Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.

Marzo 25 2017

Il populismo è pericoloso: vi spiego il perché

populismo

La minaccia populista è reale e seria: perché?

Molte ricerche indicano che la democrazia si indebolisce se si affida alla leadership di un singolo individuo, opposto alle istituzioni democratiche; se la contesa è guidata dalla personalità, piuttosto che da partiti politici strutturati; e se gli elettori non hanno accesso ad informazioni affidabili attraverso media indipendenti.

Quanto la minaccia populista sia reale lo dimostra l’elezione americana di un Presidente che promuove proprio il messaggio populista: “da solo posso cambiare il paese, l’establishment e le elite tradizionali sono pericolose e corrotte, i media tradizionali non sono degni di fiducia“.

In tutta Europa, dove il governo democratico è la norma e lo è stato per decadi, candidati populisti e partiti sono saltati al potere negli anni recenti, facendo crescere i timori di scivoloni autoritari.

Partiti populisti di destra e di sinistra ora governano parlamenti in Grecia, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Svizzera e sono parte di coalizioni di governo in Finlandia, Norvegia e Lituania.

In Francia, Germania ed Olanda i partiti di estrema destra promuovono una retorica xenofoba, dominando stagioni di campagne elettorali con un’oratoria impetuosa che rivendica la salvezza dell’identità nazionale.

Sebbene negli anni recenti le democrazie europee si siano rivelate, per la maggior parte, resilienti alla minaccia posta dal populismo, in pochi paesi, come l’Ungheria e l’Olanda, sono state elette figure populiste, dando il via al significativo declino, in rapporto ai principi democratici, della libertà di stampa dell’indipendenza del potere giudiziario.

La sfida che il populismo pone alla democrazia è forse la più incalzante nel mondo in via di sviluppo, data la breve storia di governo democratico rispetto alle democrazie occidentali.

Nelle Filippine, il presidente Rodrigo Duterte ha vinto elezioni libere ed eque attraverso una piattaforma populista nel 2016, suggerendo addirittura, durante la sua campagna elettorale, che  in caso di vittoria avrebbe abolito il Congresso. Da quando è entrato in carica, i diritti umani nelle Filippine si sono deteriorati rapidamente, attraverso un’ampia repressione sulle droghe, aggressiva e brutale, uccidendo centinaia di civili ricevendo la condanna della comunità internazionale; il paese è adesso uno dei posti più pericolosi per i giornalisti. Agli occhi di molti, dopo sei anni di un presidente orientato alle riforme, le Filippine sono sull’orlo di una transizione verso la dittatura.

Le cosiddette “autoritarizzazioni” – transizioni alla dittatura dove leader democraticamente eletti smantellano le istituzioni democratiche per prendere il potere -, stanno diventando la modalità dominante del collasso democratico, con le piattaforme populiste che fungono da vero e proprio trampolino per manipolare l’autorità che ha vinto democraticamente.

Questa tendenza globale sta facendo crescere la più pericolosa delle forme di governo autoritario: la dittatura personalistica, in cui il potere è altamente concentrato nelle mani di un solo uomo forte, il quale disdegna le istituzioni pre-esistenti.

Come si sgretolano le democrazie

La deriva verso l’autoritarismo è un fenomeno nuovo che differisce da quello del ventunesimo secolo.

Cile

Il Cile è un utile caso di studio. Nel settembre del 1973, con l’aiuto degli Stati Uniti, le truppe cilene hanno preparato un colpo di stato contro l’allora presidente Salvador Allende, che era salito al potere nelle elezioni democratiche del 1970. Il coup ha portato il Generale Agosto Pinochet e la sua giunta militare al potere, per un lungo periodo di governo militare, durato fino al 1989. Il coup militare era lo strumento dominante di scelta per far cadere le democrazie e compiere una transizione repentina al governo autocratico.

