Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Gennaio 2 2023

Iran, potere e Medio Oriente

Groviglio Iran Arabia Saudita Medio oriente


Le tensioni in Medio Oriente sono all’improvviso aumentate quando Riyadh si è allineata con Mosca per mantenere alto il prezzo globale del petrolio, malgrado la pressione da parte di Washington di aumentare la produzione.
Con il recente fallimento del cessate-il-fuoco, la guerra civile in Yemen continua ad alimentare una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. La guerra civile che si protrae da 11 anni in Siria è entrata in una fase finale senza fine, che sebbene sia meno sanguinosa, rimane volatile.
La Libia ha visto una pausa nella sua guerra civile da quando è stato reso esecutivo il cessate-il-fuoco nell’ottobre del 2020 ed è stato nominato un governo transitorio nel marzo del 2021, ma la transizione politica verso le elezioni è in un impasse sempre più teso.
Soprattutto, l’assenza del combattimento in questi Paesi non garantisce che ci sia una pace duratura.
Nel frattempo, il più recente ciclo di combattimenti tra Israele ed Hamas nel maggio del 2021 è servito come promemoria che il conflitto tra Israele e Palestina non può semplicemente sparire per magia con l’aiuto delle potenze regionali e degli Stati Uniti.

Politica interna ed estera del Medio Oriente


La situazione politica nel Medio Oriente è in mutazione continua. Le proteste di massa nel 2019 hanno deposto un governante di lungo termine in Algeria e innervosito i governi del Libano e dell’Iraq, facendo balenare speculazioni su una nuova Primavera Araba, prima che la pandemia di COVID ponesse un arresto a questi movimenti popolari. La pandemia ha inizialmente condotto anche al declino dei prezzi energetici globali che ha minato ulteriormente la sostenibilità di molti modelli di guadagni basati sul petrolio di Stati del Golfo, sebbene la guerra in Ucraina ha causato l’innalzamento dei prezzi. Le potenze regionali stanno traendo vantaggio dalla competizione delle grandi potenze per diversificare il loro portfolio di alleanze internazionali.

Iran: La resistenza del regime al cambiamento

Il primo anno di presidenza Raisi ha visto importanti proteste da parte degli agricoltori, insegnanti. Per anni hanno chiesto al governo di affrontare i loro problemi legati alla distribuzione ineguale dell’acqua, salari bassi o non retribuzione. Le autorità hanno resistito fino a quando le proteste non hanno assunto la forma di manifestazioni di piazza. Solo dopo il governo ha parzialmente soddisfatto le loro richieste mentre disperdeva violentemente i dimostranti.
Questo approccio è la risposta automatica della classe dirigente iraniana al potere alle pressioni sia locali che estere. Essa deriva dalla mentalità per cui allentare la pressione è considerato come un segno di debolezza. Per ciò che riguarda la politica estera, i funzionari iraniani considerano le politiche americane come un rafforzamento di questa visione del mondo.
Teheran desidera rientrare nell’accordo sul nucleare in una posizione più forte, con Khamenei che asserisce che affrettarsi nell’accordo avrebbe un costo alto per il Paese. La sua principale preoccupazione non è solo legata ad un possibile abbandono degli Stati Uniti, ma di una richiesta di più concessioni su altre questioni se percepissero disperazione e debolezza da parte dell’Iran.
Quindi il modus operandi di Khamenei è di rispondere alla pressione estera diventando inflessibile e attraverso la rappresaglia. Sulla questione nucleare, l’Iran ha risposto alla pressione delle sanzioni americane per conto proprio: ampliando continuamente il suo programma nucleare, diminuendo il disarmo nucleare, ed accrescendo le sue operazioni militari segrete in tutta la Regione.
Dal punto di vista interno, la mentalità della leadership iraniana è quella che concedere alle richieste pubbliche è un’inclinazione dannosa. Il loro timore è che ciò condurrebbe a richieste maggiori e fondamentalmente alla loro caduta. Come tale quindi, la Repubblica islamica ha resistito ad importanti riforme e ha compiuto solo parziali concessioni su richieste specifiche quando le proteste li hanno forzati a farlo. Su questioni come l’obbligatorietà della legge hijab, che è al cuore dell’identità della Repubblica islamica e il suo marchio dell’islamismo, sarà difficile per il regime raggiungere un compromesso, anche di fronte alle odierne proteste.
In ogni caso, potrebbe essere troppo tardi per placare il livello di rabbia pubblica in tutto il Paese. Le proteste che coinvolgono il Paese oggi mostrano che lo stile di governance intransigente e paranoide della Repubblica islamica diventa una profezia autoavverante, dal momento che la rabbia pubblica accresce nel corso del tempo ed esplode nel malcontento. Sembra che la classe dirigente clericale dell’Iran, non abbia imparato le lezioni della caduta dello Shah.

Israele

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ritorna al potere. Un governo che include il partito ultra nazionalista – Religious Zionism – guidato da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, entrambi ampiamente considerati essere degli estremisti di destra.
In ragione dei suoi 14 seggi, il partito Religious Zionism è la terza delegazione più grande nel parlamento israeliano. Ben-Gvir è noto per la sua retorica anti-araba, arrestato nel 2007 per incitamento al razzismo e per sostegno a organizzazioni terroriste. Smotrich è noto anche per le sue visioni anti-arabe, avendo espresso rammarico verso il primo ministro israeliano David Ben Gurion, per “non aver finito il lavoro” di espellere tutti gli arabi dal territorio che è diventato Israele.


Il nuovo governo di Netanyahu che include Ben-Gvir e Smotrich potrebbe causare problemi per le relazioni bilaterali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.


Legami diplomatici formali tra i due Paesi sono stati creati due anni fa dagli Accordi di Abramo.
Gli Emirati Arabi uniti non sono il solo partner di Israele che ha reagito all’alleanza di Netanyahu con Religious Zionism. Alcuni democratici a Washington hanno espresso preoccupazioni a proposito di Smotrich e Ben-Gvir, incluso il senatore Menendez che è noto per la sua posizione pro-Israele. Menendez aveva avvisato Netanyahu a settembre sull’inclusione di estremisti di destra nel suo governo, asserendo che ciò avrebbe messo in pericolo le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Israele.
È improbabile che la presenza di elementi estremisti come Ben-Gvir e Smotrich nel nuovo governo israeliano disintegri gli accordi di Abramo. Ma i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, come gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco, con cui Israele ha firmato gli accordi di normalizzazione non guardano con favore la prospettiva di lavorare a stretto contatto con un governo che comprende funzionari anti-arabi. I funzionari arabi potrebbero sentirsi obbligati a minimizzare la misura del loro impegno pubblico con la controparte israeliana, cosa che potrebbe complicare i piani di Israele di normalizzare le relazioni con i Paesi Arabi.
Fondamentalmente, Israele e I Paesi arabi del Golfo hanno una preoccupazione di sicurezza condivisa: l’ Iran. Il disfacimento degli Accordi di Abramo giocherebbe bene nelle mani di Teheran, in un momento in cui l’Iran continua a perseguire il suo avventurismo militare nel Medio Oriente, minacciando gli interessi di sicurezza di Israele e degli Stati del Golfo. Israele e l’Arabia Saudita entrambi disapprovano l’accordo sul nucleare del 2015 così come gli sforzi dell’amministrazione Biden per resuscitarlo, e nessuno dei due Paesi vuole mettere a repentaglio la propria alleanza informale contro Teheran.
Per Netanyahu, trovare un equilibrio tra le sue priorità interne e i nuovi partner regionali di Israele è stato sempre difficile. Lo sarà ancora di più per il suo governo che comprende estremisti le cui visioni alienano i suoi partner più vicini.

Conflitti in corso

Le speranze di accordi negoziati nelle guerre in Siria e Yemen sono ripetutamente svanite. Un cessate-il-fuoco in Libia è diventato più efficace nel far tacere armi – per ora, ma la transizione politica è distratta e una pace durevole per ora è lontana dall’essere garantita.

I droni iraniani e la Russia

La notizia che la Russia ha impiegato equipaggiamento militare iraniano, particolarmente i droni, nella guerra contro l’Ucraina ha condotto alcuni osservatori ad inquadrare il conflitto come un terreno di prova per la tecnologia militare iraniana. Mentre l’impatto di questi armamenti sulla traiettoria Russia – Ucraina sarà oggetto di un intenso dibattito, le implicazioni per le dinamiche militari nel Medio Oriente sono lontane dall’essere chiare, visto che la Russia, fin qui, ha impiegato i suoi droni iraniani in una maniera in cui l’Iran stesso potrebbe non utilizzarli.


Per comprendere le implicazioni di questi sviluppi per la postura militare iraniana vis-à-vis con gli Stati Uniti, Israele, gli Stati del Golfo Arabo, è importante riconoscere il contesto in cui l’Iran ha sviluppato i suoi droni e come l’Iran e i suoi alleati non statali hanno impiegato finora questi sistemi.


