloro che influenzano l’opinione pubblica ritengono che per preservare l’ordine globale si debbano coltivare alleanze e si debba necessariamente lavorare assieme ad alleati e partner e che sia proprio questa la migliore strada per far avanzare gli interessi nazionali americani. A ciò si aggiungeva un accordo implicito che questa strada doveva essere percorsa e attuata attraverso un quadro di politica estera e di sicurezza nazionale guidato da leader eletti che avessero sviluppato una certa competenza sulle complessità del mondo e sull’arte di governare.
L’influenza era qualcosa che si guadagnava nel corso del tempo e pagando i propri conti. Per quanto possibile, gli accordi bipartisan erano la forma che assumevano le fondamenta dell’arte di governare.

Donald Trump adotta un’altra via

Sebbene la Strategia di Sicurezza Nazionale che ha pubblicato recentemente rifletta la tradizione e sottolinei l’importanza delle alleanze strategiche dell’America (vecchie e nuove) Trump ha fatto meno per coltivarle rispetto ai presidenti americani dagli anni 1920. La strategia di Trump è di punire o minacciare gli avversari di “seconda fascia” – Iran, Corea del Nord e IS – mentre ignora l’assertività o la palese aggressione da grandi potenze ostili.

Questa è un’ anomalia o la nuova normalità?

Molti commentatori asseriscono che Trump sia un’anomalia, titubante nella sua presidenza solo a causa delle imperfezioni profonde tra i suoi oppositori che ha affrontato nelle primarie repubblicane e più tardi nelle elezioni del 2016. Secondo questa linea di pensiero, dopo che lascerà l’incarico, le cose torneranno nel modo in cui erano.

Tutto questo potrebbe essere sbagliato.

Donald Trump ha compreso, nel senso vero e reale, lo spirito politico del tempo meglio dei suoi oppositori politici. Questo è particolarmente vero nel suo approccio alla politica estera e di sicurezza: un regno dove, malgrado la potenza espansiva, la prosperità e l’influenza degli Stati Uniti, la maggior parte del pubblico vede fallimento.
L’approccio di Trump dimostra la sua appassionata presa allo spirito del tempo.

Piuttosto che affidarsi all’esperienza e al bipartisan per raggiungere una posizione condivisa, che è poi spiegata al pubblico dai media eminenti che sono essi stessi composti da personale esperto, Trump sfrutta l’infatuazione americana per la celebrità. La sua politica estera e di sicurezza non è il frutto di consigli di esperti o potenti o la riflessione di un consenso costruito attentamente.
Essa è quello che il Presidente stesso considera importante ogni per giorno. Questa politica estera e di sicurezza nazionale si attorciglia e vacilla, ma ha una costante: è spiegata in un modo piacevole attraverso temi che trovano il favore della base politica di Trump: vincere e perdere, essere giusti e non essere giusti. Raramente è menzionato l’interesse nazionale dal momento che non è nella linea degli applausi.
Trump potrebbe essere il precursore di nuovi leader che afferrano anche il momento corrente, ma sono molto più competenti e non hanno il bagaglio etico e personale di Trump.
Tuttavia Trump non ha adottato tale approccio esclusivamente in ragione della sua personale ossessione per la celebrità. Piuttosto lui sta sfruttando lo spirito del tempo, ossessionato con la celebrità, dove il contenuto dei messaggi conta meno del loro valore di intrattenimento.

Trump capitalizza la sottovalutazione della competenza e il declino dell’autorità, imbrigliando una specie di populismo rozzo alimentato da internet, da programmi radiofonici e da dibattiti televisivi. Tutto questo eleva la celebrità sulla competenza e ha reso il contenuto della politica meno importante rispetto a chi l’ha confezionato.

Le stesse forze hanno distrutto il centro politico, guidando il discorso verso l’ iper-partisan e rendendo il consenso o il compromesso elusivi.
Trump riconosce anche che una porzione considerevole del pubblico crede che quello che essi stessi definiscono come cultura americana sia sotto attacco. In parte, ciò è influenzato da ondate di immigrazione da parti del mondo poco-sviluppate o da zone colpite da conflitti; e dall’altra parte da una crescente diversità culturale, raziale, etnica e religiosa degli Stati Uniti, che ha amplificato le paure tra la classe bianca industriale delle tute blu che hanno, negli anni recenti, perso il lavoro e i mezzi di sostentamento con profondi spostamenti economici e tecnologi. Per molti membri di questo gruppo, le loro sofferenze economiche sono connesse con i movimenti culturali che si manifestano nella diversità e attraverso l’immigrazione. Trump ha compreso ciò e l’ha sfruttato, orientando il cambiamento culturale e l’immigrazione in temi di sicurezza nazionale, dal suo muro di frontiera al divieto di entrare negli Stati Uniti.
Trump, da solo, non ha creato questo culto della celebrità, l’era di iper-partisan, o il senso di frustrazione di una cultura sotto attacco. Ma ha capitalizzato su tutto questo, sviluppando uno stile di leadership che riflette tutto questo. Ciò ci suggerisce che Trump non è, in effetti, un’aberrazione.
L’immigrazione e la migrazione potrebbero essere istituzionalizzate come temi centrali di sicurezza. Preservare la cultura nazionale – i termini di cui saranno fortemente dibattuti – potrebbero diventare più importanti che gli interessi nazionali nel senso tradizionale. La scissione chiave che guida la politica estera e di sicurezza potrebbe non essere più l’ideologia o le sfide all’ordine mondiale – condotto dagli Stati Uniti – provenienti dalla Cina e dalla Russia. Invece, esso potrebbe essere la divisione creata da nazioni avanzate che cercano di preservare la loro prosperità e cultura erigendo esse stesse un muro e tagliandosi fuori dal resto del mondo.
Se ciò accadrà, gli storici futuri potrebbero vedere Donald Trump non come anormalità, ma qualcos’altro: un’onda su cui si muovono gli Stati Uniti, verso una nuova, imprevedibile e verosimilmente, spaventosa direzione.

 

Dicembre 12 2017

Gerusalemme, Trump, Israele e quel modo di riplasmare la realtà

Gerusalemme

 

Al momento non è possibile dire con certezza quanto ampio sarà  il contraccolpo  generato dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.

