Agosto 19 2019

La strategia tridimensionale della Russia

Russia strategia tridimensionale

La Russia occupa una posizione insolita sul palcoscenico mondiale. Con il Presidente Vladimir Putin, Mosca ha ripetutamente dimostrato di avere la capacità di destabilizzare l’ordine internazionale, ma non quella di riempire il vuoto che sta creando.

 

Ciò che attira l’attenzione è l’utilizzo da parte di Mosca della vendita di armi e di contratti militari come mezzo di costruzione di legami con Paesi in Asia, Africa e America Latina.
Anche se Mosca mantiene un’ingrombante influenza sul palcoscenico globale, a casa il malcontento cresce. Putin ha dominato la scena politica russa per più di due decadi, ma la sua popolarità sta diminuendo tra la lenta economia e lo sforzo di riforma pensionistica profondamente impopolare. Questo potrebbe aprire la scena ai suoi oppositori politici per richiamare l’attenzione sulla corruzione e la violenza che hanno contraddistinto il suo mandato.

Strategia globale

La Russia ha scovato dei modi creativi per fare il passo più lungo della gamba negli affari globali.
La disinvoltura dello schieramento delle forze speciali russe lungo la frontiera della Libia con l’Egitto, per fornire armi al Generale Khalifa Haftar, le cui forze dominano la parte est della Libia, potrebbe sembrare un fatto minore, in realtà è emblematico delle importanti tendenze della politica estera revanscista russa.
Quando Gheddafi controllava la Libia dal 1969 al 2011, era un eccellente cliente di armamenti  e consulenza militare russa. Nel caos dopo la sua deposizione e poi morte, l’ambasciata russa a Tripoli fu attaccata e tutti i diplomatici e le loro famiglie ritirate. Sembrava che Mosca avesse dichiarato la Libia irrecuperabile. Ora, sta rientrando in questo ambiente politico caotico in Nord Africa come parte di una strategia globale tridimensionale costruita per rafforzare la Russia politicamente, arricchirla economicamente e permettere di spingere in avanti il suo peso in un ambiente di sicurezza che cambia rapidamente.

Le dimensioni della strategia tridimensionale russa

La prima dimensione è l’intimidazione. Focalizzata sulle nazioni vicine, particolarmente quelle che una volta erano parte dell’Unione Sovietica o del vecchio impero russo, tale dimensione è progettata per assicurare che i governi vicini siano amichevoli e servili o almeno timorosi di Mosca. Ciò riflette il bisogno della Russia di zone cuscinetto di sicurezza attorno alla sua periferia, una geografia che le permise di essere invasa molte volte nel passato.

L’intimidazione russa assume una serie di forme, inclusa la pressione economica, gli attacchi cyber, come quello del 2007 all’Estonia e quelli del 2017 all’Ucrania, l’aggressione proxy da parte di alleati locali, spesso di etnia russa sparpagliati nel vecchio impero russo e sovietico e in casi estremi come quello della Georgia del 2008: l’intervento militare diretto.
Oggi è l’Ucraina l’obiettivo principale dell’intimidazione russa, ma altre nazioni vicine con meno capacità di resistere, hanno, ad un livello o un altro, ricevuto il messaggio. Anche Paesi che non hanno seguito l’esempio della Bielorussia e diventate completamente accondiscendenti verso Mosca cercano ancora di evitare il più possibile la sua ira.

La seconda dimensione è l’indebolimento dell’ordine mondiale costruito dall’Occidente, particolarmente attorno al Mediterraneo. Come l’intimidazione dei vicini, questo riflette dal strategia sovietica dalla Guerra Fredda. Parte dal suo ostruzionismo politico, utilizzando il veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per delegittimare o ostacolare gli sforzi collettivi americani ed europei per prevenire il genocidio durante la guerra civile libica; per arrivare ad apporre pressione al presidente siriano Bashar al-Assad affinchè lasciasse il potere, o almeno per negoziare la fine della disastrosa guerra civile in quel Paese.

Il collasso del Vecchio ordine nel Medio Oriente ed in Nord Africa sta creando mercati nuovi ed in espansione per armamenti russi e influenza.

La Russia utilizza differenti metodi per indebolire direttamente gli Stati Uniti e le nazioni europee, affidandosi fortemente alla guerra d’informazione per alimentare le divisioni politiche occidentali e minare la fiducia nelle istituzioni politiche. La “fabbrica dei troll” nei social media e la propagazione russa di “fake news” hanno influenzato le elezioni occidentali ad un grado significativo e forse anche decisivo. Mentre la Russia non ha creato quella sorta di iper-partigianeria ed eroso il volere nazione che sta indebolendo gli Stati Uniti ed altre nazioni europee a livello locale, essa le ha sfruttate in maniera più efficace rispetto a quanto avrebbe potuto l’ideologicamente limitata Unione Sovietica. Ciò è stato possibile a causa dell’assenza di una difesa collettiva chiara e definita degli Stati Uniti e degli alleati europei contro la guerra politica della Russia e dell’esistenza di leader politici occidentali, movimenti ed organizzazioni, disponibili a tollerare la manipolazione della Russia (fino a quando li beneficia).

La terza dimensione è la più commerciale: creare e proteggere i mercati per la vendita di armi. Questo è il motivo, reale, per cui Mosca sta cercando di tornare in Libia e, più importante, perché protegge Assad. A parte le armi, pochi beni fabbricati in Russia sono competitivi nell’economia globale; ciò la spinge ad affidarsi alle materie prime ed alle esportazioni energetiche. I leader russi sanno che un grande potere – uno status che vogliono disperatamente – deve fare di più che vendere merci.

