Luglio 21 2019

Il rischioso gioco degli Stati Uniti in Albania

Albania

Qualche giorno fa il consulente giuridico di Donald Trump, Rudy Giuliani, ha partecipato all’incontro annuale del controverso gruppo di opposizione iraniano in Albania.

Ciò dovrebbe far preoccupare se non altro per la fragile e instabile democrazia albanese.

Se l’Albania venisse coinvolta in uno dei conflitti geopolitici più pericolosi al giorno d’oggi, quello che contrappone l’Iran agli Stati Uniti, Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, la tempistica non potrebbe essere la peggiore, visto che il Paese è nel bel mezzo di una dichiarata crisi politica che in alcune occasioni è diventata violenta ed il cui risultato non è ancora chiaro.

Membro della NATO, l’Albania sta anche cercando da anni, senza successo, di entrare nell’Unione Europea; gli odierni disordini allontanano ancora di più tale obiettivo. A peggiorare la situazione è che la circostanza per cui la conflittualità interna ha trasformato l’Albania in un obiettivo invitante per attori maligni che cercano di trarre vantaggi da una nazione distratta e divisa.

Il MEK

Giuliani, assieme ad altre prominenti figure, incluso l’ex senatore americano Joe Lieberman e il conservatore inglese Matthew Offord, hanno dunque partecipato alla conferenza “Free Iran” del gruppo conosciuto  come Organizzazione del popolo mujahedin dell’Iran e Mujahedin-e Khalq ovvero MEK. Gruppo ambiguo impegnato nel rovesciamento del regime teocratico iraniano, il MEK spesso è descritto come un culto e utilizzato per essere classificato dal Dipartimento di Stato americano come un’organizzazione terrorista.

Al momento i sostenitori principali del MEK lavorano per Trump e la sua amministrazione, collocando l’Albania nel bel mezzo del dossier iraniano. Forse il più grande sostenitore del MEK è John Bolton il consulente di sicurezza nazionale di Trump, il quale desidera che il MEK governi l’Iran.

Il MEK ha una storia strana e controversa. Esso è emerso come organizzazione marxista- islamista e milizia in Iran negli anni 1960 ed era devotamente anti-americano. Uccide i membri della polizia dello Scià e riveste un ruolo chiave nella sua caduta durante gli anni della rivoluzione del 1979. Tuttavia a seguito di aspre discussioni con le nuove autorità islamiche al potere viene esiliato dal Paese agli inizi degli anni 1980. Quando l’Iraq di Saddam Hussein entra in guerra contro l’Iran, il MEK – adesso opposto fervidamente alla Repubblica islamica dell’Iran – si schiera a fianco di Baghdad e finisce per costruire una base di operazioni in Iraq vicino alla frontiera con l’Iran, da cui conduce attacchi all’interno dell’Iran.

Quando le forze americane invadono l’Iraq e depongono Saddam nel 2003 il gruppo era ancora nel Paese; all’aumento vertiginoso del caos, gli agenti iraniani iniziano ad avere come obiettivo il MEK.

Obama e l’accordo per ricollocare i membri del MEK in Albania

L’amministrazione Obama rimuove l’organizzazione dalla lista di gruppi terroristi del Dipartimento di Stato nel 2012 e dopo una lunga e dispendiosa campagna di lobby a Washington da parte del MEK e dei suoi simpatizzanti, si conclude un accordo per ricollocare alcuni dei 3000 membri del MEK in Albania, un Paese entusiasta di mantenere forti legami con gli Stati Uniti.

Da quando si trasferisce in Albania, il MEK riceve minore attenzione internazionale, ma tutto cambia con l’amministrazione Trump. Figure chiavi di tale amministrazione sostengono il gruppo, alcuni come donatori, altri per convinzioni ideologiche: Bolton e Giuliani, in particolare, hanno promosso il gruppo come legittimo governo in esilio che dovrà sostituire la Repubblica islamica, anche se questo gruppo all’interno dell’Iran gode di poco sostegno.

I riflettori dell’amministrazione Trump puntati sul MEK senza dubbio attirano l’attenzione di Teheran come momento politico pericoloso in Albania.

La crisi politica in Albania

Il governo albanese è piombato nella crisi agli inizi di quest’anno quando i partiti di opposizione si sono ritirati dal Parlamento e hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro Edi Rama, accusandolo di corruzione, di manovre elettorali e di legami con il crimine organizzato.
La corruzione è endemica in Albania dalla fine del governo comunista, ma Rama gode del sostegno degli Stati Uniti e di molti Stati dell’Unione Europea.

La crescita della visibilità del MEK nel quadro della contrapposizione tra Trump e l’Iran potrebbe rendere l’Albania più vulnerabile che mai ad intromissioni esterne.

Le tensioni a Tirana si sono verificate lo scorso mese, dopo che un giornale tedesco, il Bild, pubblica delle conversazioni, parte di intercettazioni disposte dai magistrati che indicano che Rama ed il partito socialista  tramano con i gruppi criminali per manipolare le elezioni nel 2016. Sia Rama che il suo partito negano tali fatti. Tuttavia i suoi oppositori scendono in strada e ne derivano dei feroci scontri con i manifestanti che lanciano le bottiglie molotov e la polizia che risponde con i cannoni ad acqua.