Venezuela

In contrasto con la recente esperienza in Venezuela, un altro paese in America Latina con una lunga tradizione di governo democratico. Hugo Chavez si è assicurato la presidenza nel 1999, dopo aver vinto l’elezione democratica l’anno precedente. Sebbene Chavez abbia iniziato riforme controverse, ha vinto elezioni libere ed eque nel 2000 ed il Venezuela è rimasto una democrazia, sebbene  imperfetta, negli anni che seguirono.

Tra l’agosto del 2004 e il dicembre 2005, tuttavia, Chavez ha lentamente spinto il Venezuela verso l’inizio della dittatura. Nell’agosto del 2004, quando l’opposizione aveva raccolto sufficienti firme per indire un referendum, Chavez vince il voto, di cui gli osservatori internazionali avevano garantito la libertà ed equità. Da qui in poi Chavez consolida il suo potere, il parlamento passa una legislazione che aumenta la portata della Corte Suprema e permette il licenziamento dei giudici attraverso un voto a maggioranza. Per la fine del 2004, i fedelissimi di Chavez controllavano pienamente la Corte Suprema e i giudici che gli si opponevano nelle corti erano velocemente sostituiti dagli alleati del regime. In più, il governo pubblicò una lista di decine di migliaia di individui che avevano firmato per petizioni che furono licenziati dagli impieghi pubblici e altri lavori e persero l’accesso ai benefit dell’assistenza pubblica.

Anche i media furono investiti da leggi limitanti. Il governo quindi lanciò una campagna per intimidire gli anti rivoluzionari e continuò nella sua marcia di consolidamento del potere, dando vita ad un periodo di “uomo forte al comando” che continua ancora oggi. Il Venezuela sta scivolando in un caos profondo sia economico che sociale.

L’esperienza del Venezuela è indicativa del modo in cui le dittature contemporanee prendono il controllo.

I dati

Dal 1946 al 1999, il 64% delle democrazie sono cadute attraverso i coup.

Dal 2000 al 2010, le “autoritarizzazioni” sono aumentate drammaticamente, rappresentando il 40% di tutte le fratture alle  democrazie.

Le “autoritarizzazioni” occorse  negli anni passati in paesi  come il Bangladesh e la Turchia, ci indicano come questa tendenza stia proseguendo.

È in corso uno spostamento dalla democrazia alla dittatura in cui l’ “autoritarizzazione” è la modalità dominante per rendere fattivo questo passaggio.

Le “autoritarizzazioni”

Le “autoritarizzazioni” sono differenti dalla maggior parte delle altre forme di rottura della democrazia, come i coup, le rivolte o le invasioni straniere, perché la loro presa del potere è compiuta dall’interno dell’apparato statale. I governi fanno leva per accedere agli strumenti di potere per consolidare il controllo e reprimere il dissenso. In confronto ai coup, che richiedono un’attenta pianificazione e coordinamento, sono meno rischiosi. Le “autoritarizzazioni” sono relativamente facili da eliminare. Esse tipicamente coinvolgono una serie di cambiamenti nelle regole e nel personale che crea un ambiente politico in cui gruppi di opposizione non possono più competere efficacemente.

Diversamente dalle altre modalità che decretano la fine di una democrazia, le “autoritarizzazioni” non si accompagnano ad un cambiamento nella leadership dopo la transizione alla dittatura. Questo è importante perché la maggior parte delle prese al potere autocratiche sono motivate dal desiderio di reindirizzare le risorse dal precedente gruppo al potere verso il suo successore. Con le “autoritarizzazioni”, i potenziali dittatori spesso compiono sforzi per proteggere gli interessi entranti e attaccano ogni mossa che possa sottrarre a loro stessi le risorse.

Le “autoritaritarizzazioni” contengono in sé strategie sottili e multi ramificate, come la sequenza di eventi accaduti con Chavez in Venezuela. Le “autoritarizzazioni” perciò differiscono dalla maggior parte delle modalità di rotture della democrazia perché sono spesso lente e incrementali.

