Novembre 6 2020

Le linee strategiche della politica estera di Francia e Turchia

Turchia Francia politica estera

Quando Macron è salito al potere sembrava non avere preconcetti su come gestire le relazioni della Francia con la Turchia, che si sono deteriorate prima che lui s’insediasse nel 2017. La Francia ha approvato, nel 2001, una legge che riconosce ufficialmente il genocidio armeno da parte dei turchi ottomani – un evento che la Turchia moderna continua a negare – e i funzionari francesi hanno ripetutamente messo in discussione l’appartenenza della Turchia all’Unione Europea.

Anche se la Francia ha espresso non poca riluttanza sull’accordo Unione Europea – Turchia del 2016 sulla gestione delle migrazioni, la visita a Parigi del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 si è svolta in un clima disteso.

Le relazioni tra i due Paesi hanno preso una piega negativa a causa delle politiche divergenti in Siria e Libia.

Nel nord della Siria, la Turchia ha cercato di schiacciare le forze di milizia curde del YPG (Unità di Protezione Popolare) che sono dei partner e protégés della Francia sul terreno e i cui leader sono stati ospitati due volte a Parigi, nel 2018 e nel 2019.

In Libia, Ankara ha, sin dal 2019, sostenuto il governo di Accordo nazionale a Tripoli laddove Parigi ha, non ufficialmente, sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar, anche se Macron ha ripetutamente cercato di mediare tra le due fazioni.
Vi sono altri motivi di nervosismo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi:

  • un deciso aumento del sostegno da parte del governo francese alla causa armena, con Macron che istituisce un giorno del ricordo per il genocidio;
  • la crescente affermazione, in Francia, delle reti della diaspora turca associate con il partito di Erdogan Giustizia e Sviluppo;
  • l’indurimento della posizione di Macron verso l’Islam radicale in Francia, che implica investigazioni molto più scrupolose sugli imam stranieri, di cui la metà sono turchi.

Soltanto nel giugno di quest’anno la crisi tra le due capitali è esplosa: quando una fregata russa punta il suo radar di individuazione obiettivi su vascello francese che stava imponendo l’embargo di armi stabilito dalle Nazioni Unite contro la Libia come parte di un’operazione NATO. La Turchia successivamente ha moltiplicato le sue incursioni nelle acque contese dalla Grecia e da Cipro nel Mediterraneo – Est, permettendo a Macron di presentare la Francia – ed egli stesso – come il difensore delle frontiere europee e della sovranità di fronte alla crescente affermazione, se non aggressività, della Turchia.

Macron è stato abbastanza astuto: si è tacitamente associato con la Germania che ha giocato il ruolo di negoziatore quieto con Ankara, permettendo alla Francia di assumere il ruolo di tutore dell’ordine.

La Francia ha ospitato il summit speciale del Med7, un Gruppo di 7 paesi litoranei del Mediterraneo, a settembre, per dimostrare la solidarietà europea alla Grecia e a Cipro. Ha esercitato pressione in seno al Consiglio dell’Unione Europea affinché, agli inizi di ottobre, la Turchia fosse avvertita di potenziali sanzioni. A metà ottobre sia Berlino che Washington pubblicamente hanno irrigidito la loro posizione verso Ankara, che per il momento ha dichiarato la sua volontà di negoziare con Atene per risolvere i loro contrasti.

Per comprendere l’approccio tagliente di Macron alla Turchia, ci aiuta tornare indietro all’ottobre del 2019 e all’intervista all’Economist, in cui suggerisce che la NATO era “cerebralmente morta”. Dichiarando ciò, non si riferiva all’unilateralismo degli Stati Uniti, alla percezione, all’incerto impegno americano verso l’alleanza dell’amministrazione Trump. Egli voleva puntare il dito su ciò che lui riteneva essere incompatibile con gli interessi dei membri NATO in Siria: la Turchia. Ciò riflette la realtà indiscutibile che la Turchia è vista, adesso, come un piantagrane al Consiglio NATO.