La situazione si deteriora ulteriormente quando l’opposizione dichiara che avrebbe boicottato le elezioni comunali di giugno. Il Presidente Ilir Meta annuncia che avrebbe cancellato il voto riprogrammandolo per ottobre, affermando che senza l’opposizione le elezioni non sarebbero state democratiche.
Il partito di Rama, invece si rifiuta di accettare la mossa del Presidente e asserisce che avrebbe iniziato le procedure di messa in stato d’accusa del Presidente. Quindi si è proceduto con il voto. La partecipazione elettorale si rivela essere minima. Mentre i vincitori delle elezioni sono pronti a prendere il loro posto, alcuni sindaci uscenti si rifiutano di lasciare il loro ufficio.

La scena politica albanese rimane turbolenta, carica di tensione e di teorie di cospirazione. Meta accusa Rama di essere uno strumento del “deep State” (un termine che si riferisce ad una sorta di Stato ombra) e che lavora assieme al filantropo miliardario George Soros per destabilizzare l’Albania e ristabilire una dittatura che includa il Kosovo.

In questo scenario tuttavia vi è una scadenza incombente per l’Albania: ad ottobre il Consiglio Europeo prenderà la decisione in merito all’inizio formale dei colloqui di adesione con l’Albania.

Gli scontri urbani, gli insulti e le teorie di cospirazione sembrano essere a sostegno della visione degli scettici per cui  la democrazia albanese non è matura o abbastanza stabile per entrare nell’Unione Europea.

Se questo non fosse grave abbastanza, le complicazioni con l’Iran potrebbero fermentare nell’area della campagna albanese dove si trova il MEK, accrescendo i rischi di interferenza iraniana.

L’Iran registra un ben noto record nello scovare e assassinare dissidenti nel Medio Oriente e in Europa.

L’obiettivo del MEK resta il rovesciamento del regime iraniano, sebbene ora asserisca di aver rinunciato alla violenza.

Il potenziale per una nuova crisi in Europa e all’interno della NATO, con al centro l’Albania, è molto reale.

Settembre 14 2018

Erdogan e la profezia autoavverante

Erdogan

La Turchia sta vivendo la crisi economica più severa da quando il Partito Giustizia e Sviluppo o AKP, ha preso il potere all’indomani delle elezioni del 2002.
Solo quest’anno il valore della lira turca è sceso del 40 percento e gli scambi esteri del Paese rischiano di far precipitare in una spirale di crisi l’economia turca e con essa, potenzialmente, l’economia globale.
Da una parte vi è una crisi finanziaria tipica del post-Guerra Fredda, in un mercato emergente le cui prospettive sono sempre state volatili, con alti rischi e alti compensi. Dall’altra parte, il collasso della lira è il prodotto di un’insieme di fattori geopolitici che minacciano di riscrivere le strutture delle alleanze post-Guerra Fredda su scala globale, dove la Turchia è al centro di tutto.

La risposta del Presidente turco Erdogan a questo quadro è quella del complotto geopolitico: una cospirazione costruita ad arte dall’esterno allo scopo di mettere in ginocchio il suo governo.

Erdogan ha posizionato la lira e i problemi collegati ad essa al centro di un complesso momento  di transizione che sta attraversando la Turchia, sia sulla scena globale che su quella regionale.

Detto in altre parole: Erdogan crede, chiaramente – o almeno pretende di credere – che tutti gli americani e i loro sostenitori siano coloro che tessono le fila di questa cospirazione. Egli li accusa di voler ingaggiare una “guerra economica” contro la Turchia.
L’amministrazione Trump non ha fatto nulla per contrastare o fugare questa narrativa. Agli inizi del mese, quando la disputa tra Washington e Ankara sulla detenzione da parte della Turchia di un parroco americano, Andrew Brunson, è peggiorata, il Presidente Trump ha deciso di imporre sanzioni, seguite da un aumento (pari quasi al doppio) delle tariffe sull’acciaio turco e sulle esportazioni di alluminio verso gli Stati Uniti.
Non va dimenticato che la lira turca già da molti mesi prima delle sanzioni di Trump si trovava in una spirale discendente.

Quindi il fatto che gli Stati Uniti abbiano apposto un ulteriore pressione su una situazione economica già vulnerabile non equivale a dire che Trump “cospira una crisi”.

In un certo senso la linea di ragionamento di Erdogan è quella che viene definita “profezia auto-avverante”.

Se Erdogan crede che i problemi siano delle cospirazioni straniere contro il suo Paese, si può comportare in maniera tale per cui, genuinamente, rende la vicenda della lira turca una questione geopolitica e non economica – o almeno non attinente alle dinamiche di mercato. Piuttosto come la cosiddetta resistenza economica nazionale alle agende straniere. Questo significa che la crisi stessa presumibilmente avrà delle implicazioni geopolitiche che si spingeranno sempre oltre.

La prima risposta di Ankara alla crisi è stata quella di inclinarsi versi i pochi alleati che le sono rimasti per avere un sollievo immediato. Il Qatar è in realtà l’unica nazione che ha risposto all’ appello di Erdogan, promettendo un pacchetto di investimenti per un totale di 15 miliardi di dollari per fungere da salvagente dell’economia turca nel tentativo di sostenere la lira. Le mosse del Qatar hanno sì aumentato la sua esposizione all’economia turca, ma hanno anche rafforzato l’alleanza nascente tra Ankara e Doha, nella Regione.