A livello regionale questo avvenimento sarà mitigato dai regimi che non vogliono concedere alcuna possibilità di dimostrazioni di ampia scala che possano sfuggire dal loro controllo, specialmente dopo quello che è accaduto con le Primavere arabe.

Ironicamente l’opposizione alla decisione di Trump ha posto l’Arabia Saudita e l’Iran dalla stessa parte  per la prima volta dopo molto tempo.

È possibile prevedere, ragionevolmente, che accadranno disordini e il malcontento crescerà, ma le implicazioni dell’annuncio di Trump vanno ben oltre quello che accade nelle strade.

Se ci si concentrasse su quanto le reazioni immediate siano “infiammatorie” si rischierebbe di perdere il punto:

la decisione di Trump di riconoscere unilateralmente Gerusalemme non solo danneggerà le prospettive di pace e la posizione nel mondo degli Stati Uniti, ma nuocerà al diritto internazionale e stabilirà un precedente per il futuro, negativo e con un potenziale devastatore.

Dalla dichiarazione di Trump risulta abbastanza palese che il Presidente degli Stati Uniti spera di evitare queste implicazioni allorquando concede una piccola rassicurazione: gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come la capitale di Israele, ma non necessariamente le frontiere della sovranità che Israele ha definito. Trump dichiara: “non stiamo prendendo una posizione sulle questioni dello status finale, incluse le specifiche frontiere della sovranità di Israele a Gerusalemme o la risoluzione della controversia sulle frontiere contestate“.

Assume un’importanza fondamentale e non dovrebbe essere sottovalutato il fatto che Israele ha passato gli ultimi 50 anni, dalla sua occupazione militare di West Bank iniziata dopo la guerra del 1967, a plasmare la realtà in flagrante violazione del diritto internazionale e del consenso internazionale.

Ciò include l’annessione unilaterale da parte di Israele dell’est Gerusalemme nel 1967 e l’espansione delle frontiere municipali in profondità nei territori palestinesi.

Il resto del mondo ha rifiutato con decisione di riconoscere queste mosse per mezzo secolo per una buona ragione: perché implicano l’acquisizione di territori attraverso la guerra, la costruzione di insediamenti a Gerusalemme, il trasferimento di israeliani nei territori occupati e la demolizione delle case dei palestinesi. Perché riconoscere queste realtà significa essenzialmente tollerare le violazioni del diritto internazionale, incluse le Convenzioni di Ginevra e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Va comunque detto che fissarsi sulla lista delle violazioni tende ad oscurare l’insieme di ciò che ha compiuto Israele: fabbricare una nuova Gerusalemme distinta da quella che ha catturato nel 1967, una città che calza nell’immagine che sta cercando di vendere al mondo e che Trump ha giust’appunto comperato. Essa è un’immagine di una città enormemente ebrea con un diretto, ininterrotto collegamento al passato biblico di cui i palestinesi non possono rivendicarne la legittimità.

Allo scopo di sostenere una tale realtà si deve dire al mondo che le violazioni di cui abbiamo parlato poco fa, incluso il cambiamento demografico di Gerusalemme operato con la forza, sono solo sbagliate al momento, ma che una volta che sono state compiute, esse sono accettabili. E se il mondo non è attento, non si dovrà attendere molto fino a quando Israele non avrà raggiunto lo stesso obiettivo nell’intera West Bank e gli Stati Uniti mostreranno il loro consenso anche a questa “realtà”.

Chi è il più contento? Il primo ministro israeliano B. Netanyahu e la politica che egli rappresenta. L’ala destra israeliana non ha mai voluto le negoziazioni, un processo di pace o uno Stato palestinese e non ne ha mai fatto segreto. La sua ideologia sottostante, stabilita dal leader Ze’ev Jabotinsky prima della creazione dello Stato di Israele è quella di creare una realtà sul terreno tale per cui gli arabi dovranno arrivare ad accettarla, una strategia conosciuta come il “muro d’acciaio“: portare i palestinesi a capitolare e non a negoziare in nome di questo “gioco”.

Senza esercito e senza sovranità, i palestinesi non esercitano alcuna influenza al tavolo di negoziazione con Israele. Tutto ciò che hanno è il diritto internazionale da una parte e quello che si suppone sia un arbitro neutrale dall’altra. Con la sua decisione su Gerusalemme Trump ha rapidamente eliminato entrambe le opportunità. Adesso tutto ciò che i palestinesi hanno è la loro abilità di non accettare i termini che sono stati imposti loro o semplicemente andarsene.
E forse questo è il vero scopo di quello che è accaduto nella scorsa settimana: di ammorbidire le aspettative e spostare la responsabilità attorno a quello che non tanto tempo fa Trump chiamava ottimisticamente il suo “sommo accordo” tra israeliani e palestinesi.

Trump, come molti presidenti americani prima di lui, hanno sottovalutato l’importanza che Gerusalemme rappresenta per coloro che sono in Palestina e nella Regione.

Per i palestinesi, l’est Gerusalemme non è semplicemente la capitale desiderata per il loro Stato futuro, ma una componente centrale della loro identità e della loro connessione con la terra. Questo tipo di legame non può essere facilmente spezzato.

Sul terreno a Gerusalemme, la decisione sicuramente scatenerà confronto e spargimento di sangue. Quest’anno, l’idea che Israele avrebbe alterato lo status quo della moschea Al-Aqsa inserendo delle telecamere di sicurezza e dei metal detectors ha scatenato settimane di disordini e dimostrazioni che hanno portato la città sull’orlo di un nuovo confronto violento.

Se Trump si aspetta che i palestinesi nelle strade si plachino per poche linee conciliatorie del suo goffo discorso, allora ha terribilmente sottovalutato cosa significhi per loro essere spogliati del diritto che la città rappresenta per loro.

Tuttavia data la reazione dei palestinesi, il più grande fattore a cui dedicare attenzione è il progetto di Israele di ri-plasmare i fatti sul terreno e il consenso di Trump ad esso.

 

Novembre 3 2017

Corea del Nord vs Trump: scenari possibili

Corea del Nord

La crisi tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti non sembra vicina ad una soluzione: ciò resta la più pericolosa minaccia a livello globale.

