Novembre 20 2018

La fragile democrazia nell’Europa centrale e dell’est

Europa centrale

La democrazia è fragile nei Paesi post-comunisti dell’Europa centrale e dell’est, dove lo spettro dell’autoritarismo e della corruzione sta crescendo. Anche secondo le migliori delle condizioni, la “costruzione della democrazia” è difficile ed incerta.

L’esperienza storica mostra che il fallimento è molto più comune del successo, anche in periodi in cui la democrazia liberale ha pochi rivali.
Le trasformazioni dei Paesi dell’Europa centrale e dell’est successive al 1989,  dal comunismo alla democrazia, sono spesso presentate come un modello di democratizzazione di successo. Malgrado l’iniziale pessimismo circa la prospettiva di stabilire una democrazia liberale, diversi Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno sviluppato consolidati sistemi democratici, delle economie di mercato funzionanti, degli Stati democratici efficienti con politiche di benessere estese e con un grado di ineguaglianza relativamente basso.

Inoltre, le conquiste politiche ed economiche si sono poste in aspro contrasto con i fallimenti di altri Paesi post-comunisti. Malgrado le iniziali speranze e le reali vittorie politiche, una maggioranza di questi Paesi o sono ritornati all’autoritarismo o hanno perseverato in uno Stato semi-riformato e non consolidato.

Quali sono le cause di queste strade così divergenti?

Perché alcuni Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno avuto successo mentre altri incarnano i fallimenti delle politiche e delle economie dell’Europa dell’est?

I Paesi dell’Europa centrale e dell’est sono, ora, una cornice centrale nella battaglia globale tra la democrazia liberale e l’autocrazia.

Pochi Paesi hanno visto la democrazia perdere terreno costantemente come nel caso dell’Ungheria. È qui, con l’arrivo al potere del Primo Ministro Viktor Orban e del suo partito Fidesz, che le speranze per un’espansione inarrestabile della democrazie nei Paesi post-comunisti si è infranta in maniera decisiva. Orban ha costruito il sostegno per le sue politiche nazionaliste ponendo in risalto le questioni dell’identità e offrendo al suo pubblico una potente arma: “la paura per gli estranei”.
Nulla ha fortificato le credenziali nazionaliste del Primo Ministro ungherese più delle sue virulente filippiche anti-migranti e le politiche in risposta all’ondata di rifugiati (per la maggior parte musulmani) arrivati in Europa come conseguenza della guerra in Siria, che Orban chiama “invasori musulmani”.
Un’altra importante componente dell’erosione ininterrotta della democrazia liberale in Ungheria è stata la campagna (velata) di Orban di cooptazione dei media indipendenti. Un esempio esplicativo di come è stato possibile ciò è accaduto in un sabato mattina dell’ottobre del 2016, quando il sito web Nepszabadsag, il massimo quotidiano politico ungherese e una delle sue pubblicazioni di lunga data, sono state messe offline. Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, il sito web è tornato online con un messaggio che annunciava la sospensione della pubblicazione. Due settimane dopo Nepszabadsag è stato venduto e il giornale è stato chiuso poco dopo. La chiusura di Nepszabadag è il momento di svolta per il panorama dei mezzi di comunicazione ungheresi.
Accanto all’Ungheria, vi è la Polonia, che è stata, recentemente, accusata di utilizzare le riforme giudiziarie e i regolamenti statali in materia di comunicazione per infrangere i principi della democrazia liberale.

L’Unione Europea ha iniziato a percorrere dei passi verso il contrasto alle ricadute anti-democratiche negli Stati membri dell’Europa centrale e dell’est. Nelmaggio di quest’anno, le proposte di budget di lungo termine, ampiamente anticipate, per il 2021-2027 includeva piani per un “legame rafforzato tra i finanziamenti dell’Unione Europea e lo Stato di diritto”. Sebbene non sia stato incluso un riferimento a Paesi specifici, la proposta è stata vista come avere esattamente ad obiettivo la Polonia e l’Ungheria, i cui governi populisti e nazionalisti si sono impegnati negli ultimi anni in ripetuti battibecchi con Bruxelles su tutto: dalla libertà di stampa al trasporto del legname. La Polonia e l’Ungheria, tra le altre nazioni nell’Europa centrale e dell’est, hanno beneficiato grandemente dei finanziamenti dell’Unione Europea, che li hanno aiutati a migliorare le infrastrutture e a sostenere gli investimenti.

