Luglio 21 2019

Il rischioso gioco degli Stati Uniti in Albania

Albania

Qualche giorno fa il consulente giuridico di Donald Trump, Rudy Giuliani, ha partecipato all’incontro annuale del controverso gruppo di opposizione iraniano in Albania.

Ciò dovrebbe far preoccupare se non altro per la fragile e instabile democrazia albanese.

Se l’Albania venisse coinvolta in uno dei conflitti geopolitici più pericolosi al giorno d’oggi, quello che contrappone l’Iran agli Stati Uniti, Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, la tempistica non potrebbe essere la peggiore, visto che il Paese è nel bel mezzo di una dichiarata crisi politica che in alcune occasioni è diventata violenta ed il cui risultato non è ancora chiaro.

Membro della NATO, l’Albania sta anche cercando da anni, senza successo, di entrare nell’Unione Europea; gli odierni disordini allontanano ancora di più tale obiettivo. A peggiorare la situazione è che la circostanza per cui la conflittualità interna ha trasformato l’Albania in un obiettivo invitante per attori maligni che cercano di trarre vantaggi da una nazione distratta e divisa.

Il MEK

Giuliani, assieme ad altre prominenti figure, incluso l’ex senatore americano Joe Lieberman e il conservatore inglese Matthew Offord, hanno dunque partecipato alla conferenza “Free Iran” del gruppo conosciuto  come Organizzazione del popolo mujahedin dell’Iran e Mujahedin-e Khalq ovvero MEK. Gruppo ambiguo impegnato nel rovesciamento del regime teocratico iraniano, il MEK spesso è descritto come un culto e utilizzato per essere classificato dal Dipartimento di Stato americano come un’organizzazione terrorista.

Al momento i sostenitori principali del MEK lavorano per Trump e la sua amministrazione, collocando l’Albania nel bel mezzo del dossier iraniano. Forse il più grande sostenitore del MEK è John Bolton il consulente di sicurezza nazionale di Trump, il quale desidera che il MEK governi l’Iran.

Il MEK ha una storia strana e controversa. Esso è emerso come organizzazione marxista- islamista e milizia in Iran negli anni 1960 ed era devotamente anti-americano. Uccide i membri della polizia dello Scià e riveste un ruolo chiave nella sua caduta durante gli anni della rivoluzione del 1979. Tuttavia a seguito di aspre discussioni con le nuove autorità islamiche al potere viene esiliato dal Paese agli inizi degli anni 1980. Quando l’Iraq di Saddam Hussein entra in guerra contro l’Iran, il MEK – adesso opposto fervidamente alla Repubblica islamica dell’Iran – si schiera a fianco di Baghdad e finisce per costruire una base di operazioni in Iraq vicino alla frontiera con l’Iran, da cui conduce attacchi all’interno dell’Iran.

Quando le forze americane invadono l’Iraq e depongono Saddam nel 2003 il gruppo era ancora nel Paese; all’aumento vertiginoso del caos, gli agenti iraniani iniziano ad avere come obiettivo il MEK.

Obama e l’accordo per ricollocare i membri del MEK in Albania

L’amministrazione Obama rimuove l’organizzazione dalla lista di gruppi terroristi del Dipartimento di Stato nel 2012 e dopo una lunga e dispendiosa campagna di lobby a Washington da parte del MEK e dei suoi simpatizzanti, si conclude un accordo per ricollocare alcuni dei 3000 membri del MEK in Albania, un Paese entusiasta di mantenere forti legami con gli Stati Uniti.

Da quando si trasferisce in Albania, il MEK riceve minore attenzione internazionale, ma tutto cambia con l’amministrazione Trump. Figure chiavi di tale amministrazione sostengono il gruppo, alcuni come donatori, altri per convinzioni ideologiche: Bolton e Giuliani, in particolare, hanno promosso il gruppo come legittimo governo in esilio che dovrà sostituire la Repubblica islamica, anche se questo gruppo all’interno dell’Iran gode di poco sostegno.

I riflettori dell’amministrazione Trump puntati sul MEK senza dubbio attirano l’attenzione di Teheran come momento politico pericoloso in Albania.

La crisi politica in Albania

Il governo albanese è piombato nella crisi agli inizi di quest’anno quando i partiti di opposizione si sono ritirati dal Parlamento e hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro Edi Rama, accusandolo di corruzione, di manovre elettorali e di legami con il crimine organizzato.
La corruzione è endemica in Albania dalla fine del governo comunista, ma Rama gode del sostegno degli Stati Uniti e di molti Stati dell’Unione Europea.

La crescita della visibilità del MEK nel quadro della contrapposizione tra Trump e l’Iran potrebbe rendere l’Albania più vulnerabile che mai ad intromissioni esterne.

Le tensioni a Tirana si sono verificate lo scorso mese, dopo che un giornale tedesco, il Bild, pubblica delle conversazioni, parte di intercettazioni disposte dai magistrati che indicano che Rama ed il partito socialista  tramano con i gruppi criminali per manipolare le elezioni nel 2016. Sia Rama che il suo partito negano tali fatti. Tuttavia i suoi oppositori scendono in strada e ne derivano dei feroci scontri con i manifestanti che lanciano le bottiglie molotov e la polizia che risponde con i cannoni ad acqua.

La situazione si deteriora ulteriormente quando l’opposizione dichiara che avrebbe boicottato le elezioni comunali di giugno. Il Presidente Ilir Meta annuncia che avrebbe cancellato il voto riprogrammandolo per ottobre, affermando che senza l’opposizione le elezioni non sarebbero state democratiche.
Il partito di Rama, invece si rifiuta di accettare la mossa del Presidente e asserisce che avrebbe iniziato le procedure di messa in stato d’accusa del Presidente. Quindi si è proceduto con il voto. La partecipazione elettorale si rivela essere minima. Mentre i vincitori delle elezioni sono pronti a prendere il loro posto, alcuni sindaci uscenti si rifiutano di lasciare il loro ufficio.