La Russia può portare a termine questa dimensione della sua strategia perché le sue armi sono competitive nel mercato globale e, più importante, non ha alcun dubbio su chi siano i suoi clienti. Compratori come Haftar, Assad hanno poche altre scelte. Dal momento che le armi russe sono state collaudate nel loro utilizzo nella guerra civile siriana, Mosca sta cercando di aprirsi il mercato in nazioni che un tempo compravano armi solo dagli Stati Uniti e dall’Europa. Questo elenco include gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia.

La Russia ora vende armi a più di 50 Paesi e organizzazioni politiche

Queste tre componenti della strategia russa si rafforzano vicendevolmente e formano un piano globale efficiente e coerente, indebolendo l’Occidente politicamente, se non strategicamente, Mosca espande il suo mercato potenziale per la vendita globale di armi. Le esportazioni di armi, a loro volta producono denaro contante che può essere utilizzato per potenziare l’esercito russo e mettere a tacere ogni opposizione domestica al presidente Vladimir Putin, creando un flusso di denaro per alimentare la fedeltà delle élite russe. Piuttosto che minacciare la Russia o esserci qualcosa che Mosca vuole aiutare ad affrontare, il collasso in corso del vecchio ordine nel Medio Oriente ed in Nord Africa sta creando nuovi mercati in espansione per gli armamenti russi, e a sua volta, influenza.
Nel breve periodo, tuttavia, la Russia probabilmente non vuole completare la rovina dell’ordine globale esistente dal momento ciò avrebbe come risultato il caos, ma vuole indebolire il sistema. Ciò ci suggerisce che fino a quando gli Stati europei e gli Stati Uniti rimarranno incerti sul loro ruolo nell’ordine internazionale post-guerra, la Russia perseguirà la strategia tridimensionale che ha reso una nazione con una profonda debolezza politica ed economica un giocatore globale.

Luglio 13 2019

La strategia dell’Iran: uno Stato che si comporta come un insorto

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Negli ultimi mesi l’Iran ha innalzato ad un livello pericoloso le tensioni  con gli Stati Uniti abbattendo un drone di ricognizione sul Golfo dell’Oman, lanciando, apparentemente, una serie di attacchi a petroliere nel Golfo persiano ed annunciando che interromperà l’adempimento di alcune delle condizioni stabilite nel trattato multilaterale del 2015 sul nucleare, accordo che peraltro il presidente Donald Trump ha precedentemente abbandonato.

 

La rischiosa strategia nazionale iraniana assume un perfetto senso se viene vista come una forma di insurrezione, di rivolta.

L’insurrezione è spesso vista come una serie di azioni che compiono dei ribelli all’interno di un Paese con lo scopo di combattere il governo al potere o un esercito occupante. In realtà essa è un tipo di strategia utilizzata da una varietà di organizzazioni politiche, ed anche nazioni disperate e solitamente deboli.

L’insurrezione comporta la violenza – con forme spesso irregolari come attacchi di guerriglia, assassini, terrorismo, ma non equivale ad intraprendere una guerra convenzionale. L’azione armata è principalmente utilizzata per i suoi effetti psicologici, per dimostrare la forza del movimento insurrezionale e l’inettitudine di coloro che sono al potere.

Un trucco standard degli insorti è quello di utilizzare la violenza per provocare una reazione esagerata.

Gli insorti compiono qualcosa di drammatico: un grande attacco terroristico, un raid in una struttura della polizia o militare, l’assassinio di un alto funzionario governativo, sperando che le autorità al potere li attaccheranno. L’idea è che tale tipo di contro-attacco potrebbe danneggiare gli insorti nel breve periodo, ma fondamentalmente si rivelerà controproducente per chi lo compie se tale contro-attaccp condurrà a grandi perdite di vite o altre ritorsioni nei confronti dei civili. Il popolo quindi si rivolterà contro il governo e diventerà più empatico nei confronti degli insorti.

Ciò è esattamente quello che l’Iran sta facendo a livello strategico nazionale. Attacca non perché ritiene che possa sconfiggere o intimidire gli Stati Uniti, ma perché spera che l’America reagisca. La ritorsione di Washington aiuterebbe il regime iraniano a dipingere se stesso come una vittima dell’aggressione americana, mettendo a tacere il robusto malcontento interno, mentre ottiene compassione a livello internazionale.

Gli insorti spesso rivendicano di essere sia delle vittime che degli oppositori di un sistema di potere ingiusto che loro stanno combattendo allo scopo di cambiarlo. L’Iran non sta facendo nulla di diverso: dipinge il potere americano nel Medio Oriente come l’ultima forma di imperialismo nella Regione.
Il regime iraniano, come gli insorti in ogni parte del mondo, sta giocando il lungo gioco, cercando di alimentare un costante tumulto, ma evitando una guerra aperta con gli Stati Uniti che perderebbe. Gli insorti riconoscono sempre di poter sopravvivere: alla fine la situazione muterà a loro favore.

Allo stesso tempo, la pressione economica sul regime in ragione delle rinnovate sanzioni americane, parte della campagna di Trump denominata “massima pressione” ha aumentato il rischio di tolleranza di Teheran stesso, conducendolo ad azioni tipo l’abbattimento del drone di sorveglianza americano.

Il regime iraniano vede se stesso in un grave pericolo.