Tuttavia le osservazioni di Macron confondono due visioni della NATO: da una parte l’alleanza di difesa reciproca e dall’altra un club di Stati membri che palesemente la pensano allo stesso modo. In effetti, la NATO come alleanza non ha niente da dire sulle azioni dei membri prese individualmente né Siria né in Libia, laddove invece l’allineamento della Francia con la Russia sfoca le linee tra avversari e alleati.

Il commento di Macron sulla NATO “morta cerebralmente” rischia di diventare una profezia autoavverante. Dopo tutto, la Francia stessa non sempre consulta i suoi alleati o cerca il loro supporto prima di intraprendere iniziative diplomatiche. A malapena lo ha fatto in Libia.

Turchia

Il 24 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di devoti nelle strade attorno alla storica Basilica di Santa Sofia ad Istanbul, per un momento doppiamente simbolico. Circondato da un nugolo di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella cattedrale attraversando le giganti porte una volta aperte con la forza dai soldati ottomani nel 1453. All’interno ha letto la preghiera islamica canonica, facendo diventare la cattedrale di 1500 anni una moschea.

In questo modo Erdogan ha voltato pagina a nove decadi di storia recente, durante i quali questa struttura straordinaria e sito patrimonio mondiale UNESCO era stata globalmente riconosciuta come simbolo di una Turchia secolare. Dal 1934, Santa Sofia non era stata né una cattedrale, né una moschea, ma un museo secolare, stabilito come tale dal reale fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk.

Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno Stato secolare quel giorno; scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche mettendo in discussione le intere fondamenta dello status internazionale della Turchia moderna.

Fu in questa data che nel 1923 la Turchia di Ataturk firmava il Trattato di Losanna, che poneva fine ad anni di guerra e occupazione, mentre conferiva un riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica di Turchia. Questo Trattato era stato formalmente sospeso dal predecessore della Repubblica, l’impero ottomano, che un tempo si estendeva dal Caucauso allo Yemen, dall’Iraq alla Libia. Ratificando il Trattato di Losanna, Ankara rinunciava a tutte le rivendicazioni su quei territori, e con esse, la sua precedente grandeur imperiale.

Ora la Turchia sta compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo che il Trattato di Losanna aveva fondamentalmente stabilito.

Il nesso con la Libia

Nel novembre del 2019, la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico di Tripoli, noto come governo di accordo nazionale (GNA).

Il conflitto civile in Libia contrappone il GNA alle forze del generale Khalifa Haftar e il suo esercito nazionale libico, che è fedele al governo basato a Tobruk. Nel corso del 2019, il conflitto in Libia è divenuto una guerra proxy conclamata.

Turchia e Italia sostengono il GNA;

Russia, gli Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia hanno fornito supporto – incluso assistenza militare – alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi ogni formale sostegno.

In risposta ad una improvvisa offensiva delle forze di Haftar nell’aprile del 2019 che si sono spinte alla periferia di Tripoli, Ankara ha iniziato ad inviare i mercenari siriani allineati con la Turchia in sostegno del GNA, insieme ad addestratori, forze speciali, armi ed equipaggiamenti. L’accordo del novembre del 2019 ha formalizzato questo sostegno, decisivo per il GNA che ha spinto l’esercito nazionale libico dalla periferia di Tripoli alla città costiera di Sirte ad est.

Allo stesso tempo, l’accordo delineava anche la frontiera marittima tra la Turchia e la Libia. Secondo la posizione turca per cui le isole non possiedono la zona economica esclusiva, le isole greche che sono tra la Turchia e la Libia – Creta, Rodi e Castelrosso – non hanno tale tipo di zona. Dunque, in base a tale visione, tra le coste della Turchia e della Libia vi sarebbero solo le acque del Mediterraneo.

