Settembre 4 2023

Africa: il punto di flessione degli Stati Uniti e della Cina

Africa flessione

A Washington avvertono che la Cina, con i suoi finanziamenti dei maggiori progetti infrastrutturali, sta sovraccaricando i Paesi africani di debiti. Questa affermazione non ha necessariamente un fine indagatore, ma sottolinea come le relazioni Stati Uniti – Cina stiano diventando sempre di più acrimoniose. L’Africa è diventata la nuova arena per la rivalità strategica.

Algeria

Aspetta, non leggere, riguarda la mappa. Dedica un minuto in più di attenzione dove si trova geograficamente l’Algeria con chi confina.

A metà luglio, il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha condotto una visita di Stato di cinque giorni in Cina, dove ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e altri funzionari chiave. La delegazione di uomini d’affari che lo accompagna evidenzia il desiderio di Tebboune di sostenere i legami economici dell’Algeria con la Cina. Tebboune ha dichiarato nel giorno finale della visita: «vogliamo cooperare con la Cina perché è un grande Paese con enormi mezzi.»

Tebboune ha anche dichiarato il motivo per cui il modello di partnership di Pechino è cosi allettante: « la Cina non emette restrizioni politiche, non appone condizioni. In breve la Cina rispetta gli altri Paesi».

Algeri, ricordiamolo, si prepara ad occupare il suo seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2024-2025 ed ha bisogno di Pechino più che mai.

Nel viaggio da e di ritorno dalla Cina, Tebboune si è fermato in Qatar e Turchia. Agli inizi di quest’anno ha visitato la Russia, nel più ampio sforzo di ri-impegnare diplomaticamente Algeri dopo anni di isolamento.

Il collasso dei prezzi del petrolio nel 2014 ha condotto ad anni di sofferenza finanziaria, quasi al punto di richiedere finanziamenti esterni. Il conseguente taglio negli alti livelli di spesa sociale dell’Algeria ha aiutato ad alimentare il movimento di protesta Hirak, un’espressione su scala nazionale di malcontento popolare che ha spinto l’allora presidednte Abdelaziz Bouteflika a dimettersi nel 2019. Sebbene ora moribondo, il movimento ha contrassegnato la più grande sfida al potere autocratico del regime in decadi.

Gli impegni di politica internazionale dell’Algeria hanno tre principali obiettivi:

  1. contrastare la crescente influenza regionale del vicino Marocco;
  2. rafforzare la sua posizione tra le potenze crescenti di un mondo multipolare;
  3. attrarre più investimenti per diversificare la sua economia.

Allinearsi con la Cina calza a pennello in tutti questi obiettivi.

Negli anni passati, il Marocco ha rafforzato le sue rivendicazioni di sovranità sul Sahara Occidentale – una fonte importante di tensioni con l’Algeria – procurandosi il riconoscimento da un crescente numero di Paesi, incluso gli Stati Uniti. Nel fare ciò, ha spostato con successo la questione fuori dal reame della soluzione mediata dalle Nazioni Unite basata sul diritto internazionale. L’Algeria che sostiene l’indipendenza del territorio, potrebbe utilizzare la sua presenza nel Consiglio di Sicurezza per cercare di rallentare il momentum del Marocco e riportare la disputa territoriale sotto gli auspici delle Nazioni Unite.

Una Cina compassionevole potrebbe aiutare.

Il valore di Pechino come alleato è specialmente cruciale per raggiungere gli ultimi due obiettivi. Negli anni recenti l’Algeria ha intensificato la sua campagna di lobby per entrare nel gruppo BRICS, che comprende il Brasile, la Russia, l’India, la Cina ed il Sud Africa. Argomento centrale di discussione durante la visita di Tebboune in Cina e Russia. Entrambi i Paesi hanno pubblicamente sostenuto la candidatura dell’Algeria. Unirsi al BRICS concederebbe all’Algeria una solida impronta in un’organizzazione chiave per le potenze economiche non-occidentali, solidificando le sue relazioni con altri Paesi del Sud Globale. Concederebbe anche più influenza nel navigare i legami con i Paesi europei, i quali spesso appongono pressioni all’Algeria per il suo continuo imprigionamento di attivisti e giornalisti.

In particolare, essere parte del New Development Bank, fornirebbe una qualche sicurezza per un prezzo più basso, nel futuro, del petrolio e del gas: Algeri non dipenderebbe dal Fondo Monetario Internazionale o altre organizzazioni multilaterali dominate dall’occidente per un salvataggio nel caso una improvvisa discesa nelle entrate energetiche metta in pericolo ancora una volta la sua posizione relativa al bilancio. Sarebbe una sorpresa se l’Algeria fosse ammessa nel gruppo a breve, giacchè la sua economia resta sotto sviluppata e statica, dominata da esportazioni di idrocarburi. La scena degli affari è opaca e ostile all’investimento estero. Manca di una base manifatturiera competitiva e diversificata.

Algeri ha le sue carte da giocare.

Tebboune ha offerto 1.5 miliardi di dollari della sua nuova ricchezza energetica per diventare un azionista nella banca di sviluppo BRICS.

La crescente vicinanza dell’Algeria con la Cina sarà vantaggiosa al di là dell’appartenenza a BRICS. La visita di Tebboune a Pechino ha condotto alla firma di 19 accordi di cooperazione e progetti per 36 miliardi di dollari in investimenti cinesi nei prossimi anni. Le industrie cinesi hanno aiutato a costruire molte delle case e delle infrastrutture di trasporto su cui l’Algeria ha investito durante i precedenti supercicli di prezzi del petrolio.

La storia gioca un ruolo in questa relazione bilaterale. La Cina è stata la prima nazione non-araba a riconoscere il primo governo provvisorio algerino nel 1958, quattro anni prima che vincesse l’indipendenza dalla Francia.

Probabilmente il più grande fattore che guida il corteggiamento algerino alla Cina può essere rinvenuto nelle difficoltà della Russia sui campi di battaglia dell’Ucraina.

Mosca è stato un sostenitore politico tradizionale dell’autocrazia di Algeri e un fornitore chiave per le sue forze armate. Tuttavia le autorità algerine comprendono che l’influenza globale russa ora è in diminuzione. Quale che sia il risultato in Ucraina, è quasi certo che il regime del presidente russo Vladimir Putin apparirà economicamente più debole e politicamente più instabile una volta che il conflitto sarà terminato.

Ciò non vuol dire che la forte relazione dell’Algeria con la Russia terminerà. Tebboune e gli alti ufficiali dell’Algeria – il vero potere nel Paese – continueranno ad evitare di criticare la guerra di aggressione di Putin. Neppure avranno come obiettivo quello di sostituire il loro amico a Mosca con uno a Pechino.

Hanno compreso la necessità di diversificare il loro portfolio di alleanze e sembrano contenere un risultato negativo per la Russia in Ucraina assicurandosi un’altra base di sostegno chiave al di fuori dell’influenza occidentale.

Al momento l’Algeria sembra ben lontana dal guadagnare un gruppo di nuovi alleati attraverso il BRICS, ma converge volentieri per un nuovo amico super potente: la Cina.

La strategia degli Stati Uniti in Africa è articolata attraverso un programma obsoleto (ancora quello)

Il vice Presidente Kamala Harris ha svolto recentemente un viaggio di nove giorni in Africa, iniziato in Ghana, Tanzania e concluso in Zambia. La sua visita segue quella di Janet Yellen, Segretario del Tesoro, Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, la first lady Jill Biden e il segretario di Stato Antony Blinken.

La selezione di tre Paesi di lingua inglese i cui governi sono favorevoli agli interessi americani e sistemi politici stabili, è intesa a dimostrare la capacità di Washington di esibire la sua agenda continentale lavorando con alleati che la pensano come loro. Cionondimeno il viaggio della Harris dimostra diversi limiti profondamente radicati nell’impegno americano con i Paesi africani.

La vasta impronta della Cina nei tre Paesi che ha visitato è ineluttabile, dal momento che le imprese cinesi hanno investito vaste somme nello sforzo di accrescere lo sviluppo infrastrutturale in tutti i Paesi. In un momento storico in cui Washington ha diretto decine di miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina sin da quando è stata invasa dalla Russia, l’annuncio di Harris di 100 milioni di dollari dagli Stati Uniti per gli Stati dell’Africa occidentale – 20 milioni di dollari ciascuno – è un indicazione delle sue priorità.

Molti hanno visto con favore l’impegno della Harris con i creativi ghanesi, ma la sua diffusione di una playlist Spotify con la partecipazione di artisti del Ghana, Tanzania e Zambia così come il suo invito agli attori di Hollywood Idris Elba e Sheryl Lee Ralph di accompagnarla durante la sua visita agli studi musicali, è stata considerato emblematico della superficialità con cui i funzionari americani si coinvolgono con gli africani.