Il populismo  ora viene utilizzato come trampolino di lancio per questo tipo di sforzi.

Il percorso populista

La retorica populista  tipicamente batte su alcuni punti: la necessità di una forte e decisiva leadership, l’incapacità delle istituzioni stabilite e delle politiche di affrontare i problemi del paese e la mancanza di fiducia nelle istituzioni e spesso, accuse di corruzione contro esperti e élite.

Il messaggio generale oggi non è differente  rispetto a decadi passate quando il populismo prendeva piede in molte parti dell’America Latina e dell’Europa, spesso con conseguenze dannose e destabilizzanti.

Allo stesso tempo, le strategie dei populisti di oggi sono cambiate in modi importanti. Il loro metodo di consolidare il potere non è più repentino caratterizzato da una chiara rottura della democrazia, che potrebbe incitare la condanna interna ed estera, ma piuttosto si esplica in una sottile frantumazione delle istituzioni democratiche. Questo metodo è stato preferito nel clima politico post Guerra Fredda non solo perché l’Occidente spesso ricompensa gli avvocati della liberalizzazione politica e punisce i paesi che fanno esperienza di coup, ma anche perché la crescente accettazione del modello liberale democratico tra i cittadini nel mondo ha esercitato una pressione sui governi affinché mantengano la facciata della democrazia per non correre il rischio di perdere la loro legittimità.

Prendiamo ad esempio la salita al potere di forti uomini come Chavez, Putin, Erdogan. Questi leader sono entrati in carica attraverso elezioni relativamente libere ed eque, ma una volta lì, hanno fatto leva sul generale malcontento popolare per minare lentamente i limiti istituzionali ai loro poteri, indebolire l’opposizione al loro governo e marginalizzare e frantumare la società civile.

Il “libretto populista”

Questo tipo di leader hanno in un comune qualcosa che potremmo definire “libretto populista”: mettere i fedelissimi e gli alleati in alte posizioni nel governo, particolarmente nel potere giudiziario e nei servizi di sicurezza, censurare o prendere il controllo dei media tradizionali e arrestare selettivamente i giornalisti critici; utilizzare cause legali e nuova legislazione per mettere ai margini la società civile e gli oppositori del loro governo.

Oggi, le “autoritarizzazioni” alimentate dal populismo stanno dando vita alla più pericolosa forma di dittatura: il governo personalistico.

Uno dei principi centrali della strada populista è il bisogno di una leadership forte in un ambiente politico dove le istituzioni sono percepite come inette e incapaci di gestire i problemi pressanti. Tra i populisti di oggi, il tema di un uomo forte  sottolinea questo tipo di campagne. Per questa ragione, quando il governo populista inizia a realizzare le sue visioni, i leader consolidano il controllo nell’esecutivo; nel caso di Trump, ad esempio, il Dipartimento di Stato, tradizionalmente influente, è stato apparentemente spinto ai margini dell’attività decisionale.

I dati

I dati indicano che le “autoritarizzazioni” alimentate dal populismo sono sempre più propulsive del potere personalistico dei dittatori. Appena meno del 44% delle “autoritarizzazioni” dal  1946 al 1999 hanno dato vita al governo personalistico, ma questa porzione è aumentata del 75% nel periodo dal 2000 al 2010. Una crescita drammatica.

Anche laddove gli uomini forti populisti non hanno smantellato pienamente i sistemi democratici, essi frequentemente godono di un irregolare potere politico, come nel Nicaragua di Daniel Ortega, o nell’Ecuador di Rafael Correa o ancora nell’Ugheria di Viktor Orban e nella Polonia di Jaroslaw Kaczynski.