Ciò è legato al peggioramento della frattura tra il Qatar e i suoi vicini, guidati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno accusato il Qatar di voltare le spalle al Consiglio di Cooperazione del Golfo e ai suoi tradizionali alleati arabi del Golfo in favore della Fratellanza musulmana e dell’Iran. A marzo, il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman ha accusato la Turchia di appartenere al “triangolo del diavolo” unitamente all’Iran e agli islamici militanti.

La crisi sta anche fornendo un’opportunità d’oro alla Russia per tracciare un cuneo tra Ankara e Washington, indebolendo, in questo processo, la NATO.

La Cina è ancora un altro potenziale giocatore sulla scena che potrebbe avere i “muscoli” finanziari per mettere in salvo la lira turca.

Cosa chiederebbe la Cina in cambio? È possibile che Pechino sia propensa a fornire denaro in cambio di più grandi pacchetti nell’economia turca, dai settori dell’industria e delle infrastrutture, al turismo e alla tecnologia. Sebbene la situazione economica russa sia disperata al momento, la Cina potrebbe, in una visione più di lungo termine, calcolare i suoi interessi fondamentali e lo sguardo economico di lungo termine porterebbe risultati più positivi rispetto ai problemi immediati della lira turca.

L’economia turca è diversificata, aperta al mondo, e la sua forza lavoro è giovane, istruita e dinamica. Se Pechino può convincere Erdogan ad intensificare il suo impegno con la grande iniziativa Belt and Road e incrementare ulteriormente il commercio turco con la Cina, potrebbe esserci un accordo sul tavolo per Erdogan da firmare con Xi Jinping.
Tutto questo dipenderà dalla circostanza per cui la lira turca potrà essere stabilizzata o meno e se Ankara e Washington arriveranno a un qualche accordo sui molti punti di contenzioso che hanno gradualmente eroso le fondamenta della loro alleanza post Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, se si realizzerà, è chiaro che la crisi della moneta turca non è semplicemente qualcosa che concerne i fattori di rischio macroeconomici e gli “aggiustamenti strutturali”, ma contiene implicazioni geopolitiche che possono profondamente riplasmare le strutture di alleanza nell’era Trump e anche oltre.

Febbraio 4 2017

Emirati Arabi Uniti accrescono la relazione bilaterale con l’India

Emirati Arabi Uniti

Le prospettive di crescita dell’India e i timori degli Emirati Arabi Uniti circa la radicalizzazione potrebbero indurre la monarchia del Golfo a considerare una più pronunciata inclinazione verso l’India, lontano dal Pakistan. Ciò potrebbe avere un considerevole impatto sul Medio Oriente e sul Sud dell’Asia.

L’attentato a Kandahar (Afghanistan) come messaggio diretto agli Emirati Arabi Uniti  vista la loro crescente cooperazione sul contro-terrorismo con l’India.

Quando, a metà gennaio 5 diplomatici degli Emirati Arabi Uniti sono stati uccisi in un attacco a Kandahar, le autorità afghane hanno subito dichiarato che i responsabili appartengono della rete di Haqqani, sospettata di avere legami con l’intelligence pakistana.

Il primo attacco in Afghanistan a diplomatici di uno Stato del Golfo sembra essere decisamente un messaggio diretto agli Emirati Arabi Uniti in ragione della loro crescente cooperazione con l’India sul contro-terrorismo. La tempistica dell’attentato sostiene questa tesi perché è avvenuto qualche settimana prima della partecipazione del potente principe ereditario di Abu Dhabi: lo sceicco Mohammed Bin Zayed Al Nahyan, che è anche il vice comandante delle forze armate degli Emirati, alle celebrazioni del giorno della Repubblica in India come ospite d’onore. Un gesto simbolico riservato ai partner più vicini all’India.
Il principe ereditario era il primo “non-capo” di Stato ad essere ospite d’onore per la parata del giorno della Repubblica indiano. Inoltre, durante la visita, ha firmato circa una dozzina di accordi con il Primo Ministro indiano Narendra Modi che spaziavano dall’energia, all’accordo per le riserve strategiche di petrolio, fino agli investimenti e alla cooperazione nel settore della difesa.

La visita ha segnato una rinnovata, ufficiale, relazione tra i due paesi a livello di partneriato strategico che ha, inoltre, gettato le basi per la costruzione di una significativa relazione sul commercio che entrambe le parti vogliono ulteriormente rafforzare.

Le relazioni India – EAU tra stabilità e interessi geo-economici

Sebbene accresciuti i legami India – Emirati Arabi Uniti certamente contengono in sé una logica d’interessi particolari propri di ciascuno Stato. Condividono timori riguardo alla stabilità, hanno interessi convergenti per il sostegno di interessi geo-economici, tuttavia resta da vedere quanto gli Emirati Arabi Uniti s’inclineranno verso l’India nelle loro relazioni con il Sud Asia, oppure la monarchia del Golfo suddividerà  le sue relazioni sulla sicurezza tra l’India ed il Pakistan.

Gli Emirati si sono avvicinati, senza dubbio,  alle posizioni dell’India per quanto riguarda la lotta al terrorismo internazionale. Attualmente il più prominente paese arabo sembra sia deciso a sostenere una proposta di trattato: Comprehensive Convention Against International Terrorism, sostenuta dall’India, nel quadro delle Nazioni Unite. Proposta che è rimasta a lungo sul tavolo.

