Giugno 4 2017

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa ai terroristi

storytelling

La contro-narrativa come prodotto principalmente del decisore politico manca di una teoria articolata.

Invece di una teoria abbiamo una serie di supposizioni, implicite ed esplicite, che sono comuni ad una serie di documenti. Definendo queste supposizioni, noi arriviamo a quello che potrebbe essere presentato come una “teoria di lavoro di contro-narrativa“.

La teoria di lavoro di contro-narrativa come funziona:

gli estremisti violenti – che abitualmente intendiamo come islamisti violenti – reclutano i seguaci attraverso la promozione di una visione del mondo ideologica che è incapsulata in quello che spesso è definito “narrativa jihad”. Questa narrativa afferma che i musulmani sono sotto attacco e devono combattere per difendere loro stessi: che l’occidente è un nemico implacabile dell’Islam; e che la violenza non solo è necessaria per la sopravvivenza ma che è anche la via per la salvezza. Questa narrativa può essere sconfitta da narrative più convincenti e accurate che promuovano i valori umani. Come risultato, il richiamo dell’estremismo violento tra quelli che sono definiti “gruppi vulnerabili” ed individui decrescerà e pochi saranno radicalizzati all’estremismo violento e al terrorismo.

Questa teoria, ampiamente accettata dai politici occidentali, dai funzionari persino da analisti e dai media è vecchia di almeno una decade.

Benché questa “teoria di lavoro” abbia ottenuto un notevole consenso, contiene in se un serio problema: le evidenze (anche e soprattutto scientifiche) che la sostengono sono pochissime.

Le supposizioni su cui poggia sono generiche e, nel complesso, non sono basate sulla ricerca scientifica. Inoltre, la “teoria di lavoro contro-narrativa” riflette una più ampia gamma di supposizioni, particolarmente pronunciate tra i governi, circa i fattori causali della violenza estremista. In particolare, alcuni governi hanno l’abitudine di enfatizzare l’ideologia, specialmente l’ideologia che proviene da oltre mare, come la principale fonte della corruzione delle menti di coloro che abbracciano la violenza. Tralasciando altre circostanze o motivazioni, dalle ineguaglianze socio-economiche alla lusinga dell’avventura come principale bisogno umano di sopravvivenza, la spiegazione ideologica è nella migliore delle ipotesi una madornale semplificazione. Questa enfasi sull’ideologia assume anche che l’indottrinamento è il principale veicolo per quello che generalmente è definito radicalizzazione (che è per se un termine questo molto contestato), che trascura altri motivi ben dimostrati circa il cambiamento comportamentale come l’identificazione con un gruppo, la socializzazione e l’effetto dei conflitti civili.

Narrativa e storytelling

Nell’uso abituale, “narrativa” è un sinonimo ampio di “storia” (una serie narrata di eventi connessi) oppure “storytelling” (l’atto della narrazione), ma quando viene applicata al terrorismo/estremismo violento è spesso utilizzata in un senso molto più ampio, per significare (tra le altre cose) una spiegazione o una credenza o una visione del mondo. Alle volte appare essere quasi intercambiabile con “ideologia” nel senso di una serie sistematica di credenze (usualmente politiche). Alle volte “contro-narrativa” sembra a malapena un eufemismo per propaganda di stato: comunicazioni progettate per gli obiettivi politici di uno stato. Il problema con questo tipo di linguaggio è che è una fonte di confusione che ha effetti pratici nel mondo di tutti i giorni, nella realtà.

Mancando di una descrizione chiara e di una classificazione della comunicazione del terrorismo, la retorica associata con la “teoria di lavoro” di contro-narrativa confonde tutti su come potremmo contrapporci  al terrorismo nella sfera della comunicazione.

La narrativa non è il messaggio: una narrativa può contenere dichiarazioni, istruzioni o punti di informazione (messaggi) e un messaggio potrebbe essere costruito ingegnosamente in una forma narrativa, ma c’è confusione tra la forma ed il contenuto e questa confusione è estenuante. Ci impedisce di comprendere cosa stanno dicendo i terroristi e come lo stanno dicendo. Ci guida verso un’ossessione per la “contro-messagistica” online che assume che il testo terrorista è pura comunicazione ovvero contenuto senza forma ed è una quasi completa negligenza di come i terroristi utilizzano la narrativa e perché lo potrebbero fare.

I terroristi dopo tutto non sono impegnati nel business dell’intrattenimento, quindi perché non esaminare la loro propaganda come una forma di produzione letteraria?

Tanto per cominciare, i terroristi sono influenzati dalla letteratura che leggono. Che sia il terrorista norvegese di estrema destra A. Breivik che scopriva un aiuto ideologico nelle novelle di libertarismo radicale di Ayn Rand oppure Abu Bakr al-Baghdadi e la sua tesi di dottorato commento ad un poema del 12° secolo, i terroristi sono spesso consumatori di letteratura ed in alcuni casi possiamo essere molto sicuri che le loro letture modellano le loro azioni e le loro comunicazioni.

La dimensione culturale più ampia dell’estremismo violento sta avendo l’attenzione che merita, ad eccezione di qualche paese come l’Italia.