Questa tendenza è preoccupante in ragione delle conseguenze dannose del governo personalistico. Una grande parte della letteratura in scienza politica suggerisce che la dittatura personalista è il tipo più problematico di autocrazia. Questa tipologia di dittatura presumibilmente è quella che maggiormente persegue una politica estera aggressiva ed imprevedibile; che inizia conflitti interstatali ed investe in armi nucleari. Alcuni esempi eccellenti: Saddam Hussein in Iraq, Idi Amin in Uganda e la famiglia Kim nel Nord Corea. I dittatori personalisti spesso danno voce a sentimenti di xenofobia e sono quelli che molto più probabilmente non gestiscono bene l’aiuto estero.

Perché candidati e partiti populisti godono del sostegno pubblico?

Le condizioni che costituiscono la base del supporto pubblico di cui godono candidati e partiti populisti sono diverse, ne citiamo alcune, le più importanti:

  • le crescenti ineguaglianze economiche,
  • la percezione di prestazioni economiche non adeguate,
  • le frustrazioni derivanti dalla globalizzazione,
  • l’immigrazione e l’afflusso di rifugiati che è cresciuto a seguito della instabilità del Medio Oriente e dell’Africa,
  • la convinzione che la politica tradizionale sia corrotta ed inetta.

Chi è più a rischio?

Una lunga storia di governo democratico ininterrotto, unitamente ad alti livelli di sviluppo economico si associano con un rischio più basso di deriva verso la dittatura. Come risultato, le democrazie nel mondo sviluppato, come gli Stati Uniti e gli Stati in Europa, con più probabilità emergeranno dall’ondata populista più fragili, ma intatti. La loro linea base di rischio di passare alla dittatura è più basso rispetto ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia la loro deriva economica non è trascurabile.

Gli autocrati di domani possono utilizzare eventi di crisi per iniziare un’estesa repressione sugli oppositori, semplicemente giustificando queste azioni nell’interesse della sicurezza nazionale.

Una crisi, che sia interna o internazionale, potrebbe facilmente essere teatro di un danno o di uno smantellamento della democrazia da parte di governi populisti.

Non si deve guardare molto lontano: la Turchia

Erdogan, che è diventato presidente nel 2014 ed era stato primo ministro per più di una decade, aveva già iniziato sottili manovre per consolidare il controllo, inclusa la pressione per una presidenza più forte, giro di vite sui media ed utilizzo improprio delle risorse dello Stato a suo beneficio. Dopo il fallito coup del luglio 2016, ha colto l’opportunità di scagliarsi con più risolutezza contro i suoi oppositori. Dichiara immediatamente lo stato di emergenza, per rimuovere tutti gli elementi di organizzazioni terroristiche che erano coinvolte nel tentativo di coup. Nelle settimane successive, decine di centinaia di turchi sospettati di aver partecipato al coup vengono arrestati.  Migliaia di ufficiali governativi licenziati, radio, televisioni: chiusi; per la fine del 2016, si stima che siano state arrestate 37,000 persone e 100,000 hanno perso il loro lavoro o sono state sospese dal lavoro. Un fatto sconvolgente! Ad aprile, i turchi dovranno votare si o no ad un pacchetto di riforme costituzionali che creerebbero una presidenza esecutiva istituzionalizzando la presa del potere di Erdogan che ha accumulato nel corso del suo governo.

Come ci illustra l’esempio della Turchia, gli autocrati di domani possono utilizzare eventi di crisi per iniziare la loro estesa repressione sugli oppositori, semplicemente giustificandosi di agire nell’interesse della sicurezza nazionale. Se queste crisi dovessero verificarsi nelle democrazie guidate dai populisti, è possibile che eventi simili accadano.

Il populismo: una sfida seria

Il mondo ha fatto esperienza di un’ondata di movimenti populisti che hanno ottenuto consensi negli anni recenti, in contesti politici che vanno dalle Filippine alla Polonia.  Queste circostanze precise suggeriscono ai sostenitori della democrazia globale di prenderne nota.