Gli Emirati dal 2015  hanno espulso più di 10 individui sospettati di terrorismo di origine indiana. Inoltre, sembra, dalla diffusione di alcuni rapporti, che gli Emirati Arabi Uniti abbiano congelato gli assetti del malvivente (sospettato anche di terrorismo) e ricercato Dawood Ibrahin, che, al momento, si ritiene che risieda in Pakistan. Sebbene l’ambasciatore degli Emirati in India non abbia confermato questi rapporti, si ritiene che gli Emirati Arabi Uniti abbiano iniziato ad occuparsi delle reti di organizzazioni terroristiche basate a Dubai come Lashkar-e-Taiba*, evidentemente questo un gesto di umiliazione nei confronti del Pakistan.

Il commercio come fondamento dei legami India-Emirati Arabi Uniti

La crescita della relazione India-Emirati Arabi Uniti ha come caposaldo il commercio: l’India è il principale partner commerciale degli Emirati Arabi Uniti, mentre quest’ultimo Stato è tra i tre principali partner commerciali dell’India. Entrambe le parti hanno annunciato piani ambiziosi per incrementare il commercio bilaterale: fino al 60% del livello attuale che è di circa 60 miliardi di dollari.

Con tutta probabilità, proprio quest’anno, si darà vita all’accordo bilaterale che impegnerà gli Emirati Arabi Uniti ad investire fino a 75 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali in India in un periodo di 10 anni.

Nel complesso, l’India sta cercando di attrarre sempre più investimenti da parte delle imprese degli Emirati Arabi Uniti ad esempio nel settore immobiliare e petrolchimico, mentre gli Emirati desiderano dall’India informazione tecnologica ed expertise ingegneristica.

Sebbene per gli Emirati Arabi Uniti, l’India è, e continua ad essere, un cliente chiave per le esportazioni di petrolio e gas, ora gli Emirati vedono l’India anche come un partner ideale per la diversificazione economica.

Entrambe le parti hanno interesse nella stabilità regionale e tutto ciò detto, cioè i modelli verso cui si delineano le relazioni bilaterali tra questi paesi, rivelano la loro marcia più profonda e geostrategica. Inoltre, sono già in corso esercitazioni militari e addestramenti congiunti India-Emirati Arabi Uniti, con Nuova Delhi e Abu Dhabi che esplorano strade per la co-produzione di hardware militare, come i sistemi di difesa aerea.

India utile per gli Emirati nella gestione delle tensioni con l’Iran

Per gli Emirati Arabi Uniti, l’India è anche vista utile alla gestione delle tensioni con l’Iran, specialmente dato l’interesse di Nuova Delhi nel tenere aperti blocchi nel nord dell’Oceano indiano.

Gli Emirati Arabi Uniti potrebbero essere, ragionevolmente, interessati al partenariato con l’India per lo sviluppo del porto strategico Chahbahar in Iran, dato che gli Emirati sono già il secondo più importante partner commerciale dell’Iran, malgrado le tensioni.

Cosa ne sarà della relazione Emirati-Pakistan?

Il ruolo potenziale che l’India può giocare in maniera più ampia, come facilitatore della cooperazione tra Emirati Arabi Uniti e Iran è in netto contrasto con la posizione del Pakistan. Stato quest’ultimo che mantiene collegamenti con le reti di organizzazioni terroristiche e si rifiuta di trovarsi coinvolto in dispute con Teheran all’interno del quadro del  Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Le relazioni tra Emirati Arabi Uniti e il Pakistan hanno iniziato a contrarsi con il rifiuto del Pakistan, nel 2015, di impegnare truppe nella coalizione a guida saudita per combattere gli Houti in Yemen (dove gli Emirati hanno giocato un ruolo importante).

Non va trascurata la circostanza che il Pakistan e gli Emirati hanno una lunga storia di profondi legami militari, e non sarà così semplice per ciascuna parte scioglierli. Non è un caso che l’India abbia dovuto rifiutare l’offerta dagli Emirati di inviare un contingente di paracadutisti per la marcia della parata nel giorno della Repubblica indiano, proprio in virtù della stretta relazione di addestramento tra forze speciali pakistane e paracadutisti degli Emirati. Sebbene le forze armate degli Emirati Arabi Uniti fossero presenti ugualmente alla parata indiana con un contingente dell’aeronautica.

Dal canto suo il Pakistan cercherà di utilizzare, con tutta probabilità, la promessa del Corridoio economico Cina-Pakistan per fornire un incentivo economico agli Emirati e quindi tenere alto l’interesse al mantenimento di forti legali con loro.

*Fondata agli inizi degli anni novanta da Hafiz Mohammed Sa’id, agli inizi attivo soprattutto nella regione di Jammu e Kashmir, al confine tra Pakistan e India, Lashkar-e Taiba è prevalentemente composta da radicali religiosi pakistani che professano un’ideologia sunnita ultraortodossa.
È attualmente locata vicino a Lahore (Pakistan) e sono operativi in diversi campi di addestramento militare in Kashmir. Alcuni membri di questa organizzazione hanno compiuto attentati contro l’India il cui obiettivo primario era quello di cacciare l’amministrazione indiana dal Kashmir.

Foto: fonte Al Jazeera

Novembre 24 2016

Quando l’ignoto diventa una certezza nelle analisi: il caso Trump

ignoto

Il caso Trump stimola a riflettere che commentare l’ignoto di quello che sarà ci espone soltanto alla demagogia.

