Aprile 23 2019

Attentati in Sri Lanka: 11 spunti di riflessione

Sri Lanka

Gli attentati di domenica (il giorno di Pasqua per i cristiani cattolici) sono passati nel silenzio della stampa italiana, fino a quando il Governo dello Sri Lanka non ha iniziato a parlare di “rete internazionale”. Lo stesso governo dello Sri Lanka afferma che gli attentati siano una rappresaglia al massacro nella moschea in Nuova Zelanda avvenuto il 15 marzo scorso.

Condivido con voi alcuni spunti di riflessione che ho scritto mentre si susseguivano le varie notizie:

  1. il massacro in Nuova Zelanda, a Christchurh è avvenuto il 15 marzo e per pianificare un attentato come quello in Sri Lanka è necessario molto più tempo, se non fosse altro per l’alto livello di sofisticazione di questo attentato;
  2. l’Agenzia nazionale di intelligence indiana ha iniziato ad avvertire il governo dello Sri Lanka su possibili attentati il 4 aprile, 19 giorni dopo il massacro a Christchurch. Un attacco come quello in Sri Lanka ha bisogno di molto più tempo per essere pianificato;
  3. il governo dello Sri Lanka è sotto pressione perchè ha ignorato gli avvertimenti, è conveniente (per loro) affermare che questo attentato era inevitabile – riferendosi a reti internazionali – sapendo di non aver fatto nulla o molto poco per prevenire gli attacchi o perlomeno per agire sugli avvertimenti dell’intelligence indiana;
  4. l’attacco manca di tanti degli elementi di stile di molte delle operazioni dell’IS (Stato islamico): dalla fonte al ritardo nella rivendicazione. 48 ore dopo è una circostanza del tutto nuova ed inusuale per questa organizzazione. L’IS non ha menzionato Christchurch nella rivendicazione;
  5. la dichiarazione diffusa dai canali ufficiali dell’IS elenca il commando degli attentatori, chi si trovava a quale chiesa o hotel, ma non menziona il massacro di Christchurch;
  6. un piano di questa natura che coinvolge almeno 7 attentatori suicida vuol dire che non si tratta di una piccola cellula. Pensate solo a tutte le persone che si sono dovute occupare della logistica, dell’esplosivo ad esempio;
  7. quando si ha il coinvolgimento di tutte queste persone, è necessario che si abbia una buona sicurezza operativa, vale a dire che si sia sicuri, molto sicuri, che nessuno faccia trapelare il piano;
  8. tre dei noms de guerre utilizzati nella dichiarazione IS corrispondono a nomi forniti da un sostenitore non ufficiale di IS su canali Telegram che alimentano la propaganda dell’organizzazione, corredati da foto dei presunti attentatori con una bandiera dell’IS (bandiera di fortuna) con sotto la data 21 aprile;
  9. la coordinazione e la letalità degli attacchi suggeriscono un acume non comune alla maggior parte delle organizzazioni estremiste, specialmente entità locali.
  10. La minoranza musulmana nello Sri Lanka è una comunità che è stata a lungo vittima di sistematiche discriminazioni e pregiudizi sia da parte della maggioranza cingalese che dalla più grande minoranza dei tamil. Rapporti di radicalizzazione da parte di influenze esterne si possono far risalire ad almeno due decadi fa.
  11. Recentemente e non con sorpresa, qualcosa come due dozzine di musulmani dello Sri Lanka hanno lasciato il Paese per combattere con lo Stato islamico. Inaspettatamente lo Stato islamico è comparso nelle Filippine due anni fa, quindi un’apparizione potenziale nello Sri Lanka in connessione con gli attacchi di domenica non può essere completamente ignorata.

Se gli attacchi in Sri Lanka saranno definitivamente collegati all’IS, messi assieme all’attentato fallito dell’IS, sempre domenica, in Arabia Saudita e quello riuscito a Kabul, unitamente al diffondersi dell’organizzazione in Congo, la concentrazione di questo tipo di sviluppi potrebbe indicare che l’IS si sta riprendendo dalle sconfitte che ha sofferto in Siria, Iraq e Libia negli ultimi anni e ritorna ad essere minaccioso come movimento transnazionale estremista – terrorista con la capacità di sincronizzare attentati in molteplici Paesi.

Gennaio 16 2019

Al-Shabaab chi sono, cosa vogliono

Al-Shabaab
Al-Shabaab chi sono e cosa vogliono?

Al-Shabaab ha come obiettivo quello di rovesciare il governo di Mogadiscio, utilizzando regolarmente attentatori suicidi contro il governo, i militari ed i civili.

Al Shabaab significa “la giovinezza” in arabo; è la più grande organizzazione militante che cerca di controllare il territorio somalo per stabilire una società basata sulla rigida interpretazione della Shariah. Tuttavia, il gruppo conduce attacchi anche in Paesi vicini come il Kenya.

Origini

Shabaab è emerso come organizzazione indipendente intorno al dicembre del 2006 dopo il dissolvimento dell’Unione delle Corti islamiche (UCI), per la quale rappresentava il braccio militare.

Prima di ciò le origini del gruppo restano ambigue. Il suo primo leader: Aden Hashi Ayro, in un primo momento si era unito ad un movimento islamista chiamato Al Ittihad Al Islamiya (AIAI) nel 1991, un movimento all’interno del sistema giudiziario somalo, che voleva prendere il controllo della Somalia. Ayro potrebbe aver guidato un gruppo blando di militanti AIAI e ciò significherebbe che Al-Shabaab potrebbe essere esistito in una qualche forma prima di costituire la branca militare dell’Unione delle Corti. Tuttavia, Al-Shabaab principalmente si è sviluppato come parte dell’UCI ed Ayro ha contribuito al reclutamento e all’addestramento dei militanti. Le prime attività del gruppo includevano multipli assassini di lavoratori internazionali nel Somaliland tra il 2003 ed il 2005 così come il disseppellimento del cimitero italiano nel 2005. Inoltre, Al Shabaab ha sostenuto l’utilizzo della violenta rappresaglia contro i lavoratori del Governo Federale Transitorio della Somalia dopo che diversi membri dell’ICU furono assassinati nel 2005, presumibilmente dal GFT.
A metà del 2006, l’UCI ottenne il controllo della Somalia centrale e del Sud. Ayro voleva connettere la battaglia somala con l’agenda del jihad globale, ma altri leader dell’UCI invece volevano piuttosto focalizzarsi su obiettivi nazionalisti e creare uno Stato islamico in Somalia. Alla fine del 2006, le Nazioni Unite con le truppe etiopi spingono l’UCI fuori da Mogadiscio, circostanza che fa collassare l’Unione che presto si scioglie. Ayro e Al Shabaab rimangono però attivi.

L’invasione etiope della Somalia rappresenta un evento cruciale per Al-Shabaab, alimentando risentimento contro una forza straniera occupante e permettendo ad Al-Shabaab di diventare la maggiore forza di resistenza in Somalia.

Sebbene Al-Shabaab si focalizzasse sull’attacco alle forze etiopi e dell’Unione Africana, il gruppo cercava anche di connettere la sua causa con il movimento globale jihadista, specialmente attraendo combattenti stranieri e promuovendo una relazione con Al Qaeda. I leader di Al Shabaab e di Al Qaeda raggiunsero relazioni reciproche positive, Al Shabaab offrì rifugio a membri di Al Qaeda nella regione.
Nel 2008 la relazione tra i due gruppi si stringe. Nel Maggio dello stesso anno, Ayro viene ucciso in un bombardamento americano e Ahmed Abdi Godane, chiamato anche Mukhtar Abu Zubeyr, diventa il leader del gruppo. Pubblica una dichiarazione in cui elogia Al Qaeda ed esplicitamente si sposta verso l’enfatizzazione della battaglia in Somalia come parte del jihad globale.

Al Shabaab inizia ad allinearsi ad Al Qaeda sia nell’ideologia che nella tattica e ad avere come obiettivi i civili con attacchi suicida molto più frequenti. La leadership dell’organizzazione inizia ad includere molti dei membri Al Qaeda. Al-Shabaab fa leva sulla sua relazione con Al Qaeda per attrarre combattenti stranieri (c.d. foreign fighters) e donazioni in denaro dai sostenitori di Al Qaeda. Inoltre, membri di Al-Shabaab viaggiano all’estero per addestrarsi con Al Qaeda.

2009: Al-Shabaab giura alleanza ad Al Qaeda

All’inizio del 2009, dopo una serie di attacchi contro obiettivi americani e delle Nazioni Unite in Somalia e contro le truppe etiopi, Al-Shabaab diffonde un video in cui formalmente giura alleanza ad Al Qaeda.

2012: Al Qaeda annuncia formalmente una fusione tra le due organizzazioni.