Essenzialmente, il viaggio di Harris ha compiuto poco per cambiare le percezioni tra molti africani che Washington vede il Continente principalmente come una serie di problemi da essere gestiti, alleggerendo il tutto con un cenno di assenso ad esso come fonte di intrattenimento. I funzionari americani così come coloro che difendono l’impegno di Washington in Africa regolarmente respingono le critiche alle politiche sottolineando le donazioni di miliardi di dollari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono in assistenza allo sviluppo. Come prova dell’effettivo impegno americano, evidenziano le alleanze bilaterali e multilaterali nel Continente; programmi popolari come l’Emergency Plan for AIDS Relief, African Growth and Opportunity Act che fornisce accesso duty-free al mercato americano; il sostegno degli Stati Uniti alla promozione della democrazia, la leadership americana nelle organizzazioni internazionali per cui i Paesi africani beneficiano considerevolmente.

Il problema con queste narrative non è tanto che sono false, ma che i loro limiti rafforzano le esatte argomentazioni che compiono le critiche alla politica americana. Alcuni programmi di vanto americano sono ora quasi due decadi vecchi e miseramente adatti alle realtà moderne.

Le alleanze di sicurezza americane hanno fatto poco per fermare l’ondata di violenza estremista nella regione del Sahel o aiutare gli Stati fragili a costruire capacità addirittura rafforzando gli incentivi negativi che consolidano il ruolo dei militari negli Stati coinvolti.

La retorica di Washington sulla democrazia scarsamente si accorda con il suo comportamento, come dimostrato nelle recenti elezioni in Nigeria, quando l’amministrazione Biden ha rapidamente avallato il risultato di elezioni profondamente viziate dalla violenza e dalle irregolarità.

Anche se gli Stati Uniti non scatenano lo stesso tipo di reazione aspra che suscita la Francia, molti nel Sahel percepiscono le preoccupazioni americane per la democrazia come un’offerta per imporre e mantenere l’influenza straniera.

Per molti di coloro che vivono in questi Paesi, i colpi di Stato sono espressioni del volere popolare ed è molto difficile sapere, conoscere, quanto ampi siano tali sentimenti. Il fatto che la difesa americana della democrazia significhi così poco nella regione suggerisce che posizioni di principio possono ottenere poco al momento.

Eppure gli Stati Uniti hanno assunto posizioni “più flessibili” in passato, come nel caso dell’Egitto. Quando Abdel Fatah el-Sisi ha preso il potere attraverso un coup nel 2013, gli Stati Uniti sono andati avanti con gli affari come al solito, perché il Cairo è considerato un alleato strategico che Washington non può permettersi di perdere. Questa sorta di flessibilità dovrebbe essere impiegata nel Sahel.

I Paesi africani temono una decade perduta

Una delle cattive abitudini dei funzionari americani, che hanno continuato a sostenere fin dal lancio della strategia americana in Africa lo scorso anno, è la tendenza a caratterizzare le relazioni dell’Africa con la Cina in termini paternalistici, particolarmente riguardo al debito cinese, riferendosi a Pechino: «accordi luccicanti che possono essere opachi e fondamentalmente falliscono nel portare beneficio alle persone per cui sono stati presumibilmente progettati.»

La supposizione implicita tra americani e europei è che i governi africani mancano dell’astuzia necessaria per comprendere lo scenario della politica internazionale e navigarlo nel perseguimento dei loro interessi.

Peggiori sono le rivendicazioni di una “trappola del debito cinese” organizzata per gli africani. I prestiti cinesi, sebbene una proporzione crescente del debito dei Paesi africani, sono fondamentalmente sovrastati dall’onere del debito creato dai prestatori privati occidentali.

Come spesso fanno notare i governi africani, essi si sono rivolti a Pechino per lo sviluppo finanziario non perché non comprendono ciò che è offerto, ma per le condizioni del prestito relativamente favorevoli rispetto ai creditori occidentali.

Washington elargisce delle “somme di facciata” all’industrializzazione africana e allo sviluppo del settore privato, ma ha per la gran parte fallito nell’offrire alternative sostenibili al più conveniente credito cinese. Il ministro delle finanze congolose Nicolas Kazadi ha dichiarato che se la Cina è un così importante alleato dei Paesi africani, è perché non è facile mobilitare gli investitori americani.

I funzionari americani e i commentatori spesso si riferiscono ai governi africani come “sedotti” dai prestiti cinesi e dal sostegno per i regimi autoritari nel Continente. In questo modo essi semplicemente sottolineano la loro mancanza di familiarità con le aspirazioni delle popolazioni africane, che li lascia incapaci di comprendere perché i rivali di Washington stanno guadagnando terreno con il pubblico africano.

Parimenti significativa la circostanza per cui esagerano le capacità della Cina, sottovalutando i considerevoli spazi vuoti che vi sono nell’impronta di Pechino in Africa, spazio che molti governi nel Continente e molti dei loro elettori vorrebbero che Washington riempisse.

Se gli Stati Uniti vogliono diventare il partner di scelta degli africani devono iniziare ad ascoltare i loro interlocutori africani e considerare seriamente le loro argomentazioni e aspirazioni.

I governi africani regolarmente dichiarano di non voler schierarsi da alcuna parte tra le Grandi Potenze nel contesto geopolitico. In più, sebbene molti di loro ora guardino la Cina come il loro principale partner diplomatico, non considerano i loro legami con la Cina come la somma totale delle loro relazioni internazionali. È certamente una relazione cruciale, anche la più importante, ma in nessun modo la sola.

Vi sono aree di tensione nelle relazioni della Cina con gli africani, inclusa una crescente percezione che Pechino si stia tirando indietro e riducendo la sua impronta in Africa. Questi timori potrebbero essere fondati. Al Forum sulla Cooperazione Cina – Africa (FOCAC) del 2021, la trattazione principale era la riduzione di un terzo degli impegni finanziari di Pechino in Africa nei successivi tre anni. Alcuni analisti hanno asserito che questa mossa era più sfumata rispetto al commento, argomentando che le altre iniziative annunciate da Xi puntavano ad un chiaro segno che il settore privato é posizionato in modo da guidare la fase successiva delle relazioni tra Paesi africani e che Pechino si muove gradualmente lontano da progetti di infrastrutture di larga scala attuati da imprese statali verso lo sviluppo di un settore a guida privata. Le ragioni di questo spostamento sono varie e dibattute, ma si è senz’altro d’accordo che la Cina sta cercando di minimizzare i suoi rischi – anche di reputazione – in alcune aree e cercando di creare spazio per consegnare parte della sua impronta all’estero alle imprese del settore privato.

Alcuni analisti asseriscono che Pechino ha maturato più esperienza e prudenza come donatore ed investitore e perciò più cauta, specialmente data l’incertezza economica domestica. A prescindere dalle ragioni dell’evoluzione dell’attività cinese in Africa, i governi africani nondimeno si preoccupano che il loro principale partner economico sia meno desideroso di distribuire finanziamenti e progetti rispetto a quanto lo fosse tempo fa.

Tutto ciò ci suggerisce che gli africani vedono e comprendono i meriti e i lati negativi dei metodi degli Stati Uniti e della Cina. Così come vi sono dei timori su alcune parti dell’impegno cinese, vi sono elementi della cassetta degli attrezzi di Washington che sono popolari tra gli africani. Ad esempio il PEPFAR, il piano di emergenza del Presidente degli Stati Uniti per l’AIDS Relief autorizzato dall’allora presidente George W. Bush nel 2003, è ampiamente considerato dai governi africani, dai gruppi della società civile e dai professionisti sanitari come fattore trasformativo nel Continente, malgrado le critiche all’iniziativa. La considerevole diaspora Africana negli Stati Uniti e la loro crescente prominenza in molti settori così come nel Continente sostiene la diplomazia culturale e i legami tra gli africani e i cittadini americani. In un continente dove milioni, particolarmente giovani, hanno capacità creative ed imprenditoriali, aspirazioni, gli Stati Uniti e i marchi popolari tecnologici, la moda, l’intrattenimento e l’ingegneria continuano ad essere visti come un centro nevralgico di innovazione.

Pur tuttavia molti africani, in linea generale, percepiscono che solo una parte – la Cina – compie uno sforzo credibile nel migliorare il suo modo di operare ed è possibile distinguere le vie tangibili dell’attività cinese nelle loro comunità che ha innalzato gli standard di vita e migliorato la qualità della loro vita.

I Paesi africani ora sono in un punto di flessione nella traiettoria del loro rapporto con le potenze mondiali, con sostanziali incertezze rispetto a tali relazioni.

Queste potenze esterne farebbero bene a riflettere come dimostrare meglio il loro desiderio dichiarato di migliorare le relazioni con gli africani. Allo stesso modo, i governi del continente dovrebbero considerare come trarre il meglio delle opportunità che possono derivare dalla competizione per l’influenza in Africa.

