Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.