Ottobre 2 2020

Il mondo attraverso le zone calde di conflitto

zone calde di conflitto

L’ordine internazionale si sta sfilacciando, provocando incertezze su chi interverrà per risolvere i conflitti persistenti e chi troverà le risposte umanitarie ai disastri naturali o a quelli generati dall’uomo. Nel frattempo, crisi emergenti e molteplici zone calde pongono nuovi rischi, e la natura del terrorismo transnazionale sta evolvendo.
Conflitti e crisi persistono nel mondo, vi è una crescente incertezza su come – e se – essi saranno risolti.


Vi sono conflitti interminabili, come le situazioni in Yemen, Afghanistan, Siria che hanno prodotto anni di violenza, innumerevoli migliaia di morti e ancora più di rifugiati.

Vi sono zone calde che emergono tra cui il Mali e il Burkina Faso, e un certo numero di potenziali punti di rottura, incluso il mare del sud della Cina, oggetto di dispute territoriali.

Dove vi sono delle flebili speranze di riconciliazione – come la Repubblica Centrafricana, dove 14 gruppi armati hanno firmato un accordo di pace agli inizi dello scorso anno – il pericolo di precipitare in un nuovo ciclo di violenza è ancora molto alto.

Allo stesso tempo, la natura dell’estremismo violento religioso islamico sta mutando. Lo Stato islamico è nel bel mezzo di uno spostamento tattico a seguito della perdita di controllo dei “suoi” territori in Iraq occidentale e Siria e più recentemente la morte del suo leader. Il gruppo appare essere in transizione verso tattiche di stile guerriglia e attacchi terroristi sparpagliati, mentre muove il suo focus su nuovi teatri di operazione, come il Sud est Asia. Non è chiaro se le potenze occidentali nutrano un autentico desiderio di lanciare i tipi di campagne di contro-terrorismo necessarie per affrontare queste nuove sfide.

Fino a poco tempo fa in Siria, un’ampia gamma di attori era impegnata nel combattimento contro gruppi estremisti violenti religiosi impegnati in tattiche di terrorismo, ma anche qui, l’impegno di alcuni attori, soprattutto gli Stati Uniti, è in diminuzione. La Siria costituisce anche un caso studio su come le potenze tradizionali stiano minando la capacità delle Nazioni Unite di rispondere alle crisi, indebolendo ulteriormente l’ordine internazionale post Seconda Guerra Mondiale.
Il vuoto che ne risulta ha introdotto opportunità per organizzazioni regionali, incluso l’Unione Africana, per riempire i vuoti, sia in termini di interruzione del conflitto, o almeno del ciclo di violenza, che di risposta ai disastri. Tuttavia non è ancora chiaro se (e quando) lo faranno.

Nel frattempo, le emergenze causate dai conflitti e dai disastri naturali proliferano ad un tasso che oltrepassa le risorse disponibili per organizzare una risposta.

Il conflitto persistente nell’est della Repubblica Democratica del Congo ha ostacolato la risposte allo scoppio dell’Ebola nella Regione, sebbene le misure adottate abbiano disseminato sfiducia e alimentato nuova violenza. Il conflitto in Sud Sudan, motivato in parte dall’accesso alle risorse, ha prodotto una persistente mancanza di cibo che si è concretizzata, lo scorso anno, in una carestia. I numeri di rifugiati sono in aumento, anche a causa dei cambiamenti climatici che generano nuove crisi. La pandemia di coronavirus aggrava tutto questo, assottigliando le risorse disponibili per affrontarla.

Conflitti persistenti e crisi

Nel mondo, vi sono una manciata di conflitti che persistono da tanti anni che non mostrano alcun segno di volgere al termine.

In molte situazioni come la Siria, la Libia e lo Yemen, ciò accade perché il combattimento a livello locale è una battaglia di proxy fra altri Paesi.

Luoghi come il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, dove, finora accordi di pace fragili tengono, sono lacerati da rivalità tra attori locali chiave, nel disinteresse globale.

E poi c’è l’Afghanistan, dove gli Stati Uniti stanno cercando di districarsi dalla loro “guerra per sempre”.

La scia fortunata della Russia in Siria e Libia sta definitivamente terminando?

Il Cremlino ha scommesso molto sulla guerra proxy in entrambi i Paesi, dispiegando migliaia di contractor militari privati con il cosidetto Wagner Group per sostenere il suo uomo forte. Dopo recenti accadimenti sfortunati per il Presidente siriano, e il Generale Khalifa Haftar, sembra che la Russia non sia più in grado di monetizzare in vittorie reali nel breve termine né in Medio Oriente né in Africa del Nord .
Il segnale più significativo che il supporto della Russia per i paramilitari privati in Libia potrebbe essere una scommessa persa per il Cremlino è arrivato alla fine di maggio 2020. Il Comando militare americano per l’Africa ha accusato pubblicamente la Russia di impiegare aerei da caccia MiG-29 (Il MiG-29 è un caccia dalle linee moderne, bimotore, monoposto, con ala alta di grande superficie e raccordata alla fusoliera con ampie LERX, motori e prese d’aria sono ospitati in gondole sotto la fusoliera. Il tutto fornisce una superficie portante complessiva di considerevole ampiezza, sinonimo di eccellente manovrabilità) per proteggere gli operativi del Wagner Group e le forze dell’esercito nazionale libico che si ritiravano da Tripoli.
Per mesi, il sostegno russo all’esercito nazionale libico ha aiutato Haftar ad imporre un blocco sui giacimenti di petrolio nell’est della Libia, stringendo la sua economia in una morsa rovinosa. Per diverse settimane, le forze di Haftar aiutate dal Wagner Group si sono duramente scontrate con i mercenari siriani sostenuti dalla Turchia e dalle milizie fedeli al governo di Tripoli riconosciuto da molti Stati della comunità internazionale, noto come il governo di accordo nazionale.
Una settimana prima della fine di maggio di quest’anno, le forze sostenute dalla Turchia, con l’ausilio di attacchi da droni turchi, hanno inflitto alle truppe di Haftar delle significative perdite sul campo di battaglia, forzandole a ritirarsi e ad affidarsi molto agli aerei da caccia russi per la copertura aerea. Il 25 maggio 2020 viene diffuso un video
in cui i combattenti del Wagner Group sono trasportati dagli aerei fuori dalla città di Bani Walid, sud-ovest di Tripoli
, corroborando le rivendicazioni di funzionali libici locali che le forze russe “stanno fuggendo a gambe levate”.
Le notizie dell’apparente uscita del Wagner Group dalla Libia arrivano dopo una fuga di notizie relativa ad un rapporto di esperti delle Nazioni Unite per cui 800 dei suoi 1200 contractor erano stati impiegati in Libia fin dall’agosto del 2018. Il rapporto identificava 122 individui con un’unità speciale di cecchini del Wagner Group e un contingente di attacco e ricognizione. La Russia ha negato ogni collegamento con i dispiegamenti e ha criticato il rapporto delle Nazioni Unite.