L’Iran ha speso più di una decade nel diversificare le sue capacità di colpire. Mente i missili balistici offrono una velocità ineguagliabile, il volume della forza missilistica balistica dell’Iran, particolarmente i suoi sistemi di lungo raggio, sono stati a lungo limitati in accuratezza. Dalla passata decade ad oggi, l’Iran ha sviluppato e prodotto una vasta gamma crescente e diversificata di missili balistici sempre più accurati. Tali miglioramenti nell’accuratezza hanno reso la forza balistica iraniana più efficace, come mostrano gli attacchi del gennaio del 2020 contro la base irachena che ospitava i soldati americani in rappresaglia per l’assassinio da parte degli Stati Uniti del comandante militare iraniano Gen. Qasem Soleimani.
Sin dal loro sviluppo e utilizzo di aereomobili senza pilota nel contesto della guerra Iran-Iraq negli anni 1980, l’Iran ha in maniera consistente sperimentato l’uso della tecnologia dei droni in vari ruoli. Negli anni 1990, l’Iran ha iniziato a sviluppare attacchi con i droni che si schiantano contro un obiettivo. Il primo impiego rilevante dei droni iraniani risale al 2006 quando Hezbollah li utilizza in piccoli numeri contro Israele. Più recentemente gli Houti – l’alleato non-statale dell’Iran in Yemen, li ha ripetutamente utilizzati contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dal 2015. I droni iraniani sono stati impiegati insieme ai missili da crociera negli attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite nel settembre del 2019.
I droni Shahed-131 e Shahed 136 forniti alla Russia, apparentemente progettati dall’esercito russo come Geran 1 e Geran 2, sono perciò l’ultimo esempio di una tendenza di lungo corso.
Shahed-136 e altri droni d’attacco della loro classe sono tipicamente montati su camion lanciatori; Shahed-131 è più piccolo e dal design più luminoso con la stessa configurazione. Diversamente da droni più piccoli e più leggeri che possono essere lanciati a mano e tendono ad essere alimentati a batteria, Shahed 131 e Shahed 136 sono equipaggiati con un piccolo motore a pistone che può sostenere una velocità di circa 150 km all’ora. In ragione della carica esplosiva più piccola e della velocità minore rispetto MQ-1 Predator americano o allo Shaded-129 iraniano, i primi sono più convenienti e molto più semplici da costruire per cui possono essere prodotti ed esportati in numeri maggiori.
Diversamente dagli Houti in Yemen che hanno impiegato le capacità di colpire fornite dall’Iran su piccola scala e in un modo piuttosto sporadico, le limitate prove disponibili del reale impiego nel mondo dell’Iran dei droni d’attacco suggerisce che Teheran apprezza il ruolo che l’integrazione congiunta di armamenti può giocare in obiettivi complessi, così come il ruolo nella difesa e nell’infliggere alti livelli di danno. Gli esempi degli attacchi iraniani contro le infrastrutture petrolifere saudite nel 2019 e contro le forze americane in Iraq nel 2020 ci suggeriscono che l’apparato militare iraniano riconosce la forza e la debolezza della gamma dei suoi diversi sistemi di attacco ed è capace di integrarli con abilità in operazioni complesse.
Le capacità di attacco iraniane sono costruite per essere complementari l’una all’altra, con droni utilizzati per degradare la difesa così che i missili balistici e da crociera possono essere utilizzati per danneggiare severamente se non distruggere obiettivi più resilienti. In questo modo l’Iran è meglio posizionato per danneggiare – se non distruggere – le infrastrutture critiche in un conflitto, e la spesa di droni relativamente a basso costo serve uno scopo più rilevante rispetto al danno inflitto finora dagli attacchi dei droni russi in Ucraina. Mentre questi hanno inflitto severi costi umanitari contro la popolazione civile, essi restano primariamente un disturbo in termini di efficacia militare.
L’Ucraina potrebbe non essere il terreno di prova per la tecnologia dei droni iraniana, anche se molti osservatori ritengono il contrario. La Russia sembra che stia utilizzando i droni iraniani in un modo molto simile agli Houti in Yemen, sebbene in una scala più ampia, rispetto a come sembra che l’Iran intenda utilizzarli.

La diplomazia regionale

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, recentemente, si sono impegnati in colloqui con l’Iran volti ad allentare le tensioni. Similmente la Turchia ha iniziato un riavvicinamento con l’Egitto che potrebbe condurre ad una normalizzazione delle relazioni, mentre la Turchia disgela le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Stati del Golfo alleati con i sauditi hanno messo fine al blocco del Qatar. Le ostilità tra Israele e l’Iran hanno iniziato a esternare questa tendenza con le due parti che si impegnano in attacchi tit-for-tat che corrono il rischio di intensificarsi fino ad un conflitto aperto.
L’Egitto ed il Qatar continuano a disgelare i legami, ma con differenti ragioni.
Malgrado il ripristino dei voli diretti tra il Cairo e Doha, la firma degli accordi di investimento bilaterali e la visita dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani al Cairo, le relazioni tra i due Paesi restano tiepide. Se la motivazione del Qatar di un riavvicinamento all’Egitto è politica, la ripresa economica è ciò che conduce l’Egitto, visto che la sua economia continua ad essere stagnante a causa della combinazione di sfide domestiche e fattori internazionali.
Gli effetti globali dell’invasione russa dell’Ucraina hanno posto uno stress all’economia egiziana. Sebbene l’Egitto resti una destinazione popolare per i turisti russi, che sempre più si allontanano dalle mete di viaggio occidentali, il numero di turisti russi che visitano l’Egitto è diminuito, provocando un taglio ai guadagni del turismo del Cairo. La guerra ha anche contribuito ad un’impennata dei tassi di interesse così come dei prezzi del cibo e dell’energia, facendo salire i costi di importazione dell’Egitto. Queste pressioni socioeconomiche create dalla guerra in Ucraina esistono unitamente ad altre sfide domestiche, molte delle quali nascono dalla pandemia e dal coinvolgimento dei militari in diversi settori economici – dalla costruzione all’intrattenimento – che nel corso del tempo hanno scoraggiato l’investimento straniero e soffocato il settore privato.
La sfida più significativa che deve affrontare l’economia egiziana è il suo alto debito. Una svalutazione della sterlina egiziana del 15% nel marzo del 2022 seguita da una graduale perdita di un altro 4% del suo valore. Il Cairo sta negoziando un pacchetto di prestiti con il Fondo Monetario Internazionale, che ci si aspetta che includa piani per svalutare ulteriormente la sterlina. Mentre i politici egiziani valutano i pro e contro delle condizioni poste dall’IMF per il via libera al prestito, il Cairo sta anticipando nuovi guadagni dalla vendita di gas naturale liquefatto ai Paesi europei che disinvestono dalle importazioni energetiche russe.
Le recenti aperture dell’Egitto al Qatar devono essere comprese in questo contesto.
Il Cairo sta simultaneamente cercando di rinforzare le sue relazioni economiche con l’Arabia Saudita, una storica fonte di sostegno finanziario in momenti di difficoltà. Il Fondo di investimento pubblico saudita ha annunciato un impegno di quasi 10 miliardi di dollari in nuovi investimenti in Egitto .
Gli investimenti degli Stati del Golfo aiuteranno a sostenere gli sforzi di stabilizzazione della sua economia, ma non condurranno, da soli, ad una completa ripresa economica, non da ultimo per la morsa dei militari sul settore privato, anche se le proiezioni sulla popolazione egiziana la vedono in rapida crescita. Perciò per i Paesi del Golfo, investire nell’economia egiziana è più una questione di politica e di stabilità piuttosto che una ricerca di un ritorno sull’investimento.
Come il resto del Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar anche vede il sostegno all’economia dell’Egitto come una tutela contro l’instabilità politica, che essi temono possa diffondersi nella loro direzione (come è accaduto nel 2011).

Ottobre 2 2020

Il mondo attraverso le zone calde di conflitto

zone calde di conflitto

L’ordine internazionale si sta sfilacciando, provocando incertezze su chi interverrà per risolvere i conflitti persistenti e chi troverà le risposte umanitarie ai disastri naturali o a quelli generati dall’uomo. Nel frattempo, crisi emergenti e molteplici zone calde pongono nuovi rischi, e la natura del terrorismo transnazionale sta evolvendo.
Conflitti e crisi persistono nel mondo, vi è una crescente incertezza su come – e se – essi saranno risolti.


Vi sono conflitti interminabili, come le situazioni in Yemen, Afghanistan, Siria che hanno prodotto anni di violenza, innumerevoli migliaia di morti e ancora più di rifugiati.

Vi sono zone calde che emergono tra cui il Mali e il Burkina Faso, e un certo numero di potenziali punti di rottura, incluso il mare del sud della Cina, oggetto di dispute territoriali.