Pur tuttavia Al Shabaab e ad Al Qaeda continuano ad identificarsi come organizzazioni separate.
Nell’aprile del 2015, i militanti di Al Shabaab attaccano l’università Garissa in Kenya uccidendo almeno 147 persone. Il gruppo rivendica l’attacco come mezzo per spingere le truppe keniote a ritirarsi dalla Somalia.
Nel 2015, lo “Stato islamico” (IS) diffonde un video in cui invita Al Shabaab, come il più prominente gruppo jihadista dell’Est Africa, a giurare alleanza a loro, l’IS. Qualcuno ha sussurrato che Al Shabaab potrebbe accettare la richiesta, ma per ora Al Shabaab resta “fedele” ad Al Qaeda.

Al-Shabaab: la leadership

Hassan Dahir Aweys. Ci si riferisce a lui come al leader spirituale del gruppo, ma la sua precisa relazione con il gruppo non è chiara. Aweys ha guidato il braccio militante dell’AIAI. Arrestato dal governo somalo nel giugno del 2013, l’anno successivo fu trasferito dalla prigione agli arresti domiciliari.

Mahad Mohammed Karate. Capo di Amniyat, il ramo intelligence del gruppo, che fu responsabile dell’attacco all’università Garissa. Qualche volta Karate è stato descritto come il vice comandante di Al Shabaab. È stato ucciso dalle forze di difesa keniote nel febbraio del 2016, ma il gruppo nega la sua morte.

Ahmad Umar. Chiamato anche Abu Ubaidah, nominato nuovo leader nel settembre del 2014, subito dopo che Godane fu ucciso in un bombardamento americano. Non ci sono molte informazioni disponibili su di lui.

Al-Shabaab: ideologia e obiettivi

Ideologia: islamista, jihadista, salafista.
L’obiettivo principale è quello di far cadere il governo somalo e di stabilire un emirato islamico nel paese basato su una stretta interpretazione della Sharia.

In aggiunta ad i suoi obiettivi in Somalia,

Al Shabaab ha adottato in maniera sempre maggiore un orientamento che prevede l’inquadramento della battaglia somala come parte del movimento jihadista globale.

Il primo leader del gruppo, Ayro, aveva ricevuto l’addestramento in Afghanistan e ha modellato il principi del gruppo intorno agli obiettivi dei Talebani. Nei territori che controlla, Al Shabaab, ad esempio ha messo in pratica un sistema di punizione tale per cui i ladri sono puniti con l’amputazione delle mani e le donne accusate di adulterio con la lapidazione. Il gruppo ha anche vietato attività come la musica, i video, radersi. Nello sforzo di liberare il paese dall’influenza straniera, Al-Shabaab ha chiuso la BBC accusandola di promuovere un’agenda colonialista anti- musulmana.

Al-Shabaab: risorse

Ha ricevuto finanziamenti e addestramento da jihadisti stranieri di Al Qaeda. Ha ottenuto fondi anche da comunità della diaspora somala, incluso quella che si trova negli Stati Uniti. Nel 2010, ad esempio, 14 americani sono stati accusati di sostenere materialmente e di raccogliere fondi per Al-Shabaab.
I governi americano e somalo hanno accusato l’Eritrea di sostenere Al Shabaab attraverso armi e finanziamenti. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che altri paesi e gruppi forniscono al gruppo missili, armi e addestramento in violazione dell’embargo sulle armi imposto alla Somalia del 1992. I gruppi e i paesi accusati includono: Djibouti, l’Iran, la Siria, la Libia, l’Eigitto, l’Arabia Saudita ed Hezbollah.

Al-Shabaab: un pericolo molto maggiore rispetto allo “Stato islamico” in Somalia

Lo “Stato islamico”(IS) ha ricevuto una buona notizia dalla Somalia l’anno scorso, quando ad ottobre, una piccola fazione militante, allineata allo “Stato islamico” ha preso il controllo di Qandala, una città portuale nel nord del paese, per più di un mese, per poi ritirarsi. È stata la prima volta che un gruppo legato all’IS ha occupato una città in Somalia.

Al-Shabaab resta un gruppo molto più pericoloso dell’IS.

Lo “Stato islamico” desidera una presenza in Somalia e ha fatto la corte ad Al-Shabaab per due anni. Tuttavia Al-Shabaab controlla strisce di territorio in Somalia, in una regione piena di paesi pro – occidentali.
Come abbiamo visto Al-Shabaab ed Al Qaeda condividono una lunga storia. Molti fondatori del gruppo somalo si sono addestrati nei campi afghani di Al Qaeda, da quando il primo leader del gruppo ha incontrato Osama bin Laden nel 1998. Un gran numero di prominenti membri di Al Qaeda in Africa dell’Est si sono associati ad Al-Shabaab, incluso Fazul Abdullah Mohammed, uno degli individui coinvolti nell’attentato all’ambasciata di Nairobi; era anche dietro all’attentato del 2002 al hotel e alla compagnia aerea nella costa del Kenya.

Se Al-Shabaab avesse dovuto unirsi all’IS, l’avrebbe fatto da un bel pezzo quando i benefici erano più chiari.

Il marchio dell’IS recentemente è stato macchiato dalle sue perdite in Siria, Iraq e Libia ed ha meno capacità, adesso, di fornire ad Al-Shabaab un supporto operativo significativo.
Al-Shabaab probabilmente ha notato quanto poco beneficio il gruppo estremista nigeriano Boko Haram ha ottenuto dall’essersi unito ufficialmente all’IS nel 2015. La scorsa estate l’IS ha accelerato un potenziale scisma all’interno di Boko Haram nominando un emiro rivale di Abubakar Shekau, che ha guidato Boko Haram dal 2010.
Al-Shabaab ha reso chiaro a chi è fedele, resistendo alle aperture dell’IS e cacciando letteralmente i suoi stessi membri sospettati di simpatizzare con l’IS.

Voci dell’apertura allo “Stato islamico” da parte del leader di Al-Shabaab (che non si sa se sia vivo o meno)

Tuttavia l’odierna fedeltà del gruppo estremista somalo con Al Qaeda non preclude per sempre uno spostamento verso l’IS. Ci sono voci che Mahad Karate, il potente leader dell’unità Amnyat nutra delle simpatie per lo “Stato islamico”. Sebbene non si sappia per certo se sia vivo o meno, se sostenesse l’unione con l’IS, e se ciò avvenisse, richiederebbe molto probabilmente un’operazione di purga della maggior parte dell’odierna leadership del gruppo somalo.
Va detto che dopo che Abdiqadir Mumin, il leader della fazione che per poco ha preso il controllo di Qandala, ha dichiarato la sua alleanza all’IS (ottobre 2015), i militanti di Al-Shabaab hanno attaccato alcuni dei suoi uomini, costringendoli a nascondersi per venire fuori solo per prendere la città portuale.

Le lusinghe dello “Stato islamico” al popolo somalo

Da parte sua l’IS adesso pare che cerchi di aggirare il gruppo rivolgendosi direttamente al popolo somalo. Ha infatti diffuso un video, lo scorso anno, in cui rivolgendosi ai somali promette una governance migliore rispetto al draconiano regno di Al-Shabaab.
Molto difficile da vendere!

Nel caotico ambiente della Somalia, i gruppi militanti e i movimenti estremisti tradizionalmente hanno costruito le lealtà o essendo al forza dominante, oppure fornendo servizi alla popolazione, in taluni casi: facendo entrambi.

Vincere il consenso o la fedeltà dei somali è, al momento, al di fuori della capacità dello “Stato islamico”.

Tutto ciò fa sì che Al-Shabaab resti la minaccia più rilevante in Somalia e resterà così per il prossimo futuro. 

Il suo principale antagonista: la missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) è sempre più fragile e fratturata.
Il governo somalo, che dovrebbe essere il più forte competitore di Al Shabaab per vincere i cuori e le menti dei somali, non si fa amare dai suoi cittadini per la corruzione che lo pervade.

Cosa si potrebbe cercare di fare?

Le forze militari che combattono Al-Shabaab dovrebbero mantenere, se non incrementare, la loro pressione per creare uno spazio sufficiente allo state – building somalo. Questo includerà lo screditare la violenta interpretazione dell’Islam che motiva la leadership del gruppo estremista e che attira reclute.
Uno dei maggiori sforzi dovrebbe essere condotto dal governo somalo nella direzione di fornire più governance competente e al più presto.

Dicembre 30 2018

Perché è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS

vittoria IS

L’impronta fisica dello Stato Islamico (IS) e la sua leadership di più alto livello sono state erose dalla coalizione globale che è stata in grado di limitare le capacità dell’organizzazione nei teatri di conflitto in un modo tale per cui le possibilità che l’IS lanci un’altra offensiva di vasta scala in Siria ed Iraq risultano essere sempre più esili.

Tuttavia, è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS : secondo stime ufficiali, tra i 20 e i 30 mila militanti IS, incluso migliaia di Foreign Fighters, restano in Siria ed in Iraq.