Quando si produce un’analisi di politica internazionale, ci si deve confrontare inevitabilmente con l’ignoto, con quello che non sappiamo del futuro. Si fanno supposizioni su quello che potrebbe ragionevolmente accadere. Uno dei segreti di ogni analista, professionista, di politica internazionale (di seguito solo analista n.d.r) è quello di attenersi ai fatti il più possibile e non cadere nella trappola della certezza dell’ignoto e scivolare inesorabilmente nella demagogia.

L’analista parte dai fatti e si attiene ai fatti e non c’è esempio migliore del “caso Trump” per stimolarci a riflettere su questa differenza fondamentale tra l’analista, il commentatore e il tuttologo .

In questo post quindi seguiremo il filo conduttore: “atteniamoci ai fatti” e partiamo proprio da due circostanze reali:

1. Donald Trump presterà giuramento come 45° presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 2017 alle 13 (ora locale). Il capo della Corte Suprema John Roberts amministrerà il giuramento sulla scalinata di Capitol Hill. Dopo il giuramento, Trump terrà un discorso, che passerà alla storia, sì, ma come tutti i discorsi inaugurali di tutti i 44 presidenti degli Stati Uniti prima di lui.
2. Non deve essere esagerata la grandezza dell’incertezza che circonda tutto quello che il Presidente Trump metterà in pratica realmente.

L’ultimo punto va preso in seria considerazione proprio perché gli Stati Uniti non sono una dittatura o una monarchia e neanche un regime autocratico. La Costituzione degli Stati Uniti unitamente al controllo e bilanciamento dei poteri garantiscono che Trump sia il Presidente di una Repubblica, dove la democrazia è assolutamente garantita e protetta.

L’analisi dell’incertezza

Ebbene sì, l’incertezza va analizzata. L’analista deve entrare nel profondo delle situazioni e cercare di comprendere da dove originano, perché nella radice quasi sempre risiede anche la causa. 

L’incertezza che circonda e oserei dire impernia il neoeletto Presidente degli Stati Uniti è costituita da diverse componenti.

Parte di questa incertezza è la diretta conseguenza dell’abilità straordinaria di Trump, di assumere ogni posizione per ogni argomento (ultimo caso, dopo che Trump ha ripetutamente criticato la NATO come sovrastimata e obsoleta nel corso della sua campagna, abbiamo appreso dal presidente Obama – ancora in carica – che Trump (il presidente eletto) lo ha rassicurato, nell’ufficio ovale, che “non c’è nessun indebolimento” nell’impegno americano “verso il mantenimento di una forte e robusta alleanza NATO”).

Un’altra parte di incertezza scaturisce dall’ “apparente” profondità dell’ignoranza stessa di Donald Trump su ciò che può o non può fare il potere esecutivo degli Stati Uniti.

Un ulteriore spicchio di incertezza è dato dalla burocrazia federale. Da quanto è stato raccontato dalla stampa, i funzionari, i professionisti del Dipartimento di Stato, della Difesa, della Giustizia, dell’Homeland Security, delle Agenzie di intelligence sono molto combattuti se restare a loro posto o andare via proprio per la straordinaria novità della nuova leadership.

Cambiare rotta alla nave americana non è così semplice

Alcuni presidenti americani hanno sperimentato giorno dopo giorno che l’apparato americano rende estremamente difficile che si possa cambiare rotta alla nave così con un occhiolino ed una stretta di mano anche per chi ha avuto intenzioni più chiare e le più grandi competenze burocratiche.

Ci sono pochissime indicazioni (per ora) che l’amministrazione entrante abbia intenzioni cristalline e alte competenze burocratiche.

Trump come potrebbe utilizzare i considerevoli poteri che ha a disposizione in politica estera?

A noi interessa la politica estera e quindi l’analisi ci spinge a chiederci in quale maniera il neoeletto presidente potrebbe utilizzare i suoi considerevoli poteri in politica estera in modi unici e senza precedenti.

  • Recedere dagli accordi sul commercio potrebbe essere un tema maggiore della sua amministrazione.
  • Ci sembra in un certo modo meno notata la possibilità che Trump adempia alle sue promesse di campagna elettorale e riconosca Gerusalemme come capitale di Israele.

La Corte Suprema degli Stati Uniti recentemente ha confermato nella sentenza Zivotofsky v Kerry che la Costituzione degli Stati Uniti accorda al Presidente il potere esclusivo di riconoscere nazioni estere e governi. Questo potere include, sostiene la Corte Suprema, il potere esclusivo di negare il riconoscimento di Gerusalemme come la capitale di Israele. Il Congresso non può violare questo potere richiedendo per esempio che il Presidente emetta passaporti che designano Gerusalemme come parte di Israele. Dunque, il potere di esclusivo riconoscimento si dilata fino a riconoscere quanto lontano una sovranità straniera si estende, come se Israele abbia o meno la sovranità su Gerusalemme.

È plausibile che Donald Trump porti a termine la sua promessa elettorale di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e muovere l’ambasciata americana lì.

In questo modo però potrebbe violare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 242 e altre risoluzioni. Certamente, l’Autorità Palestinese è pronta a fare l’inferno se Trump adempisse alla sua promessa.