La scena politica albanese rimane turbolenta, carica di tensione e di teorie di cospirazione. Meta accusa Rama di essere uno strumento del “deep State” (un termine che si riferisce ad una sorta di Stato ombra) e che lavora assieme al filantropo miliardario George Soros per destabilizzare l’Albania e ristabilire una dittatura che includa il Kosovo.

In questo scenario tuttavia vi è una scadenza incombente per l’Albania: ad ottobre il Consiglio Europeo prenderà la decisione in merito all’inizio formale dei colloqui di adesione con l’Albania.

Gli scontri urbani, gli insulti e le teorie di cospirazione sembrano essere a sostegno della visione degli scettici per cui  la democrazia albanese non è matura o abbastanza stabile per entrare nell’Unione Europea.

Se questo non fosse grave abbastanza, le complicazioni con l’Iran potrebbero fermentare nell’area della campagna albanese dove si trova il MEK, accrescendo i rischi di interferenza iraniana.

L’Iran registra un ben noto record nello scovare e assassinare dissidenti nel Medio Oriente e in Europa.

L’obiettivo del MEK resta il rovesciamento del regime iraniano, sebbene ora asserisca di aver rinunciato alla violenza.

Il potenziale per una nuova crisi in Europa e all’interno della NATO, con al centro l’Albania, è molto reale.

Febbraio 6 2019

Il petrolio àncora di salvezza del Venezuela?

Venezuela

Si stima che 3 milioni di venezuelani siano scappati nei Paesi vicini e molti altri li seguiranno.

Lo scorso autunno la Federazione Farmaceutica del Venezuela ha stimato che solo il 20% delle medicine necessarie sono disponibili; la Federazione Medica riferisce che circa 1/3 dei medici venezuelani ha lasciato il Paese. Il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dell’età di 5 anni è simile a quello che si registra in Siria, Paese, quest’ultimo, dilaniato da una guerra civile da almeno 8 anni. Più di 1 bambino su 10 soffre di acuta malnutrizione, circostanza che può avere conseguenze per la vita in termini di sviluppo fisico e mentale.

Juan Guaido che si è dichiarato Presidente ad interim lo scorso mese, sta cercando di convincere le forze di sicurezza del Venezuela che Maduro deve andare via.
Guaido asserisce che la ri-elezione di Maduro, lo scorso anno, è illegittima e che il suo incarico sia terminato i primi di gennaio.

Le sanzioni dell’amministrazione Trump

Dopo aver rapidamente riconosciuto la legittimità di Guaido, l’amministrazione Trump ha colpito il regime di Maduro imponendo sanzioni per schiacciare le esportazioni di petrolio del Venezuela: congelamento degli assetti  negli Stati Uniti della compagnia petrolifera di cui è proprietaria lo Stato del Venezuela: PDVSA; divieto per entità degli Stati Uniti di condurre affari con essa.

Se, come è presumibile, questo tipo di sanzioni, in particolare al settore petrolifero, accelereranno la caduta decisiva di Maduro, non avranno con tutta probabilità l’effetto di far uscire il Venezuela dalla palude in cui si trova.

Innanzitutto visto che PDVSA è paralizzata dai debiti, il settore privato dovrà dare conto per la vasta maggioranza dell’aumento della produzione petrolifera. La compagnia petrolifera statale ha un debito pari a 34,6 miliardi di dollari. Da quando Hugo Chavez è stato eletto presidente nel 1999, la produzione del PDVSA è caduta di 2/3. La produzione del settore privato ha relativamente attraversato la tempesta, rimanendo per la maggior parte costante dal 2006 al 2017 dopo una decade di iniziale, rapida, crescita.

Per riportare l’industria petrolifera in piedi, suoi propri piedi, gli esperti stimano che ci sia bisogno di investimenti pari a circa 20 miliardi di dollari all’anno, per tutto: dall’esplorazione petrolifera alla produzione, raffinazione e distribuzione.

Inoltre, le sanzioni non serviranno a molto, dal momento che la corruzione è radicata in Venezuela ed il Paese è imbrigliato dai debiti che Maduro ha contratto principalmente per salvare se stesso.

Maduro dipende dai guadagni del petrolio per mantenere i militari e i suoi sostenitori suoi alleati ed ha ipotecato il futuro del Paese sottoscrivendo accordi finanziari a dir poco disperati con la Cina e la Russia.

Le esportazioni di petrolio verso la Cina, per la maggior parte, servono a ripagare i miliardi di dollari dei prestiti cinesi che Maduro ha chiesto quando i mercati internazionali finanziari gli hanno voltato le spalle. Il gigante energetico russo Rosneft ha fornito miliardi di prestiti in cambio di partecipazioni nell’industria petrolifera venezuelana. I ricavi di questi accordi hanno tenuto Maduro al potere.

La Cina e la Russia è inverosimile che vengano pienamente ripagate. Un futuro governo legittimo a Caracas potrebbe tuttavia essere bloccato da questi accordi perché i costi di indebitamento sarebbero più alti se li rigettasse.

Le sanzioni al settore petrolifero imposte da Trump presumibilmente accelereranno la caduta di Maduro, tuttavia è necessario rilevare che se fossero state imposte delle sanzioni preventive in risposta ai contratti e accordi scellerati stipulati da Maduro, quando era già chiara la strada verso il disastro che stava percorrendo il Venezuela, si sarebbero potuti proteggere i venezuelani almeno dai costi dei debiti che si ripercuoteranno su di loro.

Il settore petrolifero come àncora di salvezza?

Il Venezuela ha le riserve petrolifere – verificate – più grandi al mondo.

Anche se Guaido o un’altra figura dell’opposizione alla fine prendessero in mano le redini del Paese e iniziassero a sanare il settore petrolifero, ci vorranno anni prima che le esportazioni petrolifere potranno fornire la spinta economica di cui ha bisogno il Venezuela per uscire dalla palude.
L’industria petrolifera venezuelana è stata seriamente danneggiata e vi sono persino degli interrogativi a proposito della sostenibilità economica di lungo-termine dei suoi giacimenti petroliferi.