Dalla prospettiva di Ankara, l’elemento marittimo del suo accordo con la Libia concede alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo nelle acque di Cipro, ma al di là delle coste delle isole greche come Creta e Castelrosso. Sicuro di ciò, quest’estate, a luglio, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia acquisirà questo diritto: avvierà ricerche sismiche e invierà delle navi da trivellazione in quelle che Atene e la maggior parte di altri governi nel Mediterraneo ritengono essere acque territoriali greche.

Il 10 giugno di quest’anno, il presidente francese Macron interviene dopo le tensioni tra una fregata francese e tre navi da guerra turche a largo della costa libica. La nave francese che operava in un’operazione NATO per applicare l’embargo di armi alla Libia sancito dalle Nazioni Unite , ha cercato di fermare ed ispezionare una nave cargo battente bandiera della Tanzania sospettata di trafficare armi. Secondo il ministro della difesa francese, da una delle navi turche che accompagnava la nave cargo si è visto lampeggiare il radar per acquisizione di obiettivi verso la fregata francese e i marinai turchi a bordo hanno indossato i loro giubbotti anti-proiettili e preso posizione dietro le armi. La Turchia asserisce che quella nave cargo trasportava aiuti umanitari.

Successivamente Macron descrive la Turchia come “sostenitrice di una responsabilità storica e criminale” per il suo intervento in Libia. Invita la NATO ad aprire un’inchiesta così come l’Unione Europea ad apporre sanzioni alla Turchia sulla sua campagna di trivellazioni nel Mediterraneo -Est. A luglio, Bruxelles segue questo invito ed impone sanzioni a funzionari di alto livello dello Stato turco e della compagnia petrolifera e di esplorazione di gas.

La posizione degli Stati Uniti favorisce qualcun’altro?

A proposito della Libia gli Stati Uniti hanno aumentato i loro sforzi di ottenere un cessate-il-fuoco dichiarato a luglio, pur tuttavia la loro posizione è controversa. Washington non vuole alienare i suoi alleati arabi che sostengono Haftar, dall’altra parte però vi è la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia.
Una riduzione del livello di coinvolgimento americano nel mediterraneo come priorità strategica è antecedente alla presidenza Trump. Vi è un diffuso sentore nelle capitali della Regione che con Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro abituale ruolo politico nella Regione.


Un’inaspettata conseguenza dell’assenza americana è stata quella di spingere sotto i riflettori un Paese che non ha mai esercitato un’importante influenza diplomatica nel Mediterraneo – Est dai tempi di Bismarck: la Germania.

Come economia più grande e più potente in Europa, la Germania ha un ruolo importante da giocare nel gestire la crisi, considerando che al momento detiene la presidenza dell’UE, che gli permette di plasmare le priorità politiche del blocco per sei mesi.
Da una parte vi sono la Grecia e Cipro, i due Stati membri dell’UE, sostenuti da un presidente francese che sembra credere che una ulteriore intensificazione sia la sola via per dissuadere Erdogan. Dall’altra parte vi è la Turchia, un mercato fondamentale per i beni dell’UE e una rete di protezione chiave per i rifugiati e i migranti che cercano di entrare in Europa. Non sorprende, quindi, che nel tardo luglio, la Germania abbia sostenuto un intervento diplomatico considerevole per cercare di disinnescare un confronto potenzialmente dannoso. Angela Merkel si è impegnata direttamente sia con Erdogan che con il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis; in seguito la Turchia ha dichiarato la sospensione almeno per un mese delle operazioni di trivellazione e ha annunciato un incontro ad Ankara tra funzionari turchi e greci.

Quindi la Merkel, temporaneamente, ha fermato un’intensificazione della crisi.

Il prezzo per risolvere la crisi nel Mediterraneo-Est potrebbe essere quello che fondamentalmente Erdogan vuole da molto tempo: una ri-negoziazione del Trattato di Losanna.