Riconoscendo lo squilibrio di potere intrinseco al sistema internazionale, i governi africani devono dimostrare un approccio preciso, puntuale delle loro relazioni con Pechino e Washington per trarne vantaggio. Ciò deve assicurare che questo impegno corrisponda a strategie locali che non duplichino sforzi – o li sprechino su progetti e iniziative che portano pochi benefici alle popolazioni del Continente. Sebbene il Giappone non possa realisticamente competere sulla stessa scala della Cina o degli Stati Uniti per l’influenza in Africa, il suo modello di cooperazione, che tende ad essere caratterizzato da un approccio multilaterale e multisettoriale che unisce una molteplicità di voci e alleati su una vasta gamma di questioni, è valutato positivamente da molti governi africani e potrebbe essere uno da emulare.

Per tutta l’onnipresenza e abilità cinese in Africa, le sfide del Continente e le aspirazioni sono troppo vaste e varie perché Pechino possa soddisfarle tutte realisticamente. I sondaggi hanno dimostrato in maniera consistente che gli africani conservano delle visioni positive sia degli Stati Uniti che della Cina e preferiscono mantenere delle relazioni vantaggiose con entrambi piuttosto che dover scegliere tra loro.

Pochi africani sono ingenui nel non comprendere il significato relativamente basso che Washington accorda al Continente paragonato alle priorità centrali in Europa e nella regione Asia-Pacifico, ma ciò non è visto come necessariamente un ostacolo ad un’alleanza produttiva – anche se modesta.

Agosto 3 2023

Niger: le minacce alla sicurezza

Niger

Quando indosso una lente di ingradimento difficilmente posso cogliere ciò che non è ingrandito dalla lente. Il mio sguardo è circoscritto, vedo solo quel Paese. Così spesso accade quando si cerca di comprendere uno sviluppo politico, come per il Niger, si traslascia il contesto che invece è essenziale per inquadrare l’evoluzione politica, ma anche sociale, economica. Anche il tempo è importante. Ci si ferma all’oggi ma i cicli politici non accadono in un giorno. Quello che osserviamo è il risultato di ciò che si è sviluppato nel corso degli anni in un ambiente locale e regionale complesso.

Proviamo a viaggiare dal Niger verso l’Africa Occidentale costiera ed il Sahel e cerchiamo di comprendere cosa accade.

Febbraio 2022: il presidente francese Emmanuel Macron annuncia che le truppe dell’operazione francese Barkhane così come quelle nella Task Force EU Takuba saranno ritirare dal Mali. Il presidente del Niger Mohamed Bazoum dichiara che il Niger accoglierà volentieri le truppe francesi e dell’Unione Europea nel suo territorio. Da allora i legislatori nigerini hanno approvato una legge che autorizza il governo ad ospitare più truppe europee come parte delle operazioni di controterrorismo regionali a guida francese.
Questa mossa ha provocato una opposizione piuttosto robusta da una vasta gamma di nigerini, incluso personaggi dell’opposizione politica, gruppi della società civile e cittadini ordinari, che affermano che la presenza delle truppe europee minaccia la sovranità nazionale e potrebbe rendere il Niger un obiettivo più grande della violenza estremista. Queste obiezioni sono comprensibili in un Paese dove l’ostilità popolare verso la Francia è diffusa e lo scenario di sicurezza è peggiorato negli anni recenti, malgrado la presenza di un dispiego militare straniero già esistente.
Lo strategemma di Bazoum punta il riflettore sullo scenario politico del Niger, così come sulle percezioni della leadership del Paese e la sua comprovata esperienza nel combattere la violenza e l’instabilità nel Sahel.

Il Niger è spesso preso ad esempio per i Paesi confinanti nel Sahel. Come molti dei suoi vicini regionali, il Niger è caratterizzato da alti livelli di povertà estrema e una lunga storia di coup militari. Dal ritorno del Paese al governo democratico nel 2011, il Niger ha compiuto grandi passi verso il raggiungimento di stabilità socio-politica.
Ha ricevuto il plauso internazionale nel 2021 per il completamento del primo trasferimento di potere pacifico tra leader democraticamente eletti dall’ottenimento della sua indipendenza dalla Francia nel 1960, quando l’ex Presidente Mahamadou Issoufou si è dimesso dopo aver completato due incarichi consecutivi. Issoufou è stato elogiato per aver compiuto passi sostanziali per migliorare l’istruzione e sviluppare infrastrutture, investendo nella costruzione di nuove strade, centrali elettriche, elettrificazione rurale e la modernizzazione dell’aereoporto di Niamey.


Il quadro istituzionale del Niger concentra ampiamente il potere nelle mani del Presidente, ma incorpora anche le autorità tradizionali nello sforzo di rafforzare la capacità statuale. Ad esempio, il sistema locale dei capi tribù collabora con lo Stato su una gamma di questioni che vanno dalla riscossione delle tasse, all’amministrazione della giustizia alla mediazione nei conflitti e agli affari religiosi, da una parte all’altra del Paese come la regione occidentale Tillaberi, la regione a sud Diffa, o Agadez nel nord.

Come il Mali, il Niger ha avuto la sua quota nelle ribellioni Tuareg. Molti osservatori ritengono che abbia intrapreso dei passi più significativi anche se imperfetti ed insufficienti per affrontare le recriminazioni Tuareg cosi come quelle dei gruppi di minoranza.
I partneriati di sicurezza nigerini con la Francia e gli Stati Uniti hanno per la maggior parte permesso alle élite politiche e di sicurezza di consolidarsi, radicarsi al potere a spese di un compito di lungo termine vale a dire la governance democratica.
Per questo non sorprende che il Niger è diventato rapidamente riconosciuto come un alleato occidentale chiave nel combattere la violenza estremista.

Niger
Fonte: Mappr


Un Paese senza sbocchi sul mare che condivide le sue frontiere con sette Paesi incluso Nigeria, Mali, Chad, Algeria e Libia, occupa una posizione strategica sulla mappa dell’Africa, siede all’incrocio tra il Nord Africa, il Sahel e il bacino del Lago Chad. Il governo nigerino ha regolarmente affermato che la sua posizione geografica spiega il deterioramento delle sue condizioni di sicurezza nel corso del tempo, attribuendo la causa della propria instabilità alle ripercussioni dei conflitti nei Paesi vicini. Subito dopo i ritiri francesi e dell’Unione Europea dal Mali, Bazoum ospita personaggi di alto profilo incluso il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, suggerendo l’importanza degli interessi occidentali di sicurezza nel Sahel.
Negli anni recenti, combattenti dal Mali e dal Burkina Faso si sono spinti sempre di più nella regione Tillaberi, che è nel triangolo tra Niger Mali e Burkina Faso. La regione Diffa, vicino alla frontiera nigeriana, ospita centinaia di migliaia di nigeriani che sono scappati dalla violenza di Boko Haram e gli attacchi transfrontalieri sono aumentati. All’aumentare delle tensioni tra il Mali e la Francia negli anni recenti ed il collasso della relazione tra i due Paesi, il Niger ed il Burkina Faso hanno puntato nell’altra direzione, muovendosi rapidamente per rassicurare Parigi della loro volontà di sostenere i loro partneriati sulla sicurezza.

Ciò che sarebbe necessario è una concettualizzazione più ampia di cosa costituisce la Sicurezza.

L’inizio delle ribellioni che hanno minato la sicurezza nel Sahel nella passata decade, è coinciso con un accordo diffuso e condiviso che la violenza avrebbe avuto delle ramificazioni socio-economiche, politiche ed umanitarie significative per i Paesi della sub-regione. Molti osservatori hanno creduto che la minaccia posta dai militanti delle organizzazioni violente islamiche, dalle reti di criminali e da altri gruppi armati sarebbe stata confinata al Sahel, senza espandersi al sud verso il Golfo di Guinea.

L’Africa occidentale costiera, incluso le regioni litoranee della Nigeria, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, si presumeva fossero sicure dall’espansione delle organizzazioni estremiste violente.

Queste supposizioni contengono delle imperfezioni, incluso una concettualizzazione limitata di sicurezza e una errata diagnosi della violenza estremista islamica come causa piuttosto che come sintomo di problemi più profondi di governance, legittimità e nation-building.

Questa supposizione è coincisa con una risposta militarizzata alla violenza estremista da parte dei governi regionali e dei partner internazionali, che hanno concentrato i loro sforzi di contro terrorismo a spese di altre minacce alla sicurezza, incluso il brigantaggio, la pirateria, il crimine transnazionale, le tensioni inter e intra comunitarie così come i traffici illegali.

Queste supposizioni imperfette hanno iniziato a collidere con la realtà diversi anni fa.

Nel 2016, la città di Grand-Bassa, circa 35 km ad est di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio è attaccata da un uomo armato affiliato con Al Qaeda nel Maghreb Islamico

Nel 2019, ufficiali della sicurezza burkinabe intercettano comunicazioni tra militanti all’interno del Paese e altri in Benin, Ghana e Togo. L’anno successivo il Burkina Faso e la Costa d’Avorio conducono l’operazione congiunta Comoe un’operazione militare che ha come obiettivo i militanti islamisti nelle aree di frontiera tra i due Paesi, uccidendone 8 e catturandone 38 distruggendo i campi di addestramento.

