Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.

Marzo 26 2020

Identità in conflitto. La trasformazione della guerra nel mondo globalizzato.

Identità in conflitto

Il secondo libro di Barbara Faccenda

Vincitore del IV edizione del Premio Internazionale Ut Pictura poesis 2020 (settore saggistica edita)

Le guerre compaiono quasi inevitabilmente quando le identità sono minacciate, perché ad essere contestati sono i valori, le certezze ed i sistemi di credo di ciascun individuo. Il conflitto si intensifica quando ogni nuova minaccia rafforza e agita le identità del gruppo obiettivo e dei suoi membri, ampliando il divario tra i gruppi. Tale dinamica di intensificazione e il continuo aumento del consolidamento delle identità individuali e di gruppo che essa produce, potrebbe spiegare, parzialmente, l’alto grado di intricabilità che sembra essere la caratteristica di molti conflitti contemporanei. Il libro esamina il ruolo dell’identità e come essa possa favorire l’intensificazione del conflitto, ma anche impedirne la diminuzione, la risoluzione e la potenziale trasformazione. Il tratto caratteristico del potere complementare che, da solo, congiunge i gruppi diversi in società autentiche è la riconciliazione: il processo di lungo termine che è l’essenza della trasformazione – durevole – dei conflitti contemporanei. La trasformazione, fondamentalmente, è opposta alla re-imposizione di una struttura dominante con il mantenimento delle gerarchie in un gruppo o dello status individuale. La consapevolezza degli aspetti interpersonali di conflitto e delle dinamiche legate all’identità è utile a chiarire i modi in cui le scelte compiute da attori potenti potrebbero, in maniera controproducente, aumentare un confronto interculturale piuttosto che porsi al servizio di interessi strategici o di difesa di valori fondamentali. L’analisi del ruolo dell’identità nei conflitti in corso permette descrizioni sfumate dei processi attraverso i quali le relazioni tra gruppi in competizione (inclusi i raggruppamenti culturali e politici all’interno degli Stati, le organizzazioni transnazionali e gli attori non-statali) trasformano le narrative e le visioni del mondo.

 

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Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.