L’IS con tutta probabilità si è ritirato in aree meno popolate e rurali e ha iniziato ad operare in maniera più nascosta e decentralizzata.

Molte delle previsioni fatte dopo il collasso dello Stato islamico nel 2017, per cui ci furono dichiarazioni di vittoria di alcuni, tra cui i Presidenti degli Stati Uniti, dell’Egitto, dell’Iraq, della Russia e delle Filippine, non raggiungevano una precisione ed un’accuratezza tale per cui poi si sono materializzate pienamente.

Il 9 dicembre 2017, la sconfitta dell’IS in Iraq fu proclamata fragorosamente dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dalla sua controparte irachena, il Primo Ministro Haider el-Abadi.

La loro dichiarazione è giunta davvero troppo presto.

L’IS è un gruppo multidimensionale che simultaneamente opera sia come un proto-Stato che come una rete transnazionale estremista che utilizza la tattica del terrorismo. (Per un approfondimento sulla struttura e la composizione di questo gruppo vi rimando al libro: “Governare l’estremo“).

Le azioni cinetiche di successo contro la prima dimensione non hanno risolto la minaccia della seconda. Se volessimo ragionare secondo categorie è possibile affermare che se IS non è più uno Stato, esso resta una potente organizzazione estremista religiosa.

La minaccia globale, inoltre, potrebbe essersi incrementata, dal momento che i Foreign Fighters di ritorno drenano intelligence, risorse politiche e simpatizzanti nei loro Paesi di origine. Essere stati lasciati senza un Califfato a cui fare ritorno,  vuol dire che potrebbero invece rivolgere la loro attenzione ad obiettivi nei loro Paesi e focalizzarsi su nuovi modus operandi.

La prospettiva dell’IS di cooperare con altre organizzazioni jihadiste come Al Qaeda, è improbabile perché, malgrado siano entrambe parte del movimento jihadista globale, esse differiscono troppo in termini di ambizioni ideologiche e strategiche.

Inoltre, dal momento che IS, senza un suo proprio proto-Stato, sarebbe incapace di imporre tasse ai civili, probabilmente cercherà di trovare altri mezzi con cui finanziarsi.

Malgrado il  collasso materiale dell’IS – cioè del suo territorio – sia innegabile,

l’ideologia su cui si basa rimane viva e vegeta.

Agli occhi dei suoi sostenitori più devoti, non esiste qualcosa come uno stato “post-Califfato”. Al contrario, l’IS è diventato abile ed esperto ad etichettare i suoi fallimenti come meramente fasi di una strada più lunga verso la vittoria. Ed è cruciale che i decisori politici tengano nella dovuta considerazione tutto ciò.

La battaglia per sconfiggere completamente l’IS sarà difficile.

L’organizzazione ha, ora, solo cambiato traiettoria; si concentra su operazioni “colpisci-e-fuggi” calibrate verso l’indebolimento della stabilità e il discredito dello Stato. Tutto questo è realizzato attraverso un’attenta strategia di destabilizzazione: le reti di cellule “dormienti” stanno lavorando in maniera sistematica allo scopo di sovvertire la sicurezza nei territori liberati dalla presenza dell’IS. Ad esempio a Raqqa e nei suoi dintorni, in località come Kirkuk nell’est dell’Iraq,  attacchi IED (Improvised Explosive Device) e assassini vengono perpetrati su base quasi quotidiana; l’IS sta continuando a prendere slancio, apparentemente senza freni. Perciò, anche senza le sue ultime roccaforti urbane, l’IS continuerà, presumibilmente, a fare tutto quello che può per perpetuare l’instabilità regionale.

Pur volendo porre Siria e Iraq da una parte, la marea di sfide presentante dalla rete globale dell’IS continuano a metastatizzarsi. I suoi affiliati continuano ad affermare se stessi al di là della Regione del Medio Oriente, particolarmente in Paesi in cui mancano istituzioni statali forti; in alcuni casi, hanno accelerato le loro operazioni. In Afghanistan, ad esempio, la “Provincia Khurasan” del Califfato è stata ascendente nel 2018. Sebbene operativamente sia confinata ad un piccolo territorio nell’est del Paese, la sua capacità di impiegare il terrorismo suicida nel resto dell’Afghanistan è sconcertante e, in maniera preoccupante, mostra pochi segnali di indebolimento.

Qualcuno ha pensato alla minaccia derivante da altri gruppi jihadisti?

L’IS è lontano dall’essere il solo gruppo jihadista lì fuori. Sebbene abbia dominato molto del discorso concernente l’impatto di lungo termine del conflitto siriano e la politica di contro-terrorismo, lontani dall’attenzione pubblica ci sono gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che, basato nella provincia siriana di Idlib, si è sviluppato e ha impiegato un’agenda politica pragmatica e scaltra rivelatesi funzionale con le popolazioni locali. In netto contrasto con l’IS, HTS è stato relativamente permissivo sulla questione delle politiche religiose. Inoltre, perseguendo una strategia di socializzazione concepita per primo da Abu Firas al-Suri – un ex ufficiale della Shariah in Jabhat al – Nusra (predecessore di HTS), il gruppo ha sospeso l’implementazione delle punizioni corporali e capitali per promuovere una misura di interdipendenza tra esso e la popolazione che governa. Dato che questo tipo di pene, conosciute come hudud, sono considerate una parte centrale del codice penale islamico, pene che si applicano a crimini e reati contro Dio (non contro lo Stato o gli uomini), ciò è controverso, e ampiamente criticato all’interno della comunità jihadista. Tuttavia ciò sembra aver pagato: HTS è, adesso, profondamente inserito nel cuore della Siria del nord, e, proprio come fece l’IS, fornisce servizi essenziali di governance. Ha creato consigli locali e gestisce (e quindi sfrutta) le risorse locali. Mentre HTS non è più parte di Al Qaeda, la sua ideologia jihadista rimane strettamente allineata ad esso. Resta preoccupante che esso sia stato in grado di stabilirsi come gruppo politico e militare predominante nella Regione. Mentre, a questo stadio, le sue priorità appaiano più interne alla Siria, esso potrebbe un giorno cambiare e i decisori politici dovrebbero prenderlo in considerazione.

Altre forme di estremismo

Ultimamente si è verificato uno sbilanciamento politico strutturale per cui si rischia di considerare il contrasto ai gruppi jihadisti come la priorità a spese del contrasto ad altre forme di estremismo. Negli anni recenti, l’estremismo ispirato dall’IS ha assorbito la porzione più grande di forze di sicurezza e di risorse di intelligence – e giustamente, vista l’estensione della minaccia del gruppo. Tuttavia, ciò è avvenuto ad un costo: quello di non investire quelle risorse da qualche altra parte e, nel frattempo, in Europa, gruppi estremisti di -estrema-  destra si sono sviluppati e attivati. Essi hanno beneficiato sia della crescente polarizzazione nelle società europee che di un ambiente di sicurezza inattivo, in cui i governi sono incapaci di rispondere in maniera appropriata alla loro ascesa. È cruciale che più risorse sia devolute verso la mitigazione di questa sfida emergente.

L’IS sta praticando un gioco lungo, dunque le politiche di contro-terrorismo devono continuare ad esercitare una pressione sulle reti logistiche di supporto all’organizzazione

L’IS sta praticando un gioco lungo, e i suoi leader sono ben consci del fatto che le loro capacità materiali sono legate ad un flusso di ascesa e discesa nel corso della battaglia. Con questo a mente, le politiche di contro-terrorismo in Europa devono continuare ad esercitare un alto grado di pressione sulle reti logistiche di supporto dell’IS, anche se il gruppo appare essere inattivo. Sebbene la prassi operativa dei jihadisti sembra essere diventata meno tecnologica rispetto al 2016 e al 2017, assalti complessi sono ancora nella lista. Inoltre, ora vi è un incentivo a (ri)tornare ad operazioni più sofisticate e di vasta scala, dato che le notizie ed il discorso pubblico iniziano ad essere assuefatti ad attacchi con coltelli e veicoli. Ragionando nel lungo-termine, i decisori politici devono cercare di sviluppare una legislazione efficace e strumenti sociali che affrontino la minaccia potenziale dei militanti estremisti di ritorno e degli ideologhi – e questo dovrebbe includere lo sviluppo di istituzioni penali all’interno dei Paesi in cui questi personaggi vivono.

Ora non è il momento di lanciarsi in dichiarazioni di vittoria. Anche se la minaccia IS appare essere meno pressante di quanto lo fosse nel 2016 e nel 2017, la minaccia che esso rappresenta è reale e durevole.

La pressione del contro-terrorismo deve tenere il passo, anche continuando ad incoraggiare le società ad essere resilienti ed inclusive. Per fare ciò è necessario che gli interessi di breve-termine che ci concentrano sulle politiche elettorali non ostruiscano la realizzazione di politiche efficaci di lungo termine.