Mc Master il consigliere di sicurezza nazionale di Trump in una recente intervista ha dichiarato che il “solo risultato accettabile” per gli Stati Uniti è la denuclearizzazione della Corea del Nord. Quasi ogni esperto della Corea del Nord considera ciò impossibile dal momento che le armi nucleari sono la garanzia di sopravvivenza del regime di Kim e l’unico mezzo che attira l’attenzione che Kim sembra bramare.

Senza armi nucleari, la Corea del Nord è semplicemente povera, debole ed irrilevante.

Questo vicolo cieco ha condotto l’amministrazione Trump a parlare di un’azione militare preventiva contro la Corea del Nord.

Sebbene le minacce siano in qualche modo necessarie, sono straordinariamente pericolose: aumentano le possibilità di una percezione sbagliata o di un errore di valutazione che potrebbe condurre ad un confronto militare che nessuno vuole.
Come giusto che sia, la maggior parte delle analisi di un possibile conflitto tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti si concentrano sulle ripercussione sulla Penisola coreana stessa. Tuttavia le ripercussioni di un attacco non sarebbero limitate al Nord est dell’Asia, ma in grado di colpire gli Stati Uniti sia direttamente che indirettamente.

Cerchiamo allora di individuare gli scenari possibili e le verosimili conseguenze per ciascuno di essi.

a) Attacco militare limitato da parte degli Stati Uniti sui siti nucleari e missilistici del Nord Corea.

Vi è almeno una possibilità che Kim Jong Un comprenda che attaccare significherebbe la fine del suo regime e perciò risponderebbe con qualcosa di breve, forse con attacchi cyber o attacchi missilistici su obiettivi militari americani nelle vicinanze. Ciò comunque avrebbe degli effetti pericolosi. Anche una guerra limitata causerebbe panico nell’economia globale e scuoterebbe o limiterebbe i flussi commerciali. Riconoscendo che il confronto miliare potrebbe continuare o aumentare gli Stati, in grado di farlo, sposterebbero i loro affari e il commercio dal Nord Est Asia. Questo colpirebbe gli Stati Uniti direttamente, causando un corto-circuito alla crescita economica e innescando potenzialmente una recessione.
Le crisi economiche globali mettono a rischio, sempre, Stati fragili.

Un confronto militare tra gli Stati Uniti ed la Corea del Nord potrebbe causare il fallimento di nazioni lontane dalla Penisola coreana, fornendo uno spazio operativo per rivoluzionari o estremisti.

Massicci attacchi cyber da parte della Corea del Nord potrebbero avere effetti imprevedibili nel mondo, causando danni sia economici che politici.

Gli attacchi americani limitati sarebbero una chiara violazione del diritto internazionale e costituirebbero un atto di aggressione, la soft power americana verrebbe erosa in tutto il mondo.

Un attacco limitato da parte degli Stati Uniti potrebbe anche condurre Pyongyang a rispondere testando missili balistici nucleari o anche lanciando un’arma nucleare nell’atmosfera piuttosto che sottoterra. Ciò sarebbe molto più pericoloso di quanto compiuto finora dal regime di Kim e creerebbe una paura senza precedenti tra le nazioni dell’Asia e nel resto del mondo. Causerebbe, inoltre, un disastro umanitario ed ecologico dalla ricaduta radioattiva e innescherebbe una crisi economica globale che durerebbe anni se non decadi.

b) Il Nord Corea attacca con tutto il suo potere dopo l’attacco militare americano.

Sia il Nord che il Sud Corea sarebbero grandemente danneggiate. Le installazioni giapponesi e americane militari in Asia potrebbero essere prese di mira. Ciò devasterebbe l’economia globale, causando la distruzione del commercio, scuotendo le fondamenta dell’economia delle nazioni dipendenti dal commercio con l’Asia.

Come spesso è il caso, il rischio di un tale collasso economico aprirebbe la strada all’estremismo politico di tutti i generi, esacerbando i conflitti non solo in Asia ma anche in altri Paesi economicamente connessi alla Regione.
La Cina correrebbe un serio pericolo con una guerra di tale portata e le esportazioni che guidano la crescita economica e che Pechino utilizza per limitare il malcontento politico, sarebbero messe in grave pericolo dal momento che la prosperità è il fondamento della stabilità politica della Cina.
I flussi di rifugiati, più il coinvolgimento nella stabilizzazione e ricostruzione della Corea del Nord, stremerebbero ulteriormente la Cina.

Se la Cina traballasse, così sarebbe per il mondo, dato il suo ruolo centrale nell’economia globale.

La Cina potrebbe divenire anche più “militaristica” raddoppiando i suoi sforzi di espellere gli Stati Uniti dalla Regione dell’Asia-Pacifico.

Dopo un attacco alla Corea del Nord , la Corea del Sud certamente riesaminerebbe e probabilmente porrebbe fine alla sua relazione nell’ambito della sicurezza con gli Stati Uniti.

Il Giappone potrebbe fare lo stesso, temendo l’imprevedibilità dell’amministrazione Trump.

Molti altri Stati potrebbero essere spaventati dall’inosservanza degli Stati Uniti del diritto internazionale e diminuire i loro rispettivi legami politici e di sicurezza.

Sebbene sia impossibile sapere con precisione l’entità delle ricadute sia politiche ed economiche su vasta scala  di un attacco americano alla Corea del Nord, è chiaro che esse sarebbero potenti e molto traumatiche. Dunque conviene all’amministrazione Trump esaminare tutte le conseguenze anche quelle che potrebbero accadere lontano dalla Corea del Nord.

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.

Aprile 9 2017

Gli Stati Uniti e il dilemma dei dittatori “amici”

dittatori

Il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, per gli Stati Uniti torna il dilemma del “dittatore amico”.

Per tutta la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno lottato con il dilemma dei “dittatori amici”. Per un lungo periodo gli americani hanno creduto non solo che la democrazia fosse il solo sistema politico possibile ed il più giusto, ma che fosse quello che potesse rimanere stabile nel corso del tempo.