Se dunque l’Iran ha adottato la tattica dell’insurrezione come strategia di sicurezza nazionale, come dovrebbero rispondere gli Stati Uniti?

L’approccio americano alla contro-insurrezione è basato essenzialmente sull’assistenza al partner locale fino al punto in cui può affrontare gli insorti da solo. Tuttavia gli oppositori dell’Iran nel Medio Oriente non sono affatto deboli. Israele, Arabia Saudita e le più piccole nazioni del Golfo sono armate fino ai denti e perfettamente in grado di prevenire un’egemonia iraniana regionale da soli. Pur tuttavia fino ad ora sono stati capaci di convincere gli Stati Uniti a farlo a posto loro.

La classica “contro-insurrezione” non è una strategia efficace perché l’Iran ha ancora accesso alle risorse e al sostegno esterno, malgrado le sanzioni americane. Gli sforzi degli Stati Uniti di tagliare completamente fuori Teheran dai mercati petroliferi mondiali e dal mercato globale armi difficilmente porteranno frutto, almeno fino a quando la Russia, la Cina e l’India – tutte meno ossessionate dalle minacce poste dall’Iran piuttosto che da quelle degli Stati Uniti – si rifiuteranno di stare al gioco.

La contro-insurrezione spesso fallisce quando gli insorti hanno accesso alle armi o ad altre risorse dall’esterno.

La classica contro-insurrezione è fondata sul porre fine al controllo degli insorti su parti di un Paese così che il governo nazionale può prendersene carico. Tuttavia anche se gli Stati Uniti potessero causare il collasso del regime iraniano, non vi è nulla per rimpiazzarlo.

Coloro che desiderano a gran voce il collasso dell’Iran sembrano aver dimenticato troppo rapidamente le lezioni dell’Iraq. Il risultato più probabile sarebbe una guerra civile massiccia e disastrosa significativamente più pericolosa rispetto alle azioni  dell’odierno regime.

La storia ci suggerisce che i movimenti politici o le nazioni che adottano la strategia dell’ “insorto” lo fanno solo per disperazione, perché essi sono troppo deboli per portare avanti i loro interessi in altri modi. Ed è proprio questa la situazione dell’Iran: il regime percepisce se stesso in grave pericolo, una visione che sembra essere confermata dalle precedenti azioni americane e dall’attuale politica dell’amministrazione Trump.

Sebbene Teheran preferirebbe mettere in sicurezza il proprio regime attraverso lo strumento militare convenzionale o attraverso il potere nucleare, non potendo allontanare gli Stati Uniti dal Medio Oriente in questi modi, continuerà con l’unica strategia disponibile: l’insurrezione regionale.

 

Febbraio 20 2019

La cultura strategica degli Stati Uniti

cultura strategica

Guardando Paesi come l’Afghanistan o la Siria ci si potrebbe porre questa domanda: “come mai gli Stati Uniti sono intrappolati in questi conflitti o in situazioni di estrema fragilità statale e non solo non hanno alcune idee significative in proposito, ma neanche una visione chiara su come modificare l’approccio esistente?

La cultura strategica

Una cultura strategica riflette il modo in cui una nazione si vede e identifica se stessa, particolarmente come definisce i suoi interessi, le sue priorità e le minacce più pressanti, come preferisce utilizzare i suoi elementi di potere nazionale – che sia la “soft power” come la diplomazia e l’influenza economica oppure il “potere militare forte”. Una cultura strategica quasi sempre riflette una cultura nazionale più ampia. Essa è, in un certo senso, la personalità di una nazione quando affronta il mondo esterno. In questo modo essa è sia un piano d’azione, che una strada chiusa, che, contemporaneamente chiarisce e limita le opzioni disponibili per i leader politici e militari.

La cultura strategica americana ha ineluttabilmente portato alla palude dell’Afghanistan e della Siria, in parte spingendo gli Stati Uniti verso un obiettivo semplicistico e che ha come punto centrale la componente militare.

Gli americani preferiscono le soluzioni militari a problemi complessi perché l’ambito militare è quello in cui gli Stati Uniti sono chiaramente superiori a qualsiasi avversario e perché le forze armate sembrano offrire il potenziale per risultati evidenti. Gli americani trattano le sfide complesse come “guerra” non perché sia il miglior approccio, ma perché sono bravi in guerra. In virtù di ciò porre lo strumento militare al centro è diventato parte integrante della cultura strategica americana.

Tuttavia, come ci mostrano i casi dell’Afghanistan e della Siria, i conflitti complessi sono quasi mai risolvibili attraverso l’impiego di forza armata limitata e, infatti, potrebbero essere per nulla risolvibili nelle circostanze che vi sono al giorno d’oggi.

Piuttosto che ammettere o accettare ciò, gli americani tendono a credere che se Washington persegue abbastanza a lungo una strategia al cui centro vi è lo strumento militare, essa alla fine funzionerà.

L’idea che gli Stati Uniti perdano quando si arrendono troppo presto ha inciso profondamente nella psiche collettiva americana.

La cultura strategica americana è anche permeata da un’ampia dose di massimalismo. Gli americani preferiscono sempre il meglio e il più grande, dalle case dove vivono, i pasti che mangiano, i veicoli che guidano. Nella strategia di sicurezza questo si manifesta come ricerca di risultati chiari e decisivi (grandi sforzi e grandi vittorie).