Dove vi sono delle flebili speranze di riconciliazione – come la Repubblica Centrafricana, dove 14 gruppi armati hanno firmato un accordo di pace agli inizi dello scorso anno – il pericolo di precipitare in un nuovo ciclo di violenza è ancora molto alto.

Allo stesso tempo, la natura dell’estremismo violento religioso islamico sta mutando. Lo Stato islamico è nel bel mezzo di uno spostamento tattico a seguito della perdita di controllo dei “suoi” territori in Iraq occidentale e Siria e più recentemente la morte del suo leader. Il gruppo appare essere in transizione verso tattiche di stile guerriglia e attacchi terroristi sparpagliati, mentre muove il suo focus su nuovi teatri di operazione, come il Sud est Asia. Non è chiaro se le potenze occidentali nutrano un autentico desiderio di lanciare i tipi di campagne di contro-terrorismo necessarie per affrontare queste nuove sfide.

Fino a poco tempo fa in Siria, un’ampia gamma di attori era impegnata nel combattimento contro gruppi estremisti violenti religiosi impegnati in tattiche di terrorismo, ma anche qui, l’impegno di alcuni attori, soprattutto gli Stati Uniti, è in diminuzione. La Siria costituisce anche un caso studio su come le potenze tradizionali stiano minando la capacità delle Nazioni Unite di rispondere alle crisi, indebolendo ulteriormente l’ordine internazionale post Seconda Guerra Mondiale.
Il vuoto che ne risulta ha introdotto opportunità per organizzazioni regionali, incluso l’Unione Africana, per riempire i vuoti, sia in termini di interruzione del conflitto, o almeno del ciclo di violenza, che di risposta ai disastri. Tuttavia non è ancora chiaro se (e quando) lo faranno.

Nel frattempo, le emergenze causate dai conflitti e dai disastri naturali proliferano ad un tasso che oltrepassa le risorse disponibili per organizzare una risposta.

Il conflitto persistente nell’est della Repubblica Democratica del Congo ha ostacolato la risposte allo scoppio dell’Ebola nella Regione, sebbene le misure adottate abbiano disseminato sfiducia e alimentato nuova violenza. Il conflitto in Sud Sudan, motivato in parte dall’accesso alle risorse, ha prodotto una persistente mancanza di cibo che si è concretizzata, lo scorso anno, in una carestia. I numeri di rifugiati sono in aumento, anche a causa dei cambiamenti climatici che generano nuove crisi. La pandemia di coronavirus aggrava tutto questo, assottigliando le risorse disponibili per affrontarla.

Conflitti persistenti e crisi

Nel mondo, vi sono una manciata di conflitti che persistono da tanti anni che non mostrano alcun segno di volgere al termine.

In molte situazioni come la Siria, la Libia e lo Yemen, ciò accade perché il combattimento a livello locale è una battaglia di proxy fra altri Paesi.

Luoghi come il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, dove, finora accordi di pace fragili tengono, sono lacerati da rivalità tra attori locali chiave, nel disinteresse globale.

E poi c’è l’Afghanistan, dove gli Stati Uniti stanno cercando di districarsi dalla loro “guerra per sempre”.

La scia fortunata della Russia in Siria e Libia sta definitivamente terminando?

Il Cremlino ha scommesso molto sulla guerra proxy in entrambi i Paesi, dispiegando migliaia di contractor militari privati con il cosidetto Wagner Group per sostenere il suo uomo forte. Dopo recenti accadimenti sfortunati per il Presidente siriano, e il Generale Khalifa Haftar, sembra che la Russia non sia più in grado di monetizzare in vittorie reali nel breve termine né in Medio Oriente né in Africa del Nord .
Il segnale più significativo che il supporto della Russia per i paramilitari privati in Libia potrebbe essere una scommessa persa per il Cremlino è arrivato alla fine di maggio 2020. Il Comando militare americano per l’Africa ha accusato pubblicamente la Russia di impiegare aerei da caccia MiG-29 (Il MiG-29 è un caccia dalle linee moderne, bimotore, monoposto, con ala alta di grande superficie e raccordata alla fusoliera con ampie LERX, motori e prese d’aria sono ospitati in gondole sotto la fusoliera. Il tutto fornisce una superficie portante complessiva di considerevole ampiezza, sinonimo di eccellente manovrabilità) per proteggere gli operativi del Wagner Group e le forze dell’esercito nazionale libico che si ritiravano da Tripoli.
Per mesi, il sostegno russo all’esercito nazionale libico ha aiutato Haftar ad imporre un blocco sui giacimenti di petrolio nell’est della Libia, stringendo la sua economia in una morsa rovinosa. Per diverse settimane, le forze di Haftar aiutate dal Wagner Group si sono duramente scontrate con i mercenari siriani sostenuti dalla Turchia e dalle milizie fedeli al governo di Tripoli riconosciuto da molti Stati della comunità internazionale, noto come il governo di accordo nazionale.
Una settimana prima della fine di maggio di quest’anno, le forze sostenute dalla Turchia, con l’ausilio di attacchi da droni turchi, hanno inflitto alle truppe di Haftar delle significative perdite sul campo di battaglia, forzandole a ritirarsi e ad affidarsi molto agli aerei da caccia russi per la copertura aerea. Il 25 maggio 2020 viene diffuso un video
in cui i combattenti del Wagner Group sono trasportati dagli aerei fuori dalla città di Bani Walid, sud-ovest di Tripoli
, corroborando le rivendicazioni di funzionali libici locali che le forze russe “stanno fuggendo a gambe levate”.
Le notizie dell’apparente uscita del Wagner Group dalla Libia arrivano dopo una fuga di notizie relativa ad un rapporto di esperti delle Nazioni Unite per cui 800 dei suoi 1200 contractor erano stati impiegati in Libia fin dall’agosto del 2018. Il rapporto identificava 122 individui con un’unità speciale di cecchini del Wagner Group e un contingente di attacco e ricognizione. La Russia ha negato ogni collegamento con i dispiegamenti e ha criticato il rapporto delle Nazioni Unite.

Dal momento che la Russia ha già forze nel Mediterraneo dell’est, in una base area in Siria, una tale mossa potrebbe, almeno in teoria, permettere all’esercito russo il controllo di molto dello spazio aereo sulla costa del Nord Africa e del Sud Europa. Ora che sembra che i mercenari russi stiano iniziando a lasciare la Libia, per l’esercito nazionale libico sarà verosimilmente molto più difficile aiutare Mosca a raggiungere questo obiettivo.

Nel frattempo in Siria, il sostegno della Russia per Assad appare in disfacimento in ragione di narrazioni che sostengono come Assad si stia impantanando in una faida interna con il ricco cugino Rami Makhlouf, il prominente finanziatore del regime siriano. La spaccatura all’interno del circolo ristretto di Assad è stata resa insolitamente pubblica, con Makhlouf che su Facebook supplica Assad di non impadronirsi dei suoi beni e il governo siriano che impone un divieto di spostamento a Makhlouf per una disputa sul suo impero delle telecomunicazioni: Syriatel. Tutto ciò ha avuto come conseguenza critiche pubbliche – insolite – al regime di Assad da parte di gruppi di esperti russi.
La questione di chi detiene l’influenza sull’economia siriana in frantumi, inclusi i contratti per la futura ricostruzione, si sta sviluppando anche come un vero problema per il capo del Wagner Group, Yevgeny Prigozhin, affiliato del Cremlino, le cui società facilitano le operazioni russe in Libia e in altre parti della Regione. Per anni, Makhlouf e altri vicini ad Assad, come i magnati Ayman Jaber e George Haswani, si sono affidati al Wagner Group e al lunatico talento manageriale di Prigozhin per proteggere i loro interessi nel Paese. La società di Evro Polis e le relative imprese connesse al Wagner Group hanno guadagnato centinaia di milioni prendendo il controllo e assicurandosi così petrolio prezioso, gas e produzione mineraria dai siti in Siria.
La guerra civile siriana si trascina nel decimo anno e le sanzioni americane ed europee contro il regime di Assad continuano ad avere un costo per i partner della Prigozhin siriana.
Nel breve periodo, la posizione instabile della Russia nella Regione – il risultato di relazioni improvvisamente più volubili con Assad e Haftar, la cultura operativa disordinata del Wagner Group – potrebbe produrre modesti guadagni agli Stati Uniti ed ai loro alleati, specialmente la Turchia. Quali che siano i grovigli politici e i colpi militari che avverranno in seguito per Assad e Haftar, migliaia di siriani molto probabilmente continueranno a scappare dai combattimenti nel nord est del Paese, vicino alla frontiera turca, mentre i civili libici sono maggiormente danneggiati dai duelli ed egualmente puniti dagli attacchi aerei russi ed americani.

Bisognerebbe comprendere che giocare un gioco a somma zero non è un’opzione quando ogni giocatore ha assi nella manica e i ricchi oligarchi russi e le loro controparti locali mescolano le forze per truccare le carte a proprio vantaggio.

Che fare?