 

Gennaio 13 2018

Il nemico del nemico. Il nemico interno nella galassia estremista islamica.

nemico

La Siria, l’Egitto, l’Iraq, lo Yemen, la Libia, la Nigeria, la Regione del Sahel, la Somalia, la Cecenia, le Filippine, la Regione Afghanistan-Pakistan hanno tutti subito operazioni ovvero attacchi ad opera di organizzazioni estremiste islamiche, di differente intensità, ma con una caratteristica comune: il nemico principale è il governo nazionale e i gruppi religiosi opposti.

Curiosamente, l’intensificazione della lotta jihadista contro sia obiettivi occidentali che governi nazionali nel mondo islamico si pone in correlazione con la comparsa del più importante esempio di contesa e di competizione intra-jihadista nei tempi moderni tra Al Qaeda e l’Islamic State (IS)

La categoria del nemico interno

La competizione jihadista ha sottolineato l’importanza di una categoria di nemico frequentemente trascurata: il nemico interno, in riferimento ad altri gruppi all’interno della corrente jihadista.
Sia per Al Qaeda che per l’IS il nemico interno ha assunto un’importanza crescente, tuttavia i due gruppi hanno affrontato questa delicata questione in molti modi diversi.

La competizione inter-gruppo ha colpito la gerarchia degli obiettivi del nemico delle due organizzazioni estremiste islamiche.

La contesa e la competizione tra gruppi jihadisti non è una situazione nuova. Donatella dalla Porta ci spiega che « le organizzazioni radicali, come altre organizzazioni politiche, mirano ad attrarre simpatizzanti attraverso struttura, azioni e cornici che sono appropriate per la propaganda. Nel fare ciò, le organizzazioni clandestine competono in un campo affollato di organizzazioni dove hanno la necessità di offrire di più dei loro competitori».

Dal 2014 in poi in quasi tutte le riviste di Al Qaeda e IS è stata pubblicata una condanna implicita o esplicita all’altro gruppo.

Agli occhi dell’IS, Al Qaeda aveva deviato dalla corretta metodologia jihadista di Osama bin Laden; i suoi membri venivano chiamati addirittura gli “ebrei del jihad” mentre venivano diffusi i poster di “wanted dead” che ritraevano Zawahiri e altre figure di spicco di Al Qaeda.

Dalla prospettiva di Al Qaeda, l’IS è un gruppo di estremisti che senza alcun diritto hanno rivendicato di essere i soli legittimi sostenitori del jihad senza alcuna autorità. Quando Al Qaeda, nel gennaio del 2014 ha stabilito AQIS (Al Qaeda nel subcontinente indiano) l’emergente competizione con l’IS sicuramente ha giocato un ruolo importante.

L’introduzione della categoria “nemico interno” nella gerarchia del nemico dei gruppi jihadisti è una testimonianza della natura competitiva ed esclusivista dell’attuale jihadismo. Essa ha spinto i gruppi jihadisti a trovare ragioni fondamentali che legittimassero la lotta contro attori che naturalmente e storicamente erano considerati alleati e, in casi estremi, ha anche comportato l’etichettare altri jihadisti come apostati.

I gruppi jihadisti solitamente, quando si tratta di affermare chi combattono, vengono rinchiusi in caselle e spesso le conclusioni a cui giungono questo tipo di classificazioni non sono il risultato di una ricerca approfondita.

Fino a poco tempo fa, Al Qaeda era conosciuta come il più noto sostenitore del jihad globale, mentre l’ISI (Islamic State in Iraq) era conosciuto semplicemente come il nemico vicino dei regimi locali.

La competizione intra-jihadista che è comparsa nei primi mesi del 2014 ha cambiato significativamente questa percezione stereotipata. Il risultato è stato un importante cambiamento nelle gerarchie del nemico di questi due  gruppi jihadisti.

La crescente “ibridizzazione” della gerarchia del nemico dell’IS ha avuto come conseguenza l’adozione da parte dell’organizzazione estremista di un forte focus sul nemico lontano (l’Occidente) sia nei discorsi che nell’azione.
La diminuzione dell’ “ibridizzazione” di Al Qaeda ha avuto come conseguenza che tale organizzazione si astenesse da attacchi contro l’Occidente, fatta eccezione per i discorsi.
Il nemico interno è diventato un obiettivo legittimo.

Chi offre di più?

Nella letteratura sul terrorismo, il concetto di “offrire di più” ha ricoperto un ruolo dominante nella teoria che spiega l’effetto della competizione tra i gruppi terroristici sul loro comportamento. La logica dell’offrire di più dimostra le capacità del gruppo, la dedizione e le intenzioni del gruppo agli altri gruppi.
La competizione si verifica quando gruppi che condividono un’ideologia (o quasi la stessa ideologia) iniziano a prendersi di mira l’un l’altro attraverso parole ovvero azioni o quando adottano nuove strategie ovvero tattiche determinate dal successo del gruppo rivale.
Sembra plausibile poter sostenere che la competizione tra Al Qaeda e l’IS è emersa realmente dal febbraio del 2014 in poi quando iniziarono a verificarsi delle lotte interne in maniera regolare.

La crescita dell’IS, senza dubbio ha influenzato come gli altri gruppi jihadisti, incluso Al Qaeda, vengono percepiti sia riguardo all’essere “estremisti” sia in termini di minaccia. Ciò ha rappresentato per Al Qaeda un’opportunità di posizionarsi in una luce positiva in contrasto alla barbarie dell’IS. Il rischio per Al Qaeda, tuttavia, è che sia superata e considerata obsoleta.

Dalla prospettiva della lotta per il potere all’interno del movimento jihadista globale, sembra che si siano attivati due meccanismi:

  1. per l’IS il processo di offrire di più inizia attorno al 2014 come modo per sfidare la supremazia di Al Qaeda. L’intensificazione di tattiche raccapriccianti come la registrazione video delle decapitazioni e il bruciare i prigionieri possono essere considerati esempi dell’offrire di più a livello tattico mentre il suo concentrarsi sempre di più su obiettivi internazionali equivale ad un offrire di più a livello strategico.
  2. Già preoccupata della sua immagine popolare molto prima della nascita dell’IS, Al Qaeda ha esitato a seguire l’esempio del suo competitore più violento, malgrado il suo iniziale successo, e si è bloccato su un approccio basato sulla diversificazione del rischio. Per diversificazione del rischio s’intende un approccio più conservatore per cui un attore si astiene dal prendere una posizione chiara con l’obiettivo di non compiere un errore futuro. Nel caso di Al Qaeda, come parte della sua mutata strategia si è per lo più astenuta dall’organizzare o dirigere attacchi in Occidente con l’obiettivo di vincere il sostegno delle popolazioni locali nelle sue aree di operazioni. Allo stesso tempo Al Qaeda continua a porre enfasi sull’Occidente nei suoi discorsi allo scopo di non perdere il supporto dalla sua base più radicale.

Quale nemico combattono?

Il nemico interno è una questione molto delicata sia da un punto di vista giurisprudenziale islamico, dal momento che riguarda l’illegalità di spargere sangue musulmano che dovrebbe essere evitato perché potrebbe dare luogo ad una dissidio interno (fitna), sia da una prospettiva strategica.

Combattere il nemico interno inteso come altri gruppi che sono considerati parte della comunità jihadista sunnita e che condividono in una qualche maniera una simile ideologia, è una circostanza che raramente si è verificata prima della contesa esplosa tra Al Qaeda e l’IS.

Le lotte interne tra i gruppi jihadisti si verificano ora su base regolare in Siria e  in altre aree dove entrambi i gruppi sono presenti. Ad esempio dopo aver annunciato la creazione della provincia Khorasan nel gennaio del 2015, l’IS ha iniziato a combattere contro i Talebani.

Il contesto

L’ideologia esercita un’influenza enorme nella definizione delle gerarchie nemiche, tuttavia è altrettanto importante  il contesto in cui questi gruppi si trovano.

Un elemento importante del contesto è il grado di dissenso intra-jihadista e la potenziale, successiva, competizione.
Il conflitto all’interno del movimento jihadista ha conseguentemente invaso e dominato le dinamiche del jihadismo sunnita.

Gli attacchi a Parigi del gennaio del 2015: uno ad opera dei fratelli Kouachi contro Charlie Hebdo e rivendicato da Al Qaeda e l’altro ad opera di Coulibaly, che giurava alleanza all’IS, sono interessanti in questo contesto dal momento che Coulibaly presumibilmente aiutò i fratelli Kouachi.

Ciò mostra che ci è voluto un po’ di tempo affinché la rivalità jihadista si manifestasse al di fuori della Regione del Medio Oriente. Una simile cooperazione oggi è altamente improbabile se non impensabile.