Nel 2021 un posto di sicurezza nel nord del Togo, vicino alla frontiera con il Burkina Faso è attaccato da banditi armati.
Anche in Ghana, a lungo considerato da molti il pilastro regionale della stabilità e della governance democratica, i funzionari lanciano l’allarme per il crescente numero di attacchi e di sviluppi nefasti vicino alle sue frontiere, sebbene non vi sia un importante primato di attacchi nel Paese.
Per non parlare della Nigeria, l’egemone dell’Africa occidentale, ma verosimilmente il vettore regionale di instabilità. La ribellione da 13 anni di Boko Haram nel nord est è ben nota, ma ha visto diverse evoluzioni, incluso la crescita dello Stato islamico – ISWAP, dopo la morte del leader di Boko Haram Abubakar Shekau nel 2021 e la rinascita della fazione Ansaru affiliata di Al Qaeda. Il numero di attacchi terroristi è aumentato del 49% tra il 2020 ed il 2021.

Dipingere la minaccia degli estremisti violenti islamici come l’unica o la più importante espressione di instabilità nell’Africa occidentale si è provato controproducente.

Molti nigeriani per molto tempo hanno creduto che non era probabile che Boko Haram e i suoi affiliati potessero ottenere un punto d’appoggio a sud della confluenza Lokoja, considerata come la linea di divisione tra il nord ed il sud della Nigeria. Tuttavia, i funzionari della sicurezza hanno avvertito dei tentativi di Boko Haram di espandere le sue attività a sud, incluso nel Lagos il centro economico nevralgico del Paese. Recenti attacchi nello stato di Kogi, di cui Lokoja è la capitale sembrerebbero indicare un altro esempio di attività dell’estremismo violento che si diffonde verso la parte litoranea dell’Africa occidentale. Insicurezza e morti violente nella costa a sud della Nigeria – nelle parti centrali – presumibilmente tra agricoltori e mandriani si sono intensificati negli anni recenti. Nella regione del delta del Niger le sfide alla sicurezza si sono similmente intensificate: vandalismo, furto di petrolio, attività di gang, rapimenti e violenza comunitaria schiacciano le forze di sicurezza impiegate nella regione nei vari Stati. Mentre questi sviluppi non hanno una connessione dimostrata con ISWAP o Boko Haram, sono giudati in larga parte da attori non statali la cui capacità di impiegare la violenza e contestare l’autorità dello Stato non è meno spaventosa.

Questi esempi mettono in luce la vulnerabilità della costa dell’Africa occidentale alle ripercussioni dell’attività estremista da parti remote del Sahel. Essi indicano anche alle imperfezioni nelle supposizioni che hanno influenzato la risposta di sicurezza da parte di governi regionali e dei loro partner internazionali.

Dipingere la minaccia dei militanti islamici come l’unica o anche la più importante espressione dell’instabilità dell’Africa occidentale – per non dire la sola ed unica causa – si è provato controproducente. Così come affidarsi unicamente ad una robusta risposta del controterrorismo e ad operazioni militari, affrontando poco le questioni più profonde di debolezza della governance, ineguaglianza socio-economica e marginalizzazione.

Concentrarsi esageratamente sull’attività militante islamica devia anche dalle vulnerabilità locali che l’estremismo violento ha sfruttato in tutta l’Africa occidentale, mentre ha ignorato l’intersezione dell’estremismo violento con altre minacce alla sicurezza, incluso il traffico illecito di umani e beni, il crimine violento, il conflitto inter-comunitario, la pirateria marittima, il banditismo e i rapimenti.

In esempi dalla Nigeria al Niger al Burkina Faso e al Mali, le condizioni che hanno reso possibile la crescita delle organizzazioni estremiste violente hanno anche permesso la proliferazione di queste altre forme di violenza.

I conflitti locali nelle aree litoranee dell’Africa Occidentale possono servire come punti di entrata per gruppi estremisti violenti, che sfruttano le divisioni comunitarie parteggiando per una parte, quindi ottenendo sostegno in cambio di servizi vitali come la sicurezza, il trasporto e le infrastrutture pubbliche, una tendenza comune nelle comunità di frontiera nella Regione.


Gli Stati costieri dell’Africa occidentale mostrano quasi tutti le stesse vulnerabilità locali come le loro controparti del Sahel, incluso istituzioni statali deboli, frontiere porose, alti livelli di povertà, ineguaglianze economiche, divisioni rurali-urbane. Tutti questi fattori possono facilitare la diffusione dell’attività estremista mentre rendono le attività criminali attrattive. I gruppi estremisti violenti islamici collaborano direttamente o indirettamente con altri gruppi criminali, incluso i minatori illegali di oro, i bracconieri, i trafficanti che condividono i loro interessi nell’assenza o debolezza della presenza dello Stato e delle sue istituzioni.


Gli estremisti islamici in Niger, Mali e Burkina Faso utilizzano il Benin, la Costa d’Avorio, il Ghana, il Togo come risorse o zone di transito per finanziamento e logistica. Il bestiame rubato dal Mali e dal Burkina Faso, ad esempio è venduto regolarmente in Benin, Costa d’Avorio e Ghana, con i profitti che passano attraverso una vasta rete di complici per raggiungere una vasta gamma di gruppi armati che includono, ma non sono limitati a, estremisti violenti. Il petrolio rubato dalla Nigeria è venduto lontano dalla Costa d’Avorio, creando una rete transnazionale di petrolio rubato.


Sebbene l’estremismo violento sia significativo, vi sono altre minacce alla sicurezza che si sono rivelate destabilizzanti per la stabilità regionale ma non hanno avuto lo stesso grado di attenzione da parte dei governi.

Un serio tentativo di affrontare l’instabilità dell’Africa occidentale deve lottare con l’intersezione tra l’estremismo violento e altre minacce alla sicurezza, invece di vederle diverse.

Deve anche vederle non come cause di instabilità, ma come sintomi di lacune socio-politiche profonde che realisticamente non possono essere risolte soltanto da un approccio di sicurezza. Inoltre deve essere consapevole che l’Africa Occidentale costiera è adesso parte del nesso di insicurezza che molti hanno presunto che in Sahel sarebbe stato contenuto.

Ritorniamo in Niger

Il poco tempo in carica di Bazoum è stato caratterizzato da un approccio duro alla governance. Avendo svolto una campagna elettorale promettendo di eradicare la corruzione nel governo, ha compiuto sforzi in questo senso, ma essi sono stati vagliati molto attentamente; molti nigerini sospettano che le ondate di arresti di ufficiali della sicurezza e funzionari governativi di alto grado siano state meramente un pretesto per disfarsi di coloro che Bazoum percepiva come rivali o oppositori.
Le forze di sicurezza nigerine, che sono considerate meno brutali e complici di abusi dei diritti umani rispetto alle loro controparti maliane e burikinabe, hanno giocato un ruolo significativo nello sforzo di controterrorismo nel Sahel. Pur tuttavia anche loro sono stati invasi dalla piaga di alti livelli di corruzione e facilmente cooptati dai criminali delle reti di trafficanti. Accuse di corruzione hanno a lungo piagato il Ministero della difesa nigerino.
Nel 2020 un audit governativo ha rivelato perdite per milioni di dollari in accordi di corruzione per commercio internazionale di armi. Rivelazione che ha portato in piazza a Niamey i manifestanti a cui il governo ha risposto con una repressione e l’arresto di molti attivisti.
Le partnership di sicurezza con le potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti hanno permesso alle elite di sicurezza e politiche di consolidarsi al potere a spese del compito di fornire una governance democratica di lungo termine, piuttosto che contribuire alla stabilità nazionale e regionale o migliorare la qualità delle istituzioni nigerine.

La strategia della Francia nel Sahel

Il governo francese ha lanciato l’operazione Barkhane, di controterrorismo regionale e counter insurgency, nel 2014 per combattere i gruppi estremisti islamici violenti che avevano preso il controllo di vaste porzioni di territorio nel nord del Mali diffondendosi anche in Burkina Faso ed in Niger.

