Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.