In conclusione:

In maniera interessante, le dinamiche che si sono scatenate dalla relazione competitiva all’interno del movimento jihadista hanno colpito enormemente la gerarchia del nemico sia in termini di scopo che di priorità e di categorie. Non solo l’IS ha superato Al Qaeda come principale perpetratore di attacchi in Occidente, ma la sua aggressività contro altri gruppi jihadisti ha dato vita all’introduzione di una nuova categoria estremamente delicata: il nemico interno.
Per l’IS il processo di “offrire di più” intra-jihadista ha condotto all’espansione strategica del focus sull’Occidente, il cosidetto “nemico lontano”; mentre per Al Qaeda la logica della diversificazione del rischio ha rafforzato la sua nuova strategia, già adottata, per vincere i cuori e le menti dei musulmani distanziandosi essa stessa dall’eccessiva violenza dell’IS.
Le gerarchie del nemico sono tuttavia dinamiche per cui la diminuzione degli attacchi di Al Qaeda in Occidente non deve portarci alla conclusione che esso non è più un gruppo jihadista globale, ma piuttosto deve condurci a considerare che le preferenze, le capacità, hanno subito, temporaneamente, un cambiamento come risultato di un contesto.

Dicembre 19 2017

Governare l’estremo. Il progetto di Stato islamico da Al Qaeda all’Islamic State

Il libro di Barbara Faccenda

Lo potete acquistare su Morlacchi editore; Mondadori Store; Amazon; Libreria Universitaria; o ordinarlo alla Feltrinelli Librerie. In Umbria è anche disponibile presso la Libreria Grande a Ponte San Giovanni (PG).

La capacità degli attori non-statali violenti, e fra questi l’IS (Islamic State), di fornire servizi essenziali alla popolazione, di provvedere alla loro sicurezza e di esercitare un uso esclusivo della forza nei territori che controllano, ha potuto concretizzarsi in un proto-Stato in aree caratterizzate da conflitto protratto, statualità fragile o failed. Diversamente da Al Qaeda e suoi affiliati, l’evoluzione del progetto statuale dalla proclamazione del califfato da parte dell’IS – con la costituzione di una serie di strutture tipiche dello Stato, l’attuazione di rigide regole e il controllo di ampie porzioni di territorio – costituisce una sorta di proto-Stato jihadista che nega virtualmente il c.d. «ordine mondiale vestfaliano», compresi i nomi propri degli Stati esistenti e le loro frontiere. Questo libro esamina le cause, la struttura e il funzionamento dell’IS al fine di individuare le misure più appropriate, efficaci e di lungo termine nell’azione internazionale di contrasto che è in corso. In questa ottica, l’IS non viene considerato solo una mera organizzazione estremista religiosa che utilizza la tattica del terrorismo, ma come un’evoluzione qualitativa de facto del modello di Al-Qaeda, non solo nella sua strategia militare ma anche nell’attuazione di una governance sociale che si è dimostrata sorprendentemente efficace in ambienti instabili.

Settembre 6 2017

La comunicazione dei terroristi: l’assecondiamo o la combattiamo?

comunicazione

Negli ultimi mesi l’organizzazione estremista religiosa, IS (islamic state), ha dedicato molto tempo e risorse alla realizzazione e diffusione delle sue campagne di comunicazione, soprattutto nell’intento di reclutamento e di stimolo per i suoi seguaci sul campo di battaglia.

Partiamo dal presupposto che al cuore di qualsiasi campagna di omunicazione inclusiva vi sono due tipi di strategia di messaggistica: difensiva ed offensiva (d’attacco):

per definizione la contro-narrative sono intrinsecamente difensive.

Le campagne di comunicazione di successo uniscono sia la messaggistica difensiva che quella offensiva, con l’ultima che domina.

Le contro-narrative rispondono meramente ai messaggi di opposizione, permettendo agli ideatori di questi ultimi di stabilire il terreno su cui sarà combattuta la battaglia della comunicazione e mantenere il controllo della narrativa.

A meno che non sia assolutamente necessario, le campagne di comunicazione dovrebbero evitare di rispondere ai messaggi di opposizione perché ciò semplicemente ripete e rinforza il loro messaggio.

Di per sé, una campagna si conclude parlando di quello che l’oppositore vuole si parli, permettendogli di stabilire la narrativa. Rispondendo ai messaggi dell’oppositore, gli permettiamo di stabilire il terreno su cui la battaglia della comunicazione sarà combattuta.

I messaggi offensivi cioè ostili, per contrasto, attaccano l’oppositore spingendolo sulla difensiva, richiedendogli un dispendio di risorse per contrastare il messaggio.

I mezzi attraverso cui prendere il controllo della narrativa che stabiliscono i termini del dibattito, sono fondamentali.

Diversamente dalla messaggistica difensiva che si concentra sul messaggio dell’oppositore, “andare all’attacco” conferisce l’opportunità di diffondere i propri messaggi chiave.

L’IS ha sviluppato una strategia sofisticata di “esca mediatica” in cui diffondono propaganda costruita per ottenere una risposta tipica, allo scopo di creare opportunità per essi stessi di sfruttare flussi di messaggistica secondaria precedentemente confezionati.

Un esempio noto, sebbene crudele, è il video ” guarire il torace dei credenti”, in cui si mostrava il pilota giordano bruciato vivo: quando l’occidente ha risposto con messaggi di condanna della barbarie dell’IS, quest’ultimo era pronto a rispondere portando l’attenzione sull’ipocrisia della disapprovazione, dal momento che non vi erano stati simili manifestazioni di sdegno per i bambini musulmani bruciati vivi quotidianamente dai bombardamenti aerei, provando in tal modo che l’occidente si preoccupasse di più di un pilota che dei tanti civili musulmani uccisi nei bombardamenti.

In breve, la nostra fretta di rispondere ha fatto (e purtroppo continua a fare) il gioco dell’IS: con l’impazienza nella competizione per contrastare la loro narrativa, corriamo il rischio, al meglio, di combattere una guerra di parole sui loro termini cadendo nelle loro trappole e rafforzando la loro narrativa.

Un recente esempio è quello della diffusione massiccia di un post su Twitter in cui utenti di un canale Telegram suggerivano di colpire l’Italia. La diffusione attraverso ogni mezzo, tv, stampa, radio, dibattiti, non ha fatto altro che rafforzare la narrativa dell’IS, peraltro distribuendo il loro messaggio principale: terrore, paura e senso di insicurezza.

Probabilmente il limite maggiore in questi casi è l’approccio frammentario delle comunicazioni e la mancanza di comprensione della reale necessità di una campagna di comunicazione multidimensionale ed integrata. Campagne di comunicazione di successo sono una costruzione complessa, composta da molteplici, differenti, tipi di messaggi (offensivi, difensivi, identità, scelta razionale) distribuiti attraverso mezzi multiformi (online, stampa, tv, radio, discorsi pubblici), tutto a sostegno di una narrativa centrale che viene consolidata sincronizzandola con l’azione sul terreno.

Oltre che naïve è certamente destinata a fallire una campagna di comunicazione che risponde solo concentrandosi su un tipo di messaggistica in uno sforzo isolato quando contro vi è una campagna integrata.

La somma della campagna di comunicazione IS è sicuramente più grande delle sue singole parti.

Mentre i politici sembrano inclini a comprendere la portata e la sofisticazione delle campagne di comunicazione necessarie per farsi eleggere, è giunto il momento che comprendano che è necessario intraprendere lo stesso sforzo per fronteggiare la propaganda IS.

Luglio 15 2017

Stati Uniti e Iraq: ora non ripetete gli errori del passato!

Stati Uniti

La liberazione di Mosul dall’IS (Islamic state) è una buona notizia, ma l’IS è ben lungi dall’essere stato eliminato. A questo punto gli Stati Uniti devono valutare attentamente le prossime mosse, per evitare gli errori del passato, quando, dopo il 2007, lasciarono l’Iraq senza una strategia precisa e il paese cadde nuovamente vittima dell’estremismo religioso.          

Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi dichiara Mosul libera dalle forze dell’IS, il risultato di una delle più lunghe e devastanti battaglie urbane del ventunesimo secolo. In altre parti dell’Iraq l’IS è vicino alla perdita di gran parte del territorio che una volta era sotto il suo controllo. Lungo la frontiera con la Siria, le Forze Democratiche Siriane, sostenute dagli Stati Uniti, stanno spingendo il gruppo fuori dalla roccaforte di Raqqa.

Le notizie sembrano buone, ma l’IS è lontano dall’essere eliminato. Molti dei suoi foreign fighters stanno tornando a casa, verosimilmente portando il terrorismo con loro. Alcuni dei suoi leader e combattenti restano in Iraq. Il gruppo sta ricorrendo alla guerriglia, incluso attacchi contro i civili in aree densamente popolate dell’Iraq.

L’operazione per riprendere Mosul, particolarmente la parte occidentale della città è stata violenta fin da febbraio, ed è giunta ad un costo incredibilmente alto. Centinaia di civili feriti ed uccisi nei combattimenti.

Mosul e i civili, incluso bambini, hanno pagato il prezzo di questa operazione.