Fornire al governo di Tripoli – quello sostenuto dalle Nazioni Unite – un maggiore supporto in termini di migliori prodotti intelligence, incluso esperti finanziari, per comprendere come il Wagner Group calza a pennello con i più ampi obiettivi strategici russi. In questo modo quindi la Banca Centrale libica potrebbe monitorare meglio le entrate che fluiscono dentro e fuori la Libia tra le imprese russe e gli individui e congelare gli assetti dei libici che hanno aiutato la Russia ad ottenere un punto di appoggio nel Paese.
Sanzioni alle imprese Prigozhin, così come ad individui e compagnie statali che beneficiano del sostegno del Wagner Group agli alleati di Haftar e Assad.
Durante i colloqui con i leader dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, si potrebbe suggerire che l’aiuto militare a questi Paesi potrebbe non essere più del livello attuale se entrambi continuano a collaborare con la Russia in sostegno di Haftar e contenere le loro giocate con il regime di Assad in Siria.

Conflitti emergenti

Accanto ai conflitti persistenti vi sono nuove zone calde che stanno emergendo, inclusa l’Africa occidentale. Per una molteplicità di ragioni, dall’estremismo islamico violento, alle repressioni sui separatisti, i Paesi nella Regione hanno visto un’intensificazione della violenza armata. Il risultato è un massiccio dislocamento, che assottiglia le risorse umanitarie.

Sahel

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Le forze di sicurezza statali del Burkina Faso hanno giustiziato 31 persone disarmate nella città del nord di Djino nel mese di aprile. Un rapporto di Human Right Watch descrive le uccisioni come “una brutale derisione in una operazione di contro-terrorismo che potrebbe configurarsi come un crimine di guerra”. Le vittime erano sospettate di collaborare con gruppi estremisti islamici violenti che operano nell’area.
Un massacro del genere per quanto scioccante possa essere, non è per nulla un’anomalia in Burkina Faso e nella regione confinante del Mali centrale che è diventata l’epicentro della violenza negli anni recenti.
I gruppi estremisti islamici si sono introdotti nelle fessure politiche, sociali ed economiche, facendo leva sul malcontento locale ed intimidendo chi gli resiste. I livelli di violenza, senza precedenti, non sono stati diminuiti da risposte governative che tardano ad arrivare e ciò ha come conseguenza l’adesione di tanti se non centinaia di giovani ai gruppi estremisti islamici violenti. Le politiche statali che hanno generato forze di sicurezza che compiono abusi o affidato sub-contratti di responsabilità di sicurezza a milizie che agiscono nella totale illegalità. In Mali, ad esempio, Dan Na Ambassagou di etnia Dogon, membro di una milizia di sorveglianza, ha operato nella quasi totale impunità. Il gruppo è responsabile di massacri di ampia scala contro le comunità di etnia Fulani, incluso donne e bambini che loro accusano di collaborare con i gruppi estremisti islamici violenti locali. In un noto incidente occorso lo scorso anno, Dan Na Ambassagou ha ucciso 130 Fulani mandriani nel villaggio di Ogossagou.
In Burkina Faso, il parlamento a gennaio di quest’anno ha approvato la legge “Volontari per la difesa della patria” che fornirà armi e due settimane di addestramento per i volontari locali. La mossa ha sollevato allarme tra i gruppi in difesa dei diritti umani che temono che milizie che non devono rendere conto a nessuno esacerberanno la situazione. Una milizia la cui etnia predominante è quella Mossi, conosciuta come Koglweogo, ha già condotto attacchi sui civili Fulani.
Due gruppi di estremisti islamici violenti, in particolare: Katibat Macina e Ansarul Islam, i cui ranghi sono ampiamente, se non esclusivamente, composti da etnia Fulani, si sono provati particolarmente abili ad inserirsi nelle dinamiche socio-politiche locali.
Spezzare il ciclo di violenza nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale richiederà un approccio multiforme che comprende le iniziative di sviluppo tanto quanto la risposta militare.
Pur tuttavia le risposte governative sono arrivate in un momento in cui i gruppi estremisti violenti che operano nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale stanno dimostrando una crescente capacità militare. Laddove i tali organizzazioni si sono precedentemente affidate a tattiche asimmetriche come le imboscate “colpisci – e – scappa” su personale militare, nei due anni passati si è visto un aumento in attacchi ambiziosi coordinati a basi militari. Vi è stata una spinta da parte degli eserciti nazionali su richiesta di popolazioni locali sempre più frustrate e attori esterni come l’ex potenza coloniale, la Francia, di sradicare questo tipo di estremisti violenti dai territori che hanno occupato. Tutavia le campagne militari hanno il potenziale di trasformarsi in un abusi dei diritti umani, dal momento che i militanti di quei gruppi estremisti violenti possono sempre ritornare alla cosiddetta guerra asimmetrica e mescolarsi alla popolazione locale.
Vero è che i gruppi estremisti violenti locali, in particolare quelli islamici, hanno compiuto progressi con alcune comunità della popolazione locale attraverso il proselitismo e la fornitura di forme rudimentali di governance, le loro attività di “risolutori di problemi quotidiani” sono molto apprezzate dalla popolazione locale e la loro ideologia guadagna popolarità.

In che modo la proliferazione delle armi guida il conflitto mandriani-agricoltori nel Sahel?

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La regione africana del Sahel che si estende dalla Mauritania al Sudan è emersa come una zona calda – critica – globale negli anni recenti dal momento che i governi nazionali lottano per contenere la crescente insicurezza, la criminalità dilagante e ondate di estremismo violento. Gli sforzi per stabilizzare questa cintura transcontinentale proprio a sud del Sahara hanno ampiamente sottovalutato un conduttore critico di tensioni: le dispute vecchie di secoli, ma sempre più violente, tra i mandriani nomadi e le comunità sedentarie di agricoltori. Un recente influsso di armi ha dato a questi conflitti una forza nuova e mortale con gravi implicazioni per la sicurezza internazionale.
La portata della recente violenza che si manifesta da questo tipo di tensioni è scioccante. La proliferazione di armi in ogni parte del Sahel ha trasformato quelle che una volta erano dispute locali sulla terra e le risorse in cicli intricati di violenza che si intensifica.
In Nigeria il conflitto mandriani-agricoltori ha ucciso sei volte tanto quanto il gruppo estremista islamico violento: Boko Haram nel 2018.
Nel Sahel, le comunità di mandriani e agricoltori stanno ottenendo armi da fonti differenti, incluso armi artigianali prodotte localmente, così come armi fabbricate a livello industriale da riserve nazionali o da fornitori stranieri. Un recente studio condotto da Conflict Armament Research, un’organizzazione indipendente di investigazione, ha seguito le tracce di armi che sono state recentemente utilizzate in violenza di larga scala dalle comunità di mandriani ed agricoltori in Nigeria arrivando lontano fino a Paesi come l’Iraq, la Turchia; armi commerciate illecitamente attraverso reti sofisticate di trafficanti di armi. Le armi prodotte artigianalmente, che si procurano a livello regionale e confezionate tipicamente a mano in quantità relativamente piccole, hanno, storicamente, contribuito alla proliferazione di armi in tutto il Continente.
I meccanismi tradizionali di composizione di dispute persistenti, attraverso la giustizia locali, processi di riconciliazione che spesso esistono al di fuori delle strutture statali tradizionali – il clan o la famiglia colpevole, ad esempio, offre un certo numero di capi di bestiame come restituzione delle vite perse – faticano a mantenere la pace vista la portata della violenza. Queste dinamiche non fanno altro che esacerbare altre tensioni nelle relazioni mandriani – agricoltori, incluso l’alta competizione per le risorse, risultato di una governance inadeguata, cambiamenti climatici e crescita della popolazione.
L’accesso maggiore alle armi ha distrutto il delicato equilibrio di potere tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori. I membri di queste comunità rurali che sono state storicamente marginalizzate, come i giovani, non si sentono più obbligati ad aderire ad accordi di pace o accordi sulla terra composti ed attuati dai più anziani. Essi possono trattare le questioni di giustizia e rivincita a modo loro, cioè armandosi.
La proliferazione delle armi minaccia anche di aggravare la tendenza crescente nella Regione verso il neo pastoralismo. Le élite politiche e militari ricche che vivono nei centri urbani di Abuja, la capitale della Nigeria, Ndjamena, la capitale del Ciad, stanno accumulando enormi mandrie di bestiame come modo per mettere da parte la loro ricchezza, dal momento che i sistemi bancari sono spesso inaffidabili. Questi proprietari di bestiame assenti poi assumono e armano dei mandriani e li istruiscono affinché proteggano i loro investimenti a tutti i costi. Nell’assenza di regolamentazioni nazionali o locali, questi mandriani di bestiame militarizzati sono inclini a sfruttare eccessivamente il bestiame e ad altre pratiche insostenibili e in alcuni casi sconfinano nelle terre possedute dagli agricoltori, distruggendo coltivazioni e innescando il conflitto.
Questi pastori armati (pesantemente) non rappresentano tutti i mandriani, ma hanno innescato la diffusione della narrativa di “assassino mandriano” o “pastori invasori” tra molte delle comunità di agricoltori e tutto ciò non fa altro che rafforzare le tensioni etniche e alimentare le mentalità del noi-contro-loro.