La legge sugli idrocarburi progettata da Guaido permetterebbe una maggioranza privata dei progetti, termini fiscali competitivi e la creazione di un organo regolatore indipendente che condurrebbe gare per assegnare i giacimenti petroliferi. Va registrato che questo tipo di azioni sono attività standard per questo tipo di industria a livello mondiale per attrarre investimenti privati.

Il furto di materiale petrolifero, dai cavi ai computer, da parte del crimine organizzato è diventato un problema costoso. Ogni investimento in equipaggiamenti, presumibilmente, dovrà essere accompagnato da importanti risorse in personale di sicurezza, aggiungendo costi alle imprese che vogliono operare nel Paese.

Le riserve di capitale umano del Venezuela sono state anch’esse devastate dalla crisi economica. Imprese petrolifere internazionali dovranno sperare che i lavoratori venezuelani del settore petrolifero che hanno lasciato il Paese, tornino quando la situazione si stabilizzerà – una prospettiva sempre più improbabile dal momento che il tempo passa e con esso l’età degli ex lavoratori PDVSA – o saranno costrette a reclutare, rilocare lavoratori a livello internazionale.

Non è chiaro se la domanda per  “greggio pesante” extra del Venezuela si sosterrà per la prossima decade o due.

Il mercato di punta per le esportazioni del Venezuela è quello degli Stati Uniti dove la nuova capacità di raffinazione è rivolta alla lavorazione del “petrolio leggero” che è prodotto a livello locale dalle vaste riserve di scisto in Texas e da altri Stati. La conquista di Citgo, la raffineria PDVSA situata negli Stati Uniti, da parte dei suoi creditori rimane una grande minaccia per il settore petrolifero venezuelano e priverebbe PDVSA del suo accesso garantito ai sistemi di raffinazione e distribuzione degli Stati Uniti. Inoltre, alcune imprese petrolifere internazionali, sotto pressione a causa dei cambiamenti climatici, potrebbero diminuire le occasioni di investimento in “petrolio pesante”, che emette più gas serra a causa delle grandi necessità di energia ed emissioni associate con l’estrazione da riserve non convenzionali.

Ogni futuro leader del Venezuela deve essere in grado di gestire le aspettative e preparare i cittadini per una lenta ripresa. Il petrolio potrebbe sembrare  un àncora di salvezza, ma il  risveglio dell’industria petrolifera dipenderà da come il governo e l’industria stessa affronteranno i portatori di altre sfide.

Luglio 10 2018

Sahel: tante missioni = nessuna stabilità

Sahel

Il SahelSahel è diventato un mosaico, complesso, di operazioni di peacekeeping e contro-terrorismo.

I peacekeeper delle Nazioni Unite pattugliano il Mali, dove le truppe francesi sono anche a caccia di cellule legate ad Al Qaeda. Parigi ha anche sostenuto le forze africane di stabilizzazione per contenere i jihadisti nella Regione.

La Cina  ha dispiegato dei peacekeeper in Mali, peraltro subendo anche delle vittime.Vi ricordate il  recente viaggio di Macron a Pechino dove ha tentato di apporre pressione per più finanziamenti cinesi alle operazioni africane?

Lo scorso anno, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sborsato circa 130 milioni di dollari per aiutare i governi del Sahel in una nuova missione di contro-terrorismo multilaterale: il G5 Sahel.

Il Sahel sembra un laboratorio per una nuova era di gestione della crisi, con una vasta gamma di poteri locali, occidentali e non-occidentali posizionati piuttosto a casaccio che mettono assieme le loro risorse per promuovere la stabilità.
Tutti questi attori esterni hanno delle buone ragioni per farlo.

Mentre gli Stati Uniti si agitano per i terroristi, gli europei si preoccupano molto per i flussi di rifugiati.

La Cina – ebbene si ancora lei – ha compiuto grandi investimenti nel Mali.

Tutti vogliono limitare i costi di controllo della Regione, che non è un punto geopolitico cruciale e di possibile implosione al pari della Siria o della Penisola Coreana.

Il risultato netto è la proliferazione di sforzi militari di contro-terrorismo e di stabilizzazione connessi in maniera lasca.

Anche missioni individuali come il G5 Sahel possono risultare abbastanza incoerenti, coordinando eserciti con qualità differenti i cui leader hanno differenti priorità di sicurezza.

L’odierna miscela di missioni di gestione di crisi nel Sahel potrebbe essere sufficiente a limitare i problemi della Regione, ma sicuramente è improbabile che assicuri una più ampia stabilità.

Un tale tipo di approccio è relativamente flessibile e sostenibile, ma ha dei chiari limiti, perché alcune missioni nel Sahel potrebbero mettere benzina sul fuoco; oltre che è chiaro che sia la rappresentazione di risposte semplicistiche a problemi complessi.

Manca una direzione strategica complessiva.

La mancanza di risorse è un problema ricorrente per le operazioni nella Regione. Le unità occidentali potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno, ma le forze locali no. La missione delle Nazioni Unite in Mali conta su unità africane equipaggiate scarsamente, molte delle quali non hanno neanche veicoli corazzati.  La forza sostenuta dall’Unione Africana creata per combattere Boko Haram ha impiegato più di un anno per acquisire l’equipaggiamento militare finanziato dall’Unione Europea.
Queste missioni inoltre mancano di una chiara direzione politica, concentrandosi su misure di breve termine per creare la stabilità ed eliminare i terroristi piuttosto che affrontare le radici profonde di tensioni economiche e sociali.

Il G5 Sahel, secondo l’International Crisis Group rischia di spingere più persone nelle braccia di gruppi armati attraverso la frequente condotta inappropriata e gli abusi contro i civili durante le operazioni o mentre cercano di frenare i traffici illeciti.

