Febbraio 28 2022

Ucraina: la guerra ibrida

guerra ibrida

La visione del mondo europea-atlantica, particolarmente riguardo alla legittimità popolare e alla sovranità nazionale, è incompatibile con il “putinismo”. E dato il revanscismo che Putin abbraccia, è chiaro che è una strada senza uscita quella di stabilire una “linea di controllo” all’interno dell’Europa tra l’occidente e quello esso vede come la sfera di interesse della Russia.

È anche possibile che Putin continuerà ad apporre pressioni e a saggiare ulteriormente dove questa linea finirà con l’essere disegnata, e possibili luoghi per farlo non mancano: Bosnia, Moldavia, i più ovvi.

Da dove possiamo partire per tentare di comprendere le tensioni tra Russia e Ucraina?

Deterrenza e diplomazia coercitiva, sono concetti necessari per capire le tensioni tra Russia, Ucraina, Stati Uniti e NATO. Deter è un termine inglese, utilizzato anche in italiano, la cui traduzione più corretta è dissuadere –

La deterrenza è passiva nel suo orientamento. Essa è intesa a prevenire un’azione non ancora intrapresa ed iniziata, sia mostrando che quell’azione è destinata a fallire o che i costi che ne risultano sono significativamente più grandi di ogni beneficio che può essere ottenuto. L’obbligatorietà è più complicata. Essa implica l’ottenere dall’altra parte di fare qualcosa – o iniziare un’azione che altrimenti non sarebbe stata scelta o cambiare il corso di un’azione che è stata già iniziata. Ciò può essere compiuto attraverso minacce, incentivi o una mescolanza di entrambi.

In breve, ogni Paese nel mondo, a prescindere dal suo sistema politico o dai suoi valori, cerca di distogliere altri Paesi dall’intraprendere azioni che esso vede nocive per i suoi interessi nazionali, mentre si adopera ad ottenere influenza che obbligherà altri Paesi ad essere ricettivi delle sue richieste. Allo stesso tempo, per proteggere la sua propria indipendenza e la libertà di azione, cercherà di minimizzare le capacità degli altri di utilizzare la deterrenza e la obbligatorietà contro di esso. Alcuni Paesi possono generare un sufficiente potere di deterrenza e obbligatorietà per le loro proprie risorse, mentre altri potrebbero aver bisogno di mettere assieme una coalizione o cercare un’alleanza protettiva con un alleato più forte.

Deterrenza nella definizione classica di Thomas Schelling, risiede nella capacità che uno Stato deve avere per dissuadere (deter) un altro stato, deve comunicare l’esistenza di queste capacità e deve dimostrare l’impegno ad utilizzare queste capacità nell’eventualità che “linee rosse” precedentemente comunicate siano state oltrepassate.

Obbligatorietà richiede avere sufficienti risorse necessarie per la persuasione – una forza militare capace di imporre costi oppure le risorse economiche per comperare consenso. In entrambi i casi, i leader politici devono calcolare quanto sono desiderosi di spendere e di rischiare in linea con gli obiettivi che ritengono siano i più importanti e vitali per gli interessi del loro Paese, o alle volte, per la sopravvivenza. Applicazioni di successo della deterrenza e della obbligatorietà possono accadere quando, i fini strategici sono bilanciati con i mezzii che saranno utilizzati per raggiungerli. (questa l’ha detta Walter Lippman)

La crisi Russia – Ucraina è parte di un processo più grande di negoziazione, il risultato del quale lo vedremo all’aumentare del potere della deterrenza e della obbligatorietà da una parte e la diminuzione dall’altra.

In superficie questa crisi sembra quasi assurda. Da una parte la Russia che non vuole vedere l’Ucraina ammessa nella NATO. Dall’altra, malgrado la consapevolezza nei mesi passati che l’appartenenza alla NATO per l’Ucraina non è una possibilità realistica nel breve termine, i leader della NATO hanno rifiutato di chiudere formalmente la porta allo stato di membro dell’Ucraina, per evitare di ammettere il principio che ogni Paese europeo abbia il diritto di scegliere i suoi propri accordi di sicurezza.

Esaminando più attentamente la crisi, essa si trova in una complessa configurazione di obiettivi di sicurezza nazionale.

La visione della Russia è che il collasso dell’Unione Sovietica ha condotto ad un collasso analogo del potere di deterrenza e obbligatorietà di Mosca, particolarmente nella sfera militare.

Nel 2008 ed ancora nel 2014, la Russia ha segnalato che non avrebbe più accettato passivamente espansioni, utilizzando impegni militari limitati contro la Georgia e l’Ucraina, per alzare i costi di essere pienamente integrati nella comunità euro-atlantica al di là di un livello accettabile. Oggi la Russia è ancora impegnata nella diplomazia coercitiva per obbligare Kyiv e i suoi alleati occidentali ad accettare un compromesso in cui l’Ucraina resta al di fuori della comunità occidentale.

Per sua parte, l’Ucraina, nelle successive amministrazioni di Poroshenko e Zelensky, ha visto un più stretto allineamento con l’Occidente per controbilanciare gli avanzamenti militari russi. In parallelo, come ulteriore deterrenza contro una potenziale aggressione russa, Kyiv ha cercato di preservare la sua importanza come Paese transito chiave per il gas naturale per raggiungere i mercati europei.

La vendita di energia russa ai clienti europei resta un importante fonte di guadagno per lo Stato russo e nella misura in cui Mosca spera di preservare questo guadagno, potrebbe evitare di danneggiare l’infrastruttura di gas con l’invasione militare. Gli interventi militari in Ucraina nel 2014-2015 nella regione del Donbass hanno avuto luogo lontano dall’infrastruttura per il transito energetico che connette la Russia all’Europa.

Per rafforzare questo deterrente energetico contro la Russia, l’Ucraina vuole che i suoi partner europei chiudano i progetti di transito energetico che aggirano il territorio ucraino e Kyiv ha sollecitato Washington a sostenere questo obiettivo. Per parte loro la Germania, l’Ungheria e la Turchia, tra gli altri, hanno cercato di disconnettere la loro propria sicurezza energetica dalla crisi ucraina.

L’approccio russo combina le minacce militari all’Ucraina con la politica energetica disegnata per disconnettere l’Europa dalle forniture energetiche dal territorio di sicurezza ucraino.

A sua volta l’Ucraina sta cercando la protezione militare dall’occidente, mentre cerca di tenere le forniture energetiche connesse al suo territorio di sicurezza.

Spesso pensiamo che la deterrenza sia ragionevolmente stabile e che duri per decadi, come lo stallo tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Ma nell’odierna crisi in Europa, la deterrenza è tutto fuorché stabile. Essa è cambiata nel corso del tempo e continuerà a farlo; questo a sua volta sta plasmando le scelte strategiche di tutte le parti coinvolte.

Se la Russia non è stata dissuasa dall’attaccare oggi, e se l’Occidente non accetta un accordo imposto sull’Ucraina da Mosca, Kyiv potrebbe essere in una posizione, per la fine della decade di esercitare un più alto grado di obbligatorietà contro la Russia. Questo potrebbe dire, ad esempio, riprendere il territorio perso nel Donbass senza accettare alcun accordo di federalizzazione come immaginato negli accordi Minsk-2, così come procedere con la sua traiettoria verso l’appartenenza alla NATO e all’UE. In altre parole, dissuadere Mosca nel breve termine potrebbe creare le condizioni per l’erosione delle capacità di obbligatorietà russe nel lungo termine.

Gli Stati Uniti sono concentrati di più sulla competizione strategica con la Cina e sul centro di gravità economico e strategico mondiale che sta continuamente muovendosi verso la regione indo-pacifica quindi l’amministrazione Biden o i suoi successori potrebbero nel corso del tempo essere più propensi ad un compromesso sull’Ucraina: accettare una cintura di Stati neutrali tra i mondi euroatlantici ed euroasiatici. Perciò una strategia russa di obbligatorietà, attraverso una via militare coercitiva e la diplomazia economica, potrebbe creare la condizione dove la Russia si sente meno dissuasa dall’Occidente.

Sfortunatamente, mentre si concorda sulla semplicità di questi concetti fondamentali di sicurezza nazionale in teoria, trovare un modo affinché guidino complesse interazioni sul terreno è molto molto più difficile.

Sembra ovvio che una nuova e innovativa iterazione di una dinamica di Guerra Fredda sia inevitabile, quale forma assumerà è molto difficile da immaginare, date le complesse interdipendenze economiche e politiche che legano le due parti.

Questa nuova Guerra Fredda ovviamente era in divenire molto prima della crisi ucraina, e non puramente sull’asse Russia – NATO. La rivalità Stati Uniti – Cina aveva già inspirato la retorica della Guerra Fredda, e sarà presumibilmente la dinamica più significativa che plasmerà il sistema internazionale e la costruzione di sfere di influenza in competizione nelle prossime decadi.

Cosa ci dicono queste prime schermaglie è che questa nuova Guerra Fredda sarà ibrida, con un focus molto sulle armi non cinetiche e tattiche così come sulla forza militare tout court.

Il numero delle crisi protratte che si sono generate nelle passate due decadi, molte delle quali non possono essere risolte in assenza della cooperazione multilaterale, rendono tutte molto imperativo che la nuova Guerra Fredda non si intensifichi nel tipo di contesti proxy e congelino il peacemaking.

Cosa ci suggeriscono gli strumenti e le armi che sono prominenti nell’odierno stallo geopolitico sulla forma del conflitto in divenire?

La minaccia posta dalle armi nucleari non è assente, ovviamente. Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina hanno ancora arsenali nucleari in ottimo stato e sistemi in grado di utilizzarle anche più avanzati di quelli della fine della Guerra Fredda. Ma per ora, le armi nucleari non sono state uno strumento di definizione della competizione.

I principali poteri ovvero le armi per gli Stati Uniti e la Cina sono la loro dominazione dei nodi chiave nel sistema globale politico ed economico, che concede loro la determinazione dell’agenda ed il potere che detengono sul controllo, così come la capacità di armare l’interdipendenza globale. Oggi, questo posizionamento è più significativo dei loro arsenali nucleari in termini di permettergli di demarcare le sfere d’influenza e plasmare le dinamiche di potenze globali.

La Russia a questo riguardo ha meno potere da brandire. Tuttavia, la maniera in cui ha fatto leva sul suo veto alle Nazioni Unite, la sua abilità di proiettare una forza di spedizione e la legittimità dell’industria militare sovietica gli permettono di competere su scala globale per l’influenza e le risorse, e di bloccare altri dal farlo.