Fonte: rawpixel

Nella decade seguente, l’insicurezza nel Sahel ha ucciso e ferito migliaia e dislocati milioni di più. La crisi di sicurezza nel Sahel è alimentata dall’instabilità politica, dalla governance debole, da torti storici così come la povertà della Regione. La Regione è una delle più povere del mondo, con condizioni meteorologiche estreme, bassa produttività agricola e accesso limitato ai servizi essenziali. La violenza intercomunitaria, in crescita, è alimentata dalla competizione per la terra e le sue risorse tra gruppi etnici, che conduce ad ulteriore dislocazione e alla rottura della coesione sociale nella regione, particolarmente in Mali, Burkina Faso e Niger.
Nel corso degli anni, l’Operazione Barkhane ha affrontato critiche per i suoi alti costi, così come le sue implicazioni coloniali, la sua “mano pesante”, il suo fallimento nel migliorare la sicurezza nelle aree dove operava e la sua inefficacia nell’affrontare le cause sottostanti alla crisi. Le tensioni che sono emerse tra la Francia e la junta militare che governa ora il Mali hanno condotto Parigi a ritirare le sue truppe dal Paese a seguito della richiesta di Bamako nel novembre dell’anno scorso.
Le forze francesi si sono anche ritirate dal Burkina Faso nel gennaio del 2023 a causa di tensioni con la junta militare, sebbene non sia stata una rottura definitiva della loro relazione diplomatica.
Vi è una crescente sensazione che la relazione ha bisogno di essere rivalutata per assicurare che essa sia basata sul rispetto reciproco e su obiettivi condivisi.
L’efficacia degli sforzi di miglioramento della sicurezza dipendono dagli sviluppi politici più ampi nella Regione, iniziando proprio dalle relazioni tra Mali e Niger. Dal colpo di stato militare in Mali guidato dal colonnello Assimi Goita nel maggio del 2021, il Presidente del Niger Mohamed Bazoum ha ripetutamente criticato le azioni dell’esercito del Mali, in talune occasioni utilizzando un linguaggio tutt’affatto diplomatico. Le tensioni sono aumentate nel settembre del 2022, quando il Niger ha sospeso il transito dei prodotti petroliferi verso il Mali, citando delle presunte ragioni di sicurezza a causa della minaccia jihadista. In risposta il primo ministro ad interim del Mali, il colonnello Abdoulaye Maiga, ha utilizzato ciò che è stato definitivo come un linguaggio provocatorio “pas être nigérien” riferito a Bazoum durante un suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo stesso mese.
Gruppi armati non statali hanno sfruttato e sfruttano la frontiera porosa tra i due Paesi per condurre attacchi, mentre i conflitti intracomunitari hanno causato violenza e dislocazione in entrambi i Paesi. Malgrado sforzi congiunti le operazioni militari di entrambi i Paesi contro questi gruppi sono state complicate da risorse, addestramento e coordinazione inadeguati.
Le recenti tensioni tra il Niger ed il Mali hanno iniziato a minare il quadro del G5 Sahel Joint Force, creato nel 2014 per migliorare la collaborazione tra i cinque Paesi regionali: Burkina Faso, Chad, Mauritania in aggiunta al Mali e Niger, per affrontare le condivise sfide di sicurezza. Il quadro ha ricevuto un sostanziale sostegno dai partner internazionali come la Francia, l’Unione Europea, le Nazioni Unite. Per essere efficace, esso conta sulla fiducia e sulla coooperazione entrambe limitate, negli ultimi mesi, tra Mali e Niger. Detto ciò il G5 Sahel Joint Force ha limiti suoi propri, incluso le sfide logistiche e la mancanza di risorse e le sue operazioni congiunte sono state accusate di compiere abusi di diritti umani. Tutto ciò evidenzia il fatto che qualsiasi soluzione efficace per la crisi di sicurezza nel Sahel richiederà più di una risposta unicamente militare.
Per migliorare la sicurezza nel Sahel, gli Stati regionali e i loro partner internazionali devono affrontare le cause sottostanti la crisi. Ciò implica affrontare la povertà, l’ineguaglianza, la governance, che alimentano le ideologie estremiste e le attività criminali. Inoltre, sarà necessario per gli Stati regionali e le organizzazioni lavorare in maniera collaborativa con le comunità locali e le organizzazioni della società civile, che possono fornire delle comprensioni di valore circa i bisogni e le preoccupazioni della popolazione ed aiutare a costruire la fiducia e la legittimità per gli interventi di sicurezza.
In breve, il miglioramento del coordinamento di sicurezza nel Sahel richiede un approccio complesso, vario, sfaccettato che affronta le cause alla radice dell’insicurezza mentre fa leva sui punti di forza delle operazioni militari congiunte, sulla condivisione di intelligence e sul coinvolgimento della popolazione. Nessuno di questi sarà possibile, tuttavia, se la mancanza di fiducia ed il risentimento (tra la Francia e gli Stati regionali) e tra gli Stati regionali stessi mutila la comunicazione e la cooperazione necessarie perché un tale sforzo sia di successo.
Nella misura in cui le partnership europee di sicurezza in Mali e Burkina Faso sono state terminate dalle junta militari i cui ufficiali sono stati addestrati attraverso i programmi di assistenza degli Stati Uniti ha condotto ad una rivalutazione a Bruxelles e a Washington a proposito del loro coinvolgimento strategico con la regione. Già prima del coup in Niger, il governo francese aveva deciso di tagliare massicciamente il numero delle sue truppe in Gabon, Senegal, Costa d’Avorio.

Russia e Cina – come dicono gli inglese in a nutshell

Mentre la Russia ha la capacità militare di essere a “prova di coup” dei regimi autoritari e sfruttare le industrie di esportazione basate sulle risorse, come le miniere, l’incapacità dei mercenari russi di ridurre l’espansione jihadista nel Mali indica che Mosca non ha la capacità di sconfiggere gli estremisti violenti vicino alle frontiere.

E mentre l’investimento cinese ha avuto un grande impatto sullo sviluppo delle economie attraverso tutta l’Africa, Pechino ha mostrato poco interesse nel creare delle strutture strategiche di cui avrebbe bisogno come garante della sicurezza nel continente.

Novembre 6 2020

Le linee strategiche della politica estera di Francia e Turchia

Turchia Francia politica estera

Quando Macron è salito al potere sembrava non avere preconcetti su come gestire le relazioni della Francia con la Turchia, che si sono deteriorate prima che lui s’insediasse nel 2017. La Francia ha approvato, nel 2001, una legge che riconosce ufficialmente il genocidio armeno da parte dei turchi ottomani – un evento che la Turchia moderna continua a negare – e i funzionari francesi hanno ripetutamente messo in discussione l’appartenenza della Turchia all’Unione Europea.

Anche se la Francia ha espresso non poca riluttanza sull’accordo Unione Europea – Turchia del 2016 sulla gestione delle migrazioni, la visita a Parigi del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 si è svolta in un clima disteso.

Le relazioni tra i due Paesi hanno preso una piega negativa a causa delle politiche divergenti in Siria e Libia.

Nel nord della Siria, la Turchia ha cercato di schiacciare le forze di milizia curde del YPG (Unità di Protezione Popolare) che sono dei partner e protégés della Francia sul terreno e i cui leader sono stati ospitati due volte a Parigi, nel 2018 e nel 2019.

In Libia, Ankara ha, sin dal 2019, sostenuto il governo di Accordo nazionale a Tripoli laddove Parigi ha, non ufficialmente, sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar, anche se Macron ha ripetutamente cercato di mediare tra le due fazioni.
Vi sono altri motivi di nervosismo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi:

  • un deciso aumento del sostegno da parte del governo francese alla causa armena, con Macron che istituisce un giorno del ricordo per il genocidio;
  • la crescente affermazione, in Francia, delle reti della diaspora turca associate con il partito di Erdogan Giustizia e Sviluppo;
  • l’indurimento della posizione di Macron verso l’Islam radicale in Francia, che implica investigazioni molto più scrupolose sugli imam stranieri, di cui la metà sono turchi.

Soltanto nel giugno di quest’anno la crisi tra le due capitali è esplosa: quando una fregata russa punta il suo radar di individuazione obiettivi su vascello francese che stava imponendo l’embargo di armi stabilito dalle Nazioni Unite contro la Libia come parte di un’operazione NATO. La Turchia successivamente ha moltiplicato le sue incursioni nelle acque contese dalla Grecia e da Cipro nel Mediterraneo – Est, permettendo a Macron di presentare la Francia – ed egli stesso – come il difensore delle frontiere europee e della sovranità di fronte alla crescente affermazione, se non aggressività, della Turchia.

Macron è stato abbastanza astuto: si è tacitamente associato con la Germania che ha giocato il ruolo di negoziatore quieto con Ankara, permettendo alla Francia di assumere il ruolo di tutore dell’ordine.

La Francia ha ospitato il summit speciale del Med7, un Gruppo di 7 paesi litoranei del Mediterraneo, a settembre, per dimostrare la solidarietà europea alla Grecia e a Cipro. Ha esercitato pressione in seno al Consiglio dell’Unione Europea affinché, agli inizi di ottobre, la Turchia fosse avvertita di potenziali sanzioni. A metà ottobre sia Berlino che Washington pubblicamente hanno irrigidito la loro posizione verso Ankara, che per il momento ha dichiarato la sua volontà di negoziare con Atene per risolvere i loro contrasti.

Per comprendere l’approccio tagliente di Macron alla Turchia, ci aiuta tornare indietro all’ottobre del 2019 e all’intervista all’Economist, in cui suggerisce che la NATO era “cerebralmente morta”. Dichiarando ciò, non si riferiva all’unilateralismo degli Stati Uniti, alla percezione, all’incerto impegno americano verso l’alleanza dell’amministrazione Trump. Egli voleva puntare il dito su ciò che lui riteneva essere incompatibile con gli interessi dei membri NATO in Siria: la Turchia. Ciò riflette la realtà indiscutibile che la Turchia è vista, adesso, come un piantagrane al Consiglio NATO.