La politica estera della Turchia di Erdogan

Turchia

Vi è stato un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione turca per una politica estera che sposasse lo status quo e che fondamentalmente rifuggisse le avventure estere. L’autore di questa variazione è Recep Tayyip Erdogan.

La trasformazione della politica estera turca durante la sua leadership non ha seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche prevalenti:

  1. l’ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione lui stesso, in un ruolo di leadership globale;
  2. utilizzare – sempre – la nuova politica estera attivista turca come metodo per rafforzare la legittimità domestica del regime ed assicurare la sua sopravvivenza.

Il cambiamento reale della politica estera turca è iniziato attorno al 2010, tre anni dopo che la leadership militare del Paese sfida pubblicamente Erdogan cercando, e fallendo, di apporre il veto all’ascesa di Abduallah Gul alla presidenza. Ciò ha permesso ad Erdogan di consolidare il potere riconfigurando le istituzioni turche, portandole sotto il suo controllo diretto, e, attraverso un contestato referendum nel 2017, rimpiazzare il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. Il dissenso non era più consentito.

È proprio quando Erdogan soffoca le critiche dei militari e quelle all’interno del Paese che inizia a prendere forma la “sua” politica estera. Nel 2009 prima iniziativa: rimprovera Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una discussione al World Economic Forum a Davos, prima di andarsene infuriato. L’anno seguente si lega al Brasile per cercare di preservare un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare con grande fastidio da parte dell’amministrazione Obama. Un anno più tardi porta la Turchia nella guerra civile siriana proiettando il suo sostegno interamente all’opposizione armata a Bashar al-Assad. La Turchia e gli Stati Uniti si scontrano anche sulle operazioni contro lo Stato islamico, dal momento che Erdogan si rifiuta di ascoltare le richieste di Obama di combattere i miliziani estremisti violenti, sebbene essi fossero passati attraverso il territorio turco per unirsi al conflitto. Erdogan ordina addirittura un’invasione, lo scorso anno, nel nord-est della Siria, attaccando alcune forze curde che stavano combattendo lo Stato islamico insieme alle truppe americane.

Più recentemente, il comportamento di Erdogan assume una posizione molto più revisionista. In Libia, i droni turchi e i consulenti militari, per non menzionare le migliaia di militanti siriani reclutati da Ankara per combattere come mercenari, sono riusciti a cambiare il corso degli eventi in favore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli.

Nel sud del Caucaso, la Turchia è stata determinante nel pianificare e sostenere l’assalto dell’Azerbaijan nell’enclave contesa di Nagorno – Karabakh. Così come in Libia, i droni turchi ed i mercenari siriani hanno giocato un ruolo cruciale nell’ultimo round di combattimenti tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Nel Mediterraneo – Est, la sfida alla sovranità greca e cipriota di cui abbiamo già discusso.

Malgrado il pericolo intrinseco nella sua politica del rischio calcolato, Erdogan presume che altri membri della NATO interverranno per disinnescare ogni crisi, calcolando che egli può, nel frattempo, avanzare la sua posizione cambiando le circostanze nel Mediterraneo.

In tutti questi casi la risposta locale, in Turchia, è stata pienamente di sostegno. Erdogan è stato in grado di neutralizzare ogni opposizione facendo appello ai votatori turchi con una predisposizione nazionalista, mentre la stampa ampiamente addomesticata elogia ogni sua impresa “riuscita”. La narrativa che emerge è quella di un ritorno giusto della Turchia come grande potenza con il governo che produce video che legano il presente alle passate glorie ottomane.

Detto ciò, sarebbe sbagliato attribuire alla politica estera turca cambiamenti nella politica domestica.

Erdogan ha ottenuto una notorietà internazionale diventando un leader i cui capricci e richieste devono essere controllati. In questo senso, egli ha raggiunto ciò che si era prefissato di fare: trasformare la Turchia ed egli stesso in attori globali significativi.