La Russia non ha un monopolio sulle tattiche militari a cui si affida – dal dispiego dei piccoli “uomini verdi” all’utilizzo della cattiva informazione, gli attacchi cyber, gli alleati proxy nelle zone di interesse occidentali. Pur tuttavia Mosca può dispiegarli in molte arene simultaneamente in modi in cui pochi altri possono.

Solo nello scorso anno, la Russia ha utilizzato queste tattiche per guadagnare influenza e irritare gli interessi occidentali in Sahel, Libia, Siria, Sudan, Balcani e, ovviamente, in Ucraina.

Considerato nel complesso, il tipo di armi e tattiche che gli Stati Uniti, la Cina, la Russia stanno impiegando rappresentano un’aggregazione di potere politico, di capitale economico e militare con cui poche altre nazioni possono competere. Ciò potrebbe rendere più difficile raggiungere la deterrenza e la distensione.

Il segnale che è necessario affinché la deterrenza sia credibile ed efficace è più difficile nel contesto della guerra proxy, cyber e ibrida, dove gli attori, le tempistiche ed anche gli attacchi stessi sono più difficili da leggere.

Ciò rende più difficile contenere le minacce, diminuirle, e la natura ibrida del conflitto – con il suo concentrarsi sulla competizione economica, politica e sociale e sulla forza militare – rende più probabile che i civili e gli altri attori neutrali siano travolti in (e da) esso.

Dal momento che queste nuove leve ibride di potere sono inconfutabili, relativamente comuni e possedute da attori al di là degli Stati in questione, ci potrebbero essere più vie di distruzione. Diversamente dal 1945, viviamo in un mondo dove le imprese private, gruppi violenti erranti, giocatori regionali minori, movimenti popolari di protesta e anche pirati informatici hanno la capacità di frustare le ambizioni delle super Potenze globali.

Un attore di cui non si parla spesso: la Turchia

La Turchia si trova tra l’incudine ed il martello. Non vuole essere l’antagonista della Russia, con la quale condivide interessi strategici vitali, ma ha necessità di mostrare il suo sostegno all’Ucraina e ai suoi alleati NATO. Ciò ha spinto la Turchia a camminare su un diplomatico e calibrato filo sottile di seta.

Erdogan ha visitato Kyiv il 3 febbraio 2022 proclamando il suo sostegno alla sovranità ucraina, reiterando la sua opposizione all’annessione della Crimea e firmando un accordo di libero scambio per segnalare l’impegno turco nella relazione di lungo termine con l’Ucraina. Tutto ciò, ovviamente è stato bilanciato da un’offerta per disinnescare la situazione convocando un incontro trilaterale con Putin, il presidente ucraino Zelensky ad Ankara o Istanbul. Erdogan continua a proporre questa via a Putin.

Le aperture diplomatiche di Erdogan, l’urgenza e l’importanza, sono comprensibili dal momento che Ankara ha affondato la sua mano economica in Ucraina e che tutto quello che sta avvenendo potrebbe regalarle il ruolo di uno dei principali perdenti economici. Nel 2021, la Turchia è diventata il più grande investitore in Ucraina, con investimenti in eccesso di 4 miliari di dollari. Vi sono al momento più di 700 imprese turche che operano sul terreno. Nei passati 5 anni, le esportazioni turche in Ucraina sono quasi raddoppiate a 2.6 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono salite da 2.8 miliardi di dollari e 4,4 miliari di dollari.

La cooperazione bilaterale si sta muovendo particolarmente rapidamente nei settori della difesa e dell’aerospazio. Dal 2019 Kyiv ha acquisito una stima di una dozzina di droni Bayraktar. La marina ucraina ha anche ordinato due corvette MILGEM Ava-class, che saranno prodotte congiuntamente sul territorio turco e sul territorio ucraino. Le due parti hanno già firmato un accordo per costruire infrastrutture di addestramento e manutenzione per i droni turchi in Ucraina, a ciò è seguita la firma di un accordo per la produzione congiunta della prossima generazione di droni che farà leva sulla tecnologia avionica turca e sui motori a reazione ucraini.

La Turchia comprende molto bene che un cambio di regime in Ucraina metterebbe questi investimenti e le relazioni commerciali strategiche a rischio. Tuttavia, lo spazio di manovra della Turchia è in qualche modo limitato e la sua influenza diplomatica nel risolvere questa crisi è modesta.

Potrebbe esserci la possibilità che Erdogan e Putin possano far funzionare le cose malgrado gli ostacoli. Loro, dopo tutto, si sono perfezionati nell’arte della “geopolitica di vendita” – l’abilità di fare dei micro-accordi anche quando sono in disaccordo sul quadro più grande. Questo modo di fare affari è andato relativamente bene in vari teatri dalla Siria, alla Libia, al Caucaso. Questo potenzialmente spiega perché la Turchia permette alle sue compagnie di commerciare con la Crimea e l’Abcasia, malgrado la sua posizione ufficiale in sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina e della Georgia. Vi sono poche ragioni per aspettarsi che l’Ucraina cambi il nome del gioco tra Ankara e Mosca.

Dicembre 3 2021

La globalizzazione dello Stato islamico

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Sempre più chiara è la circostanza per cui la mancanza di lenti coerenti e consistenti attraverso cui comprendere l’impresa transnazionale dello Stato Islamico compromette sia l’interpretazione degli studiosi, che il lavoro dei professionisti riguardo al significato dell’agenda globale del gruppo.

Questo articolo è un tentativo di portare sul tavolo qualche sfumatura, aiutando a comprendere come lo Stato islamico concettualizza – e poi rende operativo – il suo sforzo internazionale.

Il califfato oggi si comprende come un adhocrazia internazionale – una raccolta di gruppi militanti irregolarmente gestita; gruppi diversi, geograficamente dispersi che competono per governare aree – il carattere del quale riflette la compulsione ideologica, i principi strategici e i tratti organizzativi che sostengono le ambizioni di un progetto politico più ampio.

Nel realizzare ciò le iniziative all’estero coincidono con la spinta di forze sia dall’alto verso il basso, che dal basso verso l’altro che danno vita a sincronismo e tensioni sia globalmente che a livello di affiliati.

Mentre l’inclinazione dell’organizzazione dello Stato islamico per un’espansione globale è relativamente nuova nella sua storia lunga decadi, è stato sempre dimostrato il desiderio del gruppo di influenzare le opportunità transnazionali e le reti. Prima del 2006 attraeva foreign fighters e dirigeva attacchi in Giordania, Israele e Turchia.

Per gestire la sua espansione ed assicurare, allo stesso tempo, che i potenziali affiliati fossero ideologicamente allineati e strategicamente utili alla sua causa, ha creato una serie di criteri che i gruppi locali devono soddisfare per essere accetati come provincia (wilayat) formale. Questi creteri, almeno nominalmente, includono giuramenti pubblici di fedeltà al califfo, approvazione della leadership del gruppo locale da parte dello Stato islamico, consolidamento delle fazioni locali sotto un’unica bandiera, comunicazioni corrette tra la leadership locale e il fulcro centrale dello Stato islamico e l’applicazione della metodologia e credo dello Stato islamico. Malgrado la sua retorica assolutista, lo Stato islamico ha, in modo discordante, applicato tali criteri, un fatto che ha alimentato tensioni interne quando alcune province (ad esempio quella ora defunta di Wilayat al-Bahrayn) furono accettate come affiliati. Il dissenso si è diffuso sia al fulcro centrale che a livello di affiliati.

Chiaramente, bilanciare la compulsione ideologica per espandersi con la necessità di assicurare che gli affiliati locali realmente accrescessero le loro capacità piuttosto che detrarle, è stata una sfida per l’organizzazione. Alla luce di ciò, e indipendentemente dall’effettiva estensione di un dato affiliato verso le ambizioni dichiarate dello Stato islamico, al momento presente vi è un solo standard per cui un gruppo è ritenuto un affiliato provinciale, vale a dire se ne ha ufficialmente dichiarato uno.

Ad un estremo dello spettro, vi sono le province principalmente simboliche e ampiamente inattive come quelle in Algeria e in Arabia Saudita, all’altro vi sono le province come quelle della Siria, Iraq e West Africa che hanno raggiunto il consolidamento di uno Stato territoriale. Nel mezzo vi sono quelle che sono emerse come beneficiarie di uno sforzo globale di ristrutturazione messo in pratica nel 2018: Wilayat Sharq Asiyya (Est Asia) e Wilayat al-Sumal (Somalia), entrambe mostrano evidenze minimali di un intervento diretto del nucleo centrale dello Stato Islamico, sebbene restino operativamente attive e sono regolarmente rappresentate nei prodotti media ufficiali.

Per comprendere come la sua diffusione globale accade, è utile valutare gli affiliati dello Stato islamico caso per caso sulla base di queste considerazioni:

a. l’estensione del controllo centralizzato e dell’influenza esercitata dalla leadership centrale su tale affiliato;

b. i tipi specifici di attività che sono condotte da tale affiliato in nome del nucleo centrale;

c. la frequenza con cui tale affiliato e le sue attività sono utilizzate come leva dal nucleo centrale per scopi strategici e di propaganda.

Variazioni ovvero spudorata inconsistenza tra questi piani –situazioni che in altri contesti avrebbero causato potenzialmente sfide all’esistenza stessa del gruppo – sono ammesse proprio dalla natura adhocratica dello Stato islamico. È la stessa natura che gli permette di transitare da movimento estremista violento clandestino a proto-stato burocratico e indietro verso l’estremismo violento e così via, negli anni recenti senza interruzioni .

Le adhocrazie sono organizzazioni strutturalmente fluide in cui gruppi di progetto che interagiscono tra di loro lavorano verso uno scopo condiviso o un’identità. La fluidità che caratterizza un adhocrazia risulta nel suo essere flessibile a condizioni strategiche – alle volte può essere più gerarchica e burocratica mentre altre più informale e come una rete – con un gruppo
di specialisti nel fulcro centrale che guida la direzione complessiva e la collaborazione dell’organizzazione, attraverso una serie di meccanismi decisionali decentralizzati. È proprio il modello di queste caratteristiche essenziali dell’adhocrazia la chiave della sopravvivenza dello Stato islamico negli anni recenti. Questi tratti gli hanno permesso di proiettare un’immagine di un movimento molto più coerente e monolitico di quanto fosse in realtà. Questo carattere blando adhocratico ha significato che lo Stato islamico è stato in grado di essere altamente adattabile e innovativo in come ha risposto al cambiamento costante delle condizioni strategiche, negli anni recenti.