Dal momento che la Russia ha già forze nel Mediterraneo dell’est, in una base area in Siria, una tale mossa potrebbe, almeno in teoria, permettere all’esercito russo il controllo di molto dello spazio aereo sulla costa del Nord Africa e del Sud Europa. Ora che sembra che i mercenari russi stiano iniziando a lasciare la Libia, per l’esercito nazionale libico sarà verosimilmente molto più difficile aiutare Mosca a raggiungere questo obiettivo.

Nel frattempo in Siria, il sostegno della Russia per Assad appare in disfacimento in ragione di narrazioni che sostengono come Assad si stia impantanando in una faida interna con il ricco cugino Rami Makhlouf, il prominente finanziatore del regime siriano. La spaccatura all’interno del circolo ristretto di Assad è stata resa insolitamente pubblica, con Makhlouf che su Facebook supplica Assad di non impadronirsi dei suoi beni e il governo siriano che impone un divieto di spostamento a Makhlouf per una disputa sul suo impero delle telecomunicazioni: Syriatel. Tutto ciò ha avuto come conseguenza critiche pubbliche – insolite – al regime di Assad da parte di gruppi di esperti russi.
La questione di chi detiene l’influenza sull’economia siriana in frantumi, inclusi i contratti per la futura ricostruzione, si sta sviluppando anche come un vero problema per il capo del Wagner Group, Yevgeny Prigozhin, affiliato del Cremlino, le cui società facilitano le operazioni russe in Libia e in altre parti della Regione. Per anni, Makhlouf e altri vicini ad Assad, come i magnati Ayman Jaber e George Haswani, si sono affidati al Wagner Group e al lunatico talento manageriale di Prigozhin per proteggere i loro interessi nel Paese. La società di Evro Polis e le relative imprese connesse al Wagner Group hanno guadagnato centinaia di milioni prendendo il controllo e assicurandosi così petrolio prezioso, gas e produzione mineraria dai siti in Siria.
La guerra civile siriana si trascina nel decimo anno e le sanzioni americane ed europee contro il regime di Assad continuano ad avere un costo per i partner della Prigozhin siriana.
Nel breve periodo, la posizione instabile della Russia nella Regione – il risultato di relazioni improvvisamente più volubili con Assad e Haftar, la cultura operativa disordinata del Wagner Group – potrebbe produrre modesti guadagni agli Stati Uniti ed ai loro alleati, specialmente la Turchia. Quali che siano i grovigli politici e i colpi militari che avverranno in seguito per Assad e Haftar, migliaia di siriani molto probabilmente continueranno a scappare dai combattimenti nel nord est del Paese, vicino alla frontiera turca, mentre i civili libici sono maggiormente danneggiati dai duelli ed egualmente puniti dagli attacchi aerei russi ed americani.

Bisognerebbe comprendere che giocare un gioco a somma zero non è un’opzione quando ogni giocatore ha assi nella manica e i ricchi oligarchi russi e le loro controparti locali mescolano le forze per truccare le carte a proprio vantaggio.

Che fare?

Fornire al governo di Tripoli – quello sostenuto dalle Nazioni Unite – un maggiore supporto in termini di migliori prodotti intelligence, incluso esperti finanziari, per comprendere come il Wagner Group calza a pennello con i più ampi obiettivi strategici russi. In questo modo quindi la Banca Centrale libica potrebbe monitorare meglio le entrate che fluiscono dentro e fuori la Libia tra le imprese russe e gli individui e congelare gli assetti dei libici che hanno aiutato la Russia ad ottenere un punto di appoggio nel Paese.
Sanzioni alle imprese Prigozhin, così come ad individui e compagnie statali che beneficiano del sostegno del Wagner Group agli alleati di Haftar e Assad.
Durante i colloqui con i leader dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, si potrebbe suggerire che l’aiuto militare a questi Paesi potrebbe non essere più del livello attuale se entrambi continuano a collaborare con la Russia in sostegno di Haftar e contenere le loro giocate con il regime di Assad in Siria.

Conflitti emergenti

Accanto ai conflitti persistenti vi sono nuove zone calde che stanno emergendo, inclusa l’Africa occidentale. Per una molteplicità di ragioni, dall’estremismo islamico violento, alle repressioni sui separatisti, i Paesi nella Regione hanno visto un’intensificazione della violenza armata. Il risultato è un massiccio dislocamento, che assottiglia le risorse umanitarie.