Spesso il massimalismo degli obiettivi strategici americani causa l’espansione di essi in un conflitto protratto. Allo scopo di chiarire questo passaggio prendiamo il caso dell’Afghanistan. Gli obiettivi originari degli Stati Uniti erano quelli di rovesciare i Talebani dal potere perché avevano fornito una base operativa ad Al Qaeda e di impedire che l’Afghanistan diventasse una sorta di rifugio per i terroristi transnazionali. L’obiettivo strategico americano è diventato quindi il controllo dell’intero Paese da parte di un governo democratico sostenuto dagli Stati Uniti; esso resta lo stesso obiettivo degli Stati Uniti oggi.

Prendiamo in considerazione l’altro caso: la Siria. L’obiettivo originario era di impedire che lo Stato Islamico creasse il suo Califfato il cui territorio sarebbe stato la base per il terrorismo transnazionale. Ora, l’obiettivo degli Stati Uniti è sì quello di eliminare in maniera definitiva lo Stato Islamico come organizzazione, ma anche quello di estirpare l’ideologia che lo alimenta, e per buona misura, limitare l’influenza iraniana nella Regione.

L’ironia sta nel fatto che sebbene gli Stati Uniti non possano e non siano neppure in grado di stabilizzare ogni luogo su questa terra, molti leader politici e anche diversi esperti di sicurezza, chiedano proprio a loro di fare ciò in Siria, ma non perché lo Stato islamico o l’Iran pongano una minaccia diretta agli Stati Uniti, ma semplicemente perché l’IS è un’organizzazione orribile e l’Iran un regime altrettanto orrendo.

Per anni, questa strategia massimalista, al cui centro vi era lo strumento militare è stata, virtualmente, incontrastata a Washington. Ora, essa viene posta in discussione e la motivazione per cui ciò avviene deriva proprio dalle situazioni, oramai diventate paludi, dell’Afghanistan e della Siria.

Modificare una tale strategia non è certo facile. Non è semplicemente una questione di abbandono di politiche massimaliste o incentrate sullo strumento militare, in favore di altri, differenti, mezzi.

Gli Stati Uniti, prima di sviluppare una strategia di moderazione, necessitano di una cultura strategica di limitazione che bilanci, attentamente, i costi e i rischi dell’utilizzo della proiezione di potenza nazionale. Gli americani devono prepararsi ad accettare che si possano raggiungere risultati tollerabili piuttosto che ottimali, ma i decisori politici degli Stati Uniti dovranno riconoscere, inevitabilmente, che la potenza della nazione che guidano contiene in sé dei limiti.

 

Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.

Settembre 6 2017

La comunicazione dei terroristi: l’assecondiamo o la combattiamo?

comunicazione

Negli ultimi mesi l’organizzazione estremista religiosa, IS (islamic state), ha dedicato molto tempo e risorse alla realizzazione e diffusione delle sue campagne di comunicazione, soprattutto nell’intento di reclutamento e di stimolo per i suoi seguaci sul campo di battaglia.

Partiamo dal presupposto che al cuore di qualsiasi campagna di omunicazione inclusiva vi sono due tipi di strategia di messaggistica: difensiva ed offensiva (d’attacco):

per definizione la contro-narrative sono intrinsecamente difensive.

Le campagne di comunicazione di successo uniscono sia la messaggistica difensiva che quella offensiva, con l’ultima che domina.

Le contro-narrative rispondono meramente ai messaggi di opposizione, permettendo agli ideatori di questi ultimi di stabilire il terreno su cui sarà combattuta la battaglia della comunicazione e mantenere il controllo della narrativa.

A meno che non sia assolutamente necessario, le campagne di comunicazione dovrebbero evitare di rispondere ai messaggi di opposizione perché ciò semplicemente ripete e rinforza il loro messaggio.

Di per sé, una campagna si conclude parlando di quello che l’oppositore vuole si parli, permettendogli di stabilire la narrativa. Rispondendo ai messaggi dell’oppositore, gli permettiamo di stabilire il terreno su cui la battaglia della comunicazione sarà combattuta.

I messaggi offensivi cioè ostili, per contrasto, attaccano l’oppositore spingendolo sulla difensiva, richiedendogli un dispendio di risorse per contrastare il messaggio.

I mezzi attraverso cui prendere il controllo della narrativa che stabiliscono i termini del dibattito, sono fondamentali.

Diversamente dalla messaggistica difensiva che si concentra sul messaggio dell’oppositore, “andare all’attacco” conferisce l’opportunità di diffondere i propri messaggi chiave.

L’IS ha sviluppato una strategia sofisticata di “esca mediatica” in cui diffondono propaganda costruita per ottenere una risposta tipica, allo scopo di creare opportunità per essi stessi di sfruttare flussi di messaggistica secondaria precedentemente confezionati.

Un esempio noto, sebbene crudele, è il video ” guarire il torace dei credenti”, in cui si mostrava il pilota giordano bruciato vivo: quando l’occidente ha risposto con messaggi di condanna della barbarie dell’IS, quest’ultimo era pronto a rispondere portando l’attenzione sull’ipocrisia della disapprovazione, dal momento che non vi erano stati simili manifestazioni di sdegno per i bambini musulmani bruciati vivi quotidianamente dai bombardamenti aerei, provando in tal modo che l’occidente si preoccupasse di più di un pilota che dei tanti civili musulmani uccisi nei bombardamenti.

In breve, la nostra fretta di rispondere ha fatto (e purtroppo continua a fare) il gioco dell’IS: con l’impazienza nella competizione per contrastare la loro narrativa, corriamo il rischio, al meglio, di combattere una guerra di parole sui loro termini cadendo nelle loro trappole e rafforzando la loro narrativa.