Le situazioni di paesi come la Turchia ed il Venezuela ci mostrano come le campagne populiste in democrazie di lungo corso possano essere utilizzare per l’“autoritarizzazione” e l’erosione delle norme e delle istituzioni democratiche. Ci indicano anche come questo tipo di processi portano al governo di un solo uomo forte, la più pericolosa forma di governo autoritario.

Sarebbe utile quindi che si prenda coscienza che la sfida del populismo è seria!

Dicembre 3 2016

America Latina: la sua lezione sul populismo politico

America Latina

Il populismo politico dell’America Latina si presenta come una vera e propria lezione. Un avvertimento per gli Stati Uniti del neo eletto Trump e per il vecchio Continente.

Il populismo politico dell’America Latina è un fatto reale che consegna agli Stati Uniti del neo eletto Trump e al vecchio Continente un vero e proprio avvertimento.

Negli Stati Uniti, i politici populisti hanno raggiunto la maggior parte dei votanti, in America Latina sono passati di moda.

Cosa ci insegnano le esperienze del populismo politico dei paesi dell’America Latina.

In Venezuela, la vittoria di Trump ha richiamato alla memoria l’ascesa di Hugo Chavez, un maestro nell’arte della politica populista.

Chiaramente Chavez e Trump sono diametralmente opposti in molti ed importanti modi.

Tuttavia, i considerevoli paralleli che esistono ci sono d’aiuto come schema del populismo del 21° secolo: un movimento che si sta appassendo in America Latina, ma che sta fiorendo velocemente nel cosiddetto “mondo sviluppato”.

Il contrassegno del populismo che ha letteralmente ingoiato parti dell’America Latina alla fine degli anni ’90 e nel 2000 era, principalmente una spinta alla sinistra, in contrasto con quello che vediamo negli Stati Uniti e in Europa, dove la maggior parte dei leader populisti arrivano dalla destra dello spettro politico.

Pur tuttavia, ci sono forti similarità tra le spinte a compiacere la folla, il culto della personalità e ed il consolidamento di movimenti di opposizione che si pongono come una sfida “al sistema”.

Il populismo che sia a nord o a sud della frontiera, ad est o ad occidente dell’Atlantico, tende ad arrivare avvolto in una bandiera ed accompagnato dalla nostalgia di una gloria nazionale passata.

È sospinto da spiegazioni approssimative per problemi complicati e promesse di soluzioni semplicistiche per sfide spaventose. Fa affidamento su sostenitori carismatici, spesso appariscenti che imputano la colpa di sofferenze reali o immaginarie ad una massa di cattivi preconfezionati.

La gloria passata non è completamente immaginata, così come le soluzioni proposte non sono totalmente vuote. I cosiddetti cattivi non sono mai angeli innocenti. Persone, paesi, gruppi, idee sono o grandi o sono malvagi. Non c’è molto spazio per la sottigliezza nel programma di un populista.

Come Chavez, Trump è stato capace di fare leva sul potere delle moderne comunicazioni per scavalcare l’establishment e far passare il suo messaggio direttamente alle masse.

Chavez scoprì il potere dei mass media dopo essere apparso in televisione all’indomani del fallito coup nel 1992. Come presidente, brillò nello show televisivo “Hello President” dove trascorreva ore infinite a parlare direttamente al pubblico.

Trump deve qualcosa del suo successo alla sua presenza su Twitter e alla sua promessa che continuerà ad usarlo come presidente.

Che sia in America Latina o altrove, il leader populista tende ad essere un outsider che si confeziona come un indispensabile ingrediente per il successo

Il populismo dipende dal persuadere le masse che, la persona al centro del “movimento”, a prescindere dalla sua base ideologica, è quello di cui c’è bisogno per raggiungere la missione. L’agghiacciante mantra di Trump alla Convention repubblicana “I alone can fix it” condensa il culto della personalità: il cuore del moderno populismo.

L’ideologia non è indispensabile; l’uomo lo è.

