Novembre 13 2015

La brigata delle donne dello “stato islamico”

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Lo “stato islamico” ha creato una brigata di solo donne il cui compito è di far rispettare la Sharia. Troppo semplicistico chiamarle “spose jihadiste”

Per conto dello  “stato islamico”  chi recluta le donne è una donna ed usa nickname di: “al Khansala”. Questo nome corrisponde ad una poetessa tra le prime donne convertire all’islam ai tempi del profeta Maometto, conosciuta per aver ordinato ai suoi figli di andare in battaglia per l’Islam. Tutti e quattro sono morti. Al  Khansala è sempre stata attiva sui forum legati ad Al Qaeda, ben prima che apparisse sulla scena lo “stato islamico”. Aprì il suo primo account su Twitter nel 2012. Il suo interesse è sempre stato quello di connettere le donne che supportano la jihad una all’altra e alla rete più grande di Al Qaeda. Dopo aver defezionato da Al Qaeda si è unita allo “stato islamico” guidando una vera e propria brigata online che condivide il suo nome e si occupa di reclutare le donne che vogliono unirsi all’ISIS.

La brigata rosa vestita di nero

Agli inizi di quest’anno i sostenitori online di questa brigata “rosa” hanno fatto circolare un documento dal titolo: “Women In The Islamic State: Manifesto And Case Study” redatto allo scopo di reclutare, sostenere e dissipare miti circa il ruolo delle donne. Il testo fu dapprima diffuso online in arabo poi tradotto in inglese da un think – tank anti estremista. La propaganda per il reclutamento delle donne si traduce nell’adempimento del loro ruolo spirituale e divino che è quello di essere moglie di un forte jihadista e madre della prossima generazione.

Per entrare a far parte di questa brigata è essenziale che le ragazze siano nubili e di età compresa tra i 18 e i 25 anni.  Ogni donna riceverà un salario mensile pari a meno di 200 dollari. Dopo un mese di addestramento, imbracciano le armi con l’ordine di far rispettare la legge della Sharia nelle due più grandi città conquistate dal ISIS: Raqqa e Mosul. Le punizioni vengono assegnate da Umm Hamza, una donna descritta in un’intervista/confessione di una donna appartenente alla brigata delle donne dell’ISIS.

Unirsi alla brigata al – Khansala: più motivazioni per un fenomeno complesso

E’ importante evitare la generalizzazione quando si parla di forze che spingono le donne ad unirsi a questo tipo di gruppi. Asserire che le donne si uniscono allo “stato islamico” per diventare le “spose jihadiste” è troppo semplicistico ed ignora i diversi e complessi fattori che portando un numero sempre più crescente di donne ad unirsi a questo gruppo. Idee stereotipate invece suggeriscono l’idea che le donne sono o forzate o raggirate dagli uomini e che possono unirsi a gruppi di questo tipo per le stesse ragioni di un uomo.

Fattori che possono spingere le donne “occidentali” ad unirsi all’ISIS includono dei sentimenti di isolamento politico, sia culturale che sociale che comprendono sentimenti di insicurezza legati all’appartenenza alla cultura occidentale. Un’altra ragione chiave è il sentimento che la comunità musulmana internazionale è perseguitata e quindi prevale la frustrazione della percezione per la mancanza d’ intervento.

Entrano in gioco anche fattori come obiettivi idealistici legati al dovere religioso di quello che è visto come un utopico califfato, un senso di appartenenza e di “sorellanza” nel romanticismo di un gruppo estremista.

Potrebbero essere anche essere spinte da ragioni economiche o per prendersi una rivincita da un trauma personale, come lo stupro, la tortura o la perdita di un membro della famiglia.

Storie come quelle delle due adolescenti da Vienna, età 15 anni e 16 anni che lasciarono casa per recarsi a Raqqa, in Siria, dove sono state fatte sposare a combattenti ceceni che hanno scritto alle loro rispettive famiglie perché volevano scappare, rimaste peraltro incinte, ci fanno capire la complessità di questo fenomeno. Soprattutto dovrebbero portarci a riflettere al di là del nostro naso. Gruppi estremisti di matrice religiosa come lo “stato islamico” non fanno altro che focalizzare l’attenzione di eventuali sostenitori sulla semplicità della dicotomia: buono/cattivo. Evidentemente le nostre società sono molto più cattive di quello che pensiamo se le “nostre” ragazze volano nel nero.

Novembre 11 2015

Quando a farsi esplodere è una donna.

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L’impiego di donne come attentatori ovvero suicide bomber è una realtà.