Tuttavia le osservazioni di Macron confondono due visioni della NATO: da una parte l’alleanza di difesa reciproca e dall’altra un club di Stati membri che palesemente la pensano allo stesso modo. In effetti, la NATO come alleanza non ha niente da dire sulle azioni dei membri prese individualmente né Siria né in Libia, laddove invece l’allineamento della Francia con la Russia sfoca le linee tra avversari e alleati.

Il commento di Macron sulla NATO “morta cerebralmente” rischia di diventare una profezia autoavverante. Dopo tutto, la Francia stessa non sempre consulta i suoi alleati o cerca il loro supporto prima di intraprendere iniziative diplomatiche. A malapena lo ha fatto in Libia.

Turchia

Il 24 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di devoti nelle strade attorno alla storica Basilica di Santa Sofia ad Istanbul, per un momento doppiamente simbolico. Circondato da un nugolo di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella cattedrale attraversando le giganti porte una volta aperte con la forza dai soldati ottomani nel 1453. All’interno ha letto la preghiera islamica canonica, facendo diventare la cattedrale di 1500 anni una moschea.

In questo modo Erdogan ha voltato pagina a nove decadi di storia recente, durante i quali questa struttura straordinaria e sito patrimonio mondiale UNESCO era stata globalmente riconosciuta come simbolo di una Turchia secolare. Dal 1934, Santa Sofia non era stata né una cattedrale, né una moschea, ma un museo secolare, stabilito come tale dal reale fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk.

Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno Stato secolare quel giorno; scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche mettendo in discussione le intere fondamenta dello status internazionale della Turchia moderna.

Fu in questa data che nel 1923 la Turchia di Ataturk firmava il Trattato di Losanna, che poneva fine ad anni di guerra e occupazione, mentre conferiva un riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica di Turchia. Questo Trattato era stato formalmente sospeso dal predecessore della Repubblica, l’impero ottomano, che un tempo si estendeva dal Caucauso allo Yemen, dall’Iraq alla Libia. Ratificando il Trattato di Losanna, Ankara rinunciava a tutte le rivendicazioni su quei territori, e con esse, la sua precedente grandeur imperiale.

Ora la Turchia sta compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo che il Trattato di Losanna aveva fondamentalmente stabilito.

Il nesso con la Libia

Nel novembre del 2019, la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico di Tripoli, noto come governo di accordo nazionale (GNA).

Il conflitto civile in Libia contrappone il GNA alle forze del generale Khalifa Haftar e il suo esercito nazionale libico, che è fedele al governo basato a Tobruk. Nel corso del 2019, il conflitto in Libia è divenuto una guerra proxy conclamata.

Turchia e Italia sostengono il GNA;

Russia, gli Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia hanno fornito supporto – incluso assistenza militare – alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi ogni formale sostegno.

In risposta ad una improvvisa offensiva delle forze di Haftar nell’aprile del 2019 che si sono spinte alla periferia di Tripoli, Ankara ha iniziato ad inviare i mercenari siriani allineati con la Turchia in sostegno del GNA, insieme ad addestratori, forze speciali, armi ed equipaggiamenti. L’accordo del novembre del 2019 ha formalizzato questo sostegno, decisivo per il GNA che ha spinto l’esercito nazionale libico dalla periferia di Tripoli alla città costiera di Sirte ad est.

Allo stesso tempo, l’accordo delineava anche la frontiera marittima tra la Turchia e la Libia. Secondo la posizione turca per cui le isole non possiedono la zona economica esclusiva, le isole greche che sono tra la Turchia e la Libia – Creta, Rodi e Castelrosso – non hanno tale tipo di zona. Dunque, in base a tale visione, tra le coste della Turchia e della Libia vi sarebbero solo le acque del Mediterraneo.

Dalla prospettiva di Ankara, l’elemento marittimo del suo accordo con la Libia concede alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo nelle acque di Cipro, ma al di là delle coste delle isole greche come Creta e Castelrosso. Sicuro di ciò, quest’estate, a luglio, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia acquisirà questo diritto: avvierà ricerche sismiche e invierà delle navi da trivellazione in quelle che Atene e la maggior parte di altri governi nel Mediterraneo ritengono essere acque territoriali greche.

Il 10 giugno di quest’anno, il presidente francese Macron interviene dopo le tensioni tra una fregata francese e tre navi da guerra turche a largo della costa libica. La nave francese che operava in un’operazione NATO per applicare l’embargo di armi alla Libia sancito dalle Nazioni Unite , ha cercato di fermare ed ispezionare una nave cargo battente bandiera della Tanzania sospettata di trafficare armi. Secondo il ministro della difesa francese, da una delle navi turche che accompagnava la nave cargo si è visto lampeggiare il radar per acquisizione di obiettivi verso la fregata francese e i marinai turchi a bordo hanno indossato i loro giubbotti anti-proiettili e preso posizione dietro le armi. La Turchia asserisce che quella nave cargo trasportava aiuti umanitari.

Successivamente Macron descrive la Turchia come “sostenitrice di una responsabilità storica e criminale” per il suo intervento in Libia. Invita la NATO ad aprire un’inchiesta così come l’Unione Europea ad apporre sanzioni alla Turchia sulla sua campagna di trivellazioni nel Mediterraneo -Est. A luglio, Bruxelles segue questo invito ed impone sanzioni a funzionari di alto livello dello Stato turco e della compagnia petrolifera e di esplorazione di gas.

La posizione degli Stati Uniti favorisce qualcun’altro?

A proposito della Libia gli Stati Uniti hanno aumentato i loro sforzi di ottenere un cessate-il-fuoco dichiarato a luglio, pur tuttavia la loro posizione è controversa. Washington non vuole alienare i suoi alleati arabi che sostengono Haftar, dall’altra parte però vi è la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia.
Una riduzione del livello di coinvolgimento americano nel mediterraneo come priorità strategica è antecedente alla presidenza Trump. Vi è un diffuso sentore nelle capitali della Regione che con Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro abituale ruolo politico nella Regione.


Un’inaspettata conseguenza dell’assenza americana è stata quella di spingere sotto i riflettori un Paese che non ha mai esercitato un’importante influenza diplomatica nel Mediterraneo – Est dai tempi di Bismarck: la Germania.

Come economia più grande e più potente in Europa, la Germania ha un ruolo importante da giocare nel gestire la crisi, considerando che al momento detiene la presidenza dell’UE, che gli permette di plasmare le priorità politiche del blocco per sei mesi.
Da una parte vi sono la Grecia e Cipro, i due Stati membri dell’UE, sostenuti da un presidente francese che sembra credere che una ulteriore intensificazione sia la sola via per dissuadere Erdogan. Dall’altra parte vi è la Turchia, un mercato fondamentale per i beni dell’UE e una rete di protezione chiave per i rifugiati e i migranti che cercano di entrare in Europa. Non sorprende, quindi, che nel tardo luglio, la Germania abbia sostenuto un intervento diplomatico considerevole per cercare di disinnescare un confronto potenzialmente dannoso. Angela Merkel si è impegnata direttamente sia con Erdogan che con il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis; in seguito la Turchia ha dichiarato la sospensione almeno per un mese delle operazioni di trivellazione e ha annunciato un incontro ad Ankara tra funzionari turchi e greci.

Quindi la Merkel, temporaneamente, ha fermato un’intensificazione della crisi.

Il prezzo per risolvere la crisi nel Mediterraneo-Est potrebbe essere quello che fondamentalmente Erdogan vuole da molto tempo: una ri-negoziazione del Trattato di Losanna.

La politica estera della Turchia di Erdogan

Turchia

Vi è stato un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione turca per una politica estera che sposasse lo status quo e che fondamentalmente rifuggisse le avventure estere. L’autore di questa variazione è Recep Tayyip Erdogan.

La trasformazione della politica estera turca durante la sua leadership non ha seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche prevalenti:

  1. l’ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione lui stesso, in un ruolo di leadership globale;
  2. utilizzare – sempre – la nuova politica estera attivista turca come metodo per rafforzare la legittimità domestica del regime ed assicurare la sua sopravvivenza.

Il cambiamento reale della politica estera turca è iniziato attorno al 2010, tre anni dopo che la leadership militare del Paese sfida pubblicamente Erdogan cercando, e fallendo, di apporre il veto all’ascesa di Abduallah Gul alla presidenza. Ciò ha permesso ad Erdogan di consolidare il potere riconfigurando le istituzioni turche, portandole sotto il suo controllo diretto, e, attraverso un contestato referendum nel 2017, rimpiazzare il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. Il dissenso non era più consentito.