Ironicamente la più vaga ideologia può fornire un grado di flessibilità al governo. Questo è il motivo per cui i socialisti populisti possono permettere ai mercati liberi di funzionare e la ragione per cui il presidente del Nicaragua: Daniel Ortega, può guidare un paese dove il capitalismo è molto più visibile del socialismo.

Così come Trump ha promesso di “make America great again”, Chavez prestava attenzione alla gloria passata, non solo per il suo paese, ma per la regione, costruendo la sua rivoluzione sull’incantesimo di Simon Boliva, l’eroe delle guerre d’indipendenza dell’America Latina dal governo coloniale spagnolo. Tutto questo forniva un amabile contesto per la demonizzazione di coloro che Chavez reputava colpevoli di tutti i problemi del paese, per non menzionare le sue ambizioni di diffondere la rivoluzione in altre parti del Sud America.

Chavez si appropriò di ogni leva di potere e smantellò la democrazia in Venezuela, ma il colpevole di tutti mani rimaneva per lui sempre e solo l’ “impero” (il nome con cui Chavez chiamava gli Stati Uniti). Attaccò la vecchia guardia e gli oligarchi che avevano fatto la ricchezza del Venezuela strigliando i media, fino a minare la sua stessa credibilità.

Chiunque fosse in disaccordo con lui era immediatamente dichiarato nemico e la retorica della dannazione politica varcava ogni frontiera per demonizzare tutti coloro che lui voleva fossero colpevolizzati per i problemi del Venezuela.

In sintesi i populisti latino americani attribuivano la colpa dei problemi del paese all’intero establishment che li aveva preceduti, perché, a loro dire, i problemi potevano essere facilmente risolti, ma…solo da loro!

Il ricco, il ben connesso, i media, il Fondo Monetario Internazionale, i banchieri: tutti diventavano il nemico a mano a mano che il culto della personalità di questi leader veniva costruito.

Comune alle ideologie del culto: il potente presidente riceveva merito per ogni sviluppo positivo e non era mai colpevolizzato per qualcosa di negativo.

In America Latina, gli uomini che venivano eletti come populisti iniziavano il percorso di governo smantellando molte delle norme democratiche con cui loro stessi erano arrivati al potere.

Erosione delle istituzioni democratiche in Nicaragua

Ortega in Nicaragua è stato da poco rieletto per il suo terzo mandato consecutivo, il suo quarto incarico come presidente nel complesso della sua carriera.

La strada di Ortega alla rielezione è stata costellata da controversie. I critici puntavano il dito all’erosione delle istituzioni democratiche avvenuta durante le sue due passate amministrazioni.

Nel 2010, la Corte Suprema del paese spianava la via per la sua rielezione dichiarando il divieto costituzionale sulla rielezione “inapplicabile”.

Nel 2014, un emendamento costituzionale disponeva per rielezioni indefinite, mentre le vittorie alle urne nel 2011 e nel 2012 assicuravano al FSLN (Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale – il partito di Ortega) il controllo delle istituzioni del paese.

Quest’anno la Corte decide di trasferire la leadership del principale partito di opposizione ad una storica fazione all’interno del partito stesso; i membri della vecchia leadership, dopo essersi rifiutati di riconoscere i nuovi vertici di partito o finanche incontrarli, vengono invitati a lasciare liberi i loro seggi nell’Assemblea Nazionale.

Il colpo di grazia, secondo l’opposizione, alla democrazia in Nicaragua arriva quando la moglie di Ortega, Rosario Murillo, viene nominata vice presidente.

In tutto questo però l’immensa popolarità di Ortega è rimasta sempre alta, godendo, quotidianamente di un tasso di approvazione pari a più del 70%; una delle percentuali più alte per un presidente nel mondo.

Se Ortega riuscirà a tenere alta la sua popolarità questo è tutto da vedere. Alcuni fattori sono fuori dal suo controllo: la crisi in Venezuela, per esempio, che minaccia l’accesso ai prestiti a basso interesse utilizzati per finanziare programmi sociali popolari e vitali. Mentre le previsioni finanziarie e di investimento rimangono positive per il Nicaragua, i tagli a questi programmi potrebbero minare la popolarità di Ortega.