Egli è finanche entrato nel discorso politico occidentale: é menzionato regolarmente, con la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, come uno dei tre leader più visibili accolto sul palco dittatoriale mondiale.

Erdogan è un calcolatore e pragmatico quando necessario. Non ci sono barriere protettive all’interno della Turchia che lo controllino, contornato da leccapiedi, nessuno si permette di contraddirlo. Continuerà ad incalzare fino a quando potrà, fino a quando colpirà un “posto di blocco”. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo spingeranno a scendere a compromessi su qualche questione, aprirà subito un altro fronte in qualche altra parte. Erdogan cercherà sempre di stare un passo avanti agli altri, costringendo i rivali e gli alleati a rimanere sulla difensiva.

*Fonti immagini: Aljazeera e BBC news

Settembre 21 2020

Normalizzazione Medio Oriente: siamo sicuri?

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La narrativa della normalità e della normalizzazione è stata presente per diverso tempo nei più ampi dibattiti di relazioni internazionali, ma si è registrata la carenza di uno sforzo esplicito di teorizzare il loro significato nella pratica. La normalizzazione difficilmente può essere considerata un contributo alle politiche di legittimazione semplicemente perché la sua stessa logica è situata su un binario: da una parte le forze che posseggono la conoscenza e l’autorità di normalizzare altri, e dall’altra i sottovalutati, gli screditati che sono anomali e che hanno bisogno di cure. Ogni pratica di normalizzazione ha come conseguenza la marginalizzazione e l’esclusione di altre pratiche giudicate anormali.

La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.

Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica.
Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.

Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.

Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.

Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.

Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.

Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.


Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).

Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.

Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.

L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.


L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.

Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.


Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana – è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.

Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così,
favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.

Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti.
E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.

Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.

Marzo 28 2020

La propaganda cinese ai tempi del COVID-19

COVID-19

Il tasso di trasmissione del coronavirus all’interno della Cina continua a scendere, il governo cinese ha dichiarato la settimana scorsa che il picco del suo COVID – 19 è passato. Con l’epidemia a casa ampiamente sotto controllo, Pechino sta dirigendo la sua attenzione sui casi importati da viaggiatori infetti. Sta anche cercando di rimodellare la narrativa della pandemia che si è originata in Cina.

Wuhan, la città nella Cina centrale, epicentro dell’epidemia, rimane in isolamento. Le misure draconiane imposte in altre parti del Paese sono state gradualmente allentate. La Cina ha riportato solo un caso di trasmissione domestica del virus e 12 nuovi casi che coinvolgono viaggiatori dall’estero. Le autorità hanno risposto ampliando le regole della quarantena per gli arrivi dall’estero e scoraggiando i cittadini dal viaggiare verso Paesi colpiti dalla pandemia.

Le autorità cinesi hanno spostato la loro attenzione verso l’estero e così  anche la propaganda del Partito Comunista. In uno dei più vergognosi esempi, il portavoce del ministro degli esteri cinese ha scritto in un tweet che l’esercito americano potrebbe essere responsabile di aver portato l’epidemia a Wuhan.

COVID-19

 

Ha poi asserito che citare la Cina come origine del virus è “immorale e irresponsabile”. I commentatori cinesi accusano della diffusione (e origine) del coronavirus Stati esteri come il Giappone o l’Italia. Gli organi di stampa ed egualmente i funzionari cinesi si sono particolarmente impegnati a strombazzare il successo della risposta cinese alla crisi, offrendosi come un modello per il resto del mondo.

Sembra proprio che il governo cinese non accetti più che il virus si sia originato a Wuhan, anche se il presidente Xi Jinping aveva precedentemente pubblicamente riconosciuto ciò.

Sicuramente anche gli Stati Uniti hanno prodotto la loro ingente quantità di teorie di cospirazione. Il Senatore Tom Cotton, un repubblicano dell’Arkansas si è posto la domanda se l’epidemia fosse il risultato di un arma biologica cinese creata in maniera blanda. Recentemente il presidente Donald Trump si è riferito al COVID-19 come al “virus cinese” e il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ripetuto a pappagallo il “Wuhan virus”.