I dittatori potrebbero imporre l’ordine per un periodo, ma alla fine, la naturale necessità di  libertà provoca la loro caduta. Nelle giuste condizioni, la caduta di un dittatore potrebbe essere relativamente pacifica. Altre volte, invece scatena una pericoloso spasmo di violenza.

Malgrado ciò, nell’era della Guerra Fredda i politici americani hanno accettato ed anche abbracciato dittatori amici. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il problema non era stato risolto, ma si era sbiadito con le nascenti democrazie.

Ora che il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, il dilemma del dittatore amico è tornato.

Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump ha ripetutamente dichiarato che i recenti eventi  nel Medio Oriente hanno mostrato che i regimi autoritari sono caduti, il risultato è stato spesso l’instabilità che ha aperto la strada all’estremismo violento.

Dopo tutto lo “Stato islamico” non esisterebbe se il Presidente George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein dal potere.

Ritengo quantomai opportuno a questo punto fare una breve parentesi chiarificatoria sulla nascita dello “Stato islamico”, se non altro per coloro che come me non credono ai complotti, ma si basano su fatti realmente accaduti.

L’affermazione: “ lo – stato islamico – non esisterebbe se George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein” è vera, ma sarebbe più corretto articolarla in questo modo:

se l’amministrazione Bush non avesse deciso, a quel tempo, anche di radere al suolo, il 9 giugno 2006, la leadership di Al Qaeda in Iraq (AQI), gettando nelle mani del Mujahidin Shura Council le sorti del movimento jihadista locale. Questa organizzazione “ombrello” che coordinava i vari insorti combattenti a Falluyiah annunciò, il 12 ottobre 2006, l’alleanza di altre fazioni e di leader sunniti conosciuta come “the alliance of the scented ones”, gruppo dedicato a combattere l’occupazione americana. Fu quest’ultimo gruppo che il 15 ottobre 2006 annunciò la creazione di “Islamic State of Iraq.

Torniamo ai giorni nostri e alle dichiarazioni di Trump a proposito dell’essere più tollerante con i dittatori del Medio Oriente.

Un giorno dopo aver dichiarato “la mia attitudine verso la Siria ed Assad è cambiata molto”, Trump ordina un attacco missilistico su una base aerea siriana nella provincia di Homs.
La domanda sorge spontanea: “l’amministrazione Trump adesso lavorerà per la rimozione di Assad? Solo una settimana dopo averlo definito “una realtà politica che dobbiamo accettare?”

I dittatori rimossi: cosa ci insegna il passato

Una potenziale lezione dal passato potrebbe essere tratta dal rovesciamento di Saddam Hussein e del dittatore libico Mohammar Gadhafi. Questi casi suggeriscono che mentre gli uomini forti del Medio Oriente cadono, il potere scivola nelle mani degli estremisti. Con tutti i loro difetti, i despoti iracheni e libici, hanno tenuto sotto controllo il jihadismo e così, dalla loro prospettiva, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto far altro che tollerarli.

La rivoluzione iraniana del 1970 ci suggerisce qualcosa di molto differente. Quando lo Shah sostenuto dagli Stati Uniti, Mohammad Reza Pahlavi, fu rovesciato, il regime teocratico rivoluzionario che lo rimpiazzò, era fortemente anti-americano.

Gli Stati Uniti continuano a pagare il prezzo per aver sostenuto così fortemente lo Shah.

La lezione qui è che, nel lungo periodo, una stretta associazione con un autocrate è una cattiva idea.

Adesso la questione è: quale lezione dovrebbe guidare la politica americana, quella che viene dall’Iraq e dalla Libia o quella dell’Iran?

Se le lezioni della Libia e dell’Iraq contano di più, allora forse i legami più stretti con el-Sissi sono una buona idea per Washington e dovrebbe smettere di dichiarare di rimuovere Assad dal potere.

Ma se la lezione dell’Iran resta valida, allora abbracciare el-Sissi e tollerare Assad danneggerà gli interessi degli Stati Uniti quando questi dittatori cadranno e i dittatori inevitabilmente cadono.

La politica dell’ “abbraccio ai dittatori amici” ci avverte di costi ed effetti avversi che potrebbero verificarsi al di fuori del paese nel quale viene applicata: scoraggia potenzialmente i movimenti democratici nascenti e diminuisce la percezione di moderatezza da parte dei dittatori.

Se la domanda è: la minaccia proveniente dall’estremismo violento islamico giustifica i rischi di “abbracciare” i dittatori del Medio Oriente?

Suggeriamo come risposta: no.

Nei casi in cui gli Stati Uniti sono rimasti fuori e forze interne hanno fatto cadere i regimi autoritari, Egitto sotto Mubarak, Tunisia sotto Zine al Abidine ben Ali, i risultati lontani dall’essere perfetti, non hanno avuto come conseguenza nazioni governate da estremisti o  che direttamente sostengono l’estremismo transnazionale.

Le linee  con 56 sfumature di rosso

Trump  dovrebbe specificare quali sono le linee rosse, e se non altro farci capire se lui le vede sfumate o no. All’indomani dell’attacco chimico in Siria dichiara che questa situazione ha varcato tutte le linee quando solo una settimana prima aveva dichiarato che Assad è una realtà politica da accettare. Forse le linee di Trump sono sfumate? E el-Sissi? quante sfumature di rosso repressione da parte del regime egiziano sarà disposto a tollerare Trump?

Forse dovrebbe concentrarsi sul fatto che avere a che fare con i dittatori è sempre una situazione colma di pericolo. Lui e i suoi advisor dovrebbero aprire un libro di storia e ricordarsi che in Iran nel 1970 gli Stati Uniti fecero un errore strategico talmente grande di cui ancora pagano il prezzo.

Gennaio 20 2017

Chi sfiderà per primo Donald Trump?

Donald Trump

Quale sarà il primo avversario a sfidare il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump?

Non tutte le sfide sono uguali, quella che arriva dalla Cina è senz’altro la più importante.

Il 20 gennaio è arrivato. Donald Trump giura come Presidente degli Stati Uniti.

Chi sono gli avversari degli Stati Uniti che quasi certamente sfideranno il presidente Donald Trump, già da subito, mettendo alla prova la sua inesperienza negli affari di sicurezza nazionale e la sua propensione a personalizzare le interazioni politiche?