Sahel

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Le forze di sicurezza statali del Burkina Faso hanno giustiziato 31 persone disarmate nella città del nord di Djino nel mese di aprile. Un rapporto di Human Right Watch descrive le uccisioni come “una brutale derisione in una operazione di contro-terrorismo che potrebbe configurarsi come un crimine di guerra”. Le vittime erano sospettate di collaborare con gruppi estremisti islamici violenti che operano nell’area.
Un massacro del genere per quanto scioccante possa essere, non è per nulla un’anomalia in Burkina Faso e nella regione confinante del Mali centrale che è diventata l’epicentro della violenza negli anni recenti.
I gruppi estremisti islamici si sono introdotti nelle fessure politiche, sociali ed economiche, facendo leva sul malcontento locale ed intimidendo chi gli resiste. I livelli di violenza, senza precedenti, non sono stati diminuiti da risposte governative che tardano ad arrivare e ciò ha come conseguenza l’adesione di tanti se non centinaia di giovani ai gruppi estremisti islamici violenti. Le politiche statali che hanno generato forze di sicurezza che compiono abusi o affidato sub-contratti di responsabilità di sicurezza a milizie che agiscono nella totale illegalità. In Mali, ad esempio, Dan Na Ambassagou di etnia Dogon, membro di una milizia di sorveglianza, ha operato nella quasi totale impunità. Il gruppo è responsabile di massacri di ampia scala contro le comunità di etnia Fulani, incluso donne e bambini che loro accusano di collaborare con i gruppi estremisti islamici violenti locali. In un noto incidente occorso lo scorso anno, Dan Na Ambassagou ha ucciso 130 Fulani mandriani nel villaggio di Ogossagou.
In Burkina Faso, il parlamento a gennaio di quest’anno ha approvato la legge “Volontari per la difesa della patria” che fornirà armi e due settimane di addestramento per i volontari locali. La mossa ha sollevato allarme tra i gruppi in difesa dei diritti umani che temono che milizie che non devono rendere conto a nessuno esacerberanno la situazione. Una milizia la cui etnia predominante è quella Mossi, conosciuta come Koglweogo, ha già condotto attacchi sui civili Fulani.
Due gruppi di estremisti islamici violenti, in particolare: Katibat Macina e Ansarul Islam, i cui ranghi sono ampiamente, se non esclusivamente, composti da etnia Fulani, si sono provati particolarmente abili ad inserirsi nelle dinamiche socio-politiche locali.
Spezzare il ciclo di violenza nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale richiederà un approccio multiforme che comprende le iniziative di sviluppo tanto quanto la risposta militare.
Pur tuttavia le risposte governative sono arrivate in un momento in cui i gruppi estremisti violenti che operano nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale stanno dimostrando una crescente capacità militare. Laddove i tali organizzazioni si sono precedentemente affidate a tattiche asimmetriche come le imboscate “colpisci – e – scappa” su personale militare, nei due anni passati si è visto un aumento in attacchi ambiziosi coordinati a basi militari. Vi è stata una spinta da parte degli eserciti nazionali su richiesta di popolazioni locali sempre più frustrate e attori esterni come l’ex potenza coloniale, la Francia, di sradicare questo tipo di estremisti violenti dai territori che hanno occupato. Tutavia le campagne militari hanno il potenziale di trasformarsi in un abusi dei diritti umani, dal momento che i militanti di quei gruppi estremisti violenti possono sempre ritornare alla cosiddetta guerra asimmetrica e mescolarsi alla popolazione locale.
Vero è che i gruppi estremisti violenti locali, in particolare quelli islamici, hanno compiuto progressi con alcune comunità della popolazione locale attraverso il proselitismo e la fornitura di forme rudimentali di governance, le loro attività di “risolutori di problemi quotidiani” sono molto apprezzate dalla popolazione locale e la loro ideologia guadagna popolarità.

In che modo la proliferazione delle armi guida il conflitto mandriani-agricoltori nel Sahel?

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La regione africana del Sahel che si estende dalla Mauritania al Sudan è emersa come una zona calda – critica – globale negli anni recenti dal momento che i governi nazionali lottano per contenere la crescente insicurezza, la criminalità dilagante e ondate di estremismo violento. Gli sforzi per stabilizzare questa cintura transcontinentale proprio a sud del Sahara hanno ampiamente sottovalutato un conduttore critico di tensioni: le dispute vecchie di secoli, ma sempre più violente, tra i mandriani nomadi e le comunità sedentarie di agricoltori. Un recente influsso di armi ha dato a questi conflitti una forza nuova e mortale con gravi implicazioni per la sicurezza internazionale.
La portata della recente violenza che si manifesta da questo tipo di tensioni è scioccante. La proliferazione di armi in ogni parte del Sahel ha trasformato quelle che una volta erano dispute locali sulla terra e le risorse in cicli intricati di violenza che si intensifica.
In Nigeria il conflitto mandriani-agricoltori ha ucciso sei volte tanto quanto il gruppo estremista islamico violento: Boko Haram nel 2018.
Nel Sahel, le comunità di mandriani e agricoltori stanno ottenendo armi da fonti differenti, incluso armi artigianali prodotte localmente, così come armi fabbricate a livello industriale da riserve nazionali o da fornitori stranieri. Un recente studio condotto da Conflict Armament Research, un’organizzazione indipendente di investigazione, ha seguito le tracce di armi che sono state recentemente utilizzate in violenza di larga scala dalle comunità di mandriani ed agricoltori in Nigeria arrivando lontano fino a Paesi come l’Iraq, la Turchia; armi commerciate illecitamente attraverso reti sofisticate di trafficanti di armi. Le armi prodotte artigianalmente, che si procurano a livello regionale e confezionate tipicamente a mano in quantità relativamente piccole, hanno, storicamente, contribuito alla proliferazione di armi in tutto il Continente.
I meccanismi tradizionali di composizione di dispute persistenti, attraverso la giustizia locali, processi di riconciliazione che spesso esistono al di fuori delle strutture statali tradizionali – il clan o la famiglia colpevole, ad esempio, offre un certo numero di capi di bestiame come restituzione delle vite perse – faticano a mantenere la pace vista la portata della violenza. Queste dinamiche non fanno altro che esacerbare altre tensioni nelle relazioni mandriani – agricoltori, incluso l’alta competizione per le risorse, risultato di una governance inadeguata, cambiamenti climatici e crescita della popolazione.
L’accesso maggiore alle armi ha distrutto il delicato equilibrio di potere tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori. I membri di queste comunità rurali che sono state storicamente marginalizzate, come i giovani, non si sentono più obbligati ad aderire ad accordi di pace o accordi sulla terra composti ed attuati dai più anziani. Essi possono trattare le questioni di giustizia e rivincita a modo loro, cioè armandosi.
La proliferazione delle armi minaccia anche di aggravare la tendenza crescente nella Regione verso il neo pastoralismo. Le élite politiche e militari ricche che vivono nei centri urbani di Abuja, la capitale della Nigeria, Ndjamena, la capitale del Ciad, stanno accumulando enormi mandrie di bestiame come modo per mettere da parte la loro ricchezza, dal momento che i sistemi bancari sono spesso inaffidabili. Questi proprietari di bestiame assenti poi assumono e armano dei mandriani e li istruiscono affinché proteggano i loro investimenti a tutti i costi. Nell’assenza di regolamentazioni nazionali o locali, questi mandriani di bestiame militarizzati sono inclini a sfruttare eccessivamente il bestiame e ad altre pratiche insostenibili e in alcuni casi sconfinano nelle terre possedute dagli agricoltori, distruggendo coltivazioni e innescando il conflitto.
Questi pastori armati (pesantemente) non rappresentano tutti i mandriani, ma hanno innescato la diffusione della narrativa di “assassino mandriano” o “pastori invasori” tra molte delle comunità di agricoltori e tutto ciò non fa altro che rafforzare le tensioni etniche e alimentare le mentalità del noi-contro-loro.