È proprio quando Erdogan soffoca le critiche dei militari e quelle all’interno del Paese che inizia a prendere forma la “sua” politica estera. Nel 2009 prima iniziativa: rimprovera Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una discussione al World Economic Forum a Davos, prima di andarsene infuriato. L’anno seguente si lega al Brasile per cercare di preservare un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare con grande fastidio da parte dell’amministrazione Obama. Un anno più tardi porta la Turchia nella guerra civile siriana proiettando il suo sostegno interamente all’opposizione armata a Bashar al-Assad. La Turchia e gli Stati Uniti si scontrano anche sulle operazioni contro lo Stato islamico, dal momento che Erdogan si rifiuta di ascoltare le richieste di Obama di combattere i miliziani estremisti violenti, sebbene essi fossero passati attraverso il territorio turco per unirsi al conflitto. Erdogan ordina addirittura un’invasione, lo scorso anno, nel nord-est della Siria, attaccando alcune forze curde che stavano combattendo lo Stato islamico insieme alle truppe americane.

Più recentemente, il comportamento di Erdogan assume una posizione molto più revisionista. In Libia, i droni turchi e i consulenti militari, per non menzionare le migliaia di militanti siriani reclutati da Ankara per combattere come mercenari, sono riusciti a cambiare il corso degli eventi in favore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli.

Nel sud del Caucaso, la Turchia è stata determinante nel pianificare e sostenere l’assalto dell’Azerbaijan nell’enclave contesa di Nagorno – Karabakh. Così come in Libia, i droni turchi ed i mercenari siriani hanno giocato un ruolo cruciale nell’ultimo round di combattimenti tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Nel Mediterraneo – Est, la sfida alla sovranità greca e cipriota di cui abbiamo già discusso.

Malgrado il pericolo intrinseco nella sua politica del rischio calcolato, Erdogan presume che altri membri della NATO interverranno per disinnescare ogni crisi, calcolando che egli può, nel frattempo, avanzare la sua posizione cambiando le circostanze nel Mediterraneo.

In tutti questi casi la risposta locale, in Turchia, è stata pienamente di sostegno. Erdogan è stato in grado di neutralizzare ogni opposizione facendo appello ai votatori turchi con una predisposizione nazionalista, mentre la stampa ampiamente addomesticata elogia ogni sua impresa “riuscita”. La narrativa che emerge è quella di un ritorno giusto della Turchia come grande potenza con il governo che produce video che legano il presente alle passate glorie ottomane.

Detto ciò, sarebbe sbagliato attribuire alla politica estera turca cambiamenti nella politica domestica.

Erdogan ha ottenuto una notorietà internazionale diventando un leader i cui capricci e richieste devono essere controllati. In questo senso, egli ha raggiunto ciò che si era prefissato di fare: trasformare la Turchia ed egli stesso in attori globali significativi.

Egli è finanche entrato nel discorso politico occidentale: é menzionato regolarmente, con la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, come uno dei tre leader più visibili accolto sul palco dittatoriale mondiale.

Erdogan è un calcolatore e pragmatico quando necessario. Non ci sono barriere protettive all’interno della Turchia che lo controllino, contornato da leccapiedi, nessuno si permette di contraddirlo. Continuerà ad incalzare fino a quando potrà, fino a quando colpirà un “posto di blocco”. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo spingeranno a scendere a compromessi su qualche questione, aprirà subito un altro fronte in qualche altra parte. Erdogan cercherà sempre di stare un passo avanti agli altri, costringendo i rivali e gli alleati a rimanere sulla difensiva.

*Fonti immagini: Aljazeera e BBC news

Settembre 21 2020

Normalizzazione Medio Oriente: siamo sicuri?

normalizzazione

La narrativa della normalità e della normalizzazione è stata presente per diverso tempo nei più ampi dibattiti di relazioni internazionali, ma si è registrata la carenza di uno sforzo esplicito di teorizzare il loro significato nella pratica. La normalizzazione difficilmente può essere considerata un contributo alle politiche di legittimazione semplicemente perché la sua stessa logica è situata su un binario: da una parte le forze che posseggono la conoscenza e l’autorità di normalizzare altri, e dall’altra i sottovalutati, gli screditati che sono anomali e che hanno bisogno di cure. Ogni pratica di normalizzazione ha come conseguenza la marginalizzazione e l’esclusione di altre pratiche giudicate anormali.

La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.

Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica.
Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.

Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.

Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.

Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.

Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.

Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.


Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).

Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.

Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.

L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.


L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.

Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.


Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana – è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.

Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così,
favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.

Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti.
E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.

Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.

Marzo 28 2020

La propaganda cinese ai tempi del COVID-19

COVID-19

Il tasso di trasmissione del coronavirus all’interno della Cina continua a scendere, il governo cinese ha dichiarato la settimana scorsa che il picco del suo COVID – 19 è passato. Con l’epidemia a casa ampiamente sotto controllo, Pechino sta dirigendo la sua attenzione sui casi importati da viaggiatori infetti. Sta anche cercando di rimodellare la narrativa della pandemia che si è originata in Cina.

Wuhan, la città nella Cina centrale, epicentro dell’epidemia, rimane in isolamento. Le misure draconiane imposte in altre parti del Paese sono state gradualmente allentate. La Cina ha riportato solo un caso di trasmissione domestica del virus e 12 nuovi casi che coinvolgono viaggiatori dall’estero. Le autorità hanno risposto ampliando le regole della quarantena per gli arrivi dall’estero e scoraggiando i cittadini dal viaggiare verso Paesi colpiti dalla pandemia.

Le autorità cinesi hanno spostato la loro attenzione verso l’estero e così  anche la propaganda del Partito Comunista. In uno dei più vergognosi esempi, il portavoce del ministro degli esteri cinese ha scritto in un tweet che l’esercito americano potrebbe essere responsabile di aver portato l’epidemia a Wuhan.

COVID-19

 

Ha poi asserito che citare la Cina come origine del virus è “immorale e irresponsabile”. I commentatori cinesi accusano della diffusione (e origine) del coronavirus Stati esteri come il Giappone o l’Italia. Gli organi di stampa ed egualmente i funzionari cinesi si sono particolarmente impegnati a strombazzare il successo della risposta cinese alla crisi, offrendosi come un modello per il resto del mondo.

Sembra proprio che il governo cinese non accetti più che il virus si sia originato a Wuhan, anche se il presidente Xi Jinping aveva precedentemente pubblicamente riconosciuto ciò.

Sicuramente anche gli Stati Uniti hanno prodotto la loro ingente quantità di teorie di cospirazione. Il Senatore Tom Cotton, un repubblicano dell’Arkansas si è posto la domanda se l’epidemia fosse il risultato di un arma biologica cinese creata in maniera blanda. Recentemente il presidente Donald Trump si è riferito al COVID-19 come al “virus cinese” e il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ripetuto a pappagallo il “Wuhan virus”.

La realtà è che l’epidemia poteva essere contenuta o interamente evitata se le autorità cinesi non avessero ignorato o soffocato gli avvertimenti di un “virus misterioso” a Wuhan che possono essere fatti risalire al novembre del 2019.

Sfortunatamente, un’intensificazione di battibecchi tra gli Stati Uniti e la Cina sulla libertà di stampa ostacolerà solo la diffusione di informazioni accurate fuori dalla Cina.

Le campagne di informazione, di propaganda, della Cina e degli Stati Uniti sono distinte, da considerare ed analizzare separatamente, in cui ognuno persegue obiettivi differenti e i interessi propri.

La Cina è impegnata in uno sforzo su molteplici fronti per riscrivere la storia ed emergere rafforzata dalla crisi globale. Le misure di isolamento draconiane a Wuhan e nella sua provincia vicina appaiono aver spento molta della capacità del virus di moltiplicarsi all’interno della popolazione cinese. I dati ufficiali mostrano solo nuovi casi con il contagocce, anche se il resto del mondo lotta con un enorme ondata di infezioni che travolgono gli ospedali.

Il palcoscenico per la Cina è pronto: mostrare un’aria trionfante e mettersi al lavoro sul confezionamento dei suoi messaggi di pubbliche relazioni sia per il consumo domestico che internazionale.

Il leader cinese, Xi Jinping, mira ad utilizzare la crisi del coronavirus per rafforzare la sua posizione personale nel proprio Paese, assieme alla presa al potere del Partito Comunista. Il messaggio di Xi alla popolazione cinese è che sono fortunati ad avere un leader così forte e saggio e un sistema unificato ed efficiente. Il suo messaggio al resto del mondo è che la Cina è il potere del futuro – il suo sistema vale la pena di essere emulato, chiaramente superiore all’alternativa democratica, specialmente quando Paesi dagli Stati Uniti all’Italia si inerpicano per gestire la pandemia, spesso con precarie leadership e con centinaia di milioni di persone che sopportano ordini di stare a casa.
È un messaggio che chiede una risposta dall’occidente. Solitamente, Washington sarebbe quello che ne articolerebbe una molto più robusta, ma ciò non sta avvenendo.
Trump invece lancia colpi di retorica a raffica contro la Cina durante i suoi discorsi giornalieri sul virus. Sarebbe un errore vedere questi commenti come una difesa della democrazia. L’insistenza di chiamare il COVID-19 “virus cinese” è uno sforzo di propaganda domestica con obiettivi puramente politici nell’anno di rielezione. Egli fa ricorso ad un nazionalismo fuori moda con aperture xenofobe, cercando di suscitare i sentimenti patriottici e proteggere sé stesso dalle conseguenze negative della sua risposta iniziale alla pandemia, disastrosa. Trump ha bisogno di radunare i suoi sostenitori e cercare di persuadere ognuno che lui sta dando ascolto agli esperti veri, reali. Trump è particolarmente disperato dal momento che le sue affermazioni per cui la sua amministrazione aveva tutto sotto controllo con il coronavirus si sono rivelate rovinosamente errate, proprio quando si prepara a salire in sella alla sua campagna di rielezione.

