Ottobre 1 2016

Stati fragili: il campo di battaglia delle grandi potenze

Stati fragili

Spesso i cosidetti “Stati fragili” diventano un vero e proprio campo di battaglia, dove chi combatte più ferocemente sono le grandi potenze.

“Stato fragile” o nella versione inglese “fragile State” è sistematicamente ed inesorabilmente confuso con “Failed State” o “Stato fallito”. Dunque prima di approfondire la connessione tra Stati fragili e grandi potenze, facciamo la necessaria chiarezza (anche un po’ accademica) su questi concetti.

Una pagina di appunti dal mio quaderno riassume i concetti principali e la sostanziale differenza tra failed o failing State e State fragility.

Stati fragili
Dunque: affinché si abbia uno “Stato”nel senso del diritto internazionale occorre la presenza di uno o più individui (governanti) che pretendono di regolare la vita di altri individui (governati) stanziati stabilmente entro un territorio delimitato da confini senza dipendere da altri Stati all’esterno (indipendenza). La dottrina e la giurisprudenza prevalenti sintetizzano questa definizione sostenendo che lo Stato secondo il diritto internazionale è identificabile da: governo-popolo-territorio. Questa teoria tridimensionalistica della statualità è generalmente accolta nella giurisprudenza internazionale, nonché dalla giurisprudenza statale compresa quella italiana. A favore della teoria tridimensionalistica si sono espressi anche organi internazionali come la Commissione Badinter nel parere n.1 del 1991 sulla dissoluzione della Jugoslavia. In sostanza, tale teoria, tende a precludere la qualificazione giuridica di Stato e l’attribuzione delle corrispondenti prerogative ad entità del tutto prive di territorio ( Stato “virtuale) o di popolazioni stabili (comunità nomade).
Costituisce un luogo comune sia in dottrina che nella giurisprudenza il richiamo alla Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli Stati del 1933, al cui art.1 stabilisce che lo Stato come persona di diritto internazionale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche: 1) una popolazione permanente; 2) un territorio definito; 3) un governo; 4) la capacità di intrattenere rapporti con gli altri Stati. Il quarto elemento viene inteso, usualmente, nel senso dell’indipendenza dello Stato nei confronti degli altri Stati. Si tratta di un richiamo di routine, giuridicamente irrilevante, poiché la Convenzione (adottata alla 7° Conferenza internazionale degli Stati americani e in vigore per 15 Stati latino-americani e per gli Stati Uniti) non può in se stessa stabilire una nozione di Stato che vincoli la generalità degli Stati.*

Failed  o failing States

Un ente che in passato ha costituito uno Stato che non ha più un governo effettivo, per motivi che possono dipendere da un’insurrezione o da una guerra civile o da un intervento militare esterno viene definito failed o failing State. Stando al requisito dell’effettività si dovrebbe ritenere che una volta perduta venga meno lo Stato. Nella prassi tuttavia i failed States vengono considerati come Stati a prescindere dall’aver perso l’effettività.

Esempio: la Somalia nel periodo 1991-2001 (tuttora in crisi di effettività e ce ne occuperemo nei prossimi post) ha continuato ad essere considerata uno Stato, è rimasta membro delle Nazioni Unite, qualificata come uno Stato dalla giurisprudenza britannica (sentenza Woodhouse Drake e Carey 1992).

La continuità dei failed States viene spiegata sostenendo che se si ammettesse l’estinzione dello Stato si creerebbe un territorio nullius suscettibile di occupazione ed appropriazione da parte di altri Stati, il che violerebbe il diritto di autodeterminazione dei popoli.
Anche se la ragione potrebbe essere spiegata più facilmente con la paura che l’ordine globale sia minato da vuoti di potere.

Stati fragili

La cosiddetta State fragility come construtto teorico è diventato ora una parte importante del discorso politico internazionale,  nondimeno resta un concetto elusivo sia per gli accademici che per i politici. Ci sono diverse interpretazioni di fragility, concetti analitici distinti che riguardano principalmente la vulnerabilità del sistema politico dello Stato. (prossimamente cercheremo di spiegare anche cosa è un sistema politico dello Stato)
Il concetto di “fragile State” è un’ invenzione recente. La questione ha generato un estensivo lavoro accademico molto del quale si è focalizzato nel trovare alcune chiavi di lettura utili a spiegare la fragilità dello Stato.