Le ultime tensioni ci suggeriscono che ogni riavvicinamento conterrà dei limiti.

Gennaio 14 2016

UE apre indagine su Varsavia: porterà alle sanzioni?

UE

Chiudere il cancello quando i buoi sono scappati non è mai una saggia idea. Così si comporta l’Unione Europea che non ha sanzionato l’Ungheria per la sua politica decisamente contraria ai principi europei ed ora indaga sulla Polonia, quando il governo polacco ha già varato leggi che imbavagliano la Corte Costituzionale e i media.

Nel precendente  post abbiamo guardato più da vicino la situazione della Polonia, delle leggi che imbavagliano i media e che riducono sensibilmente i poteri della Corte Europea. Oggi ragioniamo sulle recentissime mosse della Commissione Europea che proprio ieri ha lanciato un’indagine senza precedenti per verificare il comportamento di Varsavia proprio in relazione ai valori cardine dell’Unione Europea (UE). Konrad Szymański, il ministro polacco per gli affari europei, ha commentato che la Commissione Europea rischia di immischiarsi nel dibattito politico interno del suo paese. Nella dichiarazione ai giornalisti, dopo un incontro con membri del parlamento europeo a Bruxelles, il ministro polacco si è mostrato contento di fornire ogni spiegazione utile a capire la situazione in Polonia.

A Bruxelless iniziano a suonare le campanelle di allarme

Il diritto europeo non fornisce nessuna via per cacciare un membro che offende i valori dell’Unione Europea (UE), può però metterlo in “quarantena”. Quando un paese persiste nel violare i valori basilari dell’UE, del rispetto della democrazia, le regole di legge o i diritti umani, la più severa sanzione è quella di sospendere lo stato dal voto nelle istituzioni europee attraverso l’invocazione dell’art. 7 del Trattato dell’Unione Europea (TUE).

Dopo la mossa dell’Ungheria nel disabilitare il sistema di checks and balance del suo sistema costituzionale, la Polonia è il secondo stato a generare una minaccia tale da innescare l’art. 7 del TUE. Proprio perché la Polonia segue l’Ungheria, le più aspre sanzioni disponibili con l’art. 7 sono diventate quasi impossibili da utilizzare. Orban, il primo ministro ungherese, ha annunciato che l’Ungheria bloccherà l’invocazione dell’art. 7 contro la Polonia. E lo può fare. Le sanzioni richiedono la votazione all’unanimità del Consiglio Europeo, meno lo stato in questione, quindi l’Ungheria ha il veto.

Cosa prevede l’art. 7 del Trattato Unione Europea (versione consolidata)

L’art.7 include due parti separate: un sistema di “avvertimento” nel paragrafo 1 e un meccanismo di sanzioni ai paragrafi 2 e 3. L’unica strada che le istituzioni europee hanno a disposizione per mantenere sul tavolo le sanzioni secondo l’art,7, 2 è  di agire contro la Polonia e l’Ungheria allo stesso tempo invocando prima l’art. 7,1.

Quello che è oggi l’art. 7, fu inserito nel diritto europeo in due fasi. Il meccanismo di sanzione che è oggi l’art.7, 2 fu introdotto nel trattato di Amsterdam nel 1999 quando i paesi europei post – comunisti aspettavano nell’anticamera dell’UE, per la preoccupazione dei paesi già membri dell’Unione Europea di possibili comportamenti immorali e “anti – democratici” di questi nuovi stati.

La prima volta che la questione delle sanzioni collettive si presenta è nei riguardi dell’ Austria, quando Jörg Haider ed il suo partito furono inclusi nella coalizione di governo dopo le elezioni del 2000. Anche se le sanzioni erano disponibili, la sospensione di larga scala dei diritti del paese nell’UE fu considerata troppo dura, così gli altri membri dell’UE fecero ricorso ad un set coordinato di sanzioni bilaterali contro il governo austriaco.
Il caso austriaco dimostrava la necessità che ci fosse una mossa di avvertimento prima di invocare sanzioni su vasta scala, quindi il diritto europeo venne modificato da quello che è oggi l’art. 7,1.