Qualche settimana fa i militanti islamisti hanno attaccato la città di Sevare, in Mali, nella base del G5 Sahel, uccidendo molti soldati. Questo attacco e altri colpi messi a segno hanno avuto come obiettivo i soldati maliani e francesi e sono stati rivendicati da un affiliato di Al Qaeda conosciuto con il suo acronimo JNIM.

Le varie sfide che deve affrontare il G5 Sahel non sono destinate a scomparire nell’immediato futuro; i gruppi militanti in Mali, ad esempio, incrementeranno gli attacchi in vista delle elezioni presidenziali nel Paese previste per il 29 luglio.

Il futuro del peacemaking e della gestione delle crisi protratte

Il Sahel non offre un esempio luminoso di come affrontare crisi protratte, ma il futuro del peacemaking è incline a coinvolgere esattamente la sorta di confusione, complessità e indefinitezza internazionale che sta emergendo ora.

I conflitti odierni in Siria, Iraq e Yemen presumibilmente non si concluderanno con una chiara composizione politica regionale e un quadro di pace sostenibile. Attori esterni e regionali potrebbero facilmente finire con il mantenere l’ordine e combattere i jihadisti attraverso una mescolanza fangosa di missioni di stabilizzazione e operazioni di contro-terrorismo, qualche volta cooperando, qualche volta scontrandosi.

Gli interessi geopolitici in tale scenario potrebbero essere più elevati e le risorse militari più grandi che in Mali o in Niger, ma potrebbe essere la migliore opzione disponibile per il Medio Oriente.

La gestione della crisi – protratta –  nel Sahel è incline ad essere un affare indefinito, con attori esterni che investono solo in termini di denaro e assetti militari per contenere i gruppi jihadisti e restringere grandi movimenti di rifugiati e migranti.

Il futuro della gestione della crisi risiede più in ampie coalizioni di Stati dall’utilizzo immediato, che mettono assieme differenti assetti su basi ad hoc con strutture di comando decentralizzate.

Luglio 5 2017

Rifugiati: occhi chiusi per 6 anni e poi la colpa è del maggiordomo

rifugiati

I numeri sono questi:

65.6 milioni di persone nel mondo sono state dislocate forzosamente alla fine del 2016, di questi 40.3 milioni dislocate all’interno dei loro stessi paesi, mentre 22,5 milioni hanno varcato frontiere internazionali come rifugiati. Un ulteriore 2,8 milioni sono richiedenti asilo.

Un campo rifugiati può essere molto utile quando le persone immediatamente abbandonano la guerra o la persecuzione. È un modo per fornire cibo, vestiti e riparo. Ma la tragedia è che queste persone restano bloccate in un limbo per molti molti anni.
Oggi, circa il 54% dei rifugiati nel mondo sono in quelle che vengono definite situazioni di rifugiati protratte. Sono state in esilio per almeno 5 anni. Secondo le Nazioni Unite, la media di durata di un un esilio è di 26 anni.

Dalla prospettiva di un rifugiato, il sistema internazionale dei rifugiati di fatto dispone di tre opzioni.

  • La prima è di andare in un campo, dove usualmente non lavori. E sì, hai un grado di assistenza umanitaria, ma la tua vita è messa in attesa. E comprensibilmente, una proporzione in diminuzione di rifugiati intraprende questa opzione. Circa il 10% dei siriani, per esempio sono nei campi di rifugiati.
  • L’opzione due è spostarsi in un’area urbana. Oggi i rifugiati sono  in aree urbane che in altri posti. Circa più del 50% sono nelle città. Ma la sfida nelle città è che i rifugiati spesso non hanno il diritto di lavorare e spesso non hanno alcuna assistenza umanitaria.
  • La terza opzione è di imbarcarsi in pericolosi viaggi in Europa.

Queste opzioni sono scelte impossibili.

Un modello di sviluppo economico realizzato da rifugiati insieme ai cittadini della nazione che li ospita

Il governo inglese ha aperto la strada a questo tipo di modello con un’iniziativa per la Giordania chiamata “Jordan Compact” che è iniziata nel febbraio del 2016 al summit di Londra per la Siria.

Le basi di questo modello: il sostegno ad opportunità di lavoro simultaneamente per i rifugiati siriani e per i cittadini giordani in parte attraverso l’autorizzazione ad entrambi a lavorare nelle zone economiche speciali. Il governo inglese ha incoraggiato l’Unione Europea a fornire un segmento nel commercio a 52 categorie di prodotti per compagnie manifatturiere che operano in 18 zone economiche speciali che impiegano una certa proporzione di rifugiati siriani. Un certo numero di aziende siriane, che precedentemente operavano in Siria, stanno impiegando rifugiati siriani e cittadini giordani, dando loro accesso a permessi di lavoro assegnati in modo conveniente dal governo, che fornisce accesso alla sicurezza sociale, un salario minimo e protezione dei diritti dei lavoratori.
Quello che manca a questo progetto, al momento, è un sufficiente investimento da parte di imprese multinazionali e di imprese in Europa preparate a lavorare con queste imprese che permetterebbe un modello di crescita industriale. Il governo della Giordania e i maggiori donatori si sono impegnati a creare 200,000 posti di lavoro per i siriani dai 3 ai 5 anni. Fin’ora i permessi di lavoro sono stati concessi a 51,000 persone in solo un anno o poco più. Sebbene sia un grande passo in avanti è necessario un investimento che raggiunga il livello di sostenibilità che permetta alla Giordania, che deve affrontare grandissime sfide di sviluppo e sicurezza, di convincere il suo elettorato che la presenza di rifugiati può essere un beneficio per la società giordana e per la sua economia.

La noncuranza dell’Unione Europea rispetto ai conflitti e alle crisi nei paesi al di là del mare

È molto interessante che i movimenti dei rifugiati siriani siano iniziati intorno al 2011 e fino all’ottobre del 2014 quasi tutti i siriani sono rimasti nei paesi vicini. Ma intorno ad ottobre 2014, tutti e tre i paesi ospitanti: Turchia, Libano e Giordania, hanno introdotto restrizioni. Queste ultime e la riduzione dell’assistenza umanitaria in questi paesi ha fatto sì che per i rifugiati diventasse molto più necessario muoversi altrove o imbarcarsi in pericolosi viaggi.