La forza di carattere della nuova amministrazione americana si vedrà proprio nella risposta di Trump e del suo team a queste sfide e questo, di conseguenza, determinerà se altri avversari lanceranno nuove sfide agli Stati Uniti.

Quello che non è chiaro è chi sarà il primo a lanciare la sfida.

Russia

che appare di aver lanciato un assalto multidimensionale per indebolire le democrazie occidentali, sembra essere probabilmente l’ultima a sfidare la nuova amministrazione. Tutti i segnali ci indicano che Donald Trump si troverà bene con Putin. Il primo ha mostrato poca preoccupazione per gli attacchi cyber della Russia, per gli interventi nel processo elettorale degli Stati Uniti e l’aggressione contro gli Stati confinanti.

Perciò Putin guadagnerebbe poco dal testare apertamente l’amministrazione Trump, almeno nel breve periodo.

Iran

è improbabile che lanci una maggiore sfida alla nuova amministrazione. Molto pesantemente, oserei dire, coinvolto nella guerra civile siriana, deve anche affrontare un’irrequieta giovane popolazione locale;

per cui Teheran potrebbe continuare con le provocazioni di basso livello, ma avrebbe poco da guadagnare da un confronto maggiore.

Mentre Donald Trump ha manifestato la sua volontà rinegoziare l’accordo nucleare con l’Iran, Teheran ha rifiutato questa idea. E senza un fronte unificato che comprende l’Europa, la Russia e la Cina, gli Stati Uniti non possono apporre sufficiente pressione sull’Iran per obbligarla ad accettare delle condizioni più restrittive di quelle già applicate. Washington e Teheran probabilmente si lanceranno occhiatacce l’un l’altro mentre salgono piano piano la scala del confronto.

“Stato islamico”

raddoppierà i suoi sforzi per lanciare attacchi negli Stati Uniti o contro obiettivi americani all’estero. Alcuni potrebbero riuscire: è quasi impossibile anche per un programma di contro-terrorismo altamente efficace essere al 100% di successo. Tuttavia lo “Stato islamico” non sta rivelando i suoi piani e ha una piccola capacità di escalation.

Tutti i segnali puntano alla regione Asia-Pacifico come la zona più pericolosa, fin da subito per l’amministrazione Trump, una combinazione di avversari potenti con una ostilità accresciuta per gli Stati Uniti.

Nord Corea

sfiderà l’amministrazione Trump se non altro per le minacce, le intimidazioni e le sbruffonerie che sono diventate una vera e propria procedura operativa per la dittatura ereditaria di Kim. Trump potrebbe ordinare alle forze militari americane di distruggere ogni missile balistico di lungo raggio che il Nord Corea testerà, ma è difficile da immaginare quello che possa fare al di là di questo.

Il regime del Nord Corea bizzarro ed incostante potrebbe attaccare gli Stati confinanti, possibilmente con armi nucleari, se sentisse allentare la sua presa al potere. Se si sbriciolasse, una crisi umanitaria imponente e una guerra civile devastante molto probabilmente seguiranno, facendo cadere la crescita economica asiatica e quindi quella dell’intero mondo.

I vicini del Nord Corea sanno questo e farebbero tutto quello che è  in loro potere per evitare di provocare il regime di Kim al punto dell’aggressione o spingerlo al collasso. Questo stabilisce precisi limiti a quello che gli Stati Uniti possono fare diversamente da bombardamenti limitati alle infrastrutture militari nord coreane. Niente nella storia della dinastia Kim ci suggerisce che questo darebbe il via ad una maggiore compostezza e moderazione.

Il più preoccupante avversario di tutti: la Cina.

Mentre Washington e Beijing hanno avuto delle relazioni di sicurezza tese per un certo numero di anni, particolarmente quando la Cina si è mossa per affermare il controllo di parti del mare nel sud della Cina, le due nazioni erano economicamente intrecciate e condividevano interessi nella stabilità regionale e globale.

Adesso le relazioni tra i due potrebbero essere velocemente disintegrate. In tutta la campagna presidenziale, Donald Trump è stato molto critico su quello che lui vede come un’ineguaglianza nella relazione economica tra gli Stati Uniti e la Cina. Da quando, poi, ha vinto le elezioni, ha messo in discussione la politica di lungo corso di “one China” che riconosce Beijing e non Taiwan come il solo rappresentante diplomatico della nazione cinese.

Più recentemente, Rex Tillerson, la nomina di Trump come Segretario di Stato, ha comparato, nella seduta di conferma del Senato, la politica della Cina di costruire isole e usarle poi come base per rivendicazioni giuridiche di grandi parti del mare del Sud della Cina, all’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014.

La Cina considera Taiwan e il mare del Sud della Cina come interessi vitali nazionali e quindi farà molto per difendere la sua posizione, possibilmente usando anche la forza militare. E diversamente da altri avversari americani, la Cina ha molteplici vie per colpire gli Stati Unti, inclusa, non solo l’azione militare, ma anche la pressione economica e l’aggressione cyber.

La retorica di Trump e Tillerson potrebbe tentare di applicare le tecniche della negoziazione in affari alla sicurezza nazionale, rivendicando una posizione iniziale estrema sull’aspettativa che più tardi persuadranno l’altra parte ad accettare di meno. Ma nel mondo degli affari il peggio che può succedere se uno stratagemma di questo tipo fallisce è che l’accordo si rovina. Nel regno della sicurezza, c’è il potenziale per uno spargimento di sangue, un disastro, una crisi globale se le due più grandi economie del mondo inciampiassero in un conflitto.

Gennaio 5 2017

PKK: lo stesso messaggio per Erdogan e per Trump

PKK

La una soluzione pacifica per il conflitto curdo sembra essere più distante che mai. Il PKK ha poche opzioni a sua disposizione: la soluzione militare alla questione curda sembra essere quella per cui ha optato. Il messaggio dal PKK, dal TAK, al governo turco e all’entrante amministrazione Trump sembra essere forte e chiaro.

