Marzo 23 2016

Di interventisti da poltrona e altre amenità

interventisti

Dopo gli attacchi di Bruxelles, parliamo di un pericolo tangibile in Italia: gli interventisti da poltrona e la disinformazione.

Quando pensavamo che gli esperti da salotto si fossero estinti dopo gli attacchi di Parigi ecco ricomparire sulla scena l’interventista da poltrona, che seduto comodo con l’ipad in mano ci illumina con le sue svariate competenze e conoscenze.

L’interventista da poltrona

E’ un individuo che compare ovunque, sui social, nelle trasmissioni televisive, nei telegiornali, alle radio e persino sulla carta stampata. Lui sa tutto! Lui sa cosa pensano gli jihadisti violenti, lui sa cosa si doveva fare e soprattutto lui non sa cosa si deve fare. L’unica cosa che sa è che si deve: “andare a combattere” in un imprecisato spazio temporale, in un qualsivoglia paese lontano. Questi personaggi non hanno rispetto per i morti, meno per i famigliari dei morti, per nulla per le persone ferite, scioccate, perché l’importante è dire che lui lo sa!

La disinformazione

Puntuali arrivano tutta quella serie di servizi con le stesse immagini ripetuti fino alla nausea. I titoli attira pubblico, quelle interviste con le domande: “hai avuto paura?“. Oppure quelli fuori dalla stazione Termini a Roma che chiedono ad un ignaro viaggiatore: “lei si sente al sicuro?“. Che domande sono? Forse io non ho la sensibilità per apprezzare questo genere di informazione, che invece di mostrare immagini di vita ci propone le macchie di sangue, le persone ferite, a ripetizione le immagini dell’esplosione (peccato che qualcuno ha messo al posto dell’immagine dell’aereoporto di Bruxelles quelle di un attentato a Mosca del 2011). Il diritto alla cronaca, per carità, giustissimo, ma noi abbiamo bisogno di immagini di vita, dei colori dei gessetti sulla piazza di Bruxelles, abbiamo bisogno di sentire ridere i bambini, non sentire quello straziante pianto del bambino nella metro a Bruxelles, subito dopo l’esplosione. Perché a voler essere precisi, le organizzazioni estremiste di natura religiosa come l’ISIS, si combattono anche attraverso delle campagne di comunicazione mirate. La strategia di comunicazione, di contrasto al loro modo di comunicare, riveste una particolare importanza, soprattutto per chi come loro dell’informazione ne fa un’arma. Lo stato islamico semplifica la visione del mondo in buono e cattivo per fornire terreno fertile alla loro ideologia e dall’altra parte intere campagne di informazione a dire: l’ISIS è il male! Ho letto di un’intervista (spero sia falsa) di padre Amorth che dice che l’ISIS è il demonio. Complimenti! Riproduciamo quello che loro vogliono: la dicotomia tra bene e male, la semplificazione della visione del mondo e l’appiattimento di tutte le sfumature delle nostre società.

L’espertone di intelligence

L’ultimo nato in fatto di figure post attentati è l’espertone di intelligence. Posto che chi scrive ha qualche esperienza nel settore dell’intelligence e qualche corso in questo ambito, mai mi sognerei di dichiarare delle certezze. La colpa dell’attentato di Bruxelles è dell’intelligence è il nuovo slogan. E sentiamo, perché dobbiamo identificare un capro espiatorio? Se poi il Ministro della difesa italiano ieri sera a Ballarò dice che: “non possiamo pensare che i nostri servizi segreti siano più veloci dei terroristi”, beh mi viene da piangere seriamente. Evidentemente al Ministro (Ministra è un’altra amenità di una politicante che mette la “a” e però tollera una discriminazione di genere inquietante nel nostro paese per un governo che ha tolto il ministero delle pari opportunità) era stato detto che è molto molto difficile poter stabilire quando gli attentatori si siederanno ad un tavolo, su una panchina, al bar, alla fermata del bus, al parco, per decidere ora e giorno dell’attentato. Avrebbe potuto rassicurare tutto il paese dicendo, per esempio, che i servizi segreti italiani lavorano indefessamente per la sicurezza della Repubblica e che fanno molto bene un lavoro di prevenzione, sebbene non siano maghi con la sfera di cristallo. Avrebbe potuto magari dire che coloro che si fanno saltare in aria sono proprio l’ultimo anello di una catena, una rete, enorme, le cui cellule non si conoscono tra di loro, che proprio per questo il lavoro di prevenzione è essenziale.

Si può ipotizzare che i politici belgi, il procuratore, siano stati tanto superficiali da divulgare a tutti i costi le dichiarazioni di Salah e che siano stati abbastanza imbranati dal non predisporre misure di controllo più efficaci, posto che ovviamente l’attentatore non va con un segnale luminoso in volto: “sto per saltare in aria”. E’ facile con i fotogrammi dire: “ecco li vedete sono i due che portano i guanti e lì c’è il telecomando”. Ma certo fermiamo tutti quelli con i guanti allora.

La semplificazione a tutti i costi di temi complessi è un danno per tutti.

Sono sempre dell’idea che chi non abbia una formazione su temi complessi come il terrorismo internazionale, piuttosto che gli estremisti di natura islamica, sentendo le trasmissioni televisive e leggendo i giornali si confonda ancora di più e la paura, fisiologica di tutti, si centuplichi. Semplificare a tutti i costi riunendo in un calderone fumante, i temi della migrazione, dell’estremismo, delle religioni è un danno! Non si fa un servizio alla comunità, per qualche attimo di visibilità in più, ridurre tutto ad un unico argomento.

Le quantità di informazioni in mano agli operatori di intelligence noi non le conosciamo, non possiamo dire non si parlano o si parlano poco tra di loro, perché nella realtà a parte la relazione del COPASIR al parlamento, di quello di cui parlano e su cui investigano i servizi segreti, se si chiamano segreti un motivo ci sarà.
Non sono d’accordo che siccome la persona della strada non può capire la complessità del fenomeno dello stato islamico bisogna girare il minestrone del calderone. No, io piuttosto credo che bisogna anzitutto scomporre il problema nelle sue sfaccettature e soprattutto attuare una strategia di contro – comunicazione a quella dello stato islamico. Ritengo inoltre, che intervenire militarmente non è uno gioco elettorale, ci vuole una strategia di lungo termine e non è il solo e unico strumento per sconfiggere la minaccia di un gruppo transnazionale terrorista che al suo interno si comporta come uno stato.

Credo, infine, che i quartieri di Bruxelles, dove hanno sputato ai poliziotti che cercavano i presunti terroristi, siano l’emblema del fallimento delle politiche di integrazione, se mai si siano attuate, visto che quei quartieri, già quando frequentavo io la Scuola Europea (e si parla veramente di moltissimo tempo fa) erano già piuttosto ghetti che quartieri integrati nel tessuto della società belga.