Un recente esempio è quello della diffusione massiccia di un post su Twitter in cui utenti di un canale Telegram suggerivano di colpire l’Italia. La diffusione attraverso ogni mezzo, tv, stampa, radio, dibattiti, non ha fatto altro che rafforzare la narrativa dell’IS, peraltro distribuendo il loro messaggio principale: terrore, paura e senso di insicurezza.

Probabilmente il limite maggiore in questi casi è l’approccio frammentario delle comunicazioni e la mancanza di comprensione della reale necessità di una campagna di comunicazione multidimensionale ed integrata. Campagne di comunicazione di successo sono una costruzione complessa, composta da molteplici, differenti, tipi di messaggi (offensivi, difensivi, identità, scelta razionale) distribuiti attraverso mezzi multiformi (online, stampa, tv, radio, discorsi pubblici), tutto a sostegno di una narrativa centrale che viene consolidata sincronizzandola con l’azione sul terreno.

Oltre che naïve è certamente destinata a fallire una campagna di comunicazione che risponde solo concentrandosi su un tipo di messaggistica in uno sforzo isolato quando contro vi è una campagna integrata.

La somma della campagna di comunicazione IS è sicuramente più grande delle sue singole parti.

Mentre i politici sembrano inclini a comprendere la portata e la sofisticazione delle campagne di comunicazione necessarie per farsi eleggere, è giunto il momento che comprendano che è necessario intraprendere lo stesso sforzo per fronteggiare la propaganda IS.

Dicembre 16 2015

Come riconoscere una strategia efficace contro l’ISIS

Strategia efficace

Una strategia efficace contro l’ISIS: come riconoscerla in 5 punti.

In Italia sentiamo dichiarazioni come queste: “no intervento senza strategia“, oppure: “la cultura è la risposta al terrorismo“. Nel nostro paese, nessuno si sbilancia a mettere nero su bianco una strategia efficace e con un chiaro obiettivo finale, per combattere l’ ISIS. Il ministro della difesa ci ripete come una poesia imparata a memoria: “l’Italia addestra i peshmerga e usa i droni“. Vorrei aprire una brevissima ed essenziale parentesi sul recente annuncio di Renzi: “450 militari italiani a difesa della diga di Mosul“. I 450 militari italiani aiuteranno un’impresa italiana, che si è aggiudicata l’appalto per la diga di Mosul, a proteggere l’infrastruttura. Mi pongo una domanda: se l’appalto per la diga l’avesse vinto un’impresa polacca, Renzi avrebbe mandato i nostri soldati a Mosul?”.

Il Presidente Obama dal canto suo e in maniera meno teatrale, burlesca del nostro premier,  insiste che la sua amministrazione ha una strategia effettiva basata su 4 componenti: attacchi aerei contro gli obiettivi dello stato islamico, supporto alle forze di sicurezza irachene e alle milizie irachene che combattono l’ISIS; miglioramento delle operazioni di contro – terrorismo e aiuti umanitari ai civili che sono scappati dal conflitto nell’est della Siria e nell’ovest dell’Iraq.

La verità è che questa potrebbe essere il contorno di una strategia, ma non una vera e propria strategia che includa tutti gli aspetti del problema, compresi i dettagli.

Allo stesso tempo, nessuno ha suggerito una strategia comprensiva alternativa; si fa affidamento sempre di più alle banalità e ad aforismi. Spesso i dibattiti più accesi raccomandano una più feroce aggressione senza spiegarne la finalità, i mezzi e il significato.
Il fallimento di sviluppare una strategia comprensiva contro l’ISIS è debilitante.

I 5 punti per riconoscere una strategia efficace

Prima di tutto, è necessario porsi questa domanda: “qual è l’obiettivo finale accettabile e fattibile?”. Sì, giacché un obiettivo finale, l’endstate,  deve essere sia accettabile che fattibile e i dettagli sono importanti. Il diavolo si nasconde nei dettagli! Non è abbastanza dire: l’obiettivo è di “sconfiggere” o “eradicare” lo stato islamico, una strategia coerente deve spiegarci cosa vuol dire: l’organizzazione non avrà più il controllo effettivo di qualsiasi porzione di territorio, cioè non sarà più un “califfato”? Resterà in vita nella forma di una rete terroristica sotterranea come ha operato tra il 2008 e il 2014? Oppure non ne rimarrà traccia in nessuna forma?

La fattibilità di un obiettivo finale strategico deve riflettere una seconda questione chiave: quali sono i costi strategici? Questi costi includono il denaro, le truppe, la perdita di focus da qualche altra parte. Incorrere in questo tipo di costi è accettabile? È di vitale importanza ricordare che ogni assetto strategico, che sia militare o di intelligence, devoluto al combattimento dello stato islamico non è utilizzato per altre situazioni che restano pressanti e importanti. Una strategia inclusiva, poi, deve spiegare se il conflitto con lo stato islamico giustifica lo spostamento di risorse dall’Asia, dall’Europa o da qualche altra parte e accettare che ci sia minor deterrenza in questi posti. Il conflitto con il gruppo legittima il crescente sforzo sulla componente militare (soprattutto in relazione agli Stati Uniti) con ulteriori impegni sul campo, posponendo l’addestramento e l’ammodernamento della forza?