Una settimana prima di Natale la Turchia aveva subito un altro attacco terroristico, una bomba in una macchina la cui esplosione ha causato la morte di 13 soldati e ne ha feriti 55 nella città di Kayseri. Sebbene, messo in ombra dall’assassinio, qualche giorno più tardi, dell’ambasciatore russo in Turchia, la bomba è esplosa qualche settimana dopo un doppio attacco suicida che aveva ucciso 44 poliziotti e ne aveva feriti 150 fuori dallo stadio di Istanbul.

Mentre non c’è stata una rivendicazione immediata per l’attentato di Kayseri, evidenze abbastanza solide segnalano che si tratta degli stessi perpetratori dell’attacco del 10 dicembre: il Kurdistan Freedom Falcons (TAK), un ramo molto ben conosciuto, del PKK ovvero il partito dei lavoratori curdo. La rapida successione degli attacchi ci indica che malgrado 20 mesi di combattimenti nell’est della Turchia tra PKK ed esercito turco, il PKK è ben lontano dall’essere sconfitto.

E qualche ora fa c’è stato un attentato con un’autobomba e un uomo armato nella città di Smirne, gli ufficiali turchi hanno già indicato i militanti curdi come i responsabili.

Sembra che l’elezione di Trump negli Stati Uniti abbia trasformato una brutta situazione, in Turchia, in un incubo per il PKK e che l’unica opzione a disposizione dei curdi sia attaccare lo Stato turco.

Chi è il TAK?

Il TAK ha aumentato la sua levatura nel 2005 con attacchi ai resort della costa turca, intesi a colpire il settore del turismo. Mentre alcuni analisti di sicurezza credono che il TAK si sia separato dal PKK, la maggior parte degli studiosi del gruppo come Vera Eccarius-Kellu, Metin Gurcan, lo identificano come affiliato “genericamente” al PKK.

È stato sostenuto che il PKK si “affida” al TAK per attacchi su soft target che potrebbero danneggiare la reputazione del gruppo o esercitare una pressione sullo Stato turco durante le negoziazioni di pace.

Mentre si crede che sia finanziato e sostenuto logisticamente dal PKK,

il TAK sembra essere indipendente nel selezionare gli obiettivi e nella tempistica degli attacchi.

La narrativa della divisione PKK-TAK contiene il beneficio di una verosimile negabilità, da parte del PKK, delle azioni del TAK.

Nel caso degli attacchi di Kayser e Istanbul, c’è ragione di credere che gli attentati siano stati pienamente coordinati con il comando del PKK nelle montagne Qandil che confinano con l’Iraq e che il destinatario inteso del messaggio contenuto negli attacchi non solo era il presidente Erdogan, ma il presidente–eletto americano.

Sebbene sia prematuro affermare quali politiche l’amministrazione Trump perseguirà con la Turchia e per il conflitto curdo, c’è una buona ragione per credere che, per il PKK, Trump a Washington sia una sciagura.

Le dinamiche politiche e militari sul terreno e quello che si conosce delle priorità strategiche di Trump ci suggeriscono un riavvicinamento Trump, Erdogan, Putin quando si tratta di Siria.

Trump non ha lasciato dubbi sul fatto che, se la sconfitta dello “Stato islamico” e la stabilizzazione della Siria significassero Assad ancora al potere, pagherà il prezzo che ci sarà da pagare.

Questo cambiamento nella politica americana ovviamente si armonizza con gli obiettivi russi in Siria.

A ciò si deve aggiungere la dichiarazione aperta di Erdogan che la rimozione di Assad non è più una priorità per Ankara. Il Presidente turco dichiara, piuttosto, che una priorità è prevenire che il Syrian Kurdish Democratic Union Party, o PYD, un affiliato del PKK,  stabilisca un “quasi – State” autonomo nel nord della Siria, simile al Kurdistan iracheno.

Cosa interessa a Trump

Questo tipo di riallineamento di interessi tra gli Stati Uniti, la Turchia e la Russia si preannuncia come una vera e propria calamità per il PYD e per estensione per il PKK, che ha beneficiato dall’avere come alleato il PYD, attore chiave nella coalizione internazionale contro lo “Stato islamico”.

Per l’amministrazione Trump, il PYD e i curdi siriani importano solo fino a quando forniscono le forze sul terreno per combattere lo “Stato islamico” esplosione dopo esplosione.
Una volta che lo “Stato islamico” sarà stato sconfitto o degradato significativamente, lo scenario per i curdi siriani sarebbe, verosimilmente, quello di essere scaricati dai nuovi sostenitori siriani e lasciati  in balia di Turchia e Assad.

Ci sembra improbabile che Trump si preoccupi molto della situazione dei diritti umani in Turchia, soprattutto perché quello che veramente importa a Trump è la posizione strategica della Turchia nello sconfiggere lo Stato islamico e nel controbattere la crescente influenza iraniana nella regione, non il destino della libertà di stampa, la minoranza curda o i diritti dei dissidenti politici.

Tutto questo concede ad Erdogan briglie sciolte per occuparsi del PKK e del PYD in Siria come si sente più a suo agio. In Siria, la battaglia per la città strategica a nord, al-Bab, vicino alla frontiera turca, continua ad infuriare, ponendo le forze ribelle pro-turche e l’esercito turco contro la milizia PYD, conosciuta come YPG (People’s protection Unit), così come contro lo “Stato islamico”. Nel frattempo Erdogan continua il suo giro di vite sul HDP, il Peoples’ Democratic Party a radice curda. I suoi leader più importanti sono stati arrestati e i fedelissimi di Erdogan hanno perquisito tutti gli uffici del partito nel paese.

In questo contesto, con una soluzione pacifica per il conflitto curdo più distante che mai, ci sono poche opzioni a disposizione del PKK. Sembra che quest’ultimo abbia scelto la soluzione militare ed il messaggio dal PKK, dal TAK, al governo turco e all’entrante amministrazione Trump sembra essere forte e chiaro.

Non ci sfugge neanche che gli Stati Uniti hanno considerato il PKK un gruppo terroristico dal 1997 e che preoccupazioni per i diritti curdi, l’autodeterminazione che sia in Turchia o in Siria, non è stata mai una priorità per gli Stati Uniti.