Dal momento che le organizzazioni adhocratiche resilienti sono anche inclini alla debolezza, generalmente esse si affidano alle tecnologie communicative e allo sviluppo di personale specializzato per sincronizzare gli sforzi e le agende. Per questa ragione, interruzioni nella comunicazione possono avere serie ripercussioni nella coerenza strategico-operativa così come nella compattezza del gruppo.

Inoltre, le adhocrazie contengono un alto rischio nella scelta del momento opportuno per la transizione organizzativa verso strutture più formali o informali, e ciò può agire da catalizzatore di un logoramento della rete. Questa dinamica è presumibilmente evidenziata nella fretta dello Stato islamico nel dichiarare un califfato e creare un “sistema di controllo” burocratico di pieno spettro in Siria e Iraq nel 2014, per vederlo poi decimato pochi anni dopo.

C’è stato un punto in cui lo Stato islamico ha indietreggiato dall’idea di avere un proto-stato nell’arco delle frontiere dell’Iraq e della Siria (almeno per il momento presente). Non vuole dire che esso sia entrato in un mondo “post-califfato”, piuttosto ci suggerisce semplicemente che ha riconosciuto internamente che esso non aveva né la capacità né la necessità di cucire il suo marchio nel Medio Oriente nello stesso modo in cui lo aveva fatto fino al 2018.

È stato un cambiamento che ha avuto l’effetto di inquadrare le branche dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria come tali – rami. Essenzialmente, esse erano dequalificate: il loro status complessivo nel progetto di califfato globale alterato in un modo tale per cui esse erano “solo” parte della rete globale.

Visto attraverso gli occhi del fulcro centrale dello Stato islamico, l’espansionismo deve essere sempre compreso, almeno in parte, come un esperimento in una guerra guidata dalla narrativa. Dichiarando wilayat nel mondo, stava fissando una rivendicazione a nuovi territori mostrando di esserci non solo dopo le sue perdite in Siria ed Iraq, ma di essere in continua espansione.

La globalizzazione dello Stato islamico: i meccanismi

La globalizzazione dello Stato islamico aiuta il gruppo a costruire una profondità strategica e a gestire il rischio attraverso i suoi affiliati. Spingendo simultaneamente su molteplici fronti con un “inasprimento” asimmetrico e attacchi complessi più convenzionali, ha testato le capacità della coalizione globale e dei suoi affiliati locali in West Africa ed Est Asia. Allo stesso tempo, il fulcro centrale dello Stato islamico è pronto a capitalizzare il calo della pressione militare in Iraq e Siria.

Le attività in corso e sincrone degli affiliati aumentano la probabilità che ad un dato momento le risorse del controterrorismo occidentale terminino. Le operazioni degli affiliati e le comunicazioni connesse dal fulcro centrale attorno a questi successi operativi sono perciò un moltiplicatore di forze.

foto: CNN

Una prima tipologia di attività espansionista si è palesata nelle Filippine. Il gruppo Maute – Hapilon (una sub-fazione del gruppo Abu Sayyaf), che ha giurato alleanza allo Stato islamico nel 2014, ha ricevuto direttive strategiche e tattiche prima e durante l’assedio di Marawi e Mindanao nel 2017, incluso le “migliori pratiche” per la difesa urbana così come un esteso supporto remoto per la produzione di media e l’editing. Tuttavia, sebbene i jihadisti dai vicini Stati asiatici erano contati nei rangi Maute-Hapilon, nessuno effettivamente ha viaggiato dall’Iraq o la Siria.

In contrasto, in Nigeria, gli interventi dello Stato islamico erano inizialmente limitati, ma destinati a diventare più sofisticati agli inizi del 2015.

I quadri dello Stato islamico hanno iniziato a fornire assistenza al gruppo esternamente noto come Boko Haram (Jamaat Ahlussunnah lid-Dawa wal Jihad), che giurò fedeltà a Baghdadi e divenne Wilayat Gharb Ifriqiyya nella primavera di quell’anno, attraverso un Consiglio – in remoto – utilizzando tecnologie di comunicazioni internet criptate. Questo Consiglio era fondamentalmente relativo a questioni di giurisprudenza religiosa, che i militanti di Boko Haram entusiasticamente richiedevano a causa della carenza di iman addestrati nell’affiliato. Poi lo Stato islamico ha progredito il sostegno attraverso l’invio di un piccolo gruppo di consulenti per accrescere le competenze materiali dei nuovi sostenitori. Questo addestramento era centralizzato in un luogo sicuro nella foresta Sambisa nel Borno, sebbene alcuni disertori hanno fatto notare che i consulenti li accompagnavano anche nei combattimenti per valutare le loro tattiche, che erano descritte così improduttive da essere “come suicidi”. Questi stessi disertori rivelarono che furono allora ri-addestrati in piccole unità di manovra, con competenze anti-aeree e di manovra di veicoli corazzati. I consulenti li aiutarono a migliorare le qualità di operatori di media locali e nelle pratiche di sicurezza operativa dei leader chiave, facilitando anche i trasferimenti finanziari bimestrali attraverso i corrieri.

Un altro meccanismo di espansione è l’integrazione di jihadisti di esperienza nei ranghi locali, più raro degli altri. Tra il 2012 ed il 2014 lo Stato islamico ha proattivamente inviato foreign fighters dall’Asia centrale e del sud che aveva addestrato e indottrinato in Iraq e Siria verso i loro Paesi di origine per unirsi con frammenti di gruppi jihadisti locali, formando dei nuclei di quadri iniziali di Wilayat. Probabilmente la più chiara dimostrazione di questo è Abu Nabil al-Anbari come “leader delegato” delle province libiche nel 2014. Prima di questa nomina, Anbari era un comandante militare in Iraq. L’episodio in Libia nondimeno parla della sperimentazione della flessibilità e innovazione dello Stato islamico nel suo espansionismo globale.

Tensioni interne

Le dinamiche a trazione e pressione tra l’organizzazione centrale e i suoi affiliati producono frizioni, alcune delle quali possono provarsi fatali per la relazione. Lo Stato islamico perde un franchise a causa di differenze strategiche e metodologiche. Durante il suo primo tentativo di franchising nel 2012, l’allora leader Abu Bakr al-Baghdadi invia il suo vice Abu Ali al- Anbari in Siria per monitorare la sua startup siriana, Jabhat al-Nusra. Il pungente resoconto al suo capo mette in moto la spaccatura tra lo Stato islamico e Jabhat al-Nusra e il più consequenziale scisma tra lo Stato islamico e Al Qaeda. Da queste esperienze, la leadership dello Stato islamico ha identificato la necessità di una relazione più direttiva tra il punto centrale e la periferia della sua organizzazione.

Le frizioni tra il nucleo centrale e gli affiliati si sviluppano in tre aeree sensibili: la selezione e la guida dei leader, la correzione degli errori metodologici e la direzione strategica.

La gestione della leadership è importante per ogni organizzazione e la storia propria dello Stato islamico di gestione e transizione dei leader a tutti i livelli è stata una forza generale per il gruppo. Vi sono delle eccezioni rilevanti. Il reclutamento da parte dello Stato islamico di Boko Haram per diventare la provincia del West Africa e la seguente degradazione del suo leader carismatico, Abubakar Shekau, è alla radice della frattura del gruppo in due distinte fazioni, entrambe hanno giurato alleanza allo Stato Islamico. In Yemen, Afghanistan, Mindanao, lo Stato islamico ha fallito nel dispensare la sua dottrina di gestione della leadership. Ciò ha avuto l’effetto di minare la legittimità e la stabilità di quei franchise che lottavano per un rapido cambio dei leader a causa della scarsa selezione e delle inadeguate procedure di sicurezza.

Mentre la provincia Khurasan in generale appare imitare il punto centrale nei suoi attacchi contro la minoranza sciita hazara e con campagne di assassini urbane – più recentemente con obiettivo le donne che lavorano per i  mezzi di comunicazione – altri sono stati riluttanti nell’adottare le regole dello Stato islamico.

La provincia West Africa oltre a rifiutare la gestione della leadership da lontano, ha ignorato gli editti religiosi sull’abolizione dei bambini soldato e degli attentatori suicidi donne come combattenti regolari. Il gruppo ha anche fallito nello stabilire un esercito opposto all’utilizzo di milizie in maniera casuale, contrari ai consigli degli addestratori dello Stato islamico.

Da un punto di vista propagandistico, attraverso l’espansionismo globale, il movimento è in grado di mostrare esso stesso in continua offensiva, una percezione che è fondamentale se serve per stare al passo con le forze centrifughe del suo marchio e mantenere una coesione organizzativa.

Per questa ragione in particolare – il fatto che lo Stato islamico raccoglie gli enormi dividendi simbolici vantandosi delle sue province – che dobbiamo comprendere, con occhio critico, il suo globalismo.

L’Africa sub-Sahariana è stata per lungo tempo nel mirino di gruppi che avevano come obiettivo il jihad globale.

Con altre aree del mondo che ricevevano la porzione più grande dell’attenzione da parte delle forze di controterrorismo occidentali, sia Al Qaeda che lo Stato islamico hanno tratto vantaggio dall’opportunità di accrescere la loro presenza nella Regione.

L’Africa sub-Sahariana come Regione per lo Stato islamico è fondamentale perchè è proprio qui dove esso può raggiungere una vera e propria “capacità di successo” ovvero la capacità di generare e mantenere un alto tempo operativo per gli attacchi. Le province dello Stato islamico nell’Africa occidentale e nell’Africa centrale rispettivamente, hanno il potenziale di conquistare e mantenere territorio nel Sahel e lungo la costa sud est Swahili, in una maniera simile a quella che il fulcro centrale dello Stato islamico fu in grado di raggiungere in Iraq e Siria durante il suo picco.

L’attenzione dello Stato islamico spostata verso l’Africa sub-Sahariana dovrebbere essere vista come parte di una strategia deliberata in una Regione dove è molto più facile lavorare lungo e oltre le frontiere rispetto ad altre parti del mondo.

Con fondi per conflitti che consistono approssimativamente in 100 milioni di dollari, l’organizzazione manterrà la sua abilità di seminare nuove imprese e rafforzare le esistenti. Attraverso questo processo, quelli che una volta forse erano puramente gruppi locali, ora possono conquistare una dimensione transnazionale a differenti livelli. Anche se, fondamentalmente, sono guidati da preoccupazioni parrocchiali e rimostranze, gli affiliati dello Stato islamico possono evolvere e diventare più globali in natura. Diversi gruppi jihadisti africani hanno cambiato notevolmente il modo in cui combattono dopo essere diventati affiliati dello Stato islamico, in alcuni casi implicando sia miglioramenti tattici che evoluzione strategica. Questi gruppi sono ora capaci di lanciare operazioni molto più complesse e sono rappresentati di più nella propaganda dello Stato islamico.