È altresì vero il fatto che molti presidenti americani hanno promesso di fare ciò durante le loro campagne elettorali e poi sono stati consigliati dal loro Dipartimento di Stato  (dopo essere entrati in carica) che fare ciò avrebbe minato il processo di pace nel Medio Oriente o qualcosa del genere. Questo però potrebbe essere meno probabile se l’ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, pro-Israele verrà nominato Segretario di Stato.

Come avrete notato l’ipotesi che ciò avvenga si basa su dichiarazioni di Trump e sulla giurisprudenza americana. Quindi, tenendo fermo il punto che quello che avverrà realmente in questa situazione non lo sapremo mai con certezza finché non accadrà in pratica, si è analizzato quello che è in suo potere fare da un punto di vista estremamente fattuale, portando ad esempio le regole del diritto domestico e ciò che è accaduto in merito a questa situazione prima di lui.

Le implicazioni internazionali della presidenza Trump

Come detto all’inizio commentare l’ignoto ci farebbe cadere nel baratro della demagogia. Fermo restando che le implicazioni internazionali della sua presidenza potrebbero essere enormi: riconfigurazioni radicali e riallineamenti nelle alleanze degli Stati Uniti e ordini regionali in Europa e in Asia con effetti che contengono in sé il rischio di destabilizzazione. Non c’è dubbio che le sue posizioni minaccino i cardini dell’ordine liberalizzato, iniziando dal commercio globale, passando per il multilateralismo e la diplomazia.

Piuttosto ci sembra interessante inquadrare qual è una vera minaccia all’ordine internazionale liberale.

Il populismo nazionalista una vera minaccia all’ordine internazionale liberale.

A nostro avviso è più preoccupante che le stesse frustrazioni e tendenze che hanno dato potere alla vittoria di Trump – l’ineguaglianza dei redditi, la deindustrializzazione, l’esclusione politica e socio-economica e un senso di perduta identità nazionale, si siano manifestate ovunque, particolarmente in Europa.

In maniera più ampia, la generalizzata ansia che incarna il mondo fuori dalle frontiere nazionali come una minaccia piuttosto che come un’opportunità rende il populismo nazionalista una soluzione confortevole piuttosto che una tentazione pericolosa e fuorviante.

A meno che le cause di questi problemi reali siano spiegate effettivamente e i loro effetti efficacemente indirizzati, le narrative semplicistiche offerte dai Trump del mondo, Le Pens, Farages e Wilders continueranno a vincere.

L’ordine liberale è anche minacciato da grandi potenze  come la Russia e la Cina, potenze medie come la Turchia e l’Iran, e più generalmente dall’incremento della multipolarità del mondo.

Le parentesi chiuse del momento storico del dopo guerra fredda hanno dato via a un periodo dove le sfere regionali di influenza sono diventate l’oggetto di fiere rivalità e l’uso della forza ancora una volta è uno strumento accettabile di potere geopolitico. Questo solleva la vera, reale, possibilità che conflitti localizzati e limitati diventino una norma, specialmente se gli Stati Uniti da soli assumessero più le caratteristiche di una potenza “normale” trasformata al suo interno.

Ed è proprio qui che si possono ragionevolmente collegare, in maniera significativa, le implicazioni domestiche con quelle internazionali della presidenza Trump.

La presupposizione degli Stati Uniti come nazione indispensabile, guardiana e protrettrice dell’ordine globale e della sicurezza è basata sull’assunzione che essa si farà carico di un onere fuori misura. In cambio però gli Stati Uniti godono di grandi benefici per la loro posizione come “egemone globale”, non da ultimo riguardo ai suoi costi dei prestiti come emettitore di riserva mondiale di valuta.

Trumpxit: le implicazioni giuridiche della presidenza Trump

A questo punto l’analista esamina la situazione da un punto di vista estremamente reale: il diritto. Le regole di legge sono quello che di più concreto si ha a disposizione per chiarire quello che il Presidente neoletto degli Stati Uniti ha il potere di compiere in politica estera.

Da un punto di vista giuridico, non vi è dubbio che il Presidente Trump abbia il potere legale di terminare l’Accordo di Parigi e l’Accordo con l’Iran nel suo primo giorno di lavoro senza l’autorizzazione del Congresso. Entrambi questi due accordi sono stati conclusi come accordi di solo (unico) esecutivo e la maggior parte delle disposizioni sono legalmente accordi politici non vincolanti.

Non è in verità così chiaro se il Presidente possa unilateralmente recedere dal NAFTA e altri accordi di commercio perché questi accordi sono stati codificati da uno statuto. Questo potrebbe sollevare lo scenario “Brexit” dove si è impigliata oggi la Gran Bretagna.

Azioni militari in Siria

Gli Stati Uniti sono impegnati attualmente in una sorta di “conflitto armato” in Siria che non sembra chiaramente confarsi alle categorie della Convenzione di Ginevra perché possa configurarsi come un conflitto armato non internazionale oppure come un conflitto armato internazionale. Sul fronte giuridico domestico, il Congresso degli Stati Uniti non ha specificatamente autorizzato l’azione in Siria, rendendo la sua legalità domestica quantomeno discutibile.

Il Presidente Trump dovrà decidere come inquadrare  il conflitto in Siria secondo il diritto internazionale e secondo il diritto costituzionale americano.

All’analista viene sempre posta una domanda da un milione di dollari che in questo caso potrebbe essere: “Trump cosa farà riguardo alla Siria?“. Qui non si tratta di fare i maghi, ma di guardare i fatti fin qui.