Human Rights Watch e Amnesty International hanno diffuso un rapporto congiunto circa un mese fa in cui, rivolgendosi in particolare alla coalizione a guida americana, raccomandavano di fare più attenzione nella campagna di bombardamenti e particolarmente alle tipologie e alle dimensioni delle bombe che sceglievano di lanciare. A causa di queste grandi bombe lanciate sempre più di frequente, c’è stato un aumento nelle vittime civili sul terreno.
Questa operazione ha dislocato più di 700 mila civili che non saranno in grado di ritornare a causa dell’alto livello di distruzione.

Gli Stati Uniti stiano attenti a non ripetere gli errori del passato

Tutto ciò sta a significare che gli Stati Uniti devono valutare bene le loro prossime mosse, nella speranza che riescano ad evitare gli errori compiuti nel passato.

Alcuni anni fa, quando l’Iraq sembrava aver sconfitto i suoi estremisti interni dopo il picco della presenza di forze americane nel 2007, gli Stati Uniti ritirarono le loro forze. L’allora presidente George W. Bush firmò il SOFA (status of force agreement) con l’Iraq che stabiliva la rimozione di tutte le truppe di combattimento americane entro il 2011.
Sebbene i generali americani avessero fatto presente a Washington che né il governo iracheno né le sue forze di sicurezza erano pronte a funzionare senza un’assistenza americana di vasta scala; dopo essere entrato in carica nel 2009, il presidente Obama (che aveva corso alla presidenza nel 2008 con la promessa di ritirare le truppe dall’Iraq), non fece nulla per rinegoziare l’accordo firmato da Bush.

Va detto però che era improbabile che l’allora primo ministro dell’Iraq Nouri al-Maliki avrebbe accettato un continuo dispiegamento americano. Maliki era chiaramente impegnato a consolidare la dominazione sciita nel governo iracheno e sulle forze di sicurezza e riconosceva che una presenza militare americana avrebbe impedito ciò. Inoltre, egli sopravvalutò l’efficacia del suo apparato militare mentre sottostimava l’estensione dell’estremismo tra gli iracheni sunniti.

Adesso c’è l’opportunità di fare le scelte giuste. Abadi sembra comprendere meglio le sfide politiche e le minacce estremiste che l’Iraq deve affrontare. Questo crea un’opportunità per l’impegno americano per aiutare a prevenire la ripresa dell’IS e diminuire la dipendenza di Baghdad dall’Iran.

In altre parole le relazioni Stati Uniti-Iraq hanno un disperato bisogno di ricomporsi e di correggere gli errori compiuti tra il 2008 e il 2011.
Questo non accadrà se Trump non si impegna pienamente in ciò. Per raggiungere questo obiettivo, l’amministrazione Trump dovrebbe proporre che una forza militare americana, modesta, resti in Iraq anche dopo la sconfitta sul campo dell’IS. Una forza residuale molto simile a quella che i comandanti militari americani consigliarono a Bush ed Obama di lasciare nel paese dopo il 2007.

La missione primaria dovrebbe essere di sostenere e rinforzare le forze di sicurezza irachene e guidare le missioni di combattimento. Molta di questa forza dovrebbe concentrarsi sull’intelligence, aiutando gli iracheni ad identificare i luoghi dell’IS e informare su ogni nuova manifestazione di estremismo. Dovrebbe anche includere unità delle operazioni speciali in grado di colpire l’IS, in Iraq e in Siria, ma solo quando assolutamente necessario.

Se…

…Abadi o chiunque lo segue agiranno come Maliki, utilizzando il governo e le forze di sicurezza per reprimere gli arabi sunniti, o degradano l’apparato militare selezionando i leader su base settaria o per fedeltà politica piuttosto che per competenze professionali, gli Stati Uniti dovranno disimpegnarsi dall’Iraq una volta per tutte, magari mantenendo legami di sicurezza solo con il governo della regione curda.

Il Presidente Trump non ha dato indicazioni precise di voler mantenere un ruolo duraturo nel complesso lavoro di stabilizzazione dell’Iraq dopo la sconfitta sul campo di battaglia dell’IS. Se il Presidente degli Stati Uniti non si impegna nel reimpostare la relazione con l’Iraq, semplicemente la relazione non avrà futuro.

Senza un effettivo coinvolgimento americano, c’è una buona opportunità che l’estremismo si manifesterà nuovamente in Iraq, giocando un ruolo ancora più grande.

Se gli Stati Uniti non aiuteranno a riempire gli spazi da cui l’IS trae forza e “legittimazione” la nuova coalizione che comprende la Russia, l’Iran, Hezbollah, milizie sciite irachene e iraniane lo farà.

Non si può affermare con assoluta certezza che gli sforzi americani saranno sufficienti a prevenire ciò, ma sicuramente l’assenza di tali sforzi aumenterà le possibilità che questo accada a detrimento degli Stati Uniti e della pace e sicurezza internazionale.

Giugno 4 2017

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa ai terroristi

storytelling

La contro-narrativa come prodotto principalmente del decisore politico manca di una teoria articolata.

Invece di una teoria abbiamo una serie di supposizioni, implicite ed esplicite, che sono comuni ad una serie di documenti. Definendo queste supposizioni, noi arriviamo a quello che potrebbe essere presentato come una “teoria di lavoro di contro-narrativa“.

La teoria di lavoro di contro-narrativa come funziona:

gli estremisti violenti – che abitualmente intendiamo come islamisti violenti – reclutano i seguaci attraverso la promozione di una visione del mondo ideologica che è incapsulata in quello che spesso è definito “narrativa jihad”. Questa narrativa afferma che i musulmani sono sotto attacco e devono combattere per difendere loro stessi: che l’occidente è un nemico implacabile dell’Islam; e che la violenza non solo è necessaria per la sopravvivenza ma che è anche la via per la salvezza. Questa narrativa può essere sconfitta da narrative più convincenti e accurate che promuovano i valori umani. Come risultato, il richiamo dell’estremismo violento tra quelli che sono definiti “gruppi vulnerabili” ed individui decrescerà e pochi saranno radicalizzati all’estremismo violento e al terrorismo.

Questa teoria, ampiamente accettata dai politici occidentali, dai funzionari persino da analisti e dai media è vecchia di almeno una decade.

Benché questa “teoria di lavoro” abbia ottenuto un notevole consenso, contiene in se un serio problema: le evidenze (anche e soprattutto scientifiche) che la sostengono sono pochissime.

Le supposizioni su cui poggia sono generiche e, nel complesso, non sono basate sulla ricerca scientifica. Inoltre, la “teoria di lavoro contro-narrativa” riflette una più ampia gamma di supposizioni, particolarmente pronunciate tra i governi, circa i fattori causali della violenza estremista. In particolare, alcuni governi hanno l’abitudine di enfatizzare l’ideologia, specialmente l’ideologia che proviene da oltre mare, come la principale fonte della corruzione delle menti di coloro che abbracciano la violenza. Tralasciando altre circostanze o motivazioni, dalle ineguaglianze socio-economiche alla lusinga dell’avventura come principale bisogno umano di sopravvivenza, la spiegazione ideologica è nella migliore delle ipotesi una madornale semplificazione. Questa enfasi sull’ideologia assume anche che l’indottrinamento è il principale veicolo per quello che generalmente è definito radicalizzazione (che è per se un termine questo molto contestato), che trascura altri motivi ben dimostrati circa il cambiamento comportamentale come l’identificazione con un gruppo, la socializzazione e l’effetto dei conflitti civili.

Narrativa e storytelling

Nell’uso abituale, “narrativa” è un sinonimo ampio di “storia” (una serie narrata di eventi connessi) oppure “storytelling” (l’atto della narrazione), ma quando viene applicata al terrorismo/estremismo violento è spesso utilizzata in un senso molto più ampio, per significare (tra le altre cose) una spiegazione o una credenza o una visione del mondo. Alle volte appare essere quasi intercambiabile con “ideologia” nel senso di una serie sistematica di credenze (usualmente politiche). Alle volte “contro-narrativa” sembra a malapena un eufemismo per propaganda di stato: comunicazioni progettate per gli obiettivi politici di uno stato. Il problema con questo tipo di linguaggio è che è una fonte di confusione che ha effetti pratici nel mondo di tutti i giorni, nella realtà.

Mancando di una descrizione chiara e di una classificazione della comunicazione del terrorismo, la retorica associata con la “teoria di lavoro” di contro-narrativa confonde tutti su come potremmo contrapporci  al terrorismo nella sfera della comunicazione.

La narrativa non è il messaggio: una narrativa può contenere dichiarazioni, istruzioni o punti di informazione (messaggi) e un messaggio potrebbe essere costruito ingegnosamente in una forma narrativa, ma c’è confusione tra la forma ed il contenuto e questa confusione è estenuante. Ci impedisce di comprendere cosa stanno dicendo i terroristi e come lo stanno dicendo. Ci guida verso un’ossessione per la “contro-messagistica” online che assume che il testo terrorista è pura comunicazione ovvero contenuto senza forma ed è una quasi completa negligenza di come i terroristi utilizzano la narrativa e perché lo potrebbero fare.