Novembre 24 2016

Quando l’ignoto diventa una certezza nelle analisi: il caso Trump

ignoto

Il caso Trump stimola a riflettere che commentare l’ignoto di quello che sarà ci espone soltanto alla demagogia.

Quando si produce un’analisi di politica internazionale, ci si deve confrontare inevitabilmente con l’ignoto, con quello che non sappiamo del futuro. Si fanno supposizioni su quello che potrebbe ragionevolmente accadere. Uno dei segreti di ogni analista, professionista, di politica internazionale (di seguito solo analista n.d.r) è quello di attenersi ai fatti il più possibile e non cadere nella trappola della certezza dell’ignoto e scivolare inesorabilmente nella demagogia.

L’analista parte dai fatti e si attiene ai fatti e non c’è esempio migliore del “caso Trump” per stimolarci a riflettere su questa differenza fondamentale tra l’analista, il commentatore e il tuttologo .

In questo post quindi seguiremo il filo conduttore: “atteniamoci ai fatti” e partiamo proprio da due circostanze reali:

1. Donald Trump presterà giuramento come 45° presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 2017 alle 13 (ora locale). Il capo della Corte Suprema John Roberts amministrerà il giuramento sulla scalinata di Capitol Hill. Dopo il giuramento, Trump terrà un discorso, che passerà alla storia, sì, ma come tutti i discorsi inaugurali di tutti i 44 presidenti degli Stati Uniti prima di lui.
2. Non deve essere esagerata la grandezza dell’incertezza che circonda tutto quello che il Presidente Trump metterà in pratica realmente.

L’ultimo punto va preso in seria considerazione proprio perché gli Stati Uniti non sono una dittatura o una monarchia e neanche un regime autocratico. La Costituzione degli Stati Uniti unitamente al controllo e bilanciamento dei poteri garantiscono che Trump sia il Presidente di una Repubblica, dove la democrazia è assolutamente garantita e protetta.

L’analisi dell’incertezza

Ebbene sì, l’incertezza va analizzata. L’analista deve entrare nel profondo delle situazioni e cercare di comprendere da dove originano, perché nella radice quasi sempre risiede anche la causa. 

L’incertezza che circonda e oserei dire impernia il neoeletto Presidente degli Stati Uniti è costituita da diverse componenti.

Parte di questa incertezza è la diretta conseguenza dell’abilità straordinaria di Trump, di assumere ogni posizione per ogni argomento (ultimo caso, dopo che Trump ha ripetutamente criticato la NATO come sovrastimata e obsoleta nel corso della sua campagna, abbiamo appreso dal presidente Obama – ancora in carica – che Trump (il presidente eletto) lo ha rassicurato, nell’ufficio ovale, che “non c’è nessun indebolimento” nell’impegno americano “verso il mantenimento di una forte e robusta alleanza NATO”).

Un’altra parte di incertezza scaturisce dall’ “apparente” profondità dell’ignoranza stessa di Donald Trump su ciò che può o non può fare il potere esecutivo degli Stati Uniti.

Un ulteriore spicchio di incertezza è dato dalla burocrazia federale. Da quanto è stato raccontato dalla stampa, i funzionari, i professionisti del Dipartimento di Stato, della Difesa, della Giustizia, dell’Homeland Security, delle Agenzie di intelligence sono molto combattuti se restare a loro posto o andare via proprio per la straordinaria novità della nuova leadership.

Cambiare rotta alla nave americana non è così semplice

Alcuni presidenti americani hanno sperimentato giorno dopo giorno che l’apparato americano rende estremamente difficile che si possa cambiare rotta alla nave così con un occhiolino ed una stretta di mano anche per chi ha avuto intenzioni più chiare e le più grandi competenze burocratiche.

Ci sono pochissime indicazioni (per ora) che l’amministrazione entrante abbia intenzioni cristalline e alte competenze burocratiche.

Trump come potrebbe utilizzare i considerevoli poteri che ha a disposizione in politica estera?

A noi interessa la politica estera e quindi l’analisi ci spinge a chiederci in quale maniera il neoeletto presidente potrebbe utilizzare i suoi considerevoli poteri in politica estera in modi unici e senza precedenti.

  • Recedere dagli accordi sul commercio potrebbe essere un tema maggiore della sua amministrazione.
  • Ci sembra in un certo modo meno notata la possibilità che Trump adempia alle sue promesse di campagna elettorale e riconosca Gerusalemme come capitale di Israele.

La Corte Suprema degli Stati Uniti recentemente ha confermato nella sentenza Zivotofsky v Kerry che la Costituzione degli Stati Uniti accorda al Presidente il potere esclusivo di riconoscere nazioni estere e governi. Questo potere include, sostiene la Corte Suprema, il potere esclusivo di negare il riconoscimento di Gerusalemme come la capitale di Israele. Il Congresso non può violare questo potere richiedendo per esempio che il Presidente emetta passaporti che designano Gerusalemme come parte di Israele. Dunque, il potere di esclusivo riconoscimento si dilata fino a riconoscere quanto lontano una sovranità straniera si estende, come se Israele abbia o meno la sovranità su Gerusalemme.

È plausibile che Donald Trump porti a termine la sua promessa elettorale di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e muovere l’ambasciata americana lì.

In questo modo però potrebbe violare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 242 e altre risoluzioni. Certamente, l’Autorità Palestinese è pronta a fare l’inferno se Trump adempisse alla sua promessa.

È altresì vero il fatto che molti presidenti americani hanno promesso di fare ciò durante le loro campagne elettorali e poi sono stati consigliati dal loro Dipartimento di Stato  (dopo essere entrati in carica) che fare ciò avrebbe minato il processo di pace nel Medio Oriente o qualcosa del genere. Questo però potrebbe essere meno probabile se l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, pro-Israele verrà nominato Segretario di Stato.

Come avrete notato l’ipotesi che ciò avvenga si basa su dichiarazioni di Trump e sulla giurisprudenza americana. Quindi, tenendo fermo il punto che quello che avverrà realmente in questa situazione non lo sapremo mai con certezza finché non accadrà in pratica, si è analizzato quello che è in suo potere fare da un punto di vista estremamente fattuale, portando ad esempio le regole del diritto domestico e ciò che è accaduto in merito a questa situazione prima di lui.