Questo era evitabile.

Se i paesi europei non avessero incrociato le braccia, chiuso gli occhi e non si fossero letteralmente girate dall’altra parte e fatto così poco per aiutare questi tre paesi, si sarebbero create molte più opportunità rispetto ad oggi, opportunità per i rifugiati insieme al sostegno per i paesi ospitanti.

Del resto le politiche UE sull’asilo e l’immigrazione sono state fangose fin dall’inizio della così detta “crisi dei rifugiati” e gli stati membri continuano ad avere difficoltà nel trovare una azione collettiva sostenibile. Ovviamente è corretto che i paesi europei e i loro elettorati siano preoccupati di una migrazione irregolare non gestita, ma hanno responsabilità quando si tratta di protezione dei rifugiati.
Molte delle odierne politiche riguardano la costruzione di muri de facto e la creazione di partneriati puramente con l’obiettivo di controllare l’immigrazione. Così molti di questi partneriati con paesi terzi in Africa, Sudan Niger e Libia, per esempio, sono con regimi che hanno realmente gravi problemi con i diritti umani e che sono progettate per implementare restrizioni alla mobilità e nessuna opzione per la riammissione di migranti economici. Questa è una strada insostenibile per gestire questo movimento di persone. Se realmente vogliamo aiutare i rifugiati e fermarli nei viaggi verso l’Europa, dobbiamo creare ancore. Noi dovremmo creare ragioni per cui le persone scelgono di restare nelle loro regioni e questo vuol dire creare opportunità sostenibili per una protezione effettiva, accesso ai diritti umani ma anche opportunità socio-economiche.

Ottobre 29 2016

Venezuela: verso l’abisso dell’autoritarismo

Venezuela

Venezuela: sempre di più nell’abisso dell’autoritarismo. La resistenza civile potrebbe essere una soluzione se sostenuta dalla comunità internazionale.

Venezuela: la situazione politica

Il Presidente Maduro ed il suo governo socialista stanno muovendo costantemente il paese verso l’abisso. Sebbene Maduro sia stato eletto con voto popolare nel 2013 il sistema di governo del Venezuela non può più, ragionevolmente, essere denominato “democrazia”.

La scorsa settimana il Consiglio nazionale elettorale ha ordinato all’opposizione di fermare la pressione per il referendum popolare sul governo Maduro. L’opposizione si è adoperata con grande fatica nell’ottemperare a tutti gli stringenti requisiti necessari per indire il referendum, disposizioni contenute nella Costituzione del Venezuela che però fu scritta sotto la stretta supervisione di Chavez.

Nel momento in cui l’opposizione si prepara a lanciare la campagna per le firme di massa, le autorità elettorali dichiarano di aver riscontrato irregolarità e fermano l’intero processo. Questo vuol dire che il partito unito socialista di Maduro (PSUV) resterà al potere fino alla fine  del 2019.

Se il referendum venisse tenuto prima del 10 gennaio e Maduro perdesse, si dovrebbero tenere delle nuove elezioni immediatamente. Se invece si tenesse dopo questa data, la costituzione delega il vice presidente a portare a termine il mandato che appunto scade nel 2019.

Con il paese che affonda sempre più nella disperazione, l’opposizione ha aggrappato le sue speranze alle disposizioni costituzionali che permettono, per plebiscito, di rimuovere un presidente eletto. Quando il Consiglio elettorale ha frantumato le speranze sul plebiscito, l’opposizione si è riunita in una sessione d’emergenza e ha dichiarato che Maduro ha condotto un coup d’état, accusandolo di aver distrutto l’ordine costituzionale in un assalto contro “la costituzione e il popolo venezuelano”. Quindi ha stabilito di lanciare il procedimento di messa in stato d’accusa contro di lui.
A questo punto il governo dichiara che è stata l’Assemblea Nazionale ad aver condotto il coup, cercando di far decadere il presidente legittimo del paese.

Nel momento in cui l’Assemblea dibatteva la messa in stato d’accusa del Presidente, i militari dichiarano di stare a fianco di Maduro. Tutto ciò non è una sorpresa dal momento che Maduro e prima di lui, Chavez, si sono assicurati che le fila dei militari fossero riempite da loro fedelissimi.

Il governo ha preso il controllo di praticamente tutte le istituzioni, mentre la Suprema Corte, dominata dai socialisti ha fatto diventare l’Assemblea Nazionale un apparato simbolico, per il quale ogni disputa di grande importanza in chiave elettorale diventa un oltraggio alla Corte.

Maduro, inoltre, ha assunto i poteri d’emergenza che gli permettono di aggirare la legislatura, infatti recentemente ha unilateralmente promulgato un nuovo budget nazionale.

I venezuelani si riversano nelle strade come hanno fatto anche il 26 ottobre, ma il governo risponde con misure che esacerbano le tensioni rendendo una pacifica soluzione politica sempre più difficile.

Venezuela: la vasta crisi umanitaria

La crisi che assume un carattere sempre più nefasto travolge i venezuelani in una rapida spirale economica che ha già devastato le condizioni di vita dei cittadini creando una vera e propria crisi umanitaria di larga scala.

Il tasso di povertà in Venezuela è salito al 75% della popolazione; la povertà è cresciuta di pari passo con il deterioramento economico e sociale.

Il crimine è balzato alle stelle e milioni di persone sono affamate per la mancanza di cibo, medicine e di ogni prodotto immaginabile.

Secondo Human Right Watch il Venezuela è nel mezzo di una profonda crisi umanitaria peggiorata da un risposta del governo inadeguata e repressiva.
Il Fondo Monetario Internazionale predice che l’economia si contrarrà per un altro 10% quest’anno, con un’inflazione al 475% che quadruplicherà l’anno prossimo.