L’intensificazione della violenza tra mandriani e agricoltori ha avuto catastrofiche conseguenze per coloro che vivono nel Sahel, contribuendo a conflitti più ampi nella Regione, dal Mali alla Repubblica Centrafricana al Sudan, che a sua volta hanno spesso scatenato atrocità di massa e primi segnali di avvertimento di genocidio.
L’instabilità ha dislocato milioni di persone, scatenato crisi umanitarie devastanti e costose, minacciato rotte di commercio fondamentali e risorse naturali che sono essenziali ai mercati globali e messo a rischio miliari di aiuti e di investimenti.
Gestire questo problema non significa il facile e semplice disarmo delle comunità di mandriani e agricoltori nella Regione. Questi non sono gruppi armati strutturali o uniformi, ma sono comunità di milizie allineate in modo lasco e opportunisti violenti. Inoltre, attori che sono stati incoraggiati dall’afflusso di armi, come giovani marginalizzati o neopastoralisti, è improbabile che siano desiderosi di abbandonare le loro armi appena comperate. Nel frattempo, governi regionali che sarebbero determinanti nella realizzazione di campagne di disarmo di successo sono attualmente distratti dal combattere contro i gruppi estremisti violenti e stanno affidando esternamente la sicurezza ad attori civili o a gruppi informali di sicurezza.

I governi (stranieri) che si sono impegnati nel Sahel dovrebbero essere cauti nel cercare di affrontare questo problema con maggiori aiuti militari nella Regione. Senza una governance complementare, integrativa e l’assistenza allo sviluppo, l’assistenza militare straniera si potrebbe provare controproducente. Le armi che sono vendute in tutta la Regione in modo legittimo, attraverso alleati internazionali speranzosi di sostenere gli Stati nel Sahel, hanno trovato una loro strada nelle mani di criminali e milizie di comunità, alimentando cicli di violenza ed impunità.
Ogni assistenza militare supplementare, quindi, potrebbe essere completata attraverso un sostegno diplomatico e tecnico allo scopo di diminuire le tensioni e mitigare il conflitto tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori.
Francia, Germania, Svezia e l’Unione Europea nel suo insieme hanno promesso di aumentare la presenza militare nella Regione.
Le dispute tra le comunità di mandriani e di agricoltori in tutto il Sahel stanno evolvendo in conflitti più complessi e letali con implicazioni globali, sia gli Stati dell’Unione Europea che gli Stati Uniti rischiano di restare svogliatamente in attesa mentre la violenza si intensifica e più vite vengono perse. Un approccio concentrato su opzioni di impegno non-militare potrebbe aiutare a fermare un’ulteriore instabilità in questa fragile regione dell’Africa.

Settembre 21 2020

Normalizzazione Medio Oriente: siamo sicuri?

normalizzazione

La narrativa della normalità e della normalizzazione è stata presente per diverso tempo nei più ampi dibattiti di relazioni internazionali, ma si è registrata la carenza di uno sforzo esplicito di teorizzare il loro significato nella pratica. La normalizzazione difficilmente può essere considerata un contributo alle politiche di legittimazione semplicemente perché la sua stessa logica è situata su un binario: da una parte le forze che posseggono la conoscenza e l’autorità di normalizzare altri, e dall’altra i sottovalutati, gli screditati che sono anomali e che hanno bisogno di cure. Ogni pratica di normalizzazione ha come conseguenza la marginalizzazione e l’esclusione di altre pratiche giudicate anormali.

La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.

Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica.
Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.

Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.

Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.

Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.

Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.

Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.


Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).

Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.

Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.

L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.


L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.

Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.


Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana – è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.

Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così,
favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.

Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti.
E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.

Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.

Luglio 3 2018

Giovani smarriti: il prodotto dei conflitti protratti

giovani

Ad oggi l’unico tema che sembra essere rilevante è il flusso migratorio dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Chiariamo subito un punto: nell’ambiente di sicurezza contemporaneo, un accordo di pace ovvero la rimozione di un dittatore non rappresenta più la fine di un conflitto, ma solo il suo spostamento verso una forma differente.

La violenza protratta, particolarmente nelle dittature, sfregia profondamente una società: collassano i sistemi esistenti di autorità e ordine. Reti grigie ed economie occulte si fondono mano a mano che il disordine politico e il crimine emergono. Gli equilibri psicologici ed etici si indeboliscono e cedono. Regna l’anomia.

Per i combattenti e le loro vittime, lo spargimento di sangue diventa normale. Molte persone acquisiscono le abilità necessarie per uccidere, imparando come ottenere ed utilizzare armi, esplosivi.

La violenza diventa radicata: i bambini conoscono talmente tante persone violente che semplicemente assumono che anche loro lo diventeranno.

In un conflitto protratto, questa tragica situazione diventa auto-perpetuante, creando una generazione che non è istruita o che lo è molto poco, profondamente diffidente dell’autorità e abituata a reti ed economie grigie.

Per questa gioventù, la violenza non è un’aberrazione che interrompe la pace, ma la prassi, la consuetudine.

La storia recente è piena di esempi della nocività di generazioni smarrite.

Il Kosovo deve ancora ottenere la stabilità politica e, dopo molti anni dalla fine della guerra, è pieno di gruppi criminali.

Nel mondo interconnesso di oggi questi mali si diffondano anche molto lontano dalla loro fonte.

I gruppi criminali albanesi sono cresciuti  nelle guerre dei Balcani degli anni ’90 e adesso giocano un ruolo centrale, e violento, nel traffico internazionale di armi, di droghe e prostituzione.

Nel Sud Africa, decadi di conflitti tra i cittadini di colore e il regime della minoranza bianca hanno distrutto il rispetto della legge in grandi parti della società e prodotto centinaia di migliaia di uomini e donne senza istruzione.

Il rallentamento dello sviluppo economico e l’instabilità politica del Sud Africa, che hanno portato all’esodo di professionisti in cerca di uno stile di vita più sicuro, è il costo di un conflitto che sembrava concluso e che il Sud Africa continua a pagare.

In questo momento, ora, siamo di fronte a giovani smarriti; prodotti dai conflitti in Libia e Siria.

In Libia, la caduta di una dittatura patologica non ha dato vita alla riconciliazione e alla ripresa, ma ad una violenza intestina paralizzante. Il governo di unità nazionale fortemente voluto dall’esterno, da Europa e Stati Uniti, non ha il pieno controllo del territorio e delle regole di legge, anzi milizie e gruppi violenti continuano a riempire il vuoto di effettività.

Se possibile la Siria è in una situazione peggiore: più di 4 milioni di cittadini siriani sono rifugiati: “la più grande popolazione di rifugiati di un singolo conflitto in una generazione”, l’ha definita l’UNHCR.

Sia la Libia che la Siria hanno raggiunto un punto dove anche un accordo politico miracoloso non potrà guarire l’acredine.

La frattura dell’autorità, la normalizzazione della violenza, la creazione di reti grigie e l’inabilità di molti giovani siriani e libici di operare in un’economia stabile e moderna, lasceranno questi giovani smarriti con poche opzioni rispetto al crimine o al diventare essi stessi Signori della guerra. Saranno vulnerabili agli estremisti che gli offriranno falsi rimedi alla loro rabbia e disillusione. Come risultato, saranno una sfida di lungo termine non solo per le loro nazioni o le loro Regioni, ma per il mondo interconnesso.

Il prezzo dei conflitti libico e siriano sarà pagato per decadi.

Tragicamente, niente può  prevenire completamente ciò, il danno è già fatto. Al meglio, l’Europa e altre nazioni possono sanare alcune porzioni delle generazioni smarrite della Libia e della Siria.

Individuare una via per porre fine ai conflitti che stanno distruggendo le loro terre dovrebbe essere la priorità numero uno della comunità internazionale. Investire in programmi di state-building in Libia, allontanare queste generazioni smarrite dalla violenza attraverso assistenza economica mirata, programmi efficaci, istruzione e aiuto psicologico. Questo dovrebbe essere quello che i leader politici ritengono che sia non solo eticamente giusto, ma l’unico investimento necessario in sicurezza.

 

Gennaio 25 2018

Afrin: l’incursione turca in Siria e la strategia di Erdogan

Erdogan

Qual è la situazione in Siria oggi

L’opposizione a Bashar al-Assad è nel caos ed è confinata a piccoli angoli disconnessi di territorio nel Paese.
Sono soltanto due gli attori locali strategicamente rilevanti sul terreno:

  1. il regime di Assad con i suoi alleati: Iran ed Hezbollah;
  2. le Forze Democratiche siriane (FDS) sostenute dagli Stati Uniti,  dominate delle Unità di protezione del popolo curdo siriano (YPG)

Questa non è certo una situazione desiderabile o tranquillizzante per la vicina Turchia.
Sei anni fa quando la guerra civile in Siria s’intensificava, il presidente turco Erdogan avvisò Assad che i suoi giorni al potere erano contati e che, a meno che non volesse condividere lo stesso destino di Gheddafi, doveva dimettersi.