La realtà è che l’epidemia poteva essere contenuta o interamente evitata se le autorità cinesi non avessero ignorato o soffocato gli avvertimenti di un “virus misterioso” a Wuhan che possono essere fatti risalire al novembre del 2019.

Sfortunatamente, un’intensificazione di battibecchi tra gli Stati Uniti e la Cina sulla libertà di stampa ostacolerà solo la diffusione di informazioni accurate fuori dalla Cina.

Le campagne di informazione, di propaganda, della Cina e degli Stati Uniti sono distinte, da considerare ed analizzare separatamente, in cui ognuno persegue obiettivi differenti e i interessi propri.

La Cina è impegnata in uno sforzo su molteplici fronti per riscrivere la storia ed emergere rafforzata dalla crisi globale. Le misure di isolamento draconiane a Wuhan e nella sua provincia vicina appaiono aver spento molta della capacità del virus di moltiplicarsi all’interno della popolazione cinese. I dati ufficiali mostrano solo nuovi casi con il contagocce, anche se il resto del mondo lotta con un enorme ondata di infezioni che travolgono gli ospedali.

Il palcoscenico per la Cina è pronto: mostrare un’aria trionfante e mettersi al lavoro sul confezionamento dei suoi messaggi di pubbliche relazioni sia per il consumo domestico che internazionale.

Il leader cinese, Xi Jinping, mira ad utilizzare la crisi del coronavirus per rafforzare la sua posizione personale nel proprio Paese, assieme alla presa al potere del Partito Comunista. Il messaggio di Xi alla popolazione cinese è che sono fortunati ad avere un leader così forte e saggio e un sistema unificato ed efficiente. Il suo messaggio al resto del mondo è che la Cina è il potere del futuro – il suo sistema vale la pena di essere emulato, chiaramente superiore all’alternativa democratica, specialmente quando Paesi dagli Stati Uniti all’Italia si inerpicano per gestire la pandemia, spesso con precarie leadership e con centinaia di milioni di persone che sopportano ordini di stare a casa.
È un messaggio che chiede una risposta dall’occidente. Solitamente, Washington sarebbe quello che ne articolerebbe una molto più robusta, ma ciò non sta avvenendo.
Trump invece lancia colpi di retorica a raffica contro la Cina durante i suoi discorsi giornalieri sul virus. Sarebbe un errore vedere questi commenti come una difesa della democrazia. L’insistenza di chiamare il COVID-19 “virus cinese” è uno sforzo di propaganda domestica con obiettivi puramente politici nell’anno di rielezione. Egli fa ricorso ad un nazionalismo fuori moda con aperture xenofobe, cercando di suscitare i sentimenti patriottici e proteggere sé stesso dalle conseguenze negative della sua risposta iniziale alla pandemia, disastrosa. Trump ha bisogno di radunare i suoi sostenitori e cercare di persuadere ognuno che lui sta dando ascolto agli esperti veri, reali. Trump è particolarmente disperato dal momento che le sue affermazioni per cui la sua amministrazione aveva tutto sotto controllo con il coronavirus si sono rivelate rovinosamente errate, proprio quando si prepara a salire in sella alla sua campagna di rielezione.

Trump, tuttavia, sta contrastando la propaganda cinese in un solo modo. Egli è corretto nel far notare che Pechino è stata lenta a dire al mondo che il virus era iniziato in Cina. Che poi Trump stia utilizzando questa circostanza per proteggere sé stesso da accuse di incompetenza non rende il fatto meno vero.

Quando la crisi terminerà, la Cina avrà ottenuto degli importanti guadagni in termini di influenza geopolitica rispetto all’occidente, a meno che l’occidente non risponda rapidamente e spieghi la disinformazione.