Malgrado molti osservatori sono d’accordo nel ritenere che la principale causa del collasso economico siano le politiche economiche errate, l’inettitudine manageriale e la corruzione, Maduro continua a dare la colpa al “complotto capitalista”.

Venezuela: il dialogo è la via di uscita dalla crisi?

La crisi in Venezuela ha creato allarme tra i paesi vicini e gli osservatori. Lunedì scorso, dopo le pressioni di Papa Francesco, Maduro ha dichiarato di essere d’accordo nel tenere colloqui con l’opposizione. Tuttavia ci sono flebili speranze che ciò accada e che produrrà risultati.

Per i governi vicini in particolare, il dialogo è ancora visto come la migliore via per tentare di risolvere la crisi venezuelana. L‘Unione delle Nazioni sud americane ha sponsorizzato uno sforzo di mediazione da parte degli ex presidenti di Panama (Martin Torrijos), della Repubblica domenicana (Leonel Fernandez) e l’ex primo ministro spagnolo (José Luis Zapatero). Papa Francesco ha intrapreso un ruolo prominente nel processo di dialogo, annunciando un nuovo inviato della Santa Sede l’arcivescono Emil Paul Tscherrig in Venezuela. La Santa Sede ha il vantaggio di essere uno dei pochi attori esteri che gode del rispetto sia del governo venezuelano che dell’opposizione. Persino l’Argentina, il Brasile, la Colombia ed il Messico sempre più critici per la deriva non democratica del paese ritengono che la migliore soluzione sia il dialogo.

Non è chiaro se ci sia qualcosa che il governo voglia discutere

Le recenti decisioni di sospendere la richiesta di referendum e le elezioni dei governatorati sono state pessime scelte per il governo. Per cui andare incontro alle richieste dell’opposizione, come il rilascio dei prigionieri politici o riconoscere i diritti costituzionali e le prerogative della legislatura sembra piuttosto improbabile.

Le proteste contro il regime del 26 ottobre hanno incontrato l’ampia repressione (fuori dalla capitale Caracas) della polizia e della Guardia Nazionale che hanno lavorato insieme con organizzazioni informali paramilitari chaviste conosciute come colectivos.

Interessante che il regime abbia deciso di aumentare il suo braccio repressivo affidandosi ai paramilitari piuttosto che all’esercito regolare; conseguenza delle latenti spaccature all’interno delle forze armate venezuelane.

Fondamentalmente, Maduro e il suo circolo non possono rischiare negoziazioni che potrebbero condurre alle elezioni come programmato originariamente che quasi certamente perderebbero.

Perdere il referendum, qualora si dovesse tenere entro quest’anno, vorrebbe dire nuove elezioni presidenziali, con il rischio che funzionari del regime coinvolti in corruzione, traffico di droga e abusi dei diritti umani siano resi responsabili di tali crimini.

Svolgere le elezioni nei governatorati vuol dire per Maduro un altro rischio per se stesso. Ad oggi, la maggioranza dei governatori in Venezuela provengono dal suo partito politico e sono la chiave per mantenere il potere del regime ed eseguire i suoi piani. Le elezioni quasi certamente rovescerebbero questa situazione ed il trasferimento di molte istituzioni a livello statale nelle mani dell’opposizione.

Resta difficile cogliere la ragione per cui il regime di Maduro dovrebbere correre il rischio di perdere l’impunità di cui gode oggi per impegnarsi in un dialogo significativo o permettere le elezioni.

Sono molto abili nel ponderare il rischio di permettere che istituzioni democratiche funzionino (presumibilmente conducendole a perdere potere) contro il costo di imporre un regime autoritario; costo, al momento, non molto alto per il regime, ma sempre più mortale per i venezuelani.

Ciò vuol dire che l’opposizione ha bisogno di incrementare i costi del regime nella sua odierna traiettoria autoritaria.

La resistenza civile

Nel libro: “Why Civil Resistance Works: the Strategic Logic of Nonviolent Conflict” di Erica Chenoweth e Maria J. Stephan (Columbia University Press) si afferma che le campagne di resistenza attiva sono più efficaci quando attraggono il supporto di massa, quando producono delle defezioni all’interno del regime al potere, quando coordinano l’uso di tattiche variegate e flessibili per aumentare la pressione sulla dittatura.

L’opposizione in Venezuela

Organizzata sotto il nome di Tavola rotonda di unità democratica (Mesa de Unidad Democrática – MUD) è stata in grado di riunire un grande numero di manifestanti. Tuttavia non è in grado di porre pressione sui servizi di sicurezza o indurre membri del governo a riconsiderare il loro sostegno a Maduro. Il MUD detiene il 54% del supporto tra i venezuelani, ma la sua unità è messa spesso a dura prova da disaccordi sulla strategia.

Che fare?

La società civile e politica potrebbe iniziare ad incrementare il sostegno alla resistenza civile dell’opposizione. Ciò include la fornitura di consulenti, incoraggiarli a sviluppare una campagna sostenibile. (Negli anni ’70 questo sostegno fu cruciale e potrebbe rivelarsi ancora tale).

Gli Stati potrebbero continuare ad alzare i costi, dove possibile, per l’amministrazione Maduro e i suoi sostenitori nel governo e nei servizi di sicurezza per il comportamento repressivo. Sanzioni precise, azioni penali, congelamento dei beni. L’azione diplomatica degli Stati di condanna alla deriva autoritaria del Venezuela è diminuita fortemente.

Una campagna di resistenza civile prolungata da parte dell’opposizione ed il sostegno internazionale dovrebbero cambiare l’equazione costi/benefici del regime di Maduro nel portare avanti l’attuale strategia. Fondamentalmente il cambiamento in Venezuela arriverà dall’interno.

È utile tenere a mente che le campagne civili di resistenza sono spesso lunghe e difficili: trascorsero 8 anni dalla fondazione del movimento Solidarność che portò dalla transizione alla democrazia in Polonia nel 1989.