Il ruolo della donna nella jihad non è chiaro neanche nel Corano e nella comunità islamica ci sono due grandi categorie che possono essere utilizzare per caratterizzare le idee dei gruppi di estremisti di matrice islamica riguardo al ruolo della donna. Un ruolo supportivo contro un ruolo attivo.
Tra i gruppi che sostengono l’idea del ruolo attivo delle donne nella jihad c’è HAMAS, fondato nel 1987 e attiva in Palestina. Hamas ha chiaramente dichiarato la sua posizione nell’ art. 12 del suo statuto: “resistere e soffocare il nemico diviene un compito individuale di ogni musulmano, uomo o donna. Una donna può andare a combattere il nemico senza il permesso di suo marito e così anche la schiava, senza il permesso del suo padrone”. Hamas utilizza donne come suicide bombers  in numero sempre maggiore. Huda Naim una delle donne leader, membro di Hamas, asserisce che molte donne in Palestina vogliono diventare più attive nella jihad.
Un’altra organizzazione che permette alle donne un ruolo attivo nella jihad è l’Islamic Jihad Union, gruppo attivo in Afghanistan ed in Pakistan.
Dal 2005, il numero di suicide bomber al femminile in Iraq è incrementato ed è cresciuto di più ogni anno. Il 9 novembre 2005, ad Amman, Giordania, ci sono stati 3 attacchi suicidi ad Hotel occidentali, il Radisson Hotel, il Grand Hyatt Hotel e il Days Inn, che hanno ucciso dozzine di persone. L’attacco al Radisson ha visto anche un suicide bomber donna. Sajida Mubarak al – Rishawi, 35enne irachena e suo marito anche lui 35enne, cercarono di farsi esplodere in una festa di nozze che si teneva in una delle sale da ballo dell’hotel. Il marito detonò la sua cintura esplosiva per primo, ma quando la donna cercò di farsi esplodere, la sua cintura non esplose. La donna raccontò l’accaduto in una confessione registrata.
Pur tuttavia l’impiego di donne suicide bomber non è nulla di nuovo visto che  agli inizi degli anni ’80, all’età di 16 anni un membro del Partito sociale nazionalista siriano: Sana’a Mehaidli si fece esplodere in una Peugeot vicino ad un convoglio israeliano durante l’occupazione del sud del Libano.
Un altro esempio del ruolo attivo giocato dalle donne è quello delle donne cecene che combatterono dopo che i loro mariti furono uccisi dalle forze russe.

Perché le donne?

Per le donne di gruppi estremisti che usano come tecnica il terrorismo è più facile ottenere l’accesso ai luoghi degli obiettivi indossando l’esplosivo sotto i loro vestiti. Gli atti terroristici delle donne posso attrarre molta più attenzione e quindi maggiore pubblicità rispetto a quelli degli uomini. Il “pubblico” è sia ripugnato che affascinato dalle donne che uccidono. Un altro punto importante è che indossare una cintura esplosiva e farla detonare non richiede grande addestramento e questa disponibilità immediata delle donne reclutate effettivamente raddoppia il numero dei potenziali attori per la causa del gruppo estremista.
Ci sono altre organizzazioni che hanno impiegato donne come suicide bomber: Al Aqsa Martyr’s Brigade, Palestinian Islamic Jihad, Hamas, Chechen rebels, Kurdistan Workers Party, Liberation Tigers of Tamil Eelam.
Le percentuali variano enormemente da gruppo a gruppo. Al Qaeda non ha usato donne fino al 2003, invece più del 50% dei terroristi suicidi sia per i ceceni che per il Kurdistan Workers’ Part erano donne.
Se si dovesse fare una graduatoria di celebrità nell’utilizzo di donne, al primo posto possiamo senz’altro mettere le Liberation Tigers of Tamil Eelam (che combattevano per secedere dallo Sri Lanka), le quali hanno compiuto circa 200 attacchi suicidi nel periodo dal 1980 al 2003 utilizzando le donne nel 30-40% dei casi. L’unità delle Tamil Tigers di donne suicide bomber si chiama: Black Tigress. La donna delle Black Tigress con il numero più alto di vittime si chiamama Thenmuli Rajaratnan, conosciuta anche come Dhanu. Secondo alcuni Dhanu era stata stuprata, i suoi quattro fratelli uccisi, da soldati indiani che erano parte della forza di peacekeeping che era entrata nello Sri Lanka per reprimere la rivolta delle Tamil Tiger. Per Boko Haram ora affiliato dello “stato islamico” che si fa chiamare ISWA (islamic state in west africa), l’impiego delle donne come suicide bomber è una tattica comune in Nigeria da almeno due anni. Uno degli attacchi più feroci c’è stato il 27 novembre 2014: due donne hanno ucciso 78 persone e ferito molte altri a Maiduguri. Dal giugno 2014, il gruppo estremista ha impiegato almeno 52 donne di età compresa tra i 9 e i 50 anni come suicide bomber in Nigeria e in Cameroon.

Il martirio delle donne ha un valore aggiunto.

Un atto perpretato da una persona considerata per natura non violenta può rappresentare la testimonianza che l’oppressione della sua gente è così grave che persino le donne sono disperate a tal punto da usare la violenza. Supponiamo che la società da cui viene la donna terrorista è caratterizzata da una profonda ineguaglianza di genere e che la società glorifichi il martirio per una casa giusta e suprema, come difendere la fede o difendere le persone contro una forza minacciosa. In questo quadro, un atto suicida di una donna assume un significato speciale che non è disponibile per i terroristi uomini. Questi ultimi possono diventare martiri per la fede del loro popolo oppure per la sopravvivenza come comunità. Tuttavia soltanto il martirio delle donne per la stessa causa può acquisire il valore aggiunto di promuovere una sorta di inusuale equità di genere tra i membri della società in questione.

“La violenza distrugge ciò che vuole difendere: la dignità, la libertà, e la vita delle persone.” – Giovanni Paolo II –