Un esempio di questo è la Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico nota anche con l’acronimo inglese ISCAP – Islamic State Central Africa Province – la quale si è considerevolmente trasformata da quando è stata formalmente riconosciuta dallo Stato islamico nell’aprile del 2019.

All’inizio del 2020, gli estremisti violenti in Mozambico hanno iniziato ad operare in unità più grandi e a organizzare attacchi più sofisticati contro obiettivi di più alto profilo, come le capitali dei distretti. Alcune prove recenti ci suggeriscono che ISCAP sta adesso focalizzandosi più sul conquistare il cuore e la mente della popolazione nel nord del Mozambico. Una serie di attacchi nel marzo del 2020 hanno visto gli estremisti deliberatamente evitare vittime civili e distribuire il bottino di guerra – cibo rubato, medicine, carburante – ai residenti locali.

Un segno della crescente forza di ISCAP in Mozambico: i suoi militanti hanno preso il controllo della città portuale di Mocimboa de Praia – un obiettivo strategico – nell’agosto del 2020. Due mesi più tardi, i militanti ISCAP hanno lanciato degli attacchi transfrontalieri dal nord del Mozambico nel sud della Tanzania. Il devastante attacco nella città di Palma a marzo, che ha ucciso una dozzina di persone, ha alcuni degli elementi caratteristici dei classici attacchi dello Stato islamico, inclusa la decapitazione di stranieri e gli obiettivi di interessi economici occidentali. Ha forzato la sospensione di un progetto del gigante petrolifero francese Total del valore di 20 miliardi di dollari sul gas naturale liquefatto e le attività di esplorazione collegate ad esso.

Gli eventi degli ultimi due anni ci suggeriscono che gli affiliati africani dello Stato islamico non sono più un evento marginale al suo punto centrale operativo in Siria ed Iraq. Il fulcro centrale dell’organizzazione sia dipendente adesso più che mai sulle attività militari dei suoi affiliati nel continente.

E’ necessario prestare più attenzione, più da vicino, per vedere dove lo Stato islamico sta finanziando nuovi affiliati e dove le branche esistenti o le province stanno manifestando le loro capacità e abilità
migliorate in uno sforzo volto a tenere il califfato vivo.

Agosto 23 2021

Afghanistan: sperimentare non è trasformare

Afghanistan

L’Afghanistan è stato il luogo della sperimentazione degli approcci moderni di gestione della crisi: approccio globale, approccio integrato, civile-militare PRT, State-building. Lì come in Sahel.

Il bisogno è quello di una revisione strategica profonda.

La più grande minaccia alla stabilità dell’Afghanistan è stata l’inefficacia di molti di coloro che sono stati in posizione di potere nel governo afgano. Tali figure includono anche il nuovo capo della difesa di Kabul, Khan, che malgrado la sua reputazione come ufficiale militare capace è ben noto tra gli afgani per avere un ruolo centrale nella storia senza fine delle divisioni etniche all’interno delle forze di sicurezza e di difesa nazionale afgane.

Khan ha iniziato la sua carriera come un ufficiale, cresciuto molto velocemente attraverso i ranghi delle forze anti-sovietiche durante la prima guerra civile nel Paese negli anni 1990. Più tardi è diventato un confidente di Ahmad Shah Massoud, ed ha aiutato il leggendario “leone di Panjshir” a costruire l’Alleanza del Nord anti-talebana in un muro di resistenza nelle montagne del nord Panjshir. Come membro centrale del Consiglio di Supervisione militare (Shura-e Nazar) dell’Alleanza del nord, Khan era servito come principale collegamento militare per Kabul e  le province attigue di Parwan e Kapisa durante il combattimento per riprendere il Paese dai Talebani. Anni più tardi, quando l’uomo militare forte e Ministro della Difesa Mohammed Fahim, muore nel 2014, Khan diventa, de facto, il capo di una delle più importanti fazioni nell’esercito afgano – i resti dell’ambiguo Shura-e Nazar ed eredita il supporto di leader influenti dell’Alleanza del nord come Younus Qanooni, un ex Speaker della Camera Bassa del Parlamento afgano (Wolesi Jirga).

Infatti, furono i forti legami di Khan con l’Alleanza del Nord che lo hanno posizionato spesso in contrasto con il Ministro della Difesa afgano della prima era post-talebana, Abdul Rahim Wardak. Un uomo di etnia pashtun addestrato negli Stati Uniti, Wardak spesso favoriva i suoi pashtun per posizioni di comando, e la sua antipatia verso Khan era molto spesso fonte di frizione tra gli ufficiali. Per anni Khan e Wardak si sono scontrati su tutto, dalle nomine dello staff al materiale militare. Si sosteneva che le reti di fedeli di Khan ed il livello brigata e battaglione avessero potere assoluto sulle operazioni dell’esercito afgano.

Poi c’è il vice presidente Amrullah Saleh. Se c’è una persona che sicuramente ha fortemente sostenuto la nomina di Khan come Ministro della Difesa, questo è Saleh, ex traduttore inglese di Massoud e, per molti anni durante e dopo la morte di Massoud, capo della fazione dell’Alleanza del Nord in collegamento con la CIA. Saleh – che ad un certo punto in poi è stato a capo del Direttorato Nazionale della Sicurezza afgano, non ha mai nascosto la sua veemente antipatia per una riconciliazione con i talebani. Saleh detiene ancora una significativa influenza su fazioni chiave dei servizi di sicurezza afgani, e la sua mente, acutamente strategica, gli ha fatto guadagnare una considerevole quantità di rispetto e lealtà.

Diversi, recenti, improvvisi cambiamenti compiuti dal presidente afgano nei posti chiave della sicurezza segnalavano che la presa al potere di Ghani si stava indebolendo, mentre metteva in luce l’inefficacia delle figure influenti e di potere nell’era post-talebana.

La Cina

Il 28 luglio 2021, il Consigliere di Stato cinese e Ministro degli esteri Wang Yi hanno tenuto un incontro di alto profilo con una delegazione di nove talebani afgani, incluso il co-fondatore e vice leader Mullah Abdul Ghani Baradar. Wang ha utilizzzato l’incontro per riconoscere pubblicamente i talebani come legittima forza politica in Afghanistan, un passaggio che ha un significato straordinario per il futuro sviluppo del Paese.

Un esame accurato dei dettagli dell’incontro e lo storico degli impegni del governo cinese con i talebani rivela che la strada futura delle relazioni è lontana dall’essere certa. Non solo è indeterminata la fine del conflitto armato in Afghanistan, ma vi sono anche le questioni su quanto moderati attenzione! moderati nel loro essere estremisti- saranno i Talebani, che ha un enorme impatto sulla percezione dei funzionari cinesi dell’organizzazione. La Cina ha già visto disintegrare i propri precedenti investimenti in Afghanistan e, nel futuro, presterà molta attenzione ai passi da intraprendere.

Il percorso cinese in Afghanistan

  • 1993: 4 anni dopo dal ritiro delle ultime truppe dell’Unione Sovietica dall’Afghanistan e un anno dopo il collasso del regime comunista afgano, la Cina evacua la sua ambasciata.
  • Dopo che i Talebani prendono il controllo nel 1996, il governo cinese non ha mai stabilito una relazione ufficiale con quel regime. La natura fondamentalista dei Talebani, la loro associazione con e il nascondere al Qaeda, la loro discutibile relazione con i militanti Uighur, ha condotto i funzionari cinesi a vederli in modo negativo.

I funzionari cinesi hanno sviluppato una relazione con i Talebani in risposta al deterioramento della situazione di sicurezza in Afghanistan e ai cambiamenti degli equilibri di potere sul terreno.

  • 2015: la Cina ospita i colloqui segreti tra i rappresentanti dei Talebani e il governo afgano a Urumqi, la capitale della regione autonoma Xinjiang Uighur. Nel luglio del 2016 una delegazione dei talebani – guidata dal Sher Mohammed Abbas Stanekzai, l’allora rappresentante senior del gruppo in Qatar – visita Pechino.
  • Gli sforzi dell’ impegno cinese si sono intensificati nel 2019. Quando le negoziazioni tra i Talebani e gli Stati Uniti a Doha vacillavano nel settembre del 2019, la Cina ha cercato di riempire il vuoto invitando Baradar a partecipare alla due giorni di conferenza intra-afgana a Pechino. Era stata originariamente prevista essere il 29 e 30 ottobre di quell’anno. Fu postposta almeno due volte,  prima che la Cina e alla fine il mondo precipitassero nella crisi Covid-19. L’incontro non ha mai avuto luogo.
  • Nel giugno dello scorso anno, Baradar, diventato il capo dell’ufficio politico dei Talebani in Qatar – considerato come una figura moderata da parte dei funzionari cinesi – visita la Cina per incontri ufficiali sul processo di pace afgano e su questioni di contro-terrorismo.

La diplomazia dell’equilbrio cinese

Dedicando molta attenzione alla recente visita dei Talebani a Pechino, si è badato molto a ciò che è successo prima. Dodici giorni prima, il Segretario Generale Xi Jinping ebbe una conversazione telefonica con il Presidente afgano Ashraf Ghani. Xi enfatizzava il fermo sostegno della Cina al governo afgano per mantenere la sovranità della nazione, l’indipendenza e l’integrità territoriale.

La relazione tra Cina e Afghanistan è nata per necessità piuttosto che per preferenza.

Quandanche il fulcro centrale dei Talebani adottasse uno politica neutrale, o finanche amichevole verso la Cina, non è possibile presumere quanto questa posizione possa essere reale in ogni fazione all’interno del gruppo, ed è proprio questa una delle questioni più importanti da considerare.

Vi è stata una consistente disconnessione tra la retorica cinese che riguarda il potenziale economico dell’Afghanistan e l’attuale portata dei progetti commerciali cinesi nel Paese.

Nel 2019, l’ambasciatore cinese in Afghanistan ha sottolineato l’importante ruolo che l’Afghanistan può giocare nella Belt and Road Initiative così come nell’integrazione economica regionale Cina-Pakistan-Afghanistan. Nondimeno, il quadro roseo non è sostenuto dai dati attuali. Per i primi sei mesi del 2021, il totale dell’investimento cinese estero diretto in Afghanistan era solo di $2.4 milioni ed il valore dei nuovi contratti di servizi firmati semplicmente di 130.000 dollari. Ciò suggerisce che il numero di imprese cinesi e lavoratori in Afghanistan sta significativamente diminuendo. Per l’intero 2020, il totale dell’investimento estero diretto cinese in Afghanistan era di $4.4 milioni, meno del 3% di questo tipo di investimento in Pakistan, che era di $110 milioni per lo stesso anno.