L’intensificazione della violenza tra mandriani e agricoltori ha avuto catastrofiche conseguenze per coloro che vivono nel Sahel, contribuendo a conflitti più ampi nella Regione, dal Mali alla Repubblica Centrafricana al Sudan, che a sua volta hanno spesso scatenato atrocità di massa e primi segnali di avvertimento di genocidio.
L’instabilità ha dislocato milioni di persone, scatenato crisi umanitarie devastanti e costose, minacciato rotte di commercio fondamentali e risorse naturali che sono essenziali ai mercati globali e messo a rischio miliari di aiuti e di investimenti.
Gestire questo problema non significa il facile e semplice disarmo delle comunità di mandriani e agricoltori nella Regione. Questi non sono gruppi armati strutturali o uniformi, ma sono comunità di milizie allineate in modo lasco e opportunisti violenti. Inoltre, attori che sono stati incoraggiati dall’afflusso di armi, come giovani marginalizzati o neopastoralisti, è improbabile che siano desiderosi di abbandonare le loro armi appena comperate. Nel frattempo, governi regionali che sarebbero determinanti nella realizzazione di campagne di disarmo di successo sono attualmente distratti dal combattere contro i gruppi estremisti violenti e stanno affidando esternamente la sicurezza ad attori civili o a gruppi informali di sicurezza.

I governi (stranieri) che si sono impegnati nel Sahel dovrebbero essere cauti nel cercare di affrontare questo problema con maggiori aiuti militari nella Regione. Senza una governance complementare, integrativa e l’assistenza allo sviluppo, l’assistenza militare straniera si potrebbe provare controproducente. Le armi che sono vendute in tutta la Regione in modo legittimo, attraverso alleati internazionali speranzosi di sostenere gli Stati nel Sahel, hanno trovato una loro strada nelle mani di criminali e milizie di comunità, alimentando cicli di violenza ed impunità.
Ogni assistenza militare supplementare, quindi, potrebbe essere completata attraverso un sostegno diplomatico e tecnico allo scopo di diminuire le tensioni e mitigare il conflitto tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori.
Francia, Germania, Svezia e l’Unione Europea nel suo insieme hanno promesso di aumentare la presenza militare nella Regione.
Le dispute tra le comunità di mandriani e di agricoltori in tutto il Sahel stanno evolvendo in conflitti più complessi e letali con implicazioni globali, sia gli Stati dell’Unione Europea che gli Stati Uniti rischiano di restare svogliatamente in attesa mentre la violenza si intensifica e più vite vengono perse. Un approccio concentrato su opzioni di impegno non-militare potrebbe aiutare a fermare un’ulteriore instabilità in questa fragile regione dell’Africa.

Gennaio 23 2019

Sud Sudan: l’ennesimo accordo di pace

Sud Sudan

In Sud Sudan la guerra civile  imperversa da ben 5 anni: abusi di diritti umani, violenze, una situazione umanitaria drammatica.

Un nuovo accordo di pace, firmato lo scorso anno, sembra essere l’unico strumento in grado di porre fine alla guerra. Tuttavia sono poche e fragili le speranze che questo accordo regga.

Il governo e l’opposizione hanno 5 mesi per implementare l’accordo e formare un governo transitorio.

Sulla carta, l’accordo di pace del Presidente del Sud Sudan Salva Kiir e dell’ex vice-Presidente, Riek Machar, che poi è diventato il leader dell’opposizione armata  (il 12 settembre 2018), ha fermato un conflitto che conta  383,000 morti e per cui la maggior parte della popolazione versa in condizioni di malnutrizione e severa insicurezza alimentare.

Nel 2015, un accordo di pace molto simile a quest’ultimo, tra gli stessi leader, è miseramente fallito nel luglio 2016, a causa di violente proteste che hanno devastato la capitale Juba e spinto Machar a lasciare il Paese e trovare ospitalità nella Repubblica Democratica del Congo. Nei due anni successivi Machar è stato agli arresti domiciliari in Sud Africa.