I terroristi dopo tutto non sono impegnati nel business dell’intrattenimento, quindi perché non esaminare la loro propaganda come una forma di produzione letteraria?

Tanto per cominciare, i terroristi sono influenzati dalla letteratura che leggono. Che sia il terrorista norvegese di estrema destra A. Breivik che scopriva un aiuto ideologico nelle novelle di libertarismo radicale di Ayn Rand oppure Abu Bakr al-Baghdadi e la sua tesi di dottorato commento ad un poema del 12° secolo, i terroristi sono spesso consumatori di letteratura ed in alcuni casi possiamo essere molto sicuri che le loro letture modellano le loro azioni e le loro comunicazioni.

La dimensione culturale più ampia dell’estremismo violento sta avendo l’attenzione che merita, ad eccezione di qualche paese come l’Italia.

Lo studioso norvegese di terrorismo Thomas Hegghammer, per esempio, ha iniziato a dedicarsi a quello che i terroristi islamici fanno quando non stanno combattendo: “guarda all’interno di un gruppo militante, o di un esercito convenzionale – e vedrai tanti prodotti artistici e pratiche sociali che non servono un ovvio obiettivo militare. Pensiamo ad esempio ai richiami della cadenza dei marines americani, alle canzoni dei rivoluzionari di sinistra o ai tatuaggi dei neo-nazisti. Guarda all’interno dei gruppi jihadisti e vedrai uomini barbuti con i Kalashnikovs che recitano poemi, discutono di sogni e piangono regolarmente”.

Le azioni e certamente le visioni del mondo sono modellate dalla cultura, nel senso stretto di conquiste intellettuali ed artistiche. I terroristi sono produttori e consumatori di letteratura.

E come alcuni militanti sono anche poeti, molti altri sono anche scrittori e drammaturghi. Una delle figure più influenti nello sviluppo del contemporaneo jihadismo era il pensatore egiziano Sayyid Qutb che ha scritto diversi romanzi e lavori di critica letteraria, sebbene in seguito si sia spostato sulla politica religiosa radicale. Altri si sono rivolti alla letteratura come un’alternativa alla violenza ed altri ancora hanno utilizzato la letteratura come sostegno alla violenza.

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa è fondamentale per comprendere come i terroristi comunicano.

Nella ricerca di esempi di storytelling nella propaganda terroristica, il problema è l’abbondanza non la scarsità. Anche se confiniamo la nostra ricerca all’islamismo violento, la scelta è ampia. Uno dei più noti ideologi jihadisti, lo yemenita (cittadino americano) Anwar al-Awaki, ha prodotto dozzine di registrazioni audio dei suoi sermoni e delle sue lezioni molti dei quali sono esplicitamente in forma narrativa, con titoli come “storie dalle Hadith”, “la storia del toro”.

AQAP (Al Qaeda nella penisola arabica) di cui al-Awaki era il leader spirituale (è morto nel 2011), produce una rivista online in lingua inglese “Inspire” che regolarmente pubblica articoli in forma narrativa. Similmente, il magazine dell’IS Dabiq in lingua inglese è pieno di storie, dalle biografie dei suoi combattenti a racconti dal Corano o Hadith riprese e spiegate per giustificare le azioni del gruppo.

Gli approcci letterari critici hanno il potenziale di andare al di là delle limitazioni dell’analisi di scienza politica della propaganda dei terroristi come semplici portatori di un contenuto ideologico, o degli studi di comunicazione o degli approcci psicologici che enfatizzano la retorica e quindi la persuasione.

Vedendo la propaganda terrorista come un testo estetico, possiamo comprendere che loro lavorano in modi diversi dall’indottrinamento ideologico o della semplice persuasione.

La creatività dei terroristi è una fonte di richiamo di per se stessa. Autori come bin Laden, al-Awaki attirano seguaci non soltanto attraverso il carisma personale, o la persuasione  o adattando le loro narrative all’esperienza di vita dei loro seguaci, sebbene tutto ciò sia importante. Essi ispirano anche, ed è non è a caso che questo verbo particolare è il titolo della rivista di AQAP.

Riconoscere la dimensione estetica della propaganda terroristica rende più chiaro il suo contributo alla cultura terroristica (nel senso ampio di tradizioni e comportamenti così come nel senso stretto degli sforzi artistici e intellettuali): le risorse culturali disponibili ad un movimento violento sono necessarie per sostenere e dirigere un movimento tanto quanto lo sono le risorse materiali come le armi e il denaro.

La cultura modella l’ideologia e nel cercare le spiegazioni per il comportamento dei terroristi dovremmo porre attenzione all’eredità culturale. Questo dovrebbe essere evidente anche dagli studi più particolareggiati sulle affermazioni dei terroristi: i temi che si ripetono, ma anche le figure del discorso e l’utilizzo di alcuni  verbi particolari.

In altre parole, possiamo vedere l’emergere di generi di produzione terrorista, in una tradizione distinguibile della narrativa estremista islamista da bin laden a al-Awlaki a Dabiq.

Tornando alla controversa “teoria di lavoro” di contro-narrativa, il riconoscimento della forma letteraria e della funzione della propaganda terroristica potrebbe farci ragionare meglio  prima di investire scarse risorse in attività che potrebbero essere nel migliore dei casi futili e al peggio controproducenti.

Se il richiamo di un testo è più complesso e sottile che il messaggio che contiene, ne segue che non possiamo semplicemente combatterlo attraverso una più accurata ricusazione.

La sfida è nell’utilizzo di risorse emotive ed estetiche di storytelling e non solo fare appelli alla ragione o all’interesse personale.

Non facciamo certo un favore a noi stessi rifiutandoci di cogliere il richiamo della propaganda terroristica o riducendo il discorso dei terroristi a una semplicistica serie di messaggi.

Non è un caso che gli ideologi terroristi possedevano (e posseggono) qualità creative e letterarie in abbondanza: la loro influenza (vedi bin laden) è derivata dalle loro conquiste come autori e storyteller.

Se potessimo accettare questo punto, restringendo le risposte quelle focalizzate sull’ideologia, che si affidano a strategie di respingimento e cercano solo di persuadere, probabilmente otterremmo quell’efficacia che queste ultime strategie non hanno.

I decisori politici dovrebbero guardare al di là dei loro strumenti di comunicazione strategica, di diplomazia pubblica, delle campagne sui social media e riscoprire il potenziale della produzione culturale, inclusa la letteratura, offrendo un’alternativa alla seducente creatività dei gruppi violenti.

Maggio 23 2017

Terrorismo internazionale: la gestione della paura

terrorismo

Dopo quasi 20 anni di ricerche e studi sul terrorismo e sul terrorismo internazionale non esiste una risposta generalmente accettata alla domanda: “cosa è il terrorismo e qual è l’essenza di questo fenomeno?”.

Nondimeno molti studiosi e specialisti sarebbero probabilmente d’accordo nell’affermare che:

il terrorismo è uno strumento che, attraverso le minacce e gli attacchi, mira a generare paura ed ansia; vuole intimidire le persone allo scopo di ottenere alcuni obiettivi politici.

La maggior parte delle definizioni formulate dai governi, piuttosto che da organizzazioni regionali, ricordano  l’opinione di Brian Jenkis, che nel 1975 argomentava:  “il terrorismo è teatro. Ai terroristi piace vedere tanta gente che guarda (e tante persone morte)“.

Il terrorismo mira a provocare reazioni a certe minacce o attacchi da parte di terze parti: il pubblico in generale, politici, gruppi di opposizione, media.

Il livello della paura non dipende solamente dai terroristi e dalla forma e portata del loro utilizzo della violenza.

L’impatto di ogni attività terroristica è il prodotto della percezione, immaginazione e vulnerabilità delle audience obiettivo o diversamente da parti coinvolte.

La paura non dovrebbe essere considerata solamente come una reazione negativa alle minacce e agli attacchi. Infatti la paura del pericolo è una emozione molto naturale ed utile. La paura è un meccanismo di sopravvivenza. La paura del terrorismo può incoraggiare persone a intraprendere le necessarie precauzioni e azioni. Ma se la paura del terrorismo non è proporzionata alla minaccia attuale, potrebbe avere molte conseguenze non necessarie e non volute. A questo proposito ci vengono in aiuto due prominenti studiosi Bekker e Veldhuis, i quali asseriscono che la paura del terrorismo causa uno spostamento verso un ragionamento dogmatico (assolutista) che è caratterizzato dal pensiero “noi contro loro”, stereotipi, discriminazione e una mancanza di sfumatura che contribuiscono a reazioni rigide di difesa del sistema che potrebbero più nuocere che fare del bene.