La storia che la Cina sta raccontando al mondo non è solo quella di dove il virus è iniziato. I suoi media controllati dal governo hanno dichiarato esplicitamente che il sistema cinese è superiore, notando come i partiti politici negli Stati Uniti hanno litigato su come rispondere, indicando altre carenze negli Stati Uniti e più in generale nell’occidente. Il messaggio non è solo di una competizione tra superpotenze, è anche di difesa dell’autoritarismo come sistema più adatto ad affrontare le crisi più grandi, significative.

Allo scopo di confezionare questa argomentazione, la Cina deve soffocare i fatti ben documentati sulla comparsa del virus e arginarli.  Le autorità di Pechino lavorano freneticamente per mantenere il misterioso contagio a Wuhan segreto. I dottori che hanno cercato di dirlo al mondo sono stati o detenuti o fatti tacere. Giornalisti sono “scomparsi”. Ai laboratori cinesi che conducono i test per esaminare il nuovo patogeno è stato ordinato di fermare i loro test e di distruggere i loro campioni.

In altre parole, sono precisamente le pratiche autoritarie della Cina che hanno permesso che un’epidemia a Wuhan diventasse una pandemia.

È anche un fatto, che altre democrazie, come il Sud Corea o Taiwan, hanno gestito il contenimento della loro propria epidemia di coronavirus senza le misure alle volte brutali intraprese in Cina.

La propaganda aggressiva della Cina sul coronavirus si svolge su diversi fronti. Vi sono espressioni ostentate, altamente pubblicizzate della generosità di Pechino verso Paesi che patiscono il peggio della pandemia – con aerei cinesi che forniscono bancali pieni di forniture mediche, diligentemente ed estensivamente diffuso dai media cinesi. Non è una coincidenza che anche la Russia si sia unita, cercando di vendere il suo presunto successo nell’impedire la diffusione del virus e inviando anche carichi di forniture mediche.
Come qualcuno ha notato, è bene vedere gli aerei russi fornire aiuti umanitari in Italia invece di sganciare bombe in Siria. Ma da dove venga l’aiuto, da Pechino o da Mosca, non vi è questione, che sebbene benvenuto, la sua intenzione non sia puramente umanitaria.

L’Europa, i suoi Stati membri, dovrebbero mettere da parte il loro risentimento per il rozzo modo con cui Trump ha gestito la pandemia, ignorando i suoi molti dispetti contro gli alleati, e smascherare la narrativa anti-occidentale di Pechino.

L’affermazione della Cina che Pechino ha svolto un lavoro ammirevole nell’affrontare il COVID-19, mentre le democrazie non sono attrezzate per affrontarlo è semplicemente una menzogna. L’epidemia si è diffusa precisamente perché Pechino ha risposto ad essa come un regime autoritario.

Nessuna quantità di aiuto cinese ai Paesi che adesso soffrono per la pandemia dovrebbe oscurare questa circostanza.

Gennaio 8 2019

La competizione tra Stati Uniti e Cina si amplierà nel 2019

competizione Stati Uniti e CIna

Alla domanda: “Qual è, nella politica internazionale, la sfida più importante che si pone in questo nuovo anno?”, la risposta è abbastanza facile: l’intensificazione della competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia vi è una sottile, ma drammatica prova a cui il sistema delle relazioni internazionali è sottoposto: il rapido deterioramento del quadro di controllo delle armi nucleari.

Gli Stati Uniti e la Cina sono in rotta di collisione nel sistema multilaterale dall’inizio dell’amministrazione Trump. Il Presidente degli Stati Uniti e i suoi consulenti sembrano condividere due percezioni basilari a proposito della politica internazionale. La prima è che la Cina è un competitore strategico ed economico totale che deve essere contrastato. La seconda è che le organizzazioni internazionali e la legislazione internazionale sono per natura faziosi  nei confronti degli Stati Uniti e che c’è bisogno di tornare al passato o solamente ignorare le regole internazionali.
Non sorprende il fatto che funzionari americani di più alto livello abbiano ora unito questi due presunti problemi in un’unica ipotesi di lavoro: “la Cina sta utilizzando il sistema multilaterale per superare in astuzia gli Stati Uniti“.