In quel periodo, il conflitto è peggiorato: i gruppi armati si sono moltiplicati, le condizioni umanitarie sono diventate tragiche. In questo quadro le forze governative e l’opposizione si sono rese colpevoli di atrocità nella più totale impunità.

L’accordo prevede che il governo transitorio assuma i poteri nel maggio di quest’anno prima che si tengano le elezioni nazionali tra tre anni.

Sud Sudan

Un accordo di pace implementato parzialmente aumenta i rischi di un ritorno al conflitto.

Sebbene questi rischi potrebbero essere mitigati, in qualche maniera, dalle continue misure di “costruzione della fiducia” e presumibilmente attraverso emendamenti all’accordo stesso allo scopo di concedere più tempo, ogni ritardo potrebbe introdurre incertezza in quella che già è una situazione volatile.

Gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali si sono mostrati molto più moderati nel promettere finanziamenti per l’implementazione dell’accordo. Tuttavia, se da una parte l’amministrazione Trump ha già dichiarato che rivaluterà molto attentamente l’intera assistenza al Sud Sudan, la Cina, dall’altra, resta il principale investitore nel settore petrolifero del Paese e la nazione che contribuisce maggiormente alla missione di peacekeeping nel Sud Sudan.

Fondamentalmente l’accordo resta un patto tra le elite politiche che proteggono coloro che sono i maggiori responsabili per la violenza in Sud Sudan e come tale la sua sostenibilità è discutibile.

Il governo, da parte sua, ha iniziato a ricalibrare i suoi sforzi allo scopo di attrarre investimenti esteri, soprattutto nel settore petrolifero. L’impresa russa Zarubezhneft ha firmato un Memorandum of Understanding per esplorare quattro blocchi petroliferi; mentre un Fondo del Sud Africa ha promesso di investire 1 miliardo di dollari incluso la costruzione di una nuova raffineria e il miglioramento dell’esistente infrastruttura dell’oleodotto. La Oranto Petroleum International della Nigeria ha accordato un investimento di 500 milioni di dollari, mentre la Petroliam Nasional Bhd della Malesia ha concordato di investire 300 milioni di dollari.

Tutto ciò è interessante, ma restano delle promesse e non vi è garanzia che tali investimenti si materializzeranno o, se sarà quello il caso, l’ammontare sarebbe identico.

Violazioni documentate all’embargo delle armi e continui abusi dei diritti umani, in particolar modo la violenza sessuale, contribuiscono a minare la probabilità che l’accordo regga. Gli Stati Uniti e le Nazioni Unite hanno imposto l’embargo sulle armi agli inizi dell’anno scorso, l’Unione Europea ne ha imposto uno nel 2011, l’anno in cui il Paese ha ottenuto l’indipendenza. Il governo del Sud Sudan ha lavorato con Paesi regionali, particolarmente l’Uganda, in un sistema che, allo scopo di fornire garanzie agli utilizzatori finali, permette la manifattura di armi in Romania, Bulgaria e Slovacchia in maniera tale da soddisfare i requisiti legali. Una volta che queste armi arrivano in Uganda, esse poi vengono “ri-trasferite” nel Sud Sudan. Anche i gruppi di opposizione hanno utilizzato questa tattica per acquisire armi.

Diversamente dal 2015, vi è un forte interesse regionale a porre fine alla guerra civile in Sud Sudan. I leader dell’Africa dell’Est sono sempre più stanchi del conflitto, così come dei flussi migratori che ne derivano e dell’instabilità che tali flussi creano.

Il Sudan e l’Uganda hanno forti incentivi economici per sostenere l’accordo, dal momento che il Sudan otterrebbe nuovamente il controllo delle preziose aree petrolifere nella Regione dell’alto Nilo, mentre l’Uganda godrebbe del quasi monopolio delle risorse naturali nell’Equatoria nel sud del Sud Sudan (la regione del Nilo Bianco).

Tutto è nelle mani dei leader del governo e dell’opposizione del Sud Sudan, ancora, come nel 2015.

 

Giugno 16 2018

Il Marocco, l’Iran e l’Arabia Saudita: storie di politica internazionale

Marocco

Il Marocco non più di un mese fa ha interrotto le relazioni diplomatiche con l’Iran.

Le relazioni diplomatiche tra i due Paesi erano state riprese nel gennaio 2017 dopo che Rabat aveva accusato Teheran di interferenza negli affari diplomatici dello Stato africano.

Questa volta le accuse riguardano l’ingerenza iraniana nel Sahara Occidentale, un territorio su cui il Marocco rivendica la sovranità, ma che è casa del movimento separatista: Fronte Polisario.

Marocco

Secondo il ministro degli esteri del Marocco, la ragione di questa rottura diplomatica è il sostegno iraniano al Fronte Polisario con armi che il Fronte riceve attraverso Hezbollah, trafficate attraverso l’ambasciata iraniana ad Algeri. L’Algeria ha sostenuto a lungo le rivendicazioni del Polisario nel Sahara Occidentale e nel territorio algerino vi sono diversi campi di rifugiati che hanno condotto a relazioni tese tra i due Paesi.

Se fosse confermato, in maniera inequivocabile che gli iraniani stanno addestrando e armando il Fronte Polisario, avrebbe un senso ritenere che il sostegno iraniano ai separatisti nel Sahara Occidentale avviene in ritorsione alla decisione, del marzo 2018, presa dal Marocco di arrestare ed estradare negli Stati Uniti,  il finanziare libanese Kassim Tajideen, sospettato di essere un sostenitore di Hezbollah. Tale arresto è ancora più interessante se si considera il fatto che il Marocco è uno dei pochi Paesi al mondo che non ha un Trattato di estradizione con gli Stati Uniti.