In America Latina molti cittadini vedono le legislature come impedimenti per il progresso, per alcuni esse sono addirittura sacrificabili.

L’esperienza dell’America Latina ci rivela qualcosa:

le persone nel lungo periodo si stancano dei demagoghi populisti, ma trovano molto più difficoltoso ribaltare i danni che questi leader hanno prodotto,

anche in considerazione del fatto che le persone che li hanno portati al potere non si sarebbero mai aspettate che le circostanze si modificassero a loro danno.

Dicembre 8 2015

Le elezioni in Venezuela e in Francia: il populismo non dura per sempre

populismo

Le Pen, come Chavez prima di lei, nutrono la speranza che elettori ansiosi siano la facile risposta per tutti i problemi. Le elezioni in Venezuela ci servono come promemoria: la governance populista alla fine delude e raramente fa sopravvivere il suo leader carismatico.

In Venezuela, l’ opposizione vince le elezioni parlamentari. In Francia, il partito di Marine Le Pen, il National Front  (FN) arriva al punto più alto nel primo round delle elezioni, per i governi regionali, confermando l’ingresso del partito nella tradizione della politica francese.

Cambiamenti storici

Questi risultati riflettono, tuttavia, cambiamenti storici, non solo in politica, ma anche nello stile della politica. La sconfitta del PSUD in Venezuela, che viene dopo l’elezione di Mauricio Macri a presidente dell’Argentina, ci rivela la fine di 15 anni di dominazione della sinistra in Sud America.

L’impressionante risultato ottenuto da FN può essere visto sia come un segno di attenzione per la Francia che per l’Europa: i loro partiti tradizionali di centro – sinistra e centro – destra sono attaccati al respiratore ed hanno disperatamente bisogno di nuove idee e nuovi approcci. Pur tuttavia, laddove il Venezuela ha votato per cambiare pagina rispetto allo stile populista di Chavez, l’ascesa di Le Pen in Francia ci illustra il grado in cui il populismo ora pone una seria sfida all’ortodossia del liberalismo politico che è emerso nel periodo immediatamente successivo alla Guerra Fredda.
In questo, Chavez fu come un precursore, irrompendo nella scena politica nel 1998, come una caricatura dell’anti – liberale, uomo forte anti – americano, in un tempo in cui la democrazia liberale e l’ordine globale unipolare guidato dagli Stati Uniti, erano in ascesa. Successivamente scrisse diverse pagine di politica che descrivono come abbinare la “cattura” di uno stato alle riforme costituzionali graduali per raggiungere un insidioso autoritarismo democratico, un modello che fu copiato con successo in Boliva, in Ecuador e in Nicaragua.
Il suo modello di riduzione della povertà, tuttavia, faceva affidamento troppo sull’intervento dello stato, piuttosto che su riforme strutturali e una durevole redistribuzione della ricchezza. Questo modello diventato insostenibile ebbe la conseguenza di una frattura profonda nell’ economia del paese che diede il via ad una disaffezione popolare. E’ proprio quest’ultima che ha deciso il risultato delle elezioni del 6 dicembre 2015.
Il successo di Chavez ha cambiato le vite e migliorato il benessere sociale, al prezzo del liberismo politico. Il suo fallimento è utile per imparare la cautela nell’adozione di modelli alternativi di sinistre regionali, particolarmente per gli approcci più riformisti adottati in Brasile, Cile ed Uruguay.