Il terzo punto è: chi pagherà il conto? Le guerre non sono gratis. Non si può pensare che dispiegare delle forze sul campo, piuttosto che l’uso della componente marittima o dell’aviazione sia gratis, che ci sia un grande pozzo di denaro da dove si attingono queste risorse. Ritenere ingenuamente che gli aerei volino senza carburante che non si usurino, che le navi vadano a vapore. Tutti, in ogni paese del mondo evitano accuratamente di affrontare questa complessa faccenda. Una strategia coerente deve essere chiara sui finanziamenti: le tasse verranno innalzate? Questa guerra è importante a tal punto da aggiungerla al debito nazionale? Se la strategia è basata sull’ assunto che altre nazioni affronteranno porzioni dei costi, quali sono? Chi mette cosa? Dov’è il prospetto di ripartizione finanziaria dei costi?

La quarta questione è l’arco temporale della strategia. Se qualcuno ci dice teneramente: “eh ci vorrà molto tempo”, come il Presidente degli Stati Uniti, o peggio si ometta proprio di fornire un cronogramma, beh non stiamo parlando di strategia inclusiva. Una strategia coerente divide le azioni a breve, medio e lungo termine: dove sono queste ripartizioni?

Ultimo punto: i limiti.  Quali sono i limiti spaziali? Combatteranno lo stato islamico solo in Iraq e in Siria o anche in Libia, in Afghanistan in Yemen in Somalia in Nigeria ovvero ovunque?

L’esempio fallimentare della Francia

Diamo un’ occhiata ad una strategia fallimentare: la Francia nel Sahel. La punta di diamante della politica di sicurezza francese in Africa è l’Operazione Barkhane, una missione di combattimento di  anti – terrorismo. Si configura come l’attuale operazione militare francese più ampia, con circa 3,500 soldati stazionati in 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. L’operazione Barkhane ci dice chiaramente che Hollande ha posizionato la stabilità regionale in cima alle priorità di politica estera, disposto a mettere soldati francesi sul terreno e supportarli. In totale circa 8,000 soldati francesi sono stati impiegati in Africa.
Contrasto assoluto con la politica di Sarkozy che nel 2008 dichiarò che la Francia non deve giocare il ruolo di poliziotto in Africa e per questo motivo ridusse la presenza militare francese nel continente è s’impegnò a ridurre l’ intenso coinvolgimento nella politica di quei paesi.
Il collasso del governo del Mali nel 2012 precipita gli avvenimenti. Prima della guerra civile e dell’avvento dei gruppi estremisti islamici in Mali, gli interessi francesi nel continente giravano attorno ad affari economici, influenza politica e sicurezza energetica. Il Niger è la principale fonte di uranio per gli impianti nucleari della Francia. Ma con il collasso del Mali subito dopo la Libia, la Francia ha paura di un’implosione dell’intero continente che può quindi minare i suoi interessi diretti. Operation Serval che dispiegò 4,000 soldati francesi in Mali nel gennaio 2013 per cacciare i militanti islamici che avevano preso il controllo del nord del paese, inizialmente fu un successo, liberando tutto il territorio in mano ai gruppi estremisti. Tuttavia quando Serval si aggiunge al più ampio dispiegamento caratterizzato da Barkhane, getta le fondamenta per un’altissima presenza militare francese in tutta la regione. Il grande problema è che la Francia non ha una strategia di uscita nel Sahel. Il focus sul contro terrorismo ha messo le truppe francesi in prima linea nella battaglia sia contro gli estremisti sia contro le reti di traffici di armi e droga nella regione (per contro i militari statunitensi per la maggior parte si limitano all’ addestramento e all’ equipaggiamento delle forze locali, così come a fornire intelligence delle comunicazioni). Con l’esercito del Mali ancora nel caos e le forze governative in Niger ed in Ciad occupate dalla minaccia di Boko Haram ora affiliato e provincia dello stato islamico, sulle loro frontiere sud, i militari francesi hanno effettivamente preso il controllo delle remote frontiere del Sahel che legano la regione alle zone di guerra in Libia.
Tuttavia l’area di operazioni dei gruppi estremisti è aumentata nei recenti mesi con attacchi di alto profilo nella capitale del Mali, Bamako. Attacchi che hanno raggiunto la frontiera con la Costa d’Avorio nel sud.
Se, uccidere i sospettati di terrorismo potrebbe essere un veloce miglioramento che soddisfa gli strateghi militari e i portavoce di governo, l’approccio potrebbe rivelarsi fatale nel lungo termine.
L’ex diplomatico francese Laurent Bigor, scrivendo su Le monde, chiama l’operazione Barkhane una “licenza per uccidere nel Sahel” che minaccia di alienare la popolazione locale. I crimini come il traffico, che sono inestricabilmente connessi al terrorismo nel Sahel, sono anche semplicemente un’alternativa alle difficili condizioni socio – economiche. Le questioni di governance e corruzione non sono affrontate, perché la priorità è la risposta militare e di sicurezza.
“Prioritizzare” la sicurezza rispetto alle riforme presenta un enorme rischio, non da ultimo per i costi di questa nuova politica estera “muscolosa”. In risposta agli attacchi di Parigi, l’ operazione Sentinelle, il dispiegamento dei soldati francesi in Francia per la sicurezza nazionale è stato aumentato a 10,000 mentre l’aviazione militare francese ha espanso le sue operazioni in Iraq e in Siria. Fatti concreti che richiedono la sostenibilità dei costi.
Se questo modus operandi decadesse, sia perché la Francia non può più permetterselo oppure perché un’altra amministrazione ha altri interessi, il Sahel diventerà quello che la Francia voleva inizialmente prevenire: un assortimento di stati fragili dove gruppi estremisti e reti criminali possono cooperare liberamente, non molto lontano dall’ Europa.