Dunque, Washington mira a respingere Pechino su molti fronti, dalla proiezione di potenza nel Mare del Sud della Cina, allo sviluppo di intelligenza artificiale. La priorità numero uno è limitare la crescente influenza cinese negli organismi multilaterali.

Non vi è dubbio che, ultimamente, la Cina abbia acquisito molta influenza negli organismi multilaterali. Ironicamente una delle ragioni per cui Pechino ha aumentato la sua sfera d’influenza è l’allontanamento dell’amministrazione Trump da ampie porzioni del sistema delle Nazioni Unite; ciò ha creato lo spazio politico in cui la Cina, scaltramente, si è posizionata.

Sebbene i politici cinesi insistano nel non aver alcun desiderio di usurpare il ruolo degli Stati Uniti come leader globale, se Washington cercasse di minare la posizione raggiunta a livello multilaterale dalla Cina, lo scontro diplomatico che ne risulterebbe potrebbe paralizzare la cooperazione internazionale in ogni settore: dall’arbitrato sul commercio, alla gestione di scenari complessi come quello del Sud Sudan.

Il controllo delle armi nucleari mette a repentaglio l’architettura della sicurezza internazionale

Le tensioni sulle armi nucleari tra gli Stati Uniti, la Russia e le altre Potenze mettono a repentaglio molta dell’architettura di sicurezza internazionale. Gli Stati Uniti recederanno presto dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) per presunte violazioni da parte dei russi. Mentre Mosca respinge queste accuse, entrambe le parti sono occupate nell’ammodernamento dei loro arsenali nucleari.

Una competizione bilaterale questa in cui vi sono molte frizioni su come affrontare, attraverso meccanismi multilaterali, le sfide poste dalla proliferazione nucleare sia da parte della Corea del Nord che da parte dell’Iran. Cina e Russia non sono convinte della necessità di mantenere il pieno regime sanzionatorio previsto dalle Nazioni Unite per la Corea del Nord.

Lo sgretolamento  dell’accordo con l’Iran sul nucleare, durante l’amministrazione Trump, potrebbe accrescere lo spettro del ritorno di Teheran al suo programma nucleare, allontanando ulteriormente gli Stati Uniti e le altre Grandi Potenze sulle modalità di risposta a tale possibilità.
Se i colloqui sul nucleare con la Corea del Nord, che spesso appaiono bizzarri, implodessero, l’amministrazione Trump potrebbe sfidare la Cina e altri giocatori a punire ulteriormente Pyongyang.

Non è trascurabile la circostanza per cui sarebbe abbastanza difficile che gli Stati Uniti redigano un accordo con la Russia sulla guerra nell’est dell’Ucraina, se le tensioni sul nucleare aumentassero, per non parlare di raggiungere un accordo decisivo e finale sul futuro della Siria con l’Iran e la Russia.

Sono più importanti, nel quadro del sistema internazionale, le rivalità locali, i conflitti che si generano per la percezione che un determinato gruppo ha di aver subito dei torti nei confronti di un altro gruppo, rispetto a quella che può essere la visione d’insieme di Washington o Pechino.

L’esistenza permanente di un sistema multilaterale che è in grado di impegnarsi efficacemente in crisi come quelle sopra menzionate, dipende necessariamente dall’accordo, almeno sulle forme basilari, di cooperazione e dalla fissazione di regole, tra le Grandi Potenze all’interno del sistema internazionale.

In questo inizio d’anno vi sono dei segnali preoccupanti che indicano che sia gli Stati Uniti che i loro rivali non vedano più nello stesso modo le regole del sistema multilaterale.