La Cina ha visto bruciare letteralmente i suoi investimenti in Afghanistan. I suoi più importanti progetti:

Amu Darya: petrolio. Compagnia petrolifera di Stato cinese, la più grande, China National Petroleum Corporation.

Aynak: miniera di rame. Metallurgical Group Corporation anch’essa di proprietà dello Stato cinese e Jiangxi Copper Company Limited .

Entrambi hanno avuto un destino infausto. Le sfide hanno compreso scavi archeologici che hanno fermato il progresso della miniera di rame, minacce di sicurezza, la ri-negoziazione dei termini, così come le sfide di ricollocamento dei residenti locali. Tra queste, l’instabilità politica e le minacce alla sicurezza sono state le principali preoccupazioni. Fino a quando l’ambiente di sicurezza resterà instabile, la Cina è improbabile che avvii progetti economici imponenti in Afghanistan. La presenza delle truppe americane lì non era un fattore che ostacolava le attività economiche cinesi.

La Cina ha la capacità di giocare un ruolo più grande da un punto di vista economico nel Paese, ma la volontà di farlo emergerà solo quando vi saranno dei segnali di stabilità sostenibile. La Cina ha intrecciato una serie di legami bilaterali, trilaterali (Cina, Pakistan, Afghanistan) ed impegni multilaterali per incoraggiare tale stabilità. Se la stabilità non emerge nel prossimo futuro, la Cina molto probabilmente eviterà un profondo coinvolgimento economico.

La corruzione delle elites afgane e la loro assoluta disconnessione dalle vite delle persone ordinare in Afghanistan è stato il punto debole – irrilevante per la comunità internazionale – che ha lasciato spazio ai Talebani.

Quasi ovunque nel mondo il cosidetto Occidente ha sostenuto regimi soprattutto per proteggere se stesso da pericoli – percepiti – di ogni tipo o genere. Questo è il caso in molte parti dell’Africa, in posti come Mali, Mozambico dove elite incassano felicemente gli assegni dei governi occidentali per combattere l’estremismo violento islamico o prevenire l’emigrazione verso l’Occidente.

L’azzardo morale si accumula quando il lavoro di coloro che sono al governo diventa sempre più quello di mantenere il loro privilegio, grado e opportunità attraverso la corruzione. L’uomo e la donna ordinari che sono in prima linea per combattare la minaccia dichiarata dell’Islam radicale guardano a queste persone e si chiedono: perchè devo morire per questa massa di ladri?

Quali interrogativi porsi

La prima, e più immediata domanda da porsi è come gli odierni Talebani siano in confronto a coloro che hanno governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001. Il leader del gruppo insiste che sono cambiati, ma l’esperienza suggerisce che potrebbe essere più uno schema, un piano per mantenere “la pace” fino a quando non consolidano il potere.

Il gruppo sta affrontando una resistenza poco visibile finora, ma l’opposizione ai Talebani è significativa in Afghanistan. Il Paese scivolerà nella guerra civile? Se così fosse, attirerà forze dall’esterno? L’Afghanistan rischia di diventare un failed State, con una nuova serie di ripercussioni globali e regionali?

Quello che accade in Afghanistan, come ha imparato il mondo due decadi fa, non resta in Afghanistan. Un risultato immediato del ritorno dei Talebani è il disperato sforzo di moltissimi afgani di lasciare il paese. In aggiunta alla tragedia umana, quello che emerge è una questione geopolitica. Quale impatto i grandi flussi di rifugiati avranno sulla politica dei vicini immediati dell’Afghanistan e più in là fino in Europa? Il caso della Siria ci ha mostrato come i rifugiati sono diventati pedine delle politiche locali, fondamentalmente un dono ai demagoghi nazionalisti.

Un’altra domanda chiave riguarda la vera ragione che ha portato la NATO in Afghanistan nel 2001: estremismo violento (terrorismo). I Talebani permetteranno che il loro paese diventi ancora una volta un paradiso per tali gruppi? I Talebani hanno già liberato migliaia di prigionieri incluso membri di Al Qaeda: la loro ideologia si mescola perfettamente con quella di altri gruppi estremisti islamici e dal momento che devono affrontare un’inserruzione interna, li renderà molto più che disponibili ad accogliere estremisti dall’esterno con la stessa ideologia.

Poi vi è la questione di come la salita al potere dei Talebani influenzerà la Regione.

In aggiunta ai flussi migratori, la Regione ora deve affrontare un vicino imprevedibile. Già la Cina e la Russia, per non menzionare il Pakistan, sponsorizzano da tempo i Talebani ed hanno forgiato i legami con i Talebani. La Cina si preoccuperà dei Talebani che ospitano i militanti Uyghur, come hanno fatto in passato, fomentando il malcontento nello Xinjiang. Similmente Mosca si preoccuperà dei legarmi tra gli afgani radicali e gli estremisti islamici in Russia.

I governi in Iran, Turchia e nel resto della Regione, quella dei Talebani resta una una prospettiva spinosa in un Paese instabile. Gli sciiti in Iran, in particolare, dovranno intraprendere i propri passi molto attentamente nel discutere con il gruppo radicale sunnita.

Per adesso ci sono molte più domande che risposte. L’unica certezza è che gli eventi di questi giorni influenzeranno e trasformeranno milioni di vite e si ripercuoterà per anni a venire.

Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 18 2021

Hamas: origini e obiettivi

Hamas

Hamas (In arabo: حماس‎‎ Ḥamās, un acronimo di حركة المقاومة الاسلامية Ḥarakat al-Muqāwamah al-ʾIslāmiyyah) significa movimento di resistenza islamica – Islamic Resistance Movement-.

Hamas: le origini

Formato nel tardo 1986 all’inizio della prima intifada palestinese. Le sue radici si trovano nel braccio palestinese dei fratelli musulmani; sostenuto da una robusta struttura socio – politica  all’interno dei territori palestinesi. Il gruppo, in sostanza, fu stabilito per fornire un veicolo per i fratelli mussulmani nel violento confronto contro Israele, senza esporre la Fratellanza e le sue ampie reti sociali e istituzioni religiose alla rappresaglia israeliana.

Obiettivi

La Carta del gruppo richiama alla creazione di uno stato palestinese islamico al posto di Israele, rifiutando tutti gli accordi fatti tra il movimento di liberazione palestinese (OLP) ed Israele. La carta di Hamas definisce la storica Palestina, incluso l’Israele odierno, come una terra islamica ed esclude ogni possibilità di pace permanente con lo stato ebreo.

Hamas
foto: www.forward.com

Originariamente il gruppo aveva due obiettivi: condurre una battaglia contro Israele (attraverso il suo braccio armato) e fornire programmi di benessere sociale. Dal 2005, tuttavia, si impegna nel processo politico palestinese.
I suoi sostenitori lo vedono come un movimento di resistenza legittimo. Nel 2006, Hamas vince sorprendentemente le elezioni nel Consiglio Legislativo Palestinese, ma le tensioni con la fazione rivale: Fatah si acuiscono. Scontri mortali tra i due gruppi nel giugno del 2007, dopo che Hamas stabilisce un governo rivale, fanno sì che Fatah e l’autorità palestinese gestiscano parti di West Bank non sotto il controllo israeliano.

Perché Hamas usa gli attacchi suicidi?

Hamas si mette in rilievo dopo la prima intifada come il principale oppositore palestinese agli accordi di pace di Oslo tra Israele e l’OLP.
Malgrado numerose operazioni israeliane contro il gruppo e i provvedimenti restrittivi dell’Autorità Palestinese, Hamas crede fermamente che lanciando attacchi suicidi possa avere un efficace potere di veto su tutto il processo di pace.  Ne riportiamo un esempio: febbraio e marzo 1996: attacchi suicidi sugli autobus, con quasi 60 civili israeliani uccisi, in rappresaglia dell’assassinio nel dicembre del 1995 del fabbricatore di bombe: Yahya Ayyash. Per ciò il gruppo fu ritenuto responsabile di aver provocato un cambiamento di rotta di Israele verso una possibile uscita dal processo di pace e aver portato Benjamin Neatanyahu, grande oppositore degli accordi di Oslo, al potere.

Molti palestinesi acclamarono l’ondata di attacchi suicidi di Hamas nei primi anni della seconda intifada. Essi vedevano il martirio come vendetta per le loro perdite e per la costruzione di insediamenti israeliani a West Bank, voluto dai palestinesi come parte del loro stato.

Struttura della leadership

Hamas

Il gruppo comprende tre “cicli di leadership”. Il primo consiste di leader locali all’interno di West Bank e Gaza. I più famosi: lo sceicco Ahmed Yassin e Abdul Aziz Rantisi che sono stati uccisi da Israele negli anni recenti. Il secondo ciclo include la leadership esterna del gruppo: un bureau politico che include Khaled Mashal e Mousa Abu Marzouk. Il terzo ciclo consiste nella leadership internazionale del movimento globale dei Fratelli Musulmani, che comprende prominenti figure dei Fratelli Musulmani, come Muhammad Akef e Yusuf al – Qaradawi. Questi tre cicli hanno, ognuno, differenti sfere di responsabilità. I due circuiti interni ed esterni giocano un ruolo centrale nella determinazione della strategia di Hamas, delle operazioni terroristiche contro Israele, e il finanziamento di queste attività. Il circuito più interno è maggiormente responsabile per le questioni quotidiane della vita palestinese e costruisce la postura politica di Hamas nei territori attraverso le sue battaglie contro la corruzione ed il supporto per le attività sociali; il circuito più esterno mantiene contatti con i sostenitori internazionali e i finanziatori, incluso le leadership di altre organizzazioni  islamiche e l’Iran.

Composizione

Ha un’ala militare conosciuta come Izz al-Din al-Qassam Brigades che ha condotto molti attacchi anti israeliani sia nei territori palestinesi che in Israele. Questi attacchi hanno incluso una vasta scala di bombardamenti contro obiettivi civili israeliani, attacchi con esplosivi improvvisati sulle strade e attacchi missilistici.