Vi sono considerazioni politiche legate al conflitto nel Sahara Occidentale che con tutta probabilità hanno determinato la tempistica della decisione. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il 27 aprile 2018, ha rinnovato per altri 6 mesi la missione  per il referendum nel Sahara Occidentale, o MINURSO.  MINURSO svolge una serie di compiti incluso il monitoraggio del cessate-il-fuoco nel Sahara Occidentale, supervisionando il rilascio di prigionieri politici e organizza il referendum, a lungo promesso, nel territorio. Dato che i precedenti rinnovi del mandato erano stati di un anno, la sequenza temporale più breve suggerisce che il Consiglio, e gli Stati Uniti in particolare, intendono apporre più pressione al Marocco per procedere con il referendum.
Dunque sembra che queste accuse contro l’Iran siano volte più a distrarre l’attenzione dal rinnovato supporto internazionale per il referendum che per le azioni di Teheran, anche perchè il Marocco non ha sollevato accuse contro l’Iran, l’Algeria ed Hezbollah nel contesto del rinnovo di MINURSO.

La rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran da parte del Marocco è stata anche modellata a seguito di sviluppi globali.

Il Marocco è entusiasta di rafforzare i suoi legami con un alleato di lungo corso: l’Arabia Saudita, una relazione che al momento è tesa per l’ostinazione del Marocco di restare neutrale nella disputa Arabia Saudita – Qatar. Per vendetta il governo saudita si è rifiutato di sostenere la candidatura del Marocco per la Coppa del Mondo nel 2026. (A complicare ulteriormente la questione: il Qatar ospiterà la competizione del 2022). Il Marocco cerca anche di rafforzare i suoi legami con l’amministrazione Trump.

L’influenza crescente e forte del Marocco in Africa probabilmente ostacolerà la presenza iraniana nel Continente.

Il ministro degli esteri iraniano Jawad Zarif ha un ruolo centrale negli sforzi dell’Iran di trovare nuovi alleati nel Continente. Nel 2015, ha visitato il Kenya, l’Uganda, il Burundi e la Tanzania. Nel 2016: Nigeria, Ghana, Guinea e Mali e nel 2017: Mauritania, Sud Africa, Uganda e Niger. Nel 2018 ha già visitato il Senegal e la Namibia.

Tuttavia l’Arabia Saudita è dominante nell’Africa dell’Est, il che rende tale Regione un’improbabile preda dell’influenza iraniana.

Nel frattempo, il Marocco ha intensificato i suoi legami in Africa. Nel 2017, ha ottenuto la riammissione all’Unione Africana ed è stato accettato, in linea di principio, come membro della Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali anche detta ECOWAS, sebbene la formale adesione sia ancora in sospeso.

Come risultato, l’Iran presumibilmente inizierà ad allontanarsi dall’Africa occidentale verso l’Africa centrale e meridionale, visto che continua a cercare partner economici e diplomatici.

Per il Marocco, la rottura delle relazioni con l’Iran è anche un segnale chiaro per l’Arabia Saudita e gli altri Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo. La più aggressiva politica estera del Marocco richiederà un delicato equilibrio per mantenere l’indipendenza dall’Arabia Saudita e dagli altri Stati del CCG, esercitare influenza e un impegno economico più ampio con gli Stati africani vicini e restare in buoni rapporti con l’Arabia Saudita, che cerca anche lei un impegno maggiore con gli Stati africani.

Febbraio 13 2018

L’Africa tra due fuochi: il potere a vita e i regimi militari

Africa

L’Africa è una terra stretta tra due fuochi: uno è quello del potere a vita che detengono i Presidenti e i funzionari pubblici, l’altro è quello rappresentato dai regimi militari al potere in molti Paesi dell’Africa.

Per quale motivo in molti Paesi dell’Africa il potere resta nelle mani di pochi a vita?

Un primo tentativo di risposta potrebbe essere che mantenere il prestigio è una delle principali ragioni per cui i funzionari pubblici si aggrappano al potere. Tuttavia, la questione è molto più profonda di ciò.

Non è possibile comprendere pienamente l’ossessione di restare il potere senza analizzare innanzitutto la natura della politica in molti Paesi del continente africano.

Diverse economie nella Regione sono caratterizzate da amministrazioni dello Stato stracolme, un settore privato inefficiente e un ampio settore informale. In molte ex colonie francesi, i cittadini si sono trovati a fare i conti con un incremento del costo della vita fin dalla svalutazione del franco CFA nel 1994.

Con l’eccezione del Senegal, Benin e fino a poco tempo fa del Mali e della Costa d’Avorio, gli “esperimenti di democrazia” in questi Paesi sono falliti miseramente.

Gli Stati africani non solo sono incapaci di combattere la corruzione in maniera efficace, ma i loro leader sembrano avere una mancanza di volontà politica nel creare le condizioni per la crescita di un settore privato attivo, uno strumento essenziale per la creazione di lavoro e di benessere.
L’amministrazione pubblica è inadeguata, l’impiego privato e le opportunità di investimento sono estremamente limitati.

Coloro che hanno ricevuto un’istruzione superiore, in molti Paesi africani, sfruttano i giochi della politica per trarne vantaggio personale. I giovani disoccupati nella Repubblica Democratica del Congo e della vicina Repubblica del Congo,  finiscono per offrire i loro servizi – incluso lo spionaggio, il reclutamento di gang e la sollevazione popolare – a politici benestanti in cambio di denaro contante.

Molti partiti politici difficilmente possono essere considerati partiti, ma piuttosto organizzazioni di un solo uomo con nessuna reale base popolare. Quando non sono creati con l’aiuto di partiti stabiliti, essi sono di solito lanciati da uomini calcolatori la cui principale ambizione è la loro stessa prosperità finanziaria. Questi aspiranti politici hanno imparato come sfruttare il panorama politico, specialmente attraverso i mezzi di comunicazione. Appaiono spesso in talk show, dove rilasciano dichiarazioni alternativamente in favore o contro il governo – qualsiasi posizione che spinga in avanti la loro posizione. L’idea è quella di fare tanto rumore sufficiente ad essere notati, nella speranza di assicurarsi una posizione nel governo, o almeno un supporto finanziario per essere eletti a livello locale o nazionale. Come risultato questi politici con più probabilità oppongono resistenza al cambiamento politico per via dei loro interessi finanziari. Quindi lavorano duramente affinché venga preservato lo status quo, dal momento che è quasi impossibile per loro vivere al di fuori della politica.