Le implicazioni internazionali della presidenza Trump

Come detto all’inizio commentare l’ignoto ci farebbe cadere nel baratro della demagogia. Fermo restando che le implicazioni internazionali della sua presidenza potrebbero essere enormi: riconfigurazioni radicali e riallineamenti nelle alleanze degli Stati Uniti e ordini regionali in Europa e in Asia con effetti che contengono in sé il rischio di destabilizzazione. Non c’è dubbio che le sue posizioni minaccino i cardini dell’ordine liberalizzato, iniziando dal commercio globale, passando per il multilateralismo e la diplomazia.

Piuttosto ci sembra interessante inquadrare qual è una vera minaccia all’ordine internazionale liberale.

Il populismo nazionalista una vera minaccia all’ordine internazionale liberale.

A nostro avviso è più preoccupante che le stesse frustrazioni e tendenze che hanno dato potere alla vittoria di Trump – l’ineguaglianza dei redditi, la deindustrializzazione, l’esclusione politica e socio-economica e un senso di perduta identità nazionale, si siano manifestate ovunque, particolarmente in Europa.

In maniera più ampia, la generalizzata ansia che incarna il mondo fuori dalle frontiere nazionali come una minaccia piuttosto che come un’opportunità rende il populismo nazionalista una soluzione confortevole piuttosto che una tentazione pericolosa e fuorviante.

A meno che le cause di questi problemi reali siano spiegate effettivamente e i loro effetti efficacemente indirizzati, le narrative semplicistiche offerte dai Trump del mondo, Le Pens, Farages e Wilders continueranno a vincere.

L’ordine liberale è anche minacciato da grandi potenze  come la Russia e la Cina, potenze medie come la Turchia e l’Iran, e più generalmente dall’incremento della multipolarità del mondo.

Le parentesi chiuse del momento storico del dopo guerra fredda hanno dato via a un periodo dove le sfere regionali di influenza sono diventate l’oggetto di fiere rivalità e l’uso della forza ancora una volta è uno strumento accettabile di potere geopolitico. Questo solleva la vera, reale, possibilità che conflitti localizzati e limitati diventino una norma, specialmente se gli Stati Uniti da soli assumessero più le caratteristiche di una potenza “normale” trasformata al suo interno.

Ed è proprio qui che si possono ragionevolmente collegare, in maniera significativa, le implicazioni domestiche con quelle internazionali della presidenza Trump.

La presupposizione degli Stati Uniti come nazione indispensabile, guardiana e protrettrice dell’ordine globale e della sicurezza è basata sull’assunzione che essa si farà carico di un onere fuori misura. In cambio però gli Stati Uniti godono di grandi benefici per la loro posizione come “egemone globale”, non da ultimo riguardo ai suoi costi dei prestiti come emettitore di riserva mondiale di valuta.

Trumpxit: le implicazioni giuridiche della presidenza Trump

A questo punto l’analista esamina la situazione da un punto di vista estremamente reale: il diritto. Le regole di legge sono quello che di più concreto si ha a disposizione per chiarire quello che il Presidente neoletto degli Stati Uniti ha il potere di compiere in politica estera.

Da un punto di vista giuridico, non vi è dubbio che il Presidente Trump abbia il potere legale di terminare l’Accordo di Parigi e l’Accordo con l’Iran nel suo primo giorno di lavoro senza l’autorizzazione del Congresso. Entrambi questi due accordi sono stati conclusi come accordi di solo (unico) esecutivo e la maggior parte delle disposizioni sono legalmente accordi politici non vincolanti.

Non è in verità così chiaro se il Presidente possa unilateralmente recedere dal NAFTA e altri accordi di commercio perché questi accordi sono stati codificati da uno statuto. Questo potrebbe sollevare lo scenario “Brexit” dove si è impigliata oggi la Gran Bretagna.

Azioni militari in Siria

Gli Stati Uniti sono impegnati attualmente in una sorta di “conflitto armato” in Siria che non sembra chiaramente confarsi alle categorie della Convenzione di Ginevra perché possa configurarsi come un conflitto armato non internazionale oppure come un conflitto armato internazionale. Sul fronte giuridico domestico, il Congresso degli Stati Uniti non ha specificatamente autorizzato l’azione in Siria, rendendo la sua legalità domestica quantomeno discutibile.

Il Presidente Trump dovrà decidere come inquadrare  il conflitto in Siria secondo il diritto internazionale e secondo il diritto costituzionale americano.

All’analista viene sempre posta una domanda da un milione di dollari che in questo caso potrebbe essere: “Trump cosa farà riguardo alla Siria?“. Qui non si tratta di fare i maghi, ma di guardare i fatti fin qui.

Obama si è approcciato alla Siria considerandolo un conflitto armato non internazionale contro lo “Stato islamico” utilizzando l “Authorization for use of military force against terrorism” del 2001 come strumento di legalità dell’intervento. Trump potrebbe adottare lo stesso approccio avendo appunto questa autorizzazione del Congresso all’uso della forza contro i terroristi.

La questione però necessita di un’attenzione più seria e puntuale da parte dell’amministrazione Trump perché sono molti quelli che sollevano dei seri dubbi che le azioni americane siano legali da un punto di vista di diritto internazionale.

Qui la lezione da trarre, cari lettori è più ampia: le regole giuridiche e i processi contano più di quello che pensate. Un traguardo politico brillante che taglia gli angoli della legge avrà un costo.

Importante! Non esagerare la minaccia che Trump pone alla democrazia americana.

I controlli e i bilanciamenti costruiti nell’architettura costituzionale e istituzionale della nazione sono stati disegnati dai fondatori per contrastare le due minacce che porta in sé Trump: la tirannia e il potere mafioso. Hanno sempre funzionato per correggere gli sbilanciamenti anche se solo temporanei come il mccarthismo o gli eccessi fuori dalla legalità di Nixon oppure oltraggi come il razzismo ed il sessismo.

Non c’è ragione per credere che il sistema di controlli e bilanciamenti non sia aumentato ora, specialmente vista l’alta vigilanza di coloro che sono allarmati da Trump Presidente degli Stati Uniti.