Hamas è composto da elementi amministrativi, caritatevoli, politici e militari, che a loro volta si articolano in altre piccole strutture. Ogni regione è composta da “famiglie” e branche, che rispondono ad un centro amministrativo. I membri di Hamas si raggruppano attorno a quattro categorie generali: intelligentsia, sceicchi (leader religiosi), giovani candidati alla leadership ed attivisti.
Il ramo intelligence realizza sei direttive: sorveglianza degli spacciatori di droga, punisce coloro che sono colpevoli di tradimento, prostituzione o di vendere narcotici; distribuisce le informazioni del gruppo in volantini; pubblicizza le politiche di reclutamento di Israele e le politiche per la collaborazione e avverte la popolazione contro la complicità; gestisce il supporto logistico per l’organizzazione. Monitora anche i crimini nei territori: le attività criminali sono tollerate perché permettono un ampio terreno per il reclutamento di informatori.
Le unità commando hanno 4 obiettivi principali: stabilire le famiglie (usar) e cellule “segrete”; raccogliere informazioni sui militari israeliani; condurre operazioni militari, incluso il rapimento di soldati nemici. I fondatori di Hamas hanno creato, inoltre, altre branche che sono costantemente in contatto tra di loro, ma compiono le loro funzioni all’esterno. Al- Maktab al – I’lami e al – Maktab al – Siyassi: rispettivamente l’ufficio informazioni e politico.
L’ufficio informazione è situato in Giordania, responsabile per la preparazione e la disseminazione di tutti i comunicati stampa che riguardano le dichiarazioni politiche di Hamas. Diffonde anche pubblicazioni in nome di Hamas. L’ufficio politico si occupa delle relazioni estere di Hamas e rappresenta l’organizzazione alle conferenze ed incontri che hanno a che vedere con gli affari palestinesi.

Hamas dov’è?

La forza di Hamas è concentrata nella striscia di Gaza e nelle aree di West Bank.

Supporto e finanziamento

Ci sono numerosi attivisti musulmani che simpatizzano con Hamas, ma si ha una conoscenza limitata circa le loro operazioni. Alcuni di loro forniscono supporto materiale o morale al ramo politico del gruppo. La maggior parte dei fondi di Hamas e gli sforzi sono diretti verso l’assistenza alla popolazione. Hamas gestisce la miglior rete di servizi sociali nella striscia di Gaza. Strutturato e ben organizzato, il gruppo gode di fiducia perché viene percepito come meno corrotto e soggetto al clientelismo (patronage) di altre attori nazionali secolari, specialmente Fatah.  In aggiunta alle donazioni e alla zakat (una tassa obbligatoria del 2,5% dei guadagni di ogni musulmano), attraverso i comitati locali, i sostenitori del gruppo creano piccoli progetti finalizzati a generare piccoli guadagni per permettere un’auto – sufficienza. Ad esempio, la produzione di miele, di formaggio, la manifattura in casa di vestiti . Ed infine destinano una considerevole porzione delle loro risorse per assistere i giovani palestinesi.
Sebbene sia stato scritto molto sulla connessione iraniana e/o saudita con il gruppo, ci sono piccole evidenze sostanziali che corroborano queste affermazioni. Durante i primi anni della rivolta, giornalisti identificarono Hamas come un gruppo islamico appoggiato dai sauditi. L’affermazione che i fondi di Hamas arrivano primariamente da Teheran è iniziata nel 1989, quando Israele per primo decise che il gruppo era una seria minaccia alla sicurezza. Tra i gruppi che hanno esteso l’assistenza ad Hamas ci sono organizzazioni islamiche nel continente indiano, fazioni islamiche in Turchia, Malesia, Afghanistan.

Principali operazioni militari di Israele contro Hamas

Israele ritiene responsabile Hamas di tutti gli attacchi che si generano nella striscia di Gaza e conduce tre campagne militari a Gaza: Operation Cast Lead nel dicembre del 2008, Operation Pillar of Defence nel novembre del 2012 e Operation Protective Edge nel luglio del 2014.
Dai conflitti dal 2008 al 2012 il gruppo emerge militarmente degradato ma con un rinnovato supporto tra i palestinesi a Gaza e West Bank per essersi confrontato con Israele ed essere sopravvissuto.

Hamas continua la sua battaglia malgrado un blocco congiunto imposto su Gaza da Israele e dall’Egitto, diventando sempre più isolato. La caduta di un alleato chiave: il presidente egiziano Mohammed Morsi, nel luglio del 2013 costituisce un ulteriore colpo. Nell’aprile del 2014 con un accordo di riconciliazione con Fatah  forma un governo di unità nazionale.

Chi lo ha inserito nelle lista di organizzazioni terroristiche?

Hamas è designata come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone.

Hamas potrà diventare un gruppo moderato?

Molti si chiedono se Hamas possa o meno diventare moderato. Hamas sicuramente mostrerà una flessibilità tattica nel suo approccio alla governance, ma è molto improbabile che cambi qualsiasi dei suoi aspetti di strategia fondamentale. Del resto Khaled Mashal ha dichiarato in diverse occasioni il principale rifiuto di Hamas del diritto di Israele di esistere, in ogni misura, in ogni frontiera.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.

Dicembre 1 2020

Siria: un conflitto senza fine? (dimenticato)

Siria

Ve la ricordate la guerra civile in Siria? Avete più letto o ascoltato notizie da questo – bellissimo – Paese?

La guerra civile siriana ha decimato la Siria per 9 anni e ora pare che il conflitto stia inesorabilmente volgendo ad una conclusione.

Il Presidente Bashar al-Assad, con l’aiuto dell’Iran e della Russia, sembra essere emerso militarmente vittorioso dal conflitto.

La crisi in Siria è veramente finita?


La guerra civile siriana che ha decimato il Paese per nove anni, provocando una crisi umanitaria regionale e attirando attori dagli Stati Uniti alla Russia, pare che stia inesorabilmente volgendo ad una conclusione.

Il presidente Bashar al-Assad con il sostegno dell’Iran e della Russia, sembra essere emerso militarmente vittorioso dal conflitto iniziato dopo che il suo governo ha represso
violentemente le proteste nel 2011. La ribellione armata che ne è seguita presto si è trasformata ina guerra proxy globale e regionale che, al punto più alto dei combattimenti, vedeva i gruppi estremisti islamici prendere il controllo di vaste porzioni del Paese, solo per perderle poi a seguito delle contro-offensive sostenute dalle forze pro-governative e dagli eserciti occidentali capeggiati dagli Stati Uniti.
Il combattimento non è ancora totalmente concluso, con la regione nord-occidentale di Idlib che resta al di fuori del controllo governativo. Agli inizi del 2020, l’operazione dell’esercito siriano sostenuto dai russi per riprendere Idlib da ciò che rimaneva dei gruppi di opposizione armati concentrati lì, si è scontrata con le forze turche che erano state dispiegate per proteggere le milizie di Ankara. Gli scontri sono stati un vero e proprio promemoria: il conflitto, sebbene sembrasse nelle sue fasi finali, potrebbe ancora intensificarsi in una conflagrazione regionale. Anche la situazione nel nord est resta volatile a seguito della rimozione delle forze americane dalla frontiera con la Turchia, con le forze turche, siriane, russe, tutte ora dispiegate nella Regione, unitamente ai proxy e alle milizie curdo-siriane.
Il ritorno ai combattimenti di alta-intensità ad Idlib ha creato un’altra crisi umanitaria, inviando ondate di rifugiati verso la frontiera turca e aggiungendo alla guerra un già sconcertante costo umanitario. Si stima che il numero dei morti sia di 400,000 persone, ma potrebbe essere, in realtà, molto più alto.

In vari punti del conflitto, più della metà della popolazione del Paese è stata dislocata: 5,6 milioni di persone hanno lasciato la Siria dal momento che è iniziata la guerra, stabilendo una considerevole tensione nei Paesi confinanti così come in Europa. Anche se il conflitto diminuisce, non è chiaro quando o se saranno in grado di tornare.

Quando alla fine il combattimento arriverà ad una fine, Assad dovrà affrontare la sfida di ricostruire il Paese, incluso le aree dove presumibilmente ha impiegato le armi chimiche contro i suoi stessi cittadini.

La questione di chi paga il conto rimane aperta.

Trump è stato sempre entusiasta di distanziare gli Stati Uniti dalla situazione in Siria, i Paesi europei detestano lavorare con Assad, Mosca è improbabile che si faccia carico della ricostruzione che le Nazioni Unite hanno stimato ammontare a circa 250 miliardi di dollari.

Potenze esterne e coalizioni

La Siria inizia a sbiadirsi dall’agenda internazionale. Sebbene la Russia e la Turchia restino attivamente impegnate, l’interesse è in calo tra altri attori, incluso gli Stati Uniti – un cambiamento marcato, istrionico, rispetto alle prime fasi del conflitto, quando la Siria è servita come campo di battaglia proxy, allo stesso modo, per potenze locali e globali. Mosca non appare interessata a cedere la sua influenza, sebbene non sia chiaro quanta il Cremlino ne abbia su Assad.


La pandemia da covid-19 ed il conseguente crollo economico dominano i mezzi di comunicazione e la guerra civile in Siria è svanita nell’oscurità dell’informazione.

Pur tuttavia cattive notizie che provengono proprio dalla Siria giustificano l’attenzione mondiale.

L’operazione militare turca nella provincia nordoccidentale della Siria: Idlib, rischia un conflitto con la Russia, protegge i ribelli estremisti violenti islamici e prolunga la guerra civile, tutto a spese dei civili turchi che rivendicano di proteggere. Nel frattempo, l’accordo di cessate-il-fuoco limitato che Ankara ha recentemente negoziato con Mosca ritarda soltanto un ulteriore spargimento di sangue.
Gli Stati Uniti non hanno interessi di sicurezza in gioco in Siria, invece di sostenere la Turchia e quindi prolungare la guerra, Washington dovrebbe utilizzare l’influenza diplomatica con il presidente Erdogan ed il suo governo per indurlo ad un accordo che blocchi ciò che resta dei gruppi estremisti violenti islamici in Siria, prevenendo un ulteriore intensificazione militare e limitando la violenza contro i civili.


Il curriculum turco in Siria non è promettente. Ha sostenuto i ribelli anti-Assad almeno fin dall’inizio della guerra civile, ma queste milizie sono state gradualmente respinte dalle forze governative siriane, rendendo Idlib uno degli avamposti ribelli residui in Siria.
Secondo i termini di un accordo di cessate-il-fuoco del 2018 con la Russia, la Turchia doveva assicurare una “zona di diminuzione del conflitto” a Idlib, dove i soldati turchi avrebbero vietato l’accesso ad armi pesanti e ai militanti estremisti e fatto in modo che i ribelli riaprissero le principali arterie stradali nell’area. Quasi niente di tutto ciò è accaduto. La Turchia ha permesso ad un ramo di Al Qaeda, Hayat Tahir al-Sham di consolidare il controllo sui gruppi ribelli in questa zona.
Lo scorso dicembre, le forze siriane, sostenute dalla potenza aerea russa, hanno lanciato un’offensiva nella zona di diminuzione del conflitto a Idlib, circondando diversi posti di osservazione turchi. Gli sforzi della Turchia di rafforzare le sue posizioni hanno condotto ad un combattimento diretto tra le truppe siriane e turche.
Gli alleati Nato di Erdogan hanno esitato a concedere un più grande sostegno per la sua invasione della Siria, così il Presidente turco ha iniziato a spingere i rifugiati siriani nella vicina Grecia nel tentativo di apporre una maggiore pressione sui leader europei.