Il rebrand di Marine Le Pen

In Francia, il partito socialista perde gli elettori della classe lavoratrice che si uniscono al FN, cosa che fa porre interrogativi sull’etichetta del partito come di “estrema destra”. Populista sarebbe una descrizione più adatta per Marine Le Pen, segnalando che, se la politica di Chavez è declinata, lo stile politico di Marine ci sembra essere passato sotto la ceretta di una bravissima estetista. Tuttavia anche la sua vittoria ci svela il declino verso l’ irrilevanza di partiti stagnanti, non solo di centro sinistra, ma anche di centro – destra. Entrambi hanno fallito nel fornire agli elettori i concreti benefici dell’Unione Europea così come è attualmente configurata. Non hanno neanche fornito l’Unione Europea di strumenti in grado di fronteggiare le crisi che hanno colpito il continente negli ultimi 6 anni. E’ la combinazione di questi fallimenti che spiega il successo del FN nelle recenti elezioni francesi e di partiti simili in tutta Europa negli anni recenti.
Il rimarchevole risultato del FN ha beneficiato dell’impatto degli attacchi terroristici del 13 novembre. Il FN si è sottoposto gradualmente e con successo ad un rebrand come un partito tradizionale in tutti i precedenti cicli elettorali.  Il primo turno elettorale per i governi regionali ha visto la sua vittoria; il secondo turno presumibilmente terrà il partito fuori dalla scena, eccetto che per qualche roccaforte. Per contro la vittoria di FN rivela molto circa le profonde fratture sociali ed economiche della Francia che la rendono quindi così vulnerabile agli appelli di demagoghi di tutti i generi, che sostituiscono facili panacee in un lento annoiarsi alla politica piuttosto che affrontare i difficili temi e l’assunzione di responsabilità compiendo azioni efficaci che la politica richiede.
Non soprende che Le Pen abbia usato una delle sue ultime dichiarazioni per avvertire che il FN è l’ultimo baluardo contro l’avvento della Shari’a in Francia. Dopo tutto il suo appello, come quello dell’ISIS in riferimento all’Islam, è alla nostalgia per la purezza di un passato inventato che è più come un mito che una vera storia. Se la Francia fosse una religione, Le Pen sta offrendo quello che sarebbe l’equivalente della sua Shari’a, una chiusura ortodossa della mente che inevitabilmente conduce alla chiusura delle frontiere. Le implicazioni per l’Europa sono ovvie.

L’Unione Europea è inadeguata.

L’inabilità dell’Unione Europea nel dirigere le crisi: dal debito greco alle ondate di rifugiati che arrivano sulle sue coste, riflette il fatto che esso è un edificio che era stato costruito per la pace e la prosperità, inadatto per un momento in cui piccoli e grandi conflitti letteralmente bussano alle sue porte. Invece di continuare a creare pazientemente i necessari meccanismi per la governance fiscale e monetaria, l’Unione dovrebbe  mettere in campo una sorta di meccanismo di gestione delle crisi che acceleri il processo decisorio quando si verificano eventi urgenti che hanno implicazioni per l’intero continente. La natura della politica dell’Unione Europea è laboriosa quando tutto va benissimo, per via dell’architettura istituzionale dell’Unione stessa. Gli svantaggi sono esacerbati nelle situazioni di crisi, dove la politica del rischio calcolato come tattica negoziale crea l’incentivo per fare leva sulle crisi per tornaconto politico piuttosto che risolverle.

Il populismo non dura per sempre

Le elezioni in Venezuela e in Francia sottolineano anche che le strategie adottate sia in Sud America che in Europa hanno fallito nel trarre vantaggio dagli anni di crescita e prosperità per prepararsi all’inevitabile declino dell’economia di cui fanno esperienza ora. Ci mostrano soprattutto che il populismo, il nutrire la speranza che gli elettori siano sempre guidati dall’ansia, dall’incertezza, che si sentano minacciati, non dura per sempre ed anzi la frustrazione che si genera successivamente proprio in questi stessi elettori, condannerà il populismo sacrificando proprio il suo leader carismatico.  Far leva sul senso di insicurezza delle popolazioni non risolve i problemi strutturali di uno stato, ed è questo che condanna il populismo.