Oggi, con Assad trincerato a Damasco, Erdogan si dimena per recuperare una politica estera in Siria (e altrove). Una politica estera caratterizzata dal fatale errore di enfatizzare troppo l’influenza della Turchia.

La guerra civile siriana non ha  cambiato nulla realmente per la Turchia. Più Ankara veniva trascinata nel complesso pantano alla sua frontiera a sud, più erano i costi in cui s’imbatteva.

Fondamentalmente non aver realizzato concretamente ciò di cui Erdogan si vantava e non essere stati in grado di costringere Assad a dimettersi, ha palesato i limiti dell’influenza della Turchia nel mondo arabo.

Per un breve periodo di tempo all’inizio della guerra civile in Siria, gli strateghi turchi si trastullavano con l’idea di poter manipolare magistralmente il caos siriano ed espandere il controllo turco alle regioni confinanti ed in questo modo, prevenendo ogni movimento di indipendenza curda, avrebbero anche limitato l’influenza iraniana.

Vi era una convinzione genuina che la Turchia avrebbe potuto creare un sistema di proxy dipendenti da essa alla frontiera con la Siria, come aveva fatto con i curdi iracheni ad Erbil. La Turchia immaginava una buffer zone (zona cuscinetto) che si estendesse dal nord della Siria al nord dell’Iraq che avrebbe avuto relazioni politiche, di sicurezza ed economiche più strette con Ankara che con Damasco o Baghdad.
Questa strategia gli si è ritorta contro in maniera spettacolare. Sia in Siria che in Iraq, sono i curdi e gli iraniani che ora hanno la meglio. I curdi sono direttamente sostenuti dalle forze armate statunitensi, mentre le milizie alleate dell’Iran hanno fermamente consolidato se stesse come forze di sicurezza parallele in Siria ed in Iraq.

Le carte in mano ad Ankara per sfidare in maniera diretta l’Iran o i curdi sono limitate.

È vero che la Turchia ha sviluppato legami stretti con alcuni elementi di quello che resta del Free Syrian Army, così come con famiglie influenti all’interno della classe politica sunnita irachena. Tuttavia non ha abbastanza influenza sul terreno per alterare l’ambiento politico e di sicurezza che si sta formando in entrambi i Paesi.

Afrin

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Rex Tillerson, la scorsa settimana si impegnava ad una presenza indeterminata degli Stati Uniti nell’est della Siria con l’obiettivo ambizioso di prevenire il ritorno dell’Islamic State (IS), ma fondamentalmente per negare all’Iran un corridoio nel Mediterraneo e rimuovere il regime di Assad.

Nel frattempo, uno dei partner più importanti degli Stati Uniti, la Turchia, lancia una incursione militare, del tutto nuova, che ha come obiettivo le forze sostenute e finanziate dagli americani.

Tutto ciò avviene dopo che gli Stati Uniti annunciano dei piani per una nuova “forza di frontiera” che avrebbe addestrato e legittimato ulteriormente elementi delle FDS, la grande coalizione curda di milizie locali nell’est della Siria che era strumentale alla sconfitta territoriale dell’IS. I funzionari statunitensi hanno cercato, rapidamente, di ammorbidire il linguaggio dopo che l’annuncio aveva provocato l’ira di  Erdogan, che pubblicamente aveva denunciato il piano e promesso di fermare questo esercito del terrore prima della sua nascita.

La minaccia turca è il culmine di anni di tensione con Washington sulla politica siriana in generale, e le divergenze su come meglio combattere l’IS.
La Turchia si è preparata per più di un mese, apertamente, per la nuova offensiva, fin da quando ha avuto ragione di credere che il Presidente Trump avrebbe potuto promettere ad Ankara il taglio degli aiuti alle forze alleate dei curdi.
La scorsa settimana, le forze turche hanno iniziato a bombardare obiettivi turchi lungo la frontiera e condurre attacchi aerei, poi l’inizio dell’invio di truppe e delle forze del Free Syrian Army.

Il nome dell’operazione “Ramo di oliva”.

Afrin
I curdi siriani hanno cercato di costruire una rete di partner internazionali, incluso la Russia, per rafforzare se stessi contro la minaccia di una incursione turca. Ma la Turchia ha iniziato il suo assalto nel fine settimana scorso e la Russia ha ritirato le sua truppe dalla provincia Afrin.
I russi hanno richiamato alla moderazione e dichiarato che si sarebbero uniti al regime di Assad nell’opposizione all’intervento turco nel consesso delle Nazioni Unite. La risposta degli Stati Uniti è stata simile. La Francia vorrebbe che si riunisse d’emergenza il Consiglio di Sicurezza, ma Erdogan ha dichiarato che l’operazione continuerà ad avanzare fino a quando non sarà raggiunta Manbij, aggiungendo di avere un accordo con gli “amici russi” e di averne anche discusso con le forze della coalizione e gli Stati Uniti.
Le forze curde hanno dichiarato ai giornalisti di essere riusciti a gestire e respingere l’assalto, fin ora, ma che i bombardamenti e gli attacchi aerei hanno colpito i quartieri civili.

Gli scontri potrebbero minare il nuovo piano per la Siria degli Stati Uniti che comporta uno spiegamento indefinito delle truppe americane – al momento ne sono presenti 2,000 nell’est Siria – per sostenere i partner locali. Il piano formerebbe una buffer zone che preverrebbe l’Iran dallo stabilire un canale da Teheran a Beirut, una politica che funzionari israeliani e alcuni ufficiali della difesa americana hanno raccomandato per più di un anno.

Quello che Tillerson non è stato in grado di spiegare è come la presenza di 2,000 truppe americane e l’addestramento delle forze di sicurezza locali nell’est della Siria potrebbero muovere il conflitto nella direzione di una risoluzione o Bashar al-Assad verso l’uscita.

Quale corso d’azione permetterebbe alla Turchia, presumibilmente, di raggiungere i suoi obiettivi operativi?

Gli obiettivi operativi turchi consistono nella messa in sicurezza della frontiera turco-siriana, l’isolamento della città di Afrin,  il controllo della base aerea di Menagh, assicurarsi delle linee di comunicazione di terra, e stabilire una nuova linea avanzata di truppe che gli servono come futura linea di “de-intensificazione” con le forze a favore del regime di Bashar al Assad incluso la Russia.

Gli ufficiali turchi hanno anche dichiarato che attaccheranno la città del YPG Tel Rifaat. Potrebbero perseguire una seconda fase dopo aver raggiunto i loro obiettivi primari. Tel Rifaat è una priorità per i gruppi di opposizioni pro-Turchia, ma non critica per gli obiettivi della Turchia.

L’obiettivo degli Stati Uniti è presumibilmente quello di prevenire la Turchia dall’attaccare la città di Manbij, più ad est vicino al fiume Eufrate, dove sono presenti le forze statunitensi.

A corto di potenti proxy sia in Siria che in Iraq, Ankara deve scegliere.

La Turchia ha scelto di lavorare provvisoriamente con l’Iran – il quale ha interesse a tenere il nazionalismo curdo sotto controllo – piuttosto che esporsi alla minaccia di un ostile presenza curda di lungo termine sulla sua frontiera.

Ankara si è resa inevitabilmente conto che non può sperare di contenere le ambizioni di statualità curde senza lavorare anche con le autorità di Damasco o Baghdad, entrambe sempre più alleate dell’Iran. Ciò renderebbe in qualche maniera fisse le relazioni turco-iraniane, almeno geo-strategicamente.

La Turchia continuerà a bilanciare il suo strisciante affidamento all’Iran con i suoi legami con la Russia e gli Stati Uniti, i quali hanno del resto i loro propri interessi in Siria. Sviluppando dei legami con tutti e tre i Paesi, Ankara vuole poter dire qualcosa su come si svolgeranno le fasi finali della guerra in Siria.

La Turchia ha fortemente investito nel processo di Astana guidato dalla Russia per stabilire le cosidette “zone di de-intensificazione” in Siria. Per tenere i russi lontani dall’orbita dell’Iran, Ankara sta intensificando i suoi legami economici e commerciali con Mosca nelle industrie strategiche. Agli inizi del mese, il presidente russo Putin ha dichiarato che la prima centrale nucleare turca sarà completata nel 2023. (con un cospicuo finanziamento russo di circa 20 miliardi di dollari)

Se questo approccio pragmatico avesse successo, la Turchia spera di influenzare a proprio vantaggio la situazione per recuperare un po’ dell’influenza persa nel più ampio Medio Oriente. Erdogan vuole riposizionare la Turchia come un mediatore, che sia nelle tensioni regionali tra l’Iran e l’Arabia Saudita che adesso si palesano in Libano, o il continuo litigio tra il Qatar e i suoi vicini del Golfo, l’instabilità in Libia o in altri Paesi.