A marzo di quest’anno, Erdogan ottiene un nuovo accordo di cessate-il-fuoco con la Russia che ha permesso alle forze siriane di mantenere il territorio “riconquistato”, cede effettivamente lo spazio aereo su Idlib a Mosca e crea una nuova zona di diminuzione del conflitto pattugliata da soldati russi e turchi.
La storia ci suggerisce che i cessate-il-fuoco non durano. La determinazione di Assad a riprendersi Idlib non è diminuita e, né il suo governo, né i suoi sostenitori a Mosca e a Teheran tollereranno una presenza sunnita estremista di lungo periodo che minaccia l’unità della Siria.

Le operazioni militari turche in Siria rischiano un conflitto con la Russia, proteggono i ribelli estremisti islamici e prolungano la guerra civile, tutto a spese degli stessi civili che Ankara rivendica di proteggere.

Novembre 6 2020

Le linee strategiche della politica estera di Francia e Turchia

Turchia Francia politica estera

Quando Macron è salito al potere sembrava non avere preconcetti su come gestire le relazioni della Francia con la Turchia, che si sono deteriorate prima che lui s’insediasse nel 2017. La Francia ha approvato, nel 2001, una legge che riconosce ufficialmente il genocidio armeno da parte dei turchi ottomani – un evento che la Turchia moderna continua a negare – e i funzionari francesi hanno ripetutamente messo in discussione l’appartenenza della Turchia all’Unione Europea.

Anche se la Francia ha espresso non poca riluttanza sull’accordo Unione Europea – Turchia del 2016 sulla gestione delle migrazioni, la visita a Parigi del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 si è svolta in un clima disteso.

Le relazioni tra i due Paesi hanno preso una piega negativa a causa delle politiche divergenti in Siria e Libia.

Nel nord della Siria, la Turchia ha cercato di schiacciare le forze di milizia curde del YPG (Unità di Protezione Popolare) che sono dei partner e protégés della Francia sul terreno e i cui leader sono stati ospitati due volte a Parigi, nel 2018 e nel 2019.

In Libia, Ankara ha, sin dal 2019, sostenuto il governo di Accordo nazionale a Tripoli laddove Parigi ha, non ufficialmente, sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar, anche se Macron ha ripetutamente cercato di mediare tra le due fazioni.
Vi sono altri motivi di nervosismo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi:

  • un deciso aumento del sostegno da parte del governo francese alla causa armena, con Macron che istituisce un giorno del ricordo per il genocidio;
  • la crescente affermazione, in Francia, delle reti della diaspora turca associate con il partito di Erdogan Giustizia e Sviluppo;
  • l’indurimento della posizione di Macron verso l’Islam radicale in Francia, che implica investigazioni molto più scrupolose sugli imam stranieri, di cui la metà sono turchi.

Soltanto nel giugno di quest’anno la crisi tra le due capitali è esplosa: quando una fregata russa punta il suo radar di individuazione obiettivi su vascello francese che stava imponendo l’embargo di armi stabilito dalle Nazioni Unite contro la Libia come parte di un’operazione NATO. La Turchia successivamente ha moltiplicato le sue incursioni nelle acque contese dalla Grecia e da Cipro nel Mediterraneo – Est, permettendo a Macron di presentare la Francia – ed egli stesso – come il difensore delle frontiere europee e della sovranità di fronte alla crescente affermazione, se non aggressività, della Turchia.

Macron è stato abbastanza astuto: si è tacitamente associato con la Germania che ha giocato il ruolo di negoziatore quieto con Ankara, permettendo alla Francia di assumere il ruolo di tutore dell’ordine.

La Francia ha ospitato il summit speciale del Med7, un Gruppo di 7 paesi litoranei del Mediterraneo, a settembre, per dimostrare la solidarietà europea alla Grecia e a Cipro. Ha esercitato pressione in seno al Consiglio dell’Unione Europea affinché, agli inizi di ottobre, la Turchia fosse avvertita di potenziali sanzioni. A metà ottobre sia Berlino che Washington pubblicamente hanno irrigidito la loro posizione verso Ankara, che per il momento ha dichiarato la sua volontà di negoziare con Atene per risolvere i loro contrasti.

Per comprendere l’approccio tagliente di Macron alla Turchia, ci aiuta tornare indietro all’ottobre del 2019 e all’intervista all’Economist, in cui suggerisce che la NATO era “cerebralmente morta”. Dichiarando ciò, non si riferiva all’unilateralismo degli Stati Uniti, alla percezione, all’incerto impegno americano verso l’alleanza dell’amministrazione Trump. Egli voleva puntare il dito su ciò che lui riteneva essere incompatibile con gli interessi dei membri NATO in Siria: la Turchia. Ciò riflette la realtà indiscutibile che la Turchia è vista, adesso, come un piantagrane al Consiglio NATO.

Tuttavia le osservazioni di Macron confondono due visioni della NATO: da una parte l’alleanza di difesa reciproca e dall’altra un club di Stati membri che palesemente la pensano allo stesso modo. In effetti, la NATO come alleanza non ha niente da dire sulle azioni dei membri prese individualmente né Siria né in Libia, laddove invece l’allineamento della Francia con la Russia sfoca le linee tra avversari e alleati.

Il commento di Macron sulla NATO “morta cerebralmente” rischia di diventare una profezia autoavverante. Dopo tutto, la Francia stessa non sempre consulta i suoi alleati o cerca il loro supporto prima di intraprendere iniziative diplomatiche. A malapena lo ha fatto in Libia.

Turchia

Il 24 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di devoti nelle strade attorno alla storica Basilica di Santa Sofia ad Istanbul, per un momento doppiamente simbolico. Circondato da un nugolo di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella cattedrale attraversando le giganti porte una volta aperte con la forza dai soldati ottomani nel 1453. All’interno ha letto la preghiera islamica canonica, facendo diventare la cattedrale di 1500 anni una moschea.

In questo modo Erdogan ha voltato pagina a nove decadi di storia recente, durante i quali questa struttura straordinaria e sito patrimonio mondiale UNESCO era stata globalmente riconosciuta come simbolo di una Turchia secolare. Dal 1934, Santa Sofia non era stata né una cattedrale, né una moschea, ma un museo secolare, stabilito come tale dal reale fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk.

Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno Stato secolare quel giorno; scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche mettendo in discussione le intere fondamenta dello status internazionale della Turchia moderna.

Fu in questa data che nel 1923 la Turchia di Ataturk firmava il Trattato di Losanna, che poneva fine ad anni di guerra e occupazione, mentre conferiva un riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica di Turchia. Questo Trattato era stato formalmente sospeso dal predecessore della Repubblica, l’impero ottomano, che un tempo si estendeva dal Caucauso allo Yemen, dall’Iraq alla Libia. Ratificando il Trattato di Losanna, Ankara rinunciava a tutte le rivendicazioni su quei territori, e con esse, la sua precedente grandeur imperiale.

Ora la Turchia sta compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo che il Trattato di Losanna aveva fondamentalmente stabilito.

Il nesso con la Libia

Nel novembre del 2019, la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico di Tripoli, noto come governo di accordo nazionale (GNA).

Il conflitto civile in Libia contrappone il GNA alle forze del generale Khalifa Haftar e il suo esercito nazionale libico, che è fedele al governo basato a Tobruk. Nel corso del 2019, il conflitto in Libia è divenuto una guerra proxy conclamata.

Turchia e Italia sostengono il GNA;

Russia, gli Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia hanno fornito supporto – incluso assistenza militare – alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi ogni formale sostegno.

In risposta ad una improvvisa offensiva delle forze di Haftar nell’aprile del 2019 che si sono spinte alla periferia di Tripoli, Ankara ha iniziato ad inviare i mercenari siriani allineati con la Turchia in sostegno del GNA, insieme ad addestratori, forze speciali, armi ed equipaggiamenti. L’accordo del novembre del 2019 ha formalizzato questo sostegno, decisivo per il GNA che ha spinto l’esercito nazionale libico dalla periferia di Tripoli alla città costiera di Sirte ad est.

Allo stesso tempo, l’accordo delineava anche la frontiera marittima tra la Turchia e la Libia. Secondo la posizione turca per cui le isole non possiedono la zona economica esclusiva, le isole greche che sono tra la Turchia e la Libia – Creta, Rodi e Castelrosso – non hanno tale tipo di zona. Dunque, in base a tale visione, tra le coste della Turchia e della Libia vi sarebbero solo le acque del Mediterraneo.

Dalla prospettiva di Ankara, l’elemento marittimo del suo accordo con la Libia concede alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo nelle acque di Cipro, ma al di là delle coste delle isole greche come Creta e Castelrosso. Sicuro di ciò, quest’estate, a luglio, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia acquisirà questo diritto: avvierà ricerche sismiche e invierà delle navi da trivellazione in quelle che Atene e la maggior parte di altri governi nel Mediterraneo ritengono essere acque territoriali greche.

Il 10 giugno di quest’anno, il presidente francese Macron interviene dopo le tensioni tra una fregata francese e tre navi da guerra turche a largo della costa libica. La nave francese che operava in un’operazione NATO per applicare l’embargo di armi alla Libia sancito dalle Nazioni Unite , ha cercato di fermare ed ispezionare una nave cargo battente bandiera della Tanzania sospettata di trafficare armi. Secondo il ministro della difesa francese, da una delle navi turche che accompagnava la nave cargo si è visto lampeggiare il radar per acquisizione di obiettivi verso la fregata francese e i marinai turchi a bordo hanno indossato i loro giubbotti anti-proiettili e preso posizione dietro le armi. La Turchia asserisce che quella nave cargo trasportava aiuti umanitari.

Successivamente Macron descrive la Turchia come “sostenitrice di una responsabilità storica e criminale” per il suo intervento in Libia. Invita la NATO ad aprire un’inchiesta così come l’Unione Europea ad apporre sanzioni alla Turchia sulla sua campagna di trivellazioni nel Mediterraneo -Est. A luglio, Bruxelles segue questo invito ed impone sanzioni a funzionari di alto livello dello Stato turco e della compagnia petrolifera e di esplorazione di gas.

La posizione degli Stati Uniti favorisce qualcun’altro?