Trump, tuttavia, sta contrastando la propaganda cinese in un solo modo. Egli è corretto nel far notare che Pechino è stata lenta a dire al mondo che il virus era iniziato in Cina. Che poi Trump stia utilizzando questa circostanza per proteggere sé stesso da accuse di incompetenza non rende il fatto meno vero.

Quando la crisi terminerà, la Cina avrà ottenuto degli importanti guadagni in termini di influenza geopolitica rispetto all’occidente, a meno che l’occidente non risponda rapidamente e spieghi la disinformazione.

La storia che la Cina sta raccontando al mondo non è solo quella di dove il virus è iniziato. I suoi media controllati dal governo hanno dichiarato esplicitamente che il sistema cinese è superiore, notando come i partiti politici negli Stati Uniti hanno litigato su come rispondere, indicando altre carenze negli Stati Uniti e più in generale nell’occidente. Il messaggio non è solo di una competizione tra superpotenze, è anche di difesa dell’autoritarismo come sistema più adatto ad affrontare le crisi più grandi, significative.

Allo scopo di confezionare questa argomentazione, la Cina deve soffocare i fatti ben documentati sulla comparsa del virus e arginarli.  Le autorità di Pechino lavorano freneticamente per mantenere il misterioso contagio a Wuhan segreto. I dottori che hanno cercato di dirlo al mondo sono stati o detenuti o fatti tacere. Giornalisti sono “scomparsi”. Ai laboratori cinesi che conducono i test per esaminare il nuovo patogeno è stato ordinato di fermare i loro test e di distruggere i loro campioni.

In altre parole, sono precisamente le pratiche autoritarie della Cina che hanno permesso che un’epidemia a Wuhan diventasse una pandemia.

È anche un fatto, che altre democrazie, come il Sud Corea o Taiwan, hanno gestito il contenimento della loro propria epidemia di coronavirus senza le misure alle volte brutali intraprese in Cina.

La propaganda aggressiva della Cina sul coronavirus si svolge su diversi fronti. Vi sono espressioni ostentate, altamente pubblicizzate della generosità di Pechino verso Paesi che patiscono il peggio della pandemia – con aerei cinesi che forniscono bancali pieni di forniture mediche, diligentemente ed estensivamente diffuso dai media cinesi. Non è una coincidenza che anche la Russia si sia unita, cercando di vendere il suo presunto successo nell’impedire la diffusione del virus e inviando anche carichi di forniture mediche.
Come qualcuno ha notato, è bene vedere gli aerei russi fornire aiuti umanitari in Italia invece di sganciare bombe in Siria. Ma da dove venga l’aiuto, da Pechino o da Mosca, non vi è questione, che sebbene benvenuto, la sua intenzione non sia puramente umanitaria.

L’Europa, i suoi Stati membri, dovrebbero mettere da parte il loro risentimento per il rozzo modo con cui Trump ha gestito la pandemia, ignorando i suoi molti dispetti contro gli alleati, e smascherare la narrativa anti-occidentale di Pechino.

L’affermazione della Cina che Pechino ha svolto un lavoro ammirevole nell’affrontare il COVID-19, mentre le democrazie non sono attrezzate per affrontarlo è semplicemente una menzogna. L’epidemia si è diffusa precisamente perché Pechino ha risposto ad essa come un regime autoritario.

Nessuna quantità di aiuto cinese ai Paesi che adesso soffrono per la pandemia dovrebbe oscurare questa circostanza.

Gennaio 8 2019

La competizione tra Stati Uniti e Cina si amplierà nel 2019

competizione Stati Uniti e CIna

Alla domanda: “Qual è, nella politica internazionale, la sfida più importante che si pone in questo nuovo anno?”, la risposta è abbastanza facile: l’intensificazione della competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia vi è una sottile, ma drammatica prova a cui il sistema delle relazioni internazionali è sottoposto: il rapido deterioramento del quadro di controllo delle armi nucleari.

Gli Stati Uniti e la Cina sono in rotta di collisione nel sistema multilaterale dall’inizio dell’amministrazione Trump. Il Presidente degli Stati Uniti e i suoi consulenti sembrano condividere due percezioni basilari a proposito della politica internazionale. La prima è che la Cina è un competitore strategico ed economico totale che deve essere contrastato. La seconda è che le organizzazioni internazionali e la legislazione internazionale sono per natura faziosi  nei confronti degli Stati Uniti e che c’è bisogno di tornare al passato o solamente ignorare le regole internazionali.
Non sorprende il fatto che funzionari americani di più alto livello abbiano ora unito questi due presunti problemi in un’unica ipotesi di lavoro: “la Cina sta utilizzando il sistema multilaterale per superare in astuzia gli Stati Uniti“.

Dunque, Washington mira a respingere Pechino su molti fronti, dalla proiezione di potenza nel Mare del Sud della Cina, allo sviluppo di intelligenza artificiale. La priorità numero uno è limitare la crescente influenza cinese negli organismi multilaterali.

Non vi è dubbio che, ultimamente, la Cina abbia acquisito molta influenza negli organismi multilaterali. Ironicamente una delle ragioni per cui Pechino ha aumentato la sua sfera d’influenza è l’allontanamento dell’amministrazione Trump da ampie porzioni del sistema delle Nazioni Unite; ciò ha creato lo spazio politico in cui la Cina, scaltramente, si è posizionata.

Sebbene i politici cinesi insistano nel non aver alcun desiderio di usurpare il ruolo degli Stati Uniti come leader globale, se Washington cercasse di minare la posizione raggiunta a livello multilaterale dalla Cina, lo scontro diplomatico che ne risulterebbe potrebbe paralizzare la cooperazione internazionale in ogni settore: dall’arbitrato sul commercio, alla gestione di scenari complessi come quello del Sud Sudan.

Il controllo delle armi nucleari mette a repentaglio l’architettura della sicurezza internazionale

Le tensioni sulle armi nucleari tra gli Stati Uniti, la Russia e le altre Potenze mettono a repentaglio molta dell’architettura di sicurezza internazionale. Gli Stati Uniti recederanno presto dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) per presunte violazioni da parte dei russi. Mentre Mosca respinge queste accuse, entrambe le parti sono occupate nell’ammodernamento dei loro arsenali nucleari.

Una competizione bilaterale questa in cui vi sono molte frizioni su come affrontare, attraverso meccanismi multilaterali, le sfide poste dalla proliferazione nucleare sia da parte della Corea del Nord che da parte dell’Iran. Cina e Russia non sono convinte della necessità di mantenere il pieno regime sanzionatorio previsto dalle Nazioni Unite per la Corea del Nord.

Lo sgretolamento  dell’accordo con l’Iran sul nucleare, durante l’amministrazione Trump, potrebbe accrescere lo spettro del ritorno di Teheran al suo programma nucleare, allontanando ulteriormente gli Stati Uniti e le altre Grandi Potenze sulle modalità di risposta a tale possibilità.
Se i colloqui sul nucleare con la Corea del Nord, che spesso appaiono bizzarri, implodessero, l’amministrazione Trump potrebbe sfidare la Cina e altri giocatori a punire ulteriormente Pyongyang.

Non è trascurabile la circostanza per cui sarebbe abbastanza difficile che gli Stati Uniti redigano un accordo con la Russia sulla guerra nell’est dell’Ucraina, se le tensioni sul nucleare aumentassero, per non parlare di raggiungere un accordo decisivo e finale sul futuro della Siria con l’Iran e la Russia.

Sono più importanti, nel quadro del sistema internazionale, le rivalità locali, i conflitti che si generano per la percezione che un determinato gruppo ha di aver subito dei torti nei confronti di un altro gruppo, rispetto a quella che può essere la visione d’insieme di Washington o Pechino.

L’esistenza permanente di un sistema multilaterale che è in grado di impegnarsi efficacemente in crisi come quelle sopra menzionate, dipende necessariamente dall’accordo, almeno sulle forme basilari, di cooperazione e dalla fissazione di regole, tra le Grandi Potenze all’interno del sistema internazionale.

In questo inizio d’anno vi sono dei segnali preoccupanti che indicano che sia gli Stati Uniti che i loro rivali non vedano più nello stesso modo le regole del sistema multilaterale.