La politica lucrativa, unitamente all’inabilità di molti Paesi nell’Africa centrale e occidentale dipendenti dalle risorse  a diversificare la loro economia, hanno creato un ambiente perfetto per la corruzione.

Di 167 Paesi, la RDC e la Repubblica del Congo sono classificare 147° e 146°, rispettivamente, nell’indice di Trasparency International del 2015.
L’incontrollato accesso ai fondi pubblici ha incoraggiato funzionari pubblici corrotti a condurre stili di vita insostenibili e stravaganti. Tuttavia, dal momento che i loro beni acquisiti illegalmente non sono produttivi, si trovano rapidamente senza soldi una volta decaduti dal loro incarico. Per cui è nel loro interesse aggrapparsi alle loro posizioni politiche redditizie con ogni mezzo necessario.

Nell’assenza di una vigilanza efficace e di meccanismi di responsabilità, molti funzioni pubblici di alto livello sono indotti a credere che fin tanto che essi restano al potere non verranno perseguiti. Questo è particolarmente vero per Paesi in cui sono consolidati i sistemi clientelari, come i due Congo, dove le nomine di posizioni di livello più elevato, incluso le autorità giudiziarie ed elettive, sono molto spesso basate sui servizi resi che sull’esperienza professionale. All’apice di questo sistema c’è il Presidente, che si sente in debito con coloro che l’hanno aiutato a prendere il potere. In queste condizioni, è incredibilmente difficile rimuovere o perseguire funzionari di governo corrotti e incompetenti. Così non è insolito che funzionari pubblici di alto livello commettano gravi crimini durante il loro mandato, malgrado siano pienamente coscienti che probabilmente sarebbero perseguiti una volta che decadranno dal loro mandato. Tuttavia, anche se finiscono per guadagnare qualche grado di immunità mentre sono in carica, rimangono un obiettivo per la giustizia vigilante dei cittadini ordinari, che sono stati a lungo perseguiti. Ciò spiega perché molti ex funzionari dell’Africa Centrale e Occidentale scelgono di vivere in esilio.

Date queste condizioni economiche e strutturali lo stile del “vincitore prende tutto” in politica è diventata un’alternativa fattibile per i politici disperati. Ma la soluzione va oltre il dialogo tra governi e partiti di opposizione sostenuti da inviti internazionali a rispettare la regola di legge.

Migliorare il clima finanziario per investitori locali e stranieri aiuterebbe il settore privato in molti Paesi dell’Africa centrale ed occidentale ed offrirebbe ai cittadini più opportunità economiche al di fuori della politica. I governi dovrebbero anche considerare di offrire dei benefici più grandi per il pensionamento di funzionari pubblici, specialmente per coloro che sono stati in carica per un esteso periodo di tempo, che potrebbe scoraggiare la continua frode dei fondi pubblici.

Il potenziamento di misure di sicurezza per gli ex funzionari pubblici potrebbe incoraggiare i funzionari di oggi a lasciare le loro posizioni senza paura di rappresaglie.

Infine, sforzi devono essere compiuti per ricomporre le tensioni tra le parti in guerra: la creazione di commissioni per la riconciliazione per la gestire dei conflitti, la formazione di governi di unità nazionale e l’emanazione di disposizioni legislative volte a regolamentare la condivisione del potere equa in tutte le più importanti istituzioni statali. Nel lungo periodo, è quasi impossibile raggiungere trasferimenti di potere democratici senza una riconciliazione politica concreta.

Il potere in mano ai regimi militari

È quasi indiscutibile che l’Africa fosse un continente di coup, dove i colpi di Stato militari erano il principale meccanismo di cambiamento di regime. I dati raccontano la loro storia, con oltre 200 coup e tentativi di colpo di Stato per l’indipendenza di molti Paesi nei primi anni 1960 e 2012. La narrativa post-indipendenza diventa stancamente familiare, con periodi di governo civile interrotti da prese di potere da parte dei militari.

Tuttavia c’è stato un cambiamento percettibile dagli anni 1990 in poi come risultato dell’ondata democratica che ha investito l’Africa a seguito della fine della Guerra Fredda. Sebbene fragile, incompleta e imperfetta, questa ondata ha prodotto una intolleranza popolare sia per i colpi di Stato che per i regimi militari esistenti. Ciò è stato rafforzato da due ulteriori fattori: una nuova ortodossia internazionale che caldeggiava per la democrazia liberale come nuova regola di governance e una robusta opposizione ai colpi di Stato da parte di varie organizzazioni africane inter-governative. Questa opposizione è diventata prima evidente nell’Organizzazione di Unità Africana, e poi si è sviluppata più robustamente nel suo successore: l’Unione Africana (UA) dal 2002. L’UA ha adottato la posizione per nulla ambigua che ogni regime che raggiungesse il potere attraverso un coup militare sarebbe stato immediatamente sospeso da membro dell’Unione. Questo è stato rafforzato dalle posizioni di varie organizzazioni sub-regionali guidate da ECOWAS, la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale e dalla SADC la Comunità di sviluppo dell’Africa del Sud.

Sebbene i coup, nella politica africana, non siano stati ancora consegnati alla storia , come è evidente dalle prese di potere da parte dei militari in Mauritania, Guinea e Guinea – Bissau nel 2008, in Niger nel 2010 e in Mali nel 2012; un declino complessivo dei coup non ha significato esattamente una perdita d’influenza dei militari nel continente, dal momento che molti eserciti mantengono il potere in varie forme. La fragilità statuale, il conflitto intra-statale o il potenziale per il conflitto continuano ad assicurare ai militari un ruolo di alto profilo in molti Stati africani dove spesso i nuovi meccanismi e gli apparati statali sono stati creati per fare spazio all’influenza militare.