Come si presenta uno Stato fragile?

Uno Stato fragile” è uno Stato suscettibile in maniera significativa di una crisi da parte di uno o più dei suoi sottosistemi. Uno Stato particolarmente vulnerabile a shock esterni ed interni: conflitti interni ed internazionali. Negli stati fragili, gli accordi giuridici istituzionali sono vulnerabili a sfide da parte di sistemi istituzionali rivali essendo essi derivati da autorità tradizionali, concepiti da comunità sottoposte a condizioni di stress che percepiscono poco dei servizi erogati dal governo in termini di sicurezza, sviluppo o benessere, ovvero derivati da signori della guerra, o da altri intermediari di potere non statali.

La comunità dei Donatori equipara la fragilità dello Stato con l’incapacità di uno Stato ricevente ad utilizzare i flussi di aiuti per raggiungere la crescita economica e la riduzione della povertà. Il consenso raggiunto dalla comunità internazionale dei Donatori su questo concetto di “State fragility” si basa sulla circostanza che l’impatto dell’aiuto sulla crescita interna, riduzione della povertà e altri esiti di sviluppo è condizionale ai regimi politici dello Stato ricevente e alla performance istituzionale. Più specificatamente: più appropriati sono questi regimi da un punto di vista di sviluppo e migliore è la performance delle istituzioni locali, maggiore sarà l’efficacia incrementale dell’aiuto.

Prospettive di fragilità di prima generazione

Le visioni sulla fragilità di Stato e failure che appartangono alla “prima generazione” si concentrano sulla rottura del sistema politico causata da una singola variabile: un conflitto violento intra-statale. Questo tipo di prospettive appartengono agli anni ’90 in cui si sono verificate un certo numero di rotture dei sistemi statali legate a conflitti: Liberia, Somalia, Sierra Leone in Africa; Serbia e Bosnia in Europa.

Si potrebbe dividere la prima generazione in due campi:

1. teorie più strutturalmente orientate che si focalizzano sulle “cause alla radice” della debolezza del sistema politico: quelle condizioni permissive che consentono lo sfociare di un conflitto o l’incremento della povertà.

2. Prospettive più concentrate sul sistema politico e sugli attori non – statali, come forze che nell’intento di perseguire agende individualistiche e competitive, interagendo su queste basi producono conflitto.

La povertà è una variabile strutturale chiave per il primo campo definita sia in termini assoluti che relativi, mentre il secondo gruppo guarda alle motivazioni degli attori incluso l’avidità. Puntare i riflettori soltanto sui fattori di conflitto non aiuta a sviluppare politiche più efficaci per rispondere o, idealmente, per prevenire la failure.

Quando il conflitto o la povertà diventano sufficientemente estremi per spronare la comunità internazionale all’azione, è di solito troppo tardi per rispondere efficacemente fatta eccezione per quegli interventi attraverso operazioni costose (interventi militari) o dolorosi aggiustamenti economici. Quello di cui c’è bisogno sono approcci proattivi che si concentrino su trasformazioni strutturali di lungo termine.
Prospettive di fragilità di seconda generazione

Esse riconoscono che i fattori come la povertà ed il conflitto in se stessi non sono delle buone misure di fragilità, piuttosto sono sintomatiche dell’esistenza di più fattori causali fondamentali. E’ vero che molti Stati fragili sono poveri, ma soffrono, ad esempio, anche di un’ineguale distribuzione dei servizi o di una debole governance.

Gli indici: perché se lo dice un indice allora è vero!

Il Fund for peace Index è un approccio di prima generazione che pone una più grande enfasi sui risultati dei conflitti piuttosto che su altri indicatori di fragilità. Questo indice considera Stati con una fine relativa dei conflitti e non necessariamente il processo che porta alla fragilità.