Gli attacchi terroristici contribuiscono alla diffusione della paura nella società più vulnerabile e a reazioni eccessive emotive, politiche o amministrative. Ad esempio, spesso essi conducono ad una preferenza per leader orientati all’azione con spiegazioni del terrorismo banali e sensazionali  e appelli all’azione immediata.

Il sociologo Frank Furedi, riferendosi in particolare agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, asserisce che le società occidentali oggi sono paralizzate da una “cultura di paura” e sono prese nel cosi detto “paradigma della vulnerabilità”. Furedi sottolinea anche la nozione di terrorismo non solo si riferisce all’attacco in se ma definisce equamente anche il modo in cui la società risponde ad esso: “società che comprendono chi sono e che hanno un senso di solidarietà usualmente gestiscono un atto di terrore molto meglio di quelle società dove le cose sono confuse e dove non c’è una storia su chi sono”. Sempre secondo Furedi nelle società occidentali il copione culturale contemporaneo presenta il terrorismo come una minaccia incombente, simile alle catastrofi naturali. La conseguenza di questa presentazione è altamente ambivalente e paradossale. Da una parte, questa attitudine fatalistica diffonde un senso di impotenza; dall’altra suggerisce che solo con massicci dispiegamenti di forze e con un contributo gigantesco di risorse si può forse ridurre la minaccia apocalittica. Per Furedi, l’occidente perciò sta offrendo ai terroristi un “invito al terrore”. Gli studi di Furedi pur criticati offrono tuttavia una chiara analisi delle conseguenze di questa cultura del terrore: la combinazione del fatalismo e le reazioni esagerate.

La gestione della paura

I meccanismi di adattamento (ad eventi come un attacco terroristico) sono individuali, operano principalmente attraverso funzioni psicologiche personali. A. Schmid (uno dei maggiori studiosi di terrorismo) ha argomentato che il grado in cui un individuo o un gruppo è colpito e subisce l’influenza dalla paura dipende da un certo numero di fattori “oggettivi”:

  • la fonte del terrore;
  • la probabilità che un evento che induce terrore si ripeta ancora;
  • l’oggetto della vittimizzazione primaria (per esempio un membro della famiglia o di un gruppo) e la relazione ad esso;
  • le fasi dell’evento produttivo del terrore e,
  • l’abilità o inabilità di evitare, prevenire e combattere situazioni che sono prone al terrore nel futuro.

Alcuni di questi fattori sono plasmabili dagli strumenti di sicurezza.

Politiche efficienti di contro-terrorismo possono mirare a ridurre la probabilità di eventi che inducano terrore e migliorare la loro abilità di prevenire, evitare e combattere situazioni di questo genere. Per questo:

la gestione della paura dovrebbe essere considerata seriamente quando si progettano e si realizzano le politiche di contro-terrorismo in generale,

sia che siano relative al procedimento penale, alla raccolta di informazioni di intelligence, alle misure di prevenzione.

Il pubblico presumibilmente avrà una reazione più forte ed una percezione del rischio dopo incidenti terroristici rispetto ad altri eventi di crisi. Questo è dovuto all’intenzionalità e all’incertezza che accompagna questo tipo di eventi. L’intensa copertura mediatica di attacchi terroristici internazionali e i frequenti allarmi di politici su futuri attacchi forniscono una continua ed incessante esposizione all’ansia e alla paura.

I governi potrebbero non essere i fornitori dell’immaginario ma possono  ugualmente influenzare l’impatto sociale di attacchi terroristici .

Non è una novità statuire che il terrorismo è comunicazione.

Tutte le misure di contro-terrorismo sono anche mezzi di comunicazione e identificazione e le reazioni in gran parte determinano l’impatto sociale delle azioni dei terroristi, specialmente se consideriamo ciò in un contesto socio-politico più ampio e in un periodo di tempo più lungo.

L’impatto sociale non è qualcosa che i governi possono condurre appieno lasciati da soli, per conto proprio.

Invece, l’impatto sociale nel 21° secolo è una questione principalmente di copertura mediatica.

L’opinione pubblica è per lo più influenzata dai media e da immagini coinvolgenti dei drammatici atti terroristici che disseminano. I governi hanno il monopolio sull’uso della violenza e sono gli attori ai quali i cittadini si rivolgono in tempi di crisi nazionale.

Tuttavia proprio i governi spesso alimentano queste crisi e le utilizzano per promuovere le proprie agende politiche e militari. Essi amplificano il “panico morale” in società con metafore militari (“noi siamo in guerra”) o al contrario, esercitano un’influenza enfatizzando e facendo appello alla resilienza sociale in una data società.

 

Le misure di contro-terrorismo nel quadro della gestione della paura

Le misure di contro-terrorismo devono avere un elemento di comunicazione e devono trattare con il pubblico e le sue percezioni. Esse devono avere un effetto comunicativo che vada al di là degli strumenti espliciti ed intenzionali. Ogni azione di contro-terrorismo anche quella condotta a livello locale, per strada, può essere un punto strategico sulla “guerra dell’influenza” tra i terroristi e lo Stato. Affermazioni e discorsi posso anche loro avere un profondo effetto, comunicando alla società o anche al mondo “a cosa teniamo”. I terroristi sono più a conoscenza di ciò rispetto ai governi.

La maggior parte delle buone pratiche e delle lezioni apprese concerne la gestione pratica della crisi piuttosto che un più sofisticato approccio di gestione della paura socio-psicologico. Sebbene ad esempio il concetto di resilienza– 

*uno dei più importanti concetti nel dibattito sull’impatto del terrorismo sulle politiche e la società. Il concetto di resilienza ha le sue radici nel ingegneria civile nella psicologia e nell’ecologia. In breve, esso indica la capacità di materiali, persone, organismi a resistere improvvisamente a cambiamenti o stress, così come la capacità di riprendersi e ritornare alla situazione come prima. Dalla prospettiva di legislazione di contro-terrorismo, resistenza e resilienza potrebbero essere delle importanti capacità per affrontare l’impatto negativo (o la paura del) terrorismo da parte di individui e società nel complesso.

– e la circostanza che terroristi che attaccano società resilienti troverebbero più difficoltoso avere un impatto e raggiungere i loro obiettivi, sono abbastanza diffusi, è ancora aperta la sfida di trasformare questi concetti e le buone pratiche in una teoria e un modello di gestione della paura.

Consideriamo allora che un ipotetico modello di gestione della paura comprenda gli sforzi compiuti da istituzioni governative, prima durante e dopo situazioni di emergenza e di recupero che riguardano una minaccia/attacco terroristico per manipolare il capitale umano in una società per migliorare i meccanismi di adattamento positivi, collettivi.  Dunque sono tre gli elementi importanti che dovrebbero essere presenti in ogni manuale o in ogni strategia:

1. Non rafforzare i meccanismi di adattamento negativi;

sforzi di contro-terrorismo potrebbero involontariamente rafforzare meccanismi di adattamento negativi mobilitando il pubblico attorno ad immagini di paura, estendendo la retorica allo spettro del terrorismo, di far saltare in aria la minaccia e progettare una situazione simile alla guerra nella società. Una esagerazione di questo tipo della crisi potrebbe far aumentare sentimenti di impotenza, paura, e rabbia che alimentano la polarizzazione attorno a linee culturali, etniche, religiose all’interno della società.

2. Influenzare i meccanismi di adattamento positivi;

modi positivi di adattare il comportamento e le attitudini e minimizzare lo stress possono essere influenzati attraverso a) la diretta informazione e l’assistenza alle vittime e la misura in cui i funzionari di governo forniscono al pubblico una immagine chiara di quello che sta accadendo, danno un “senso” all’incidente e forniscono un “significato” ad esso in una maniera positiva, aumenta le capacità di risoluzione di problemi degli individui e potrebbe ridurre lo stress e i sentimenti di trauma. b) Organizzazione di eventi significativi positivi come assemblee, cerimonie, riti (religiosi): direttamente dopo un trauma, la “condivisione sociale” è legata a una emozione positiva perché riafferma i valori di ciascuno e aiuta a focalizzarsi su questi valori mentre ci si adatta all’impatto dell’evento stressante. c) L’organizzazione di atti visibili di giustizia: come forma di educazione psicologica e che abbia un senso, ad esempio un processo equo e trasparente può giocare un ruolo significativo nell’aiutare le persone a superare un terribile crimine.

3. Fornire auto-efficacia.

Le persone non vogliono essere delle semplici vittime o passanti, ma generalmente esprimono il desiderio di essere capaci e volenterosi nel fare qualcosa o almeno una cosa giusta e non essere lasciati in balia dei perpetuatori dell’attentato. Innescare questi meccanismi di adattamento positivi aumenterà la resilienza di una popolazione e potrebbe aiutare ulteriormente a ridurre la possibilità di paura eccessiva, reazioni esagerate e tensioni.

Studiando modi e mezzi per diventare più resilienti è la via più efficace per evitare di soccombere ai tentativi di altri di controllarci attraverso la paura.

 

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.