Lo studioso norvegese di terrorismo Thomas Hegghammer, per esempio, ha iniziato a dedicarsi a quello che i terroristi islamici fanno quando non stanno combattendo: “guarda all’interno di un gruppo militante, o di un esercito convenzionale – e vedrai tanti prodotti artistici e pratiche sociali che non servono un ovvio obiettivo militare. Pensiamo ad esempio ai richiami della cadenza dei marines americani, alle canzoni dei rivoluzionari di sinistra o ai tatuaggi dei neo-nazisti. Guarda all’interno dei gruppi jihadisti e vedrai uomini barbuti con i Kalashnikovs che recitano poemi, discutono di sogni e piangono regolarmente”.

Le azioni e certamente le visioni del mondo sono modellate dalla cultura, nel senso stretto di conquiste intellettuali ed artistiche. I terroristi sono produttori e consumatori di letteratura.

E come alcuni militanti sono anche poeti, molti altri sono anche scrittori e drammaturghi. Una delle figure più influenti nello sviluppo del contemporaneo jihadismo era il pensatore egiziano Sayyid Qutb che ha scritto diversi romanzi e lavori di critica letteraria, sebbene in seguito si sia spostato sulla politica religiosa radicale. Altri si sono rivolti alla letteratura come un’alternativa alla violenza ed altri ancora hanno utilizzato la letteratura come sostegno alla violenza.

Lo storytelling come teoria di contro-narrativa è fondamentale per comprendere come i terroristi comunicano.

Nella ricerca di esempi di storytelling nella propaganda terroristica, il problema è l’abbondanza non la scarsità. Anche se confiniamo la nostra ricerca all’islamismo violento, la scelta è ampia. Uno dei più noti ideologi jihadisti, lo yemenita (cittadino americano) Anwar al-Awaki, ha prodotto dozzine di registrazioni audio dei suoi sermoni e delle sue lezioni molti dei quali sono esplicitamente in forma narrativa, con titoli come “storie dalle Hadith”, “la storia del toro”.

AQAP (Al Qaeda nella penisola arabica) di cui al-Awaki era il leader spirituale (è morto nel 2011), produce una rivista online in lingua inglese “Inspire” che regolarmente pubblica articoli in forma narrativa. Similmente, il magazine dell’IS Dabiq in lingua inglese è pieno di storie, dalle biografie dei suoi combattenti a racconti dal Corano o Hadith riprese e spiegate per giustificare le azioni del gruppo.

Gli approcci letterari critici hanno il potenziale di andare al di là delle limitazioni dell’analisi di scienza politica della propaganda dei terroristi come semplici portatori di un contenuto ideologico, o degli studi di comunicazione o degli approcci psicologici che enfatizzano la retorica e quindi la persuasione.

Vedendo la propaganda terrorista come un testo estetico, possiamo comprendere che loro lavorano in modi diversi dall’indottrinamento ideologico o della semplice persuasione.

La creatività dei terroristi è una fonte di richiamo di per se stessa. Autori come bin Laden, al-Awaki attirano seguaci non soltanto attraverso il carisma personale, o la persuasione  o adattando le loro narrative all’esperienza di vita dei loro seguaci, sebbene tutto ciò sia importante. Essi ispirano anche, ed è non è a caso che questo verbo particolare è il titolo della rivista di AQAP.

Riconoscere la dimensione estetica della propaganda terroristica rende più chiaro il suo contributo alla cultura terroristica (nel senso ampio di tradizioni e comportamenti così come nel senso stretto degli sforzi artistici e intellettuali): le risorse culturali disponibili ad un movimento violento sono necessarie per sostenere e dirigere un movimento tanto quanto lo sono le risorse materiali come le armi e il denaro.

La cultura modella l’ideologia e nel cercare le spiegazioni per il comportamento dei terroristi dovremmo porre attenzione all’eredità culturale. Questo dovrebbe essere evidente anche dagli studi più particolareggiati sulle affermazioni dei terroristi: i temi che si ripetono, ma anche le figure del discorso e l’utilizzo di alcuni  verbi particolari.

In altre parole, possiamo vedere l’emergere di generi di produzione terrorista, in una tradizione distinguibile della narrativa estremista islamista da bin laden a al-Awlaki a Dabiq.

Tornando alla controversa “teoria di lavoro” di contro-narrativa, il riconoscimento della forma letteraria e della funzione della propaganda terroristica potrebbe farci ragionare meglio  prima di investire scarse risorse in attività che potrebbero essere nel migliore dei casi futili e al peggio controproducenti.

Se il richiamo di un testo è più complesso e sottile che il messaggio che contiene, ne segue che non possiamo semplicemente combatterlo attraverso una più accurata ricusazione.

La sfida è nell’utilizzo di risorse emotive ed estetiche di storytelling e non solo fare appelli alla ragione o all’interesse personale.

Non facciamo certo un favore a noi stessi rifiutandoci di cogliere il richiamo della propaganda terroristica o riducendo il discorso dei terroristi a una semplicistica serie di messaggi.

Non è un caso che gli ideologi terroristi possedevano (e posseggono) qualità creative e letterarie in abbondanza: la loro influenza (vedi bin laden) è derivata dalle loro conquiste come autori e storyteller.

Se potessimo accettare questo punto, restringendo le risposte quelle focalizzate sull’ideologia, che si affidano a strategie di respingimento e cercano solo di persuadere, probabilmente otterremmo quell’efficacia che queste ultime strategie non hanno.

I decisori politici dovrebbero guardare al di là dei loro strumenti di comunicazione strategica, di diplomazia pubblica, delle campagne sui social media e riscoprire il potenziale della produzione culturale, inclusa la letteratura, offrendo un’alternativa alla seducente creatività dei gruppi violenti.