Obama si è approcciato alla Siria considerandolo un conflitto armato non internazionale contro lo “Stato islamico” utilizzando l “Authorization for use of military force against terrorism” del 2001 come strumento di legalità dell’intervento. Trump potrebbe adottare lo stesso approccio avendo appunto questa autorizzazione del Congresso all’uso della forza contro i terroristi.

La questione però necessita di un’attenzione più seria e puntuale da parte dell’amministrazione Trump perché sono molti quelli che sollevano dei seri dubbi che le azioni americane siano legali da un punto di vista di diritto internazionale.

Qui la lezione da trarre, cari lettori è più ampia: le regole giuridiche e i processi contano più di quello che pensate. Un traguardo politico brillante che taglia gli angoli della legge avrà un costo.

Importante! Non esagerare la minaccia che Trump pone alla democrazia americana.

I controlli e i bilanciamenti costruiti nell’architettura costituzionale e istituzionale della nazione sono stati disegnati dai fondatori per contrastare le due minacce che porta in sé Trump: la tirannia e il potere mafioso. Hanno sempre funzionato per correggere gli sbilanciamenti anche se solo temporanei come il mccarthismo o gli eccessi fuori dalla legalità di Nixon oppure oltraggi come il razzismo ed il sessismo.

Non c’è ragione per credere che il sistema di controlli e bilanciamenti non sia aumentato ora, specialmente vista l’alta vigilanza di coloro che sono allarmati da Trump Presidente degli Stati Uniti.

Gennaio 24 2016

Cade il prezzo del petrolio: cosa significa?

prezzo del petrolio

Il prezzo del petrolio non guida solo l’economia, ma anche la geopolitica. Le alleanze crescono e si spezzano per il petrolio. La caduta del prezzo del petrolio avrà un impatto sulla stabilità globale?

Dietro la caduta del prezzo del petrolio c’è un collasso maggiore del prezzo da più di 100 dollari al barile nel 2014 a meno 27 dollari questa settimana. Martedì il Dow Jones era sceso di 250 punti per il timore di cosa succederà se il prezzo del petrolio continuerà a scendere e quali saranno gli effetti al di là dei consumatori, anche al di là del mercato globale. La faccia di molti era pressapoco questa: prezzo del petrolio

I prezzi del petrolio non guidano solo l’economia, ma anche la geopolitica. Le alleanze crescono e si spezzano per il petrolio. Il petrolio costoso sostiene governi in Russia ed in Iran, fornisce stabilità ai paesi del Medio Oriente e offre anche un flusso di entrate per i gruppi estremisti in Nigeria ed in Iraq. Domesticamente, gli alti prezzi del petrolio spronano l’innovazione attraverso l’energia alternativa. Per tutte queste ragioni, il collasso del valore del petrolio avrà profonde conseguenze nel mondo, con il potenziale di destabilizzare regimi, rimodellare regioni e alterare l’economia globale in vie non conosciute che potrebbero essere durature. Il petrolio e gas hanno fatto accumulare almeno 7 bilioni di dollari in fondi di ricchezza sovrani, portfolio finanziari che appartengono a governi in Arabia Saudita, Russia e altre nazioni ricche di petrolio.

L’impatto geopolitico della caduta del prezzo del petrolio

Paesi come l’Arabia Saudita che una volta erano  capaci di manipolare i prezzi con accordi  OPEC, hanno perso questa abilità in parte a causa delle controparti, specialmente quelle che già navigano in brutte acque tipo il Venezuela, oppure perché quelle che sono tornate in auge – l’Iran-, vogliono inseguire quote di mercato estraendo liberamente.
L’impatto politico è presumibile sia più forte tra paesi, specialmente del Golfo Persico, che hanno investito miliardi in programmi sociali e sussidi. I sauditi continueranno a produrre ad alti tassi, non solo per preservare la fetta di mercato e negare agli iraniani ogni eccessivo beneficio dall’annullamento delle sanzioni, ma anche per ridurre gli incentivi per tenere gli impianti di trivellazione operativi, investire in nuovi oleodotti e spendere sull’esplorazione di nuovi terreni. I sauditi si aspettano che, nel tempo, questo interesserà i rifornimenti e porterà il prezzo di nuovo in alto. Nel Medio Oriente il petrolio a basso prezzo già ha forzato la nuova leadership saudita ad accelerare le riforme di cui aveva bisogno da anni: ridurre i sussidi sul gas, tagliare la spesa nelle infrastrutture.

L’impatto economico si è già sentito nel mondo. Negli Stati Uniti l’attività estrattiva ha depresso la produzione industriale, mentre in Canada, l’intera economia è caduta in recessione nel 2015 come risultato dei brusco abbassamento del prezzo del petrolio.

In Russia, che ha bisogno che il prezzo del petrolio a nord sia di 100 dollari al barile, per incontrare queste proiezioni di budget, e fornire una risposta immediata alle difficoltà economiche, si mobilita il sentimento nazionalista con avventure estere, uno dei molteplici motivi per il tuffo di Putin in Siria.

Geopoliticamente, l’impatto del basso prezzo del petrolio è concentrato nel Medio Oriente, dove le strutture politiche sono friabili e basate sul patronage supportato dalla ricchezza petrolifera. Nella regione, inoltre le minacce dirette ed immediate alla sicurezza non sono controbilanciate da processi di riforma economica, sociale o politica utili anche e soprattutto ad indirizzare le sfide che questi regimi devono affrontare al loro interno.