A proposito della Libia gli Stati Uniti hanno aumentato i loro sforzi di ottenere un cessate-il-fuoco dichiarato a luglio, pur tuttavia la loro posizione è controversa. Washington non vuole alienare i suoi alleati arabi che sostengono Haftar, dall’altra parte però vi è la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia.
Una riduzione del livello di coinvolgimento americano nel mediterraneo come priorità strategica è antecedente alla presidenza Trump. Vi è un diffuso sentore nelle capitali della Regione che con Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro abituale ruolo politico nella Regione.


Un’inaspettata conseguenza dell’assenza americana è stata quella di spingere sotto i riflettori un Paese che non ha mai esercitato un’importante influenza diplomatica nel Mediterraneo – Est dai tempi di Bismarck: la Germania.

Come economia più grande e più potente in Europa, la Germania ha un ruolo importante da giocare nel gestire la crisi, considerando che al momento detiene la presidenza dell’UE, che gli permette di plasmare le priorità politiche del blocco per sei mesi.
Da una parte vi sono la Grecia e Cipro, i due Stati membri dell’UE, sostenuti da un presidente francese che sembra credere che una ulteriore intensificazione sia la sola via per dissuadere Erdogan. Dall’altra parte vi è la Turchia, un mercato fondamentale per i beni dell’UE e una rete di protezione chiave per i rifugiati e i migranti che cercano di entrare in Europa. Non sorprende, quindi, che nel tardo luglio, la Germania abbia sostenuto un intervento diplomatico considerevole per cercare di disinnescare un confronto potenzialmente dannoso. Angela Merkel si è impegnata direttamente sia con Erdogan che con il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis; in seguito la Turchia ha dichiarato la sospensione almeno per un mese delle operazioni di trivellazione e ha annunciato un incontro ad Ankara tra funzionari turchi e greci.

Quindi la Merkel, temporaneamente, ha fermato un’intensificazione della crisi.

Il prezzo per risolvere la crisi nel Mediterraneo-Est potrebbe essere quello che fondamentalmente Erdogan vuole da molto tempo: una ri-negoziazione del Trattato di Losanna.

La politica estera della Turchia di Erdogan

Turchia

Vi è stato un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione turca per una politica estera che sposasse lo status quo e che fondamentalmente rifuggisse le avventure estere. L’autore di questa variazione è Recep Tayyip Erdogan.

La trasformazione della politica estera turca durante la sua leadership non ha seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche prevalenti:

  1. l’ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione lui stesso, in un ruolo di leadership globale;
  2. utilizzare – sempre – la nuova politica estera attivista turca come metodo per rafforzare la legittimità domestica del regime ed assicurare la sua sopravvivenza.

Il cambiamento reale della politica estera turca è iniziato attorno al 2010, tre anni dopo che la leadership militare del Paese sfida pubblicamente Erdogan cercando, e fallendo, di apporre il veto all’ascesa di Abduallah Gul alla presidenza. Ciò ha permesso ad Erdogan di consolidare il potere riconfigurando le istituzioni turche, portandole sotto il suo controllo diretto, e, attraverso un contestato referendum nel 2017, rimpiazzare il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. Il dissenso non era più consentito.

È proprio quando Erdogan soffoca le critiche dei militari e quelle all’interno del Paese che inizia a prendere forma la “sua” politica estera. Nel 2009 prima iniziativa: rimprovera Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una discussione al World Economic Forum a Davos, prima di andarsene infuriato. L’anno seguente si lega al Brasile per cercare di preservare un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare con grande fastidio da parte dell’amministrazione Obama. Un anno più tardi porta la Turchia nella guerra civile siriana proiettando il suo sostegno interamente all’opposizione armata a Bashar al-Assad. La Turchia e gli Stati Uniti si scontrano anche sulle operazioni contro lo Stato islamico, dal momento che Erdogan si rifiuta di ascoltare le richieste di Obama di combattere i miliziani estremisti violenti, sebbene essi fossero passati attraverso il territorio turco per unirsi al conflitto. Erdogan ordina addirittura un’invasione, lo scorso anno, nel nord-est della Siria, attaccando alcune forze curde che stavano combattendo lo Stato islamico insieme alle truppe americane.

Più recentemente, il comportamento di Erdogan assume una posizione molto più revisionista. In Libia, i droni turchi e i consulenti militari, per non menzionare le migliaia di militanti siriani reclutati da Ankara per combattere come mercenari, sono riusciti a cambiare il corso degli eventi in favore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli.

Nel sud del Caucaso, la Turchia è stata determinante nel pianificare e sostenere l’assalto dell’Azerbaijan nell’enclave contesa di Nagorno – Karabakh. Così come in Libia, i droni turchi ed i mercenari siriani hanno giocato un ruolo cruciale nell’ultimo round di combattimenti tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Nel Mediterraneo – Est, la sfida alla sovranità greca e cipriota di cui abbiamo già discusso.

Malgrado il pericolo intrinseco nella sua politica del rischio calcolato, Erdogan presume che altri membri della NATO interverranno per disinnescare ogni crisi, calcolando che egli può, nel frattempo, avanzare la sua posizione cambiando le circostanze nel Mediterraneo.

In tutti questi casi la risposta locale, in Turchia, è stata pienamente di sostegno. Erdogan è stato in grado di neutralizzare ogni opposizione facendo appello ai votatori turchi con una predisposizione nazionalista, mentre la stampa ampiamente addomesticata elogia ogni sua impresa “riuscita”. La narrativa che emerge è quella di un ritorno giusto della Turchia come grande potenza con il governo che produce video che legano il presente alle passate glorie ottomane.

Detto ciò, sarebbe sbagliato attribuire alla politica estera turca cambiamenti nella politica domestica.

Erdogan ha ottenuto una notorietà internazionale diventando un leader i cui capricci e richieste devono essere controllati. In questo senso, egli ha raggiunto ciò che si era prefissato di fare: trasformare la Turchia ed egli stesso in attori globali significativi.

Egli è finanche entrato nel discorso politico occidentale: é menzionato regolarmente, con la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, come uno dei tre leader più visibili accolto sul palco dittatoriale mondiale.

Erdogan è un calcolatore e pragmatico quando necessario. Non ci sono barriere protettive all’interno della Turchia che lo controllino, contornato da leccapiedi, nessuno si permette di contraddirlo. Continuerà ad incalzare fino a quando potrà, fino a quando colpirà un “posto di blocco”. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo spingeranno a scendere a compromessi su qualche questione, aprirà subito un altro fronte in qualche altra parte. Erdogan cercherà sempre di stare un passo avanti agli altri, costringendo i rivali e gli alleati a rimanere sulla difensiva.

*Fonti immagini: Aljazeera e BBC news

Ottobre 2 2020

Il mondo attraverso le zone calde di conflitto

zone calde di conflitto

L’ordine internazionale si sta sfilacciando, provocando incertezze su chi interverrà per risolvere i conflitti persistenti e chi troverà le risposte umanitarie ai disastri naturali o a quelli generati dall’uomo. Nel frattempo, crisi emergenti e molteplici zone calde pongono nuovi rischi, e la natura del terrorismo transnazionale sta evolvendo.
Conflitti e crisi persistono nel mondo, vi è una crescente incertezza su come – e se – essi saranno risolti.


Vi sono conflitti interminabili, come le situazioni in Yemen, Afghanistan, Siria che hanno prodotto anni di violenza, innumerevoli migliaia di morti e ancora più di rifugiati.

Vi sono zone calde che emergono tra cui il Mali e il Burkina Faso, e un certo numero di potenziali punti di rottura, incluso il mare del sud della Cina, oggetto di dispute territoriali.

Dove vi sono delle flebili speranze di riconciliazione – come la Repubblica Centrafricana, dove 14 gruppi armati hanno firmato un accordo di pace agli inizi dello scorso anno – il pericolo di precipitare in un nuovo ciclo di violenza è ancora molto alto.

Allo stesso tempo, la natura dell’estremismo violento religioso islamico sta mutando. Lo Stato islamico è nel bel mezzo di uno spostamento tattico a seguito della perdita di controllo dei “suoi” territori in Iraq occidentale e Siria e più recentemente la morte del suo leader. Il gruppo appare essere in transizione verso tattiche di stile guerriglia e attacchi terroristi sparpagliati, mentre muove il suo focus su nuovi teatri di operazione, come il Sud est Asia. Non è chiaro se le potenze occidentali nutrano un autentico desiderio di lanciare i tipi di campagne di contro-terrorismo necessarie per affrontare queste nuove sfide.

Fino a poco tempo fa in Siria, un’ampia gamma di attori era impegnata nel combattimento contro gruppi estremisti violenti religiosi impegnati in tattiche di terrorismo, ma anche qui, l’impegno di alcuni attori, soprattutto gli Stati Uniti, è in diminuzione. La Siria costituisce anche un caso studio su come le potenze tradizionali stiano minando la capacità delle Nazioni Unite di rispondere alle crisi, indebolendo ulteriormente l’ordine internazionale post Seconda Guerra Mondiale.
Il vuoto che ne risulta ha introdotto opportunità per organizzazioni regionali, incluso l’Unione Africana, per riempire i vuoti, sia in termini di interruzione del conflitto, o almeno del ciclo di violenza, che di risposta ai disastri. Tuttavia non è ancora chiaro se (e quando) lo faranno.

Nel frattempo, le emergenze causate dai conflitti e dai disastri naturali proliferano ad un tasso che oltrepassa le risorse disponibili per organizzare una risposta.

Il conflitto persistente nell’est della Repubblica Democratica del Congo ha ostacolato la risposte allo scoppio dell’Ebola nella Regione, sebbene le misure adottate abbiano disseminato sfiducia e alimentato nuova violenza. Il conflitto in Sud Sudan, motivato in parte dall’accesso alle risorse, ha prodotto una persistente mancanza di cibo che si è concretizzata, lo scorso anno, in una carestia. I numeri di rifugiati sono in aumento, anche a causa dei cambiamenti climatici che generano nuove crisi. La pandemia di coronavirus aggrava tutto questo, assottigliando le risorse disponibili per affrontarla.

Conflitti persistenti e crisi

Nel mondo, vi sono una manciata di conflitti che persistono da tanti anni che non mostrano alcun segno di volgere al termine.

In molte situazioni come la Siria, la Libia e lo Yemen, ciò accade perché il combattimento a livello locale è una battaglia di proxy fra altri Paesi.

Luoghi come il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, dove, finora accordi di pace fragili tengono, sono lacerati da rivalità tra attori locali chiave, nel disinteresse globale.

E poi c’è l’Afghanistan, dove gli Stati Uniti stanno cercando di districarsi dalla loro “guerra per sempre”.

La scia fortunata della Russia in