Questo è appunto l’esempio di come quei 5 punti non sono stati per nulla tenuti in considerazione e come l’effetto di azioni non coerenti tra loro, parte di una strategia più ampia senza un chiaro obiettivo finale, possano causare dei danni molto più gravi e duraturi del problema iniziale.

Dicembre 1 2015

Decidere come definire l’ISIS

isis

Stabilire come definire l’ISIS è di cruciale importanza per decidere come combatterlo.

Le discussioni sull’ISIS si sono concentrate su quello che non si sa: le oscure connessioni in occidente, la propaganda che, a parte l’ Al – Hayat media centre, si diffonde sui social network non si sa bene da dove. Tuttavia decidere come considerare l’ISIS è cruciale per poter poi definire una strategia efficace per combatterlo. Obama parla di una strategia che si può definire containment plus: contenere il gruppo in Siria ed in Iraq e accelerare la caduta con attacchi aerei costanti e il supporto degli alleati regionali. I critici, invece, propongono una serie di opzioni: a partire dal permettere alle forze locali di sconfiggere il gruppo, a rendere le regole d’ingaggio più “morbide”. Dispiegare una forza di terra per combattere che dovrebbe consistere in circa 50 mila uomini, di cui 20 mila sarebbero soltanto americani.

Qual’è la strategia giusta?

La risposta dipende in parte da che tipo di nemico noi pensiamo sia l’ISIS. E’ un gruppo terroristico transnazionale con enormi risorse finanziarie che controlla porzioni sostanziali di territorio, che pianifica attacchi, coordina e addestra operativi e gestisce una complessa rete finanziaria? Oppure è uno stato che sponsorizza attacchi di natura terroristica?

Se lo consideriamo come un’organizzazione terroristica transnazionale allora il “contenimento” è una strategia difficile, perché anche se contenuto, potrebbe continuare a sostenere attacchi in altre parti del mondo. Tuttavia, se lo vediamo come un proto – stato, allora la prospettiva cambia decisamente: un proto – stato che combatte su tre fronti: Iraq ad Est, curdi a Nord e Siria e altri altri gruppi di ribelli ad Ovest.

ISIS = proto stato

Il paradosso creato dallo “stato islamico” è che al suo interno si comporta come un proto – stato. Quello che potremmo definire “pro- stato” capitalizza le privazioni dei sunniti in Siria ed Iraq e cresce nel caos causato dalla guerra civile in Siria.
Il progetto politico di cambiamento sociale messo in atto dall’ ISIS, ha permesso di sostenere il proprio modello di governance e di espanderlo capitalizzando le privazioni dei sunniti in Iraq e Siria. Ha combinato l’amministrazione municipale (polizia, educazione, servizi) con la gestione delle infrastrutture e l’assistenza umanitaria.

Centrale per la governance dello “stato islamico” è l’implementazione di una stretta forma della legge della shari’a. Ciò include l’imposizione di pene fisse per una serie di crimini; imposizione della partecipazione alle 5 preghiere quotidiane; divieto di droghe, alcool e tabacco; controllo dell’abbigliamento e di come ci si presenta; divieto del gioco d’azzardo. Imposizione di una forma di “protezione” sui monoteisti non islamici, che è apparsa a Raqqa dalla fine del febbraio 2014 e Mosul dal 7 luglio 2014. Pagando la tassa fissa, attenendosi a delle rigide regole, inclusa la non costruzione di altre infrastrutture lavorative, rimozione di tutti i segni visibili di fede, non utilizzare armi, non vendere né consumare alcool o carne di maiale. Se non si sottostava a questo “patto di protezione” si doveva abbandonare la città in 48 ore. Nei riguardi delle religioni non monoteiste, lo “stato islamico” si è rivelato completamente irremovibile. Nell’ottobre del 2014 l’ISIS ha ammesso di aver etichettato gli Yazidi come politeisti e dunque satanisti che potevano quindi essere ridotti in schiavitù e le cui donne potevano diventare le concubine dei combattenti dello “stato islamico”.
Immediatamente dopo la cattura di un territorio, l’ISIS cerca di stabilire l’ordine e la legge. Forze di polizia maschili e femminili, vengono formate rapidamente e dispiegate per i controlli. La rapidità di una tale mobilitazione viene spesso facilitata da salari generosi. Si stabiliscono corti “della shari’a”.
Un altro elemento chiave della governance politico – religiosa dell’ISIS è l’educazione religiosa e il proselitismo.
Significative risorse sono destinate alla fornitura di servizi sociali. Dopo aver preso il controllo, nella municipalità conquistata, di industrie, servizi e strutture municipali, assicura quello che l’ISIS percepisce come una più egalitaria ed efficiente distribuzione dei servizi. Esercita autorità di controllo su elettricità, acqua, gas industrie locali e persino panetterie (a Deir Ezzor ha abbassato i prezzi del pane nel giugno del 2014). Bus gratis, sanità gratis, vaccinazioni gratis per i bambini, pasti per i poveri, scuole, mutui per progetti di costruzione e persino l’ufficio per la protezione del consumatore.
Come proto – stato è estremamente debole, geograficamente vulnerabile, con risorse non sostenibili a lungo termine e con gravi problemi sul supporto della popolazione.

Decidere di confrontarci con l’ISIS – proto stato –

Ci sono tre punti fondamentali da prendere in considerazione se si decide di confrontarsi con l’ISIS come proto – stato.