Mentre predire i cambiamenti del prezzo del petrolio a una faccenda da pazzi, oggi la saturazione del petrolio è differente da quella del passato a causa del raddoppiamento della produzione del petrolio di scisto (un petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso mediante processi di pirolisi, idrogenazione o dissoluzione termica. Questi processi convertono la materia organica all’interno della roccia (cherogene) in petrolio e gas sintetico) degli Stati Uniti dal 2009 così come la risposta dell’Arabia Saudita e altri esportatori di petrolio a questa sgradita competizione.

Nel breve termine, l’aver tolto le sanzioni all’Iran sul petrolio non aiuterà. Mentre il prezzo nel range di 20 – 30 dollari al barile erano una volta considerato vantaggioso all’economia e alla borsa valori, oggi non è più così. Il prezzo basso é da considerare come un catalizzatore per la crescita di conflitti globali. Petrolio a basso prezzo si traduce in un enorme perdita di guadagno e in un aumento della povertà, specialmente in Russia, in Brasile e Messico, ma come abbiamo visto anche in Canada.

Dove la stabilità del regime risiede nel classico “patto di petrolio” (cioè, nella fornitura di benefici economici all’elettorato chiave in cambio di supporto politico, o almeno passività), i prezzi bassi creano un mix tossico per le valute deboli, inflazione, crescita del debito, deficit del budget e dei commerci, aumento dei prezzi del cibo, tagli nei servizi essenziali. Questa difficile prognosi tradizionalmente scrive la caduta di governi fragili. In Venezuela, dove c’è già una crisi costituzionale, quest’anno la prevista contrazione economica del 10% precipiterà sulla popolazione estremamente polarizzata in un conflitto civile ancora più intenso. Le forze destabilizzatrici come l’ISIS, per esempio, si finanziano con i guadagni dei pozzi petroliferi in Siria ed Iraq e simili dinamiche caratterizzano anche Boko Haram in Nigeria e gli affiliati di Al Qaeda in Asia Centrale e nel Caucaso.

I guadagni ridotti per i donatori dell’Egitto nel Golfo (Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti) significherà meno aiuti all’Egitto, che economicamente ne ha un bisogno disperato. Quindi significa: guai per il presidente Sisi ed il governo egiziano.

Per l’Iran, i prezzi bassi vogliono dire che la spinta economica dalla fine delle sanzioni sarà molto più piccola di quella che si aspettavano, cosa che potrebbe dare vita ad una protesta politica.

La domanda allora è questa: il basso prezzo del petrolio ucciderà la stabilità globale?

La risposta dipende da come si definisce “stabilità”. In termini politici, uno potrebbe vedere l’instabilità crescere o acuirsi in paesi dove il petrolio gioca un ruolo fiscale grande e sproporzionato. Questo impatto sarebbe sentito più localmente che globalmente e più in paesi con politiche già deboli. Venezuela, Nigeria o altre parti del Medio Oriente.

Pressate dalla caduta del prezzo, economie pesantemente dipendenti dall’idrocarburo come gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Baharain, l’Oman ed il Qatar nei mesi passati hanno iniziato a tagliare sussidi, aumentare il prezzo dei beni fondamentali e del carburante per i consumatori fino al 60%. Se la cinghia si dovesse stringere ulteriormente i cittadini del Golfo, avvezzi al generoso sostegno dei governi, potrebbero non restarsene in silenzio.
Forse più importante è che la consapevolezza dei regimi del golfo del declino del loro potere potrebbe rinforzare una pericolosa minaccia di percezione che spinge alcuni regimi verso un comportamento regionale molto aggressivo.
Stati come la Russia, l’Iran o l’Arabia Saudita in molti casi proiettano instabilità al di là delle loro frontiere, dominati da elite che governano basandosi principalmente su due pilastri: comprare il supporto delle masse e finanziare una politica estera espansionistica, spesso aggressiva che aiuta la legittimazione del regime allontanando la pressione alla democratizzazione.

Ironicamente, una diminuzione della capacità della Russia, dell’Iran o dell’Arabia Saudita di interferire nel loro vicinato, causata dal basso prezzo del petrolio paradossalmente potrebbe dare una mano alla stabilità, ma solamente nel lungo termine. Nel breve termine, invece questi regimi potrebbero essere più aggressivi, visto che le fondamenta del loro potere sono minacciate.

Il gigante cinese ha paura

La Cina, il più grande importatore, non applaude ai prezzi bassi del petrolio. Tuttavia resta vero che il basso prezzo del petrolio potrebbe dire grandi risparmi per la Cina in termini di importazioni di petrolio, ma i prezzi non trasparenti dei prodotti interni di Pechino hanno aumentato il malcontento generale soprattutto quando l’aggiustamento dei prezzi della benzina della Cina non ha seguito i trend internazionali. I cittadini cinesi hanno dimesso la scusa del governo di proteggere l’ambiente, malgrado i livelli di inquinamento dell’aria siano stati per 4 settimane alla fine del 2015 a livello rosso. Il basso prezzo del petrolio ha reso gli investimenti petroliferi d’oltremare della Cina dispendiosi. Nel caso del Venezuela, dove la Cina ha investito miliardi di dollari ed ha ancora decine di miliardi di dollari in prestiti non riscossi, il rischio del regime al governo e degli assetti cinesi si sta accumulando ad un punto preoccupante.