Infatti in Stati segnati dai conflitti, non è inconsueto che ai militari sia accordato un effettivo sebbene informale veto politico su temi come la strategia militare, i budget di difesa, i colloqui di pace con i ribelli e alleanze estere. In alcuni Stati come il Lesotho e il Sud Africa, ciò assomiglia ad una sorta di “democrazia di caserma”. L’influenza dei militari continua ad essere pervasiva e coercitiva, dal momento che sorveglia e appone pressioni sul processo politico, creando una costante minaccia di intervento militare qualora le proprie necessità non vengano soddisfatte.

L’assistenza militare americana è stata proporzionale alla crescita del potere e dell’influenza dei militari in Africa

Gli eserciti africani hanno visto la loro influenza ed il loro potere crescere con un’assistenza militare americana sempre più importante, come parte della “guerra globale al terrore” dopo l’11 settembre, coordinata dal comando americano per l’Africa AFRICOM. Sebbene l’assistenza americana può rafforzare la capacità di questi eserciti di intercettare e sgominare le reti terroriste, è una lama a doppio taglio, dal momento che essa rischia di spingere la loro capacità politica mettendosi contro il loro stesso governo e la popolazione. Il fatto che l’aiuto militare americano spesso ha molto più peso rispetto all’assistenza politica o di altro genere invia il messaggio che l’esercito è il principale agente di potere in molti Paesi.

Sebbene Paesi con una lunga storia di interventi militari stanno ora compiendo dei solidi progressi democratici – in particolare il Ghana, ma anche la Nigeria, il Benin, il Burkina Faso e la Guinea Bissau, c’è ancora motivo di preoccuparsi visto che i loro eserciti restano gli attori più potenti. Inoltre, i conflitti in atto in Stati come il Mali, il Sudan, il Sud Sudan aumentano lo spettro dell’intervento militare, particolarmente se le gerarchie militari sono persuasi che i fallimenti del governo civile siano la causa delle battute d’arresto sul campo di battaglia o delle perdite.

In Stati come il Sudan o il Gambia sono diventati la scenografia di regimi quasi-militari dove governi civili solo nominalmente, sono stati massicciamente popolati con – e spesso guidati da – ex personaggi militari. Questi “soldati in doppio petto” possono aver formalmente rassegnato le loro dimissioni come militari, ma mantengono dei legami stretti con i militari.

Non sorprende quindi che le linee tra le forme di governo civili e militari siano sempre più sfumate. Potrebbero non esserci dei regimi militari nel senso convenzionale, ma ci sono dei governi profondamente militarizzati che con più probabilità cercano di restringere lo spazio politico disponibile all’opposizione e alla società civile. I loro leader sono cresciuti con una cultura militare dall’alto verso il basso, radicata nell’ordine e nell’obbedienza piuttosto che nel dibattito, nella libertà di parola, dissenso e partecipazione pubblica che sono la linfa della democrazia liberale.

Infine, c’è il regime ibrido – formalmente civile, ma il partito al governo e la leadership militare si fondono e spesso impiegano le forze di sicurezza contro i loro oppositori.

Lo Zimbabwe è l’esempio più chiaro, dove il cosidetto Comando delle operazioni congiunte ha effettivamente guidato il Paese fin dal 2008. Costitutito da figure di altro livello del ZANU- PF (Unione Nazionale Africana di Zimbabwe – Fronte Patriottico), così come da elementi dell’esercito, delle agenzie di polizia. Il Comando ha bypassato il Parlamento dello Zimbabwe e sovvertito l’esito delle consultazioni elettorali rifiutandosi di abbandonare il potere.

La facciata esterna civile è un’illusione indispensabile, progettata per celare la realtà sottostante dove una élite politico-militare che non rende conto a nessuno ha stabilito se stessa come il centro nevralgico del governo.

Non esistono rimedi immediati per aiutare le forze democratiche in Africa per vincere queste nuove manifestazioni di potere militare. Invece la soluzione deve essere ricercata nelle riforme economiche e politiche di lungo termine, nella buona governance e nel promuovere le materie prime della democrazie. Queste ultime includono forti istituzioni per aiutare a costruire una cultura di costituzionalismo e ad assicurare la trasparenza e l’obbligo di rispondere per le azioni compiute. Una crescita inclusiva, uno sviluppo economico condiviso e l’aumento delle opportunità educative sono tutte condizioni necessarie; così come coltivare una classe media. Una sfida più ampia, ma vitale, è lo sviluppo di una vivace società civile che può aiutare a riallineare le relazioni civili-militari e consolidare concetti come la subordinazione dell’esercito all’autorità civile e la non-interferenza nella politica.

In società pluraliste complesse, con molti spazi di potere e autorità, il prospetto di colpi di Stato militari diventa sempre più remoto. Se si verifica un tentativo di coup, essi si rivelano fondamentalmente insostenibili, dal momento che essi sono tipicamente un sintomo di una cultura politica arretrata o repressa. Tuttavia i vai tipi di regimi militarizzati che resistono in Africa combatteranno duramente contro questi cambiamenti, dal momento che una robusta infrastruttura democratica pone una minaccia esistenziale al loro potere. L’autocrazia nelle sue varie forme cercherà di resistere, contenere e, dove possibile, capovolgere gli avanzamenti democratici. Questa battaglia con tutta probabilità diventerà una caratteristica distintiva della lotta continua per la democrazia in Africa, che è ancora in corso anche se il bilancio di potere si sta spostando gradualmente, sebbene non ancora in maniera irreversibile, in favore delle forze democratiche.