  1. Finanziamento
    Sentiamo parlare molto del flusso di denaro dell’ISIS, che è ingente per un gruppo terroristico transnazionale, ma minuscolo per uno Stato. Nei primi anni di esistenza dell’ISIS, i suoi ricavi per la vendita di petrolio erano un grande problema per tutti, recenti stime estrapolate da una provincia ci dicono che i ricavi sono di circa 500 milioni di dollari all’anno solo per il petrolio. Tuttavia l’estrazione del petrolio e del gas non sono una risorsa finanziaria sostenibile. La produzione di petrolio sta crollando perché il gruppo manca di ingegneri e a causa del bombardamento alle infrastrutture petrolifere. Inoltre, il petrolio che l’ISIL può vendere deve avere un prezzo estremamente scontato rispetto ai prezzi di mercato mondiali, a causa delle sanzioni (risoluzione Consiglio di sicurezza n.2199 – 2015: oil trade) e delle limitazioni fisiche per trasportare il prodotto al mercato mondiale.
    Una risorsa alternativa di finanziamento, oggetto di molta attenzione è stata il saccheggio delle antichità. Nel lungo termine il sostegno finanziario che ne deriva sarebbe limitato; nel breve termine, il gruppo ha riempito il mercato di oggetti antichi per aumentare il denaro contante, ma i prezzi cadranno a meno che la domanda per questo tipo di beni  sia molto elastica, circostanza che sembra improbabile.
    Dunque l’ISIS resta con quella che si è rivelata la sua principale fonte di guadagno: le tasse alla popolazione sotto il suo controllo e l’estorsione. Ma anche questo tipo di finanziamento è insostenibile visto che molti residenti scappano, portandosi via i loro capitali (sia capitale umano che fisico), l’inflazione erode il valore delle tasse e le persone esposte ad eccessiva tassazione smettono di investire in attività produttive.
  2. Popolazione
    Ci sono due fonti scientificamente valide le cui stime combinano i dati di censimento che le immagini del satellite per stimare i numeri di popolazione nel mondo. Dunque mappe e stime insieme ci suggeriscono che le aree che l’ISIS tassa avevano una popolazione pre – guerra tra i 2.8 milioni e i 5.3 milioni di persone. Tuttavia il gruppo ha sofferto di massicce partenze dai suoi territori, talmente tante che la sua propaganda ha attaccato coloro che lasciavano i suoi territori.

Inoltre, i diritti (umani soprattutto) non sono protetti, le regole cambiano costantemente. Ci sono molti rapporti che rivelano che il gruppo forza le persone a restare e ci sono significative tensioni tra i combattenti locali e i combattenti stranieri che ricevono un trattamento diverso, preferenziale.

Il gruppo, chiaramente chiama persone che si uniscano alla sua causa. Queste persone sono più una moltitudine di combattenti con poco addestramento, piuttosto che ingegneri, amministratori o imprenditori di cui un’economia avrebbe bisogno.

La competenza del pro – stato come regime

L’ISIS sarebbe condannato come stato. La storia moderna ci mostra che imprevedibili regimi autocratici soffrono sempre di economie terribili e di scarsa crescita. Ogni stato che nello scorso secolo ha avuto una governance basata sull’estorsione (alte e imprevedibili tasse amministrate da una leadership autocratica che redistribuisce i guadagni a coloro che fanno parte dell’elite del regime) ha visto  la sua economia, nel corso del tempo, sgretolarsi.

Le istituzioni di governo dell’ISIS sono pessime viste da una prospettiva di attività economica: pochi diritti di proprietà, tassazione imprevedibile, nessun investimento in capitale umano, nessun mercato di credito o assicurazioni. A meno che la leadership dell’ISIS non abbia pianificato una maniera radicale per gestire la produzione che nessun altro paese ha ideato, la loro economia produrrà molto poco.

E’ impossibile predire in quanto tempo l’economia del proto – stato crollerà. Tuttavia il suo crollo nel tempo è certo.

Il problema ha afflitto stati molto più legittimi dell’ISIS. Lo Zimbabwe: ricco, prima che le sue istituzioni di governo lo condannarono alla stagnazione e poi al declino. Stati come lo Zimbabwe non svaniscono, in parte perché sono parte del sistema globale che valuta la loro stabilità ed in ultima analisi li tengono in vita. L’ISIS non ha ancora questa salvezza.

Il beneficio ideologico di farlo crollare da solo.

Se permettiamo all’ISIS di fallire da solo, sarebbe chiaro che il fallimento sarebbe dell’ISIS come idea, come progetto politico. Non sarebbe lo stesso se fosse sconfitto dalla potenza militare occidentale. Viste i suoi punti deboli strutturali e il suo valore simbolico nella guerra delle idee, la miglior strategia potrebbe essere quella basata sul contenimento, facendo sì che proprio l’ideologia che motiva il gruppo lo distrugga dall’interno.

Riempire i vuoti di potere in Iraq e in Siria.

L’ISIS si è inserito come un serpente in Iraq, facendo leva sul malcontento dei sunniti, in Siria nel vuoto di potere causato dalla guerra civile. Promuovendo le già accordate misure degli accordi di Ginevra che fanno peraltro parte dell’annesso I alla risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza reiterate nell’ultima risoluzione 2249 del 21 novembre 2015, quindi compiendo i passi necessari verso la transizione politica in Siria è molto più effettivo ed efficace che mandare 50 mila uomini e donne a distruggere il già distrutto.