UE
L’Unione Europea può rivolgere allo stato in questione raccomandazioni, fornendo quindi un’opportunità di rettificare la sua condotta.

Dato il via all’art. 7,1 per l’Ungheria resta poi un nulla di fatto

Il caso ungherese già ha evidenziato come l’utilizzo di qualsiasi parte dell’art. 7 sia difficile. Il parlamento europeo da inizio all’applicazione dell’art 7,1 con il rapporto Taveres nel luglio del 2013 quando avverte del rischio di serie violazioni dei valori europei da parte dell’Ungheria. Chiama la Commissione Europea a monitorare l’Ungheria e vede lo sviluppo della trilogia: Consiglio, Commissione e Parlamento impegnarsi in uno sforzo costruttivo per riportare l’Ungheria in linea.
La Commissione Europea annuncia un meccanismo di regola di legge nella primavera del 2014, creando un processo di dialogo multi livello con quel membro i cui comportamenti non sono in linea con le regole di legge europee, processo che deve quindi avere luogo prima dell’invocazione dell’art. 7.
Il servizio legale del Consiglio Europeo prontamente annuncia il modesto sforzo al di là dello scopo dei poteri della Commissione ed il Consiglio annuncia la creazione di un meccanismo ancora più inefficace nel tardo 2014, che prevede una revisione paritaria che sfocia più nell’autocelebrazione che nello stabilire oggettivamente se si siano infrante delle regole o dei valori.
In assenza di un serio rimprovero nei confronti dell’Ungheria da parte delle altre istituzioni europee malgrado i richiami espliciti all’azione, il parlamento europeo sta considerando il suo meccanismo di regola di legge come qualcosa che deve essere cambiato.
L’Ungheria è andata per la sua strada senza sanzioni. La drammatica mancanza di azione ha dato vita a European Citizen Initiative consesso che raccoglie firme per forzare la Commissione europea a mettere l’Ungheria sotto esame.

L’UE implementerà sanzioni per la Polonia o non saranno neanche utili come minaccia?

L’art. 7 è sul tavolo come possibile opzione per Bruxelles, ma è già troppo tardi affinché le sanzioni siano una reale minaccia. Lasciando che l’Ungheria scivolasse verso le strade non battute della politica interna senza controlli e bilanciamenti, i membri dell’UE hanno dissipato la loro abilità di agire collettivamente per sanzionare la Polonia.

Se verranno proposte sanzioni contro la Polonia, l’Ungheria apporrà il veto e vice versa. Tuttavia, c’è un modo per far sì che le sanzioni dell’art. 7 possano essere adottate. L’art 7,1, la fase di avvertimento,  può essere innescata da 4/5 della maggioranza del Consiglio (insieme con 2/3 della maggioranza del Parlamento), ciò vuol dire che né l’Ungheria né la Polonia possono apporre il veto sull’uso dell’art.7,1 l’una a favore dell’altra.

Vista la condotta del governo ungherese negli ultimi 5 anni ci sembra che si sia fatto trascorrere inutilmente un lungo periodo per poter sollevare l’art.7,1 nei confronti dell’Ungheria.
Se le istituzioni europee volessero muoversi decisamente verso le sanzioni, rimuovendo sia il voto dello stato dal processo di formazione delle leggi europee, dovrebbero argomentare che nessuno stato già sotto la tutela dell’art. 7, 1 dovrebbe essere in grado di votare le sanzioni del paragrafo 2. Questo rimuoverebbe efficacemente ed effettivamente la possibilità di veto che l’Ungheria minaccia di utilizzare e la stessa possibilità che probabilmente invocherebbe la Polonia per difendere l’Ungheria.

Tuttavia ci sembra di vedere un errore di fondo: l’Unione Europea non può iniziare a disciplinare solo il caso polacco, senza indirizzarsi anche all’Ungheria. Proprio perché é in ragione del comportamento ungherese rimasto impunito che si sono rese possibili le azioni polacche, il meccanismo di sanzioni europee per un paese e non per un altro non può funzionare.