Senza l’alterazione dell’equazione costi – benefici per il regime, è improbabile che il dialogo in Venezuela generi risultati significativi.

 

Settembre 4 2015

La crisi dei migranti in Europa: non esiste

L’afflusso dei migranti in Europa nel 2015 è dello 0.068% della popolazione europea. Esiste la crisi politica dell’Unione Europea dovuta all’incapacità di gestione dell’afflusso dei migranti da parte dei politicanti nostrani ed europei.

La retorica apocalittica, la foto di corpi alla deriva, di bimbi morti, ha preso la mano a molti, soprattutto ai populisti, ai giornalisti in cerca di un momento di gloria. Ignoranti, nel senso che ignorano se veramente esiste una crisi di migranti. Dopo aver pubblicato su facebook, su twitter, la foto del piccolo Aylan Kurdi e commentato con frasi strappa lacrime, vi siete chiesti se questa crisi esiste davvero?  Esiste solo una crisi politica e basta!

I numeri ci suggeriscono che molti dei migranti in Europa provengono da Afghanistan, Iraq, Siria, Somalia ed Eritrea. Un flusso che è più simile ad una goccia nella terra  che dovrebbe assorbirla. La popolazione europea è di circa 500 milioni, l’ultima stima del numero di coloro che entrano attraverso mezzi illegali in Europa (quest’anno), via Mediterraneo o Balcani, è approssimativamente di 340.000. In altre parole l’afflusso di quest’anno è solo dello 0.068 % della popolazione europea. Facciamo un parallelo: gli Stati Uniti. Popolazione di 320 milioni, ha qualcosa come 11 milioni di immigrati senza documenti, circa il 3,5 % della popolazione. Per contro, l’Unione Europea (UE) ha tra 1.9 e 3.8 milioni si immigrati senza documenti  (dati 2008  gli ultimi disponibili, secondo uno studio sponsorizzato dalla Commissione Europea), meno dell’1% della sua popolazione.

Quindi perché questo panico in Europa? Molti paesi europei affrontano un profondo problema di calo delle nascite, con pochi giovani lavoratori a cui è chiesto di supportare troppi pensionati. Un afflusso di persone con una provata perseveranza sembrano fornire un’ iniezione di energia di cui l’Europea sinceramente ne ha bisogno. Ci sono diversi argomenti che fomentano il populismo della crisi dei migranti in Europa. Parlano (impropriamente) di “terrorismo”.  I gruppi estremisti ci hanno ampiamente dimostrato che sono capaci da soli e anche parecchio bene, di inviare i loro affiliati/seguaci in Europa o addirittura di reclutarli direttamente in Europa attraverso mezzi molto più convenzionali. Come nessun rifugiato sarebbe così coraggioso da attraversare il mediterraneo o negoziare una via di terra attraverso i Balcani se ci fosse stata un’alternativa disponibile, queste rotte sono del tutto improbabili come miglior passaggio per gruppi che godono di ingenti finanziamenti.

Cultura. Molti europei hanno paura che l’afflusso di stranieri mini la loro “confortevole cultura”. Ricerche ci suggeriscono che questo è il maggior argomento di cui si servono i partiti populisti in molti paesi Europei. In Francia hanno Marine Le Pen, in Olanda Geert Wilders, noi Matteo Salvini, la Repubblica Ceca Milos Zeman, il partito UKIP in Gran Bretagna. Paura che viene accentuata dalla grande “Europa Cristiana” contrapposta alla religione musulmana: Polonia, Bulgaria e Slovacchia hanno espresso una forte preferenza per soli rifugiati cristiani.

È una sfida politica, che richiede una leadership politica, non è una questione della capacità di assorbire i recenti immigrati. Dovrebbero ricordarsi quando altri hanno risposto generosamente durante la Seconda Guerra Mondiale, quando molti europei vittime di persecuzione sono diventati rifugiati. L’UE ha fallito nella responsabilità di gestione delle crisi e il suo Common Security and Defence Policy è solo un enorme distributore di fumo dietro il quale soldi e consulenze sostituiscono un pronto, deciso e robusto intervento nelle aree di crisi. Si sono seduti nelle loro confortevoli sedie e hanno aspettato che qualcun’altro facesse qualcosa. Gli stati membri dell’UE pagano i 2/5 del budget delle missioni di peacekeeping; la European Commision African Peace Facility è stata una fonte cruciale per il finanziamento delle missioni dell’Unione Africana negli ultimi 10 anni, fornendo circa 1 miliardo di euro principalmente per Darfur e Somalia. Pianificano sì, quanto so bravi a fare i Joint Plan UE/ONU e poi in pratica? In Libia aspettiamo che Leon (rappresentante ONU) porti a termine dei negoziati a cui una volta sì e una no una delle due parti non partecipa. In Siria, figuriamoci, l’Africa ce la siamo dimenticata, il Mali boh e poi ci chiediamo: “ma perché arrivano?”