Tutto ciò però richiede uno status regionale ed un’influenza. I calcoli errati della Turchia in Siria l’hanno erosa come capitale geopolitica nella Regione. Per dirla in altre parole, più Erdogan consolida il suo potere “in casa” nel nome della stabilità, più la Turchia brucia la sua reputazione di “modello per il Medio Oriente”.

Erdogan, nel tentativo di sistemare quest’immagine (sebbene sia stato proprio lui a distruggerla), manterrà probabilmente legami con alleati più vicini da un punto di vista ideologico, come la Fratellanza musulmana e i suoi rami nella Regione. Tuttavia forse lui trascura il fatto che fin dalle rivolte del 2011, i gruppi islamisti allineati con la Fratellanza musulmana non solo sono stati sconfitti sul campo di battaglia siriano, ma sono stati indeboliti severamente da regimi autoritari in tutto il mondo arabo. Per cui anche questa possibile strategia, qualora scelga di utilizzarla, non lo porterà molto lontano.

Futuro probabile per la Turchia

La via più probabile che si prospetta, per il futuro, per la Turchia, è una strategia mista di pragmatismo regionale – che comporta compromessi economici e politici, il bilanciamento di alleanze geopolitiche rivali e nel breve periodo la diplomazia tattica – completata da impegni ideologici continui con gli alleati che nutrono le sue stesse opinioni. Può sembrare complicato, questo perché lo è e riuscirci non sarà facile.

 

Aprile 9 2017

Gli Stati Uniti e il dilemma dei dittatori “amici”

dittatori

Il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, per gli Stati Uniti torna il dilemma del “dittatore amico”.

Per tutta la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno lottato con il dilemma dei “dittatori amici”. Per un lungo periodo gli americani hanno creduto non solo che la democrazia fosse il solo sistema politico possibile ed il più giusto, ma che fosse quello che potesse rimanere stabile nel corso del tempo.

I dittatori potrebbero imporre l’ordine per un periodo, ma alla fine, la naturale necessità di  libertà provoca la loro caduta. Nelle giuste condizioni, la caduta di un dittatore potrebbe essere relativamente pacifica. Altre volte, invece scatena una pericoloso spasmo di violenza.

Malgrado ciò, nell’era della Guerra Fredda i politici americani hanno accettato ed anche abbracciato dittatori amici. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il problema non era stato risolto, ma si era sbiadito con le nascenti democrazie.

Ora che il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, il dilemma del dittatore amico è tornato.

Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump ha ripetutamente dichiarato che i recenti eventi  nel Medio Oriente hanno mostrato che i regimi autoritari sono caduti, il risultato è stato spesso l’instabilità che ha aperto la strada all’estremismo violento.

Dopo tutto lo “Stato islamico” non esisterebbe se il Presidente George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein dal potere.

Ritengo quantomai opportuno a questo punto fare una breve parentesi chiarificatoria sulla nascita dello “Stato islamico”, se non altro per coloro che come me non credono ai complotti, ma si basano su fatti realmente accaduti.

L’affermazione: “ lo – stato islamico – non esisterebbe se George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein” è vera, ma sarebbe più corretto articolarla in questo modo:

se l’amministrazione Bush non avesse deciso, a quel tempo, anche di radere al suolo, il 9 giugno 2006, la leadership di Al Qaeda in Iraq (AQI), gettando nelle mani del Mujahidin Shura Council le sorti del movimento jihadista locale. Questa organizzazione “ombrello” che coordinava i vari insorti combattenti a Falluyiah annunciò, il 12 ottobre 2006, l’alleanza di altre fazioni e di leader sunniti conosciuta come “the alliance of the scented ones”, gruppo dedicato a combattere l’occupazione americana. Fu quest’ultimo gruppo che il 15 ottobre 2006 annunciò la creazione di “Islamic State of Iraq.

Torniamo ai giorni nostri e alle dichiarazioni di Trump a proposito dell’essere più tollerante con i dittatori del Medio Oriente.

Un giorno dopo aver dichiarato “la mia attitudine verso la Siria ed Assad è cambiata molto”, Trump ordina un attacco missilistico su una base aerea siriana nella provincia di Homs.
La domanda sorge spontanea: “l’amministrazione Trump adesso lavorerà per la rimozione di Assad? Solo una settimana dopo averlo definito “una realtà politica che dobbiamo accettare?”

I dittatori rimossi: cosa ci insegna il passato

Una potenziale lezione dal passato potrebbe essere tratta dal rovesciamento di Saddam Hussein e del dittatore libico Mohammar Gadhafi. Questi casi suggeriscono che mentre gli uomini forti del Medio Oriente cadono, il potere scivola nelle mani degli estremisti. Con tutti i loro difetti, i despoti iracheni e libici, hanno tenuto sotto controllo il jihadismo e così, dalla loro prospettiva, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto far altro che tollerarli.

La rivoluzione iraniana del 1970 ci suggerisce qualcosa di molto differente. Quando lo Shah sostenuto dagli Stati Uniti, Mohammad Reza Pahlavi, fu rovesciato, il regime teocratico rivoluzionario che lo rimpiazzò, era fortemente anti-americano.

Gli Stati Uniti continuano a pagare il prezzo per aver sostenuto così fortemente lo Shah.

La lezione qui è che, nel lungo periodo, una stretta associazione con un autocrate è una cattiva idea.

Adesso la questione è: quale lezione dovrebbe guidare la politica americana, quella che viene dall’Iraq e dalla Libia o quella dell’Iran?

Se le lezioni della Libia e dell’Iraq contano di più, allora forse i legami più stretti con el-Sissi sono una buona idea per Washington e dovrebbe smettere di dichiarare di rimuovere Assad dal potere.

Ma se la lezione dell’Iran resta valida, allora abbracciare el-Sissi e tollerare Assad danneggerà gli interessi degli Stati Uniti quando questi dittatori cadranno e i dittatori inevitabilmente cadono.

La politica dell’ “abbraccio ai dittatori amici” ci avverte di costi ed effetti avversi che potrebbero verificarsi al di fuori del paese nel quale viene applicata: scoraggia potenzialmente i movimenti democratici nascenti e diminuisce la percezione di moderatezza da parte dei dittatori.

Se la domanda è: la minaccia proveniente dall’estremismo violento islamico giustifica i rischi di “abbracciare” i dittatori del Medio Oriente?

Suggeriamo come risposta: no.

Nei casi in cui gli Stati Uniti sono rimasti fuori e forze interne hanno fatto cadere i regimi autoritari, Egitto sotto Mubarak, Tunisia sotto Zine al Abidine ben Ali, i risultati lontani dall’essere perfetti, non hanno avuto come conseguenza nazioni governate da estremisti o  che direttamente sostengono l’estremismo transnazionale.

Le linee  con 56 sfumature di rosso

Trump  dovrebbe specificare quali sono le linee rosse, e se non altro farci capire se lui le vede sfumate o no. All’indomani dell’attacco chimico in Siria dichiara che questa situazione ha varcato tutte le linee quando solo una settimana prima aveva dichiarato che Assad è una realtà politica da accettare. Forse le linee di Trump sono sfumate? E el-Sissi? quante sfumature di rosso repressione da parte del regime egiziano sarà disposto a tollerare Trump?

Forse dovrebbe concentrarsi sul fatto che avere a che fare con i dittatori è sempre una situazione colma di pericolo. Lui e i suoi advisor dovrebbero aprire un libro di storia e ricordarsi che in Iran nel 1970 gli Stati Uniti fecero un errore strategico talmente grande di cui ancora pagano il prezzo.

Marzo 21 2016

I russi fuori dalla Siria: sarà vero?

russi

L’intervento dei russi in Siria ha: addestrato le proprie truppe e ha dimostrato che Mosca è un attore importante nella regione. Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ripristinare la campagna militare ad un cenno di Putin.

L’intervento militare dei russi in Siria ha due scopi fondamentali. Prima di tutto, prevenire la sconfitta militare di Assad e sostenere il regime. Inoltre, perché Mosca possa giocare un ruolo da attore principale nella soluzione della guerra civile in Siria e ancora di più all’interno della regione.

