Agosto 1 2019

Uccidere il leader: l’efficacia di una strategia di controterrorismo

decapitare

Media statunitensi diffondono la notizia che il figlio di Osama bin Laden, Hamza è stato ucciso da un drone (armato, ovviamente), citando dei funzionari dei servizi di sicurezza. Il Pentagono tuttavia non diffonde nè il posto dell’avvenuta uccisione, nè la data. I pochissimi commenti in proposito sui siti jihadisti affermano che tale notizia è falsa ed è l’ennesima strategia per indurre Hamza ad uscire dal suo nascondiglio.

Questa notizia ci rimanda ad uno dei temi ricorrenti quando si discute di organizzazioni estremiste che utilizzano la tattica del terrorismo, vale a dire la decapitazione di tali gruppi.

La decapitazione, vale a dire l’uccisione del o dei leader di organizzazioni terroristiche rappresenta uno strumento di contro-terrorismo ad alto valore simbolico. Tuttavia la forza militare impiegata non sembra essere sufficiente a decretare, per sé, la fine di un’organizzazione terroristica d’ispirazione religiosa.

La storia ci dimostra che malgrado l’uccisione dei leader “precursori” dello Stato islamico (IS): Abu Musab al-Zarqawi, Abu Hamza al-Muhajir, Abu Umar al-Baghdadi, il gruppo è cresciuto. Lo stesso è accaduto dopo l’uccisione di Osama bin Laden: Al Qaeda (AQ) è sopravvissuto e ha continuato a istituire affiliati seguitando ad essere una minaccia.

Per cercare di capire se l’uccisione dei leader di gruppi come IS o AQ sia efficace, vale la pena di ricordare le caratteristiche principali dei gruppi terroristici d’ispirazione religiosa.

I terroristi religiosi vedono il mondo nei termini in cui “noi siamo le persone di Dio e “loro sono i nemici di Dio”. Questa interpretazione morale del conflitto si è provata straordinariamente efficace in tutta la storia occidentale nel consolidare l’identità dei gruppi cristiani. Il loro impegno per un’idea religiosa o per un gruppo religioso li guida a de-umanizzare i loro avversari ad un grado tale che diventano capaci di uccidere. Il terrorismo religioso è una guerra psicologica e spirituale.

I gruppi religiosi sono altamente resistenti agli attacchi alla loro leadership.

La convinzione che l’uccisione dei leader  sia efficace è basata sulla nozione che la leadership sia essenziale al funzionamento di un’organizzazione. Sono stati condotti molti studi sull’efficacia di questo strumento di contro-terrorismo. Alcuni studiosi come Langdon et al. affermano che le organizzazioni religiose raramente si sciolgono quando il leader viene ucciso perché sono caratterizzate da una forte coesione fondata sugli insegnamenti del leader – sebbene carismatico – che i seguaci tendono inesorabilmente a seguire anche nel vuoto di leadership che si crea. Per Martha Crenshaw, esperta internazionale di studi sul terrorismo, l’uccisione del leader è meno efficace in gruppi molto grandi, evidenziando che l’utilità sarebbe maggiore qualora l’organizzazione fosse nei momenti successivi alla creazione.

Perché ciò risulta vero per organizzazioni religiose terroriste come AQ o IS?

La risposta si trova sia nella tipologia della loro organizzazione, che può definirsi “ibrida”: vale a dire una combinazione di network virtuali, organizzazione con quadri, affiliati e “indipendenti” sia, e soprattutto, nella loro missione. La storia del “noi” contro “loro”: distingue il puro dall’impuro e crea l’identità del gruppo.

I fondamentalisti vedono i testi religiosi come delle guide infallibili di vita. Per coloro che vedono le scritture come la parola esatta di Dio, le persone che le leggono e le interpretano sono umani e fallibili, un concetto che i fondamentalisti spesso sono incapaci di concettualizzare se si applica a loro stessi, sebbene siano felici di applicarlo ad altri.

Va notato che ciò non è particolare dell’IS o di altri gruppi jihadisti, si applica a molti fondamentalisti violenti in un ampio raggio di ideologie.

I lettori portano i loro pregiudizi e dolori nei testi religiosi. Quello che sembra più seducente dei gruppi fondamentalisti violenti è la semplificazione della vita e del pensiero. La vita è trasformata attraverso l’azione, il martirio fornisce l’ultimo sollievo dai dilemmi della vita, specialmente per individui che si sentono profondamente alienati, confusi, umiliati o disperati. Il razionale impiegato dai fondamentalisti religiosi è – questo vale per ogni tipo di religione –la diagnosi di un declino morale causato dal rifiuto di principi religiosi e argomentano che il declino può essere fermato solo ritornando a questi principi. Nella gamma di opzioni c’è quella di scegliere la violenza e utilizzare il terrorismo motivandolo con la religione.

Nei gruppi terroristi d’ispirazione religiosa gli insegnamenti del leader dunque guidano i seguaci internamente ed esternamente e seppure il leader sia caratterizzato da un forte carisma, i suoi insegnamenti religiosi trascendono la sua figura umana e resistono anche dopo la sua morte. In verità molti leader religiosi uccisi vengono poi venerati dopo la morte.

Alla luce di quanto detto finora la risposta che ci sembra più efficace per questo tipo di gruppi non è quella dell’uccisione della leadership, ma piuttosto quella informata da un punto di vista sia psicologico che spirituale.

Appare oltremodo necessario comprendere che i terroristi religiosi hanno l’obiettivo non solo di spaventare le loro vittime in senso fisico, ma anche di diffondere un certo tipo di timore spirituale per spostare il loro stesso timore esistenziale di sconfitta culturale e spirituale nelle loro vittime.

Per combattere il terrorismo religioso è necessario un esame non solo della nostra tendenza a reagire in maniera esagerata di fronte a questo tipo di paure, incluso la demonizzazione dei perpetuatori e i loro sostenitori o correligionari, ma anche come le loro azioni e razioni si sviluppino nelle loro stesse mani, a prescindere dal vertice del gruppo.