Si sente poi parlare di frontiera al flusso migratorio...no, mi dispiace il Mediterraneo o i Balcani non sono la frontiera. Visto che ho iniziato con i numeri che contano più del populismo: secondo le Nazioni Unite, alla fine di maggio c’erano circa 4 milioni di rifugiati siriani (la popolazione, pre – guerra di Damasco era di 1,7 milioni). Molti sono ospitati dai paesi vicini e l’impatto è qualcosa di sconvolgente. In Libano la popolazione prima della crisi siriana era di 4.4 milioni adesso ospita 1.1 milioni di siriani. Persino il paese più ricco del mondo avrebbe difficoltà ad assorbire e gestire questo tipo di afflusso. La Turchia ne ospita 1.7 milioni e la Giordania 628.000. Ricordiamo che la terra del Medio Oriente è arida e spesso inabitabile con una cronica mancanza di sviluppo di infrastrutture per cui molte delle popolazioni dei paesi arabi tendono a concentrarsi in aree urbane e dipendono da beni di prima necessità importati. La Giordania importa l’87% del suo cibo e all’improvviso ha centinaia di migliaia di bocche da sfamare. L’ esodo siriano è arrivato dopo la crisi dei rifugiati iracheni. Nell’aprile 2007 UNHCR ha riportato che c’erano più di 4 milioni di iracheni in giro per il mondo di cui 2 milioni nel Medio Oriente. La Giordania ne ha ospitato 750.000. La Siria ne ospitava 1.1 milioni, cifra che è scesa nel 2013 a 146.000. L’anno scorso il consiglio dei ministri turco ha approvato il rilascio ai rifugiati siriani di carte d’identità che gli consentono l’accesso al sistema sanitario e ai servizi di educazione, offrendo una speranza per un permesso di lavoro condizionale. Ma questo è un’ eccezione nella Regione perchè la Turchia vuole entrare nell’UE anche se poi ultimamente li ha colpiti con i cannoni ad acqua. Gli altri stati li tollerano: sono l’intera frontiera della crisi siriana per la loro collocazione geografica e non fanno molto altro.  L’ UNHCR ci dice che i donatori governativi internazionali hanno contribuito solo per il 20% sulla cifra di 4.5 miliardi di dollari di cui hanno bisogno i rifugiati siriani in questi paesi.

Quindi cosa abbiamo? Una crisi di retorica, di populismo, di ignoranza. L’Unione Europea con i suoi valori predicati ai quattro venti con un carrozzone per miliardi di milioni di euro che non è capace di gestire l’afflusso di migranti e inetta nel rivedere la sua politica di sicurezza e di difesa. Inappropriata nel gestire le crisi ai suoi confini, quelle vere, di conflitti che non risparmiano nessuno e le cui foto non commuovono nessuno. Poi ci sono gli Stati del Golfo che tollerano milioni di persone senza fornire servizi e neanche speranza. Ma perchè credete che queste persone fuggano da paesi molto più vicini e attraversino l’inferno per venire in Europa? L’Europa dei diritti, della Commissione Europea dei diritti umani, l’Europa della pubblicità: non esiste. Quello che esiste è un nuvolo di politicanti e di funzionari ignoranti, questa è la vera tragedia.

Luglio 10 2015

A me Tsipras non sta simpatico

No, non mi è simpatico neanche un po’, perché trovo che “usare” il popolo greco per i suoi show verso l’Europa o verso possibili apparentamenti di convenienza è da stronzi. Tutti ad applaudirlo per aver usato la democrazia. Allora cosa avrebbero dovuto dire i greci dopo essere stati in fila per delle ore a ritirare gli ultimi risparmi nelle banche, dopo 5 anni di condizioni miserevoli, di una contrazione del 25% del PIL ed il 25,6% di disoccupazione?  Hanno detto:  noi non vogliamo stare nell’Eurozona, non vogliamo più l’Euro; e cosa fa questo baluardo della democrazia cerca un accordo con l’Europa per restare nell’Euro. E finalmente si decide a proporre una serie di misure, roba che sono anni che La Banca Centrale Europea gli chiede di varare RIFORME STRUTTURALI, un’occhiatina alla corruzione? Voglio dire l’ha dichiarato un medico greco che la sanità è praticamente una mazzetta gigante persino per le prestazioni obbligatorie del medico di famiglia. Ah no, oggi questo geniale Primo Ministro greco propone un aumento delle tasse sulle compagnie marittime, tagli alle spese della difesa, prevedendone un ulteriore dimezzamento nel 2016 (poi mi spiegherà con quali soldi contribuirà come paese membro della NATO),  privatizzazione degli assetti statali come il porto di Piraeus (grande colpo di genio, così magari se lo prende una bella compagnia russa) e aereporti regionali. Il colpo di genio, poi:  aumento IVA per hotel e ristoranti, taglio alle pagamento delle pensioni dei più poveri e aumento delle tasse per le isole. Gli agricoltori perderanno il loro trattamento preferenziale per le tasse e i sussidi sui carburanti.

Intanto il popolo ha proprio detto NO all’aumento delle tasse; all’interno del suo partito, coloro che credevano nella buona fede di Tsipras hanno dichiarato che non voteranno questo pacchetto di misure.

Qui non si tratta più di una crisi finanziaria ed economica, ma di un Primo Ministro con manie di grandezza che prende in giro il suo popolo che s’incontra con Putin per spaventare i creditori. Vi confesso che per un minuto ho creduto che fosse così intelligente da voler dimostrare che l’Eurozona è stata mal concepita che non c’è mai stata un Unione Monetaria; che inglobare economie divergenti era un errore. Ho finanche pensato che iniziasse a farsi stampare la Dracma :” se il mio popolo dice che non vuole l’ Euro così sia. E non importa se tiro dentro anche altri paesi, l’Euro zona o si rivede o fuori”.

Da un punto di vista meramente di politica internazionale, dubito che la Cina possa entrare in partita, a parte che ha già una bella gatta da pelare con la sua crisi economica, è più orientata a commerciare con i paesi europei in euro e con la totalità dell’Unione Europea. La Russia sì, è interessata ai porti, ma se Assad cade e dopo aver risolto il problema ucraino. Sono curiosa di sapere se Tsipras ha considerato che la Grecia è anche un membro della NATO e quanto gli costerebbe in termini di politica estera uscirne o trovarsi a non poter contribuire neanche con una pistola.

Chiediamoci perchè il ministro dell’economia greco, Varoufakis si è dimesso all’indomani del referendum e non un ministro come quelli italiani che prima giocavano a monopoli e poi si sono messi a capo del dicastero dell’economia.

Insomma Tsipras non ha utilizzato il NO del referendum come si conveniva: uscire dall’euro, ma per avere una chance in più per farsi prestare altri soldi. Chapeaux simpaticone.

 

* immagine di:  realsourceofjokes.blogspot.com