Stati fragili e rivalità tra grandi potenze

Il rischio che pongono gli Stati fragili è diventato una delle maggiori preoccupazioni per i politici dopo l’11/9. L’insuccesso delle missioni di stabilizzazione in Afghanistan, Iraq, Libia e Yemen ha reso questi Stati una sorta di emblema del fallimento politico.
Ben lungi dall’essere una preoccupazione “distante ed astratta”, gli Stati fragili restano al centro di molto del disordine regionale odierno e del cambiamento globale radicale.

Per rendere chiaro il punto basta dare un’occhiata alla Siria e al suo impatto sugli stati confinanti, sulla regione e sull’Europa.

La sfida animata dall’assenza – ovvero dalla rottura – di unitarietà sociale tra le persone ed il loro governo diventerà, con tutta probabilità, molto più acuta nel tempo dal momento che gli Stati lottano per tenere il passo rispetto alle richieste sempre più alte dei propri cittadini.
La convinzione che si debba cercare di “aggiustare” ogni singolo “Stato fragile” è errata.

Sarebbe auspicabile articolare principi di politiche realiste per determinare dove e come investire scarse risorse e l’attenzione per ottenere il massimo effetto. Questo, strategicamente, vuol dire identificare e ad avere come obiettivi gli Stati dove la fragilità e le ricadute sugli Stati confinanti e le regioni pongono la più grande minaccia all’ordine mondiale. Sebbene questo potrebbe essere un buon inizio, le cose si fanno complicate quando, per guidare gli sforzi futuri, si applicano le lezioni apprese dalla passata decade dalle missioni di stabilizzazione di lungo termine.
Ci sono i casi in cui le nuvole di una possibile crisi del sistema politico statale sono ben visibili, ma molto spesso le radici di una crisi sono oscurate o nascoste da una repressione efficace o da un consenso solo in apparenza, rendendo gli avvertimenti iniziali quasi impossibili da decodificare.

Come regola generale, ci si aspetta che regimi autoritari rigidi alla fine cedano all’instabilità, ma predirli sarebbe come saper leggere i fondi delle tazze di caffè.

Anche quando una crisi si dichiara, prevedere la sua evoluzione è rischioso. Dopo tutto, chi avrebbe potuto prevedere l’entità del collasso Siriano nel caos nel 2011?

La politica estera del presidente Obama quando entrò in carica nel 2009 era quella di restaurare la posizione globale degli Stati Uniti attraverso un impegno diplomatico e la riduzione degli interventi militari. Anche se ben concepita, questa strategia in alcuni modi fu sovvertita dal ritorno della rivalità tra grandi potenze, nell’arena internazionale, soprattutto nella forma del revanscismo russo e dell’assertività cinese.
Le provocazioni russe potrebbero facilmente risultare in incidenti che presentano un rischio più grande di intensificazione, perché la memoria “dei muscoli di Washington” di come fare retrocedere la Russia si è atrofizzata e i meccanismi per farlo o sono appassiti o non esistono più.

Per 25 anni il conflitto tra le grandi potenze è stato licenziato come irrilevante o ignorato come improbabile.

4 domande che deve porsi e a cui, evidentemente, deve rispondere il prossimo presidente degli Stati Uniti

  1. Gli Stati Uniti vogliono ancora e sono capaci di sostenere la sicurezza mondiale, coordinare gli sforzi per stabilizzare gli Stati fragili di importanza strategica?
  2. Gli Stati Uniti cercheranno di immunizzarsi dal contagio del disordine?
  3. Vogliono accettare un ordine multipolare di egemonie regionali e di accordi di divisione del potere?
  4. Oppure risponderanno con più forza alle sfide revisioniste di potenze entusiaste di mettere fine al periodo degli Stati Uniti come impareggiabile potenza mondiale?

Senza queste risposte, gli Stati Uniti saranno forzati a reagire agli eventi e alle crisi piuttosto che gestirle e rispondere alle trasformazioni piuttosto che condurle.

Chiaramente non poniamo 4 domande al presidente del Consiglio dei Ministri italiano perché l’Italia ben lungi dall’essere una grande potenza e ancora molto lontana dal costituire un attore chiave nella scena internazionale. 

*C. Focarelli, Diritto internazionale, terza edizione- Cedam, 2015.