Ritiro russo solo parziale

e con una tempistica non specificata.
La base navale a Tartus e la base aerea a Khmeimim rimarranno pienamente operative, controllate dai russi e sorvegliate dai moderni sistemi di difesa aerea S-400. I consulenti ed istruttori militari russi resteranno nel paese e, secondo alcune stime, Mosca terrà fino a 1000 soldati sul terreno. La fornitura di armi al regime di Assad continuerà.
L’intervento russo ha significativamente indebolito l’opposizione. Assad ha solo ripreso una piccola parte del territorio che aveva perso l’anno prima dell’intervento russo e con le forze del regime impegnate in tanti fronti, sarebbe improbabile per Assad vincere la guerra.

russi

Un altro punto interessante del ritiro russo è la “relazione” tra Assad e Putin. Proprio perché è curiosa la circostanza per cui Assad, qualche settimana fa, dichiara che vuole riconquistare tutta la Siria e la Russia si ritira. Sembra proprio invece che Mosca voglia recapitare una busta ad Assad con un messaggio: “proteggiamo il territorio, ma non andremo oltre. Devi negoziare un accordo”. Una delle circostanze che ha indispettito Putin è stata l’emanazione del decreto presidenziale di Assad sulle elezioni parlamentari ad aprile. Questa azione è stata vista con tutta probabilità da Mosca come una decisione volta a rovesciare il cronogramma stabilito dagli accordi di Vienna. Il furbetto Assad si è dimostrato il tipo di alleato troppo costoso da mantenere nel lungo periodo.

Gli obiettivi russi

Il principale obiettivo dell’intervento dei russi in Siria è stato quello di garantire a Mosca ed al suo alleato Assad una sedia al tavolo di negoziazione. Prima dell’intervento russo l’occidente parlava della partenza di Assad come precondizione per i colloqui di pace. Se allarghiamo la nostra lente e guardiamo la situazione da un punto di vista più ampio scopriamo che con questo intervento militare i russi hanno dimostrato quanto siano importanti, decisivi, come attori nella regione. Mosca si presenta come l’attore che “risolve” e può incanalare i colloqui di Ginevra come meglio gli aggrada. Che si pensi che Putin è un opportunista tattico o che abbia una precisa strategia, ha raggiunto un obiettivo strategico: rendere la Russia geo – politicamente rilevante, forzando l’Occidente a tenere in considerazione gli interessi russi.

Un altro obiettivo raggiunto dai russi è stato quello di fornire un addestramento cruciale per le truppe di Mosca qualora Putin voglia condurre altre operazioni militari, che siano in Ucraina o in qualche vicino “scomodo”.

E, non da ultimo questo intervento e il conseguente ritiro possono essere venduti all’opinione pubblica russa come una vera e propria vittoria.

Il ritiro russo è solo formale

Alcuni aerei sono tornati in Russia, ma non sappiamo attualmente quanti ce ne siano perché arrivano altri, nuovi. Inoltre, non ci sono numeri di quanti erano all’inizio dell’intervento militare. È stato stimato che c’erano tra le 3 e le 6 mila truppe russe in Siria  e quello che sappiamo ora è che i russi hanno lasciato truppe a sufficienza per supportare logisticamente le loro forze  alla base aerea a Khmeimin e al porto di Tartus

Più importante: il dispiego di dispositivi d’arma così detti area denial weapon cioè quei dispositivi che servono a prevenire la creazione di corridoi umanitari o no – fly zone sono tutti rimasti. Le forze russe che monitorano e dominano lo spettro elettromagnetico sono rimaste.

russi

Anche i più avanzati velivoli SU – 35 e SU – 30 sono lì. I loro consulenti e l’artiglieria, i decisivi fattori sul terreno stanno ancora guardando il campo di battaglia siriano preparati a cosa debba avvenire dopo. 

Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ricostruire la sua campagna militare ad un cenno d’ordine del presidente Putin. Mantenendo la sua capacità di area denial weapon contro l’occidente e la Turchia, si assicura che non ci siano sforzi per rovesciare il bilancio di potere sul campo di battaglia. Manda un chiaro messaggio alla Turchia e agli altri: la Russia continuerà ad assicurare che nessuno possa capovolgere la sua vittoria o minare il suo peso “riconquistato” nel sistema internazionale.
Un altro importante gruppo di attori non è definitivamente partito dal campo di battaglia siriano: le centinaia di truppe del Revolutionary Guard Corps iraniane, i combattenti di Hezbollah, un certo numero di milizie sciite provenienti dall’Iraq e dal Pakistan.

Se la vogliamo mettere proprio in termini semplici semplici: la presenza significativa di aerei russi non era più necessaria.
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Febbraio 29 2016

Israele e Russia: l’amicizia nel Medio Oriente di oggi

Israele e Russia

Il Medio Oriente è nel bel mezzo di una violenta rivalutazione delle sue idee, priorità ed alleanze; la questione dei legami di Israele è parte del ri – assestamento della regione.

Qualche giorno fa il presidente dello stato d’Israele, Reuven Rivlin ha cancellato un viaggio previsto per marzo in Australia per incontrare il presidente russo Putin a Mosca.

Israele e Russia un’amicizia oscillante

La recente storia delle traiettorie delle relazioni russo – israeliane è stata oscillante. Putin è stato il primo presidente russo a visitare Israele e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha coltivato legami con la Russia per una serie di ragioni. Israele ha una grande diaspora russa che conta per circa il 10 – 12 percento della popolazione israeliana, e il loro profondo legame con il paese di origine li spinge a coltivare dei legami più stretti con la Russia: un espediente politico per i politici israeliani. Inoltre, Israele e Russia hanno entrambi inteso trarre un vantaggio dalla percezione del ritiro americano dal Medio Oriente per forgiare legami più stretti. Israele cerca di contenere le sue scommesse con un’altra potenza che sta al di fuori dalla regione e la Russia cerca di trafiggere gli Stati Uniti guadagnando influenza con un altro dei suoi principali alleati nella regione. Questo si è manifestato nella sfera politica anche attraverso il silenzio di Israele su questioni che sono importanti per la Russia come l’annessione della Crimea.
I legami economici sono aumentati. Il commercio tra i due paesi che ammontava a 3.5 miliardi di dollari nel 2013 è aumentato negli scorsi anni visto che le importazioni russe dei prodotti israeliani hanno rimediato alle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Qualche settimana fa funzionari di entrambe le parti hanno confermato che è imminente un accordo di libero commercio tra i due paesi. Sul lato militare, Israele ha accordato la vendita alla Russia di 10 droni israeliani “Searcher” per la raccolta di informazioni già lo scorso autunno.
L’intervento della Russia nella guerra civile siriana in favore di Assad ha introdotto tensioni tra Israele e Russia, circostanza che è stata gestita da entrambe le parti ragionevolmente bene. Per esempio, Israele e Russia si sono tenute entrambe informate sul rispettivo utilizzo dello spazio aereo siriano per evitare scontri. Israele non ha preso una posizione ufficiale sull’uscita di scena di Assad, ma ha dichiarato di aver tracciato una linea rossa contro il trasferimento di armi a Hezbollah. I bombardamenti israeliani contro questo trasferimento di armi appaiono essere stati coordinati con i militari russi, dal momento che aerei israeliani hanno volato attraverso lo spazio aereo siriano che è pattugliato dalla Russia senza alcun incidente.
Le violazioni dello spazio aereo israeliano non hanno provocato il tipo di crisi che è occorsa tra la Russia e la Turchia. Visto che gli aerei russi e israeliani volano lungo lo stesso corridoio nel sud della Siria e operano conto differenti attori ovviamente ciò ha il potenziale di dare vita ad una catastrofica esplosione, ma le buone relazioni tra Israele e Russia sono state la chiave per prevenire ogni fraintendimento. Questo non vuol dire che una crisi non potrebbe verificarsi nel futuro, particolarmente in vista della vendita di Mosca dei missili S- 300 all’Iran. Israele a tutti costi farà in modo che questo sistema d’arma non possa essere trasferito ad Hezbollah.
Israele sembra preparata a compartimentalizzare la sua relazione con la Russia e cercare di mitigare i suoi dubbi sul comportamento russo in Siria, finché le armi russe non cadano nelle mani di Hezbollah.

Altrove nella regione c’è più movimento

Israele sta aprendo un ufficio ad Abu Dhabi, ufficialmente con l’obiettivo di facilitare le sue interazioni con l’agenzia delle Nazioni Unite per l’energia rinnovabile (IRENA) che sarà basata negli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi ribadiscono che l’apertura dell’ufficio israeliano non ha niente a che fare con relazioni bilaterali. Quindi mentre le relazioni formali rimangono ufficialmente fuori dal tavolo, sotto il tavolo le comunicazioni continuano.
I legami con l’Egitto, il primo paese arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, hanno iniziato a diventare più “caldi”. L’Egitto ha mandato un ambasciatore in Israele a gennaio per la prima volta dal 2012.
Ci sono alcuni segni che le visioni popolari di Israele stanno forse cambiando. Il Kuwait Times, ha recentemente pubblicato un articolo intitolato “Israele non è il nostro nemico”, nel quale si affermava che mentre i palestinesi hanno ragioni per vedere Israele come un nemico, il Kuwait non ne ha. Una simile visione è stata espressa da uno storico egiziano Maged Farag che ha asserito: “il nostro nemico oggi è Gaza, non Israele”.

*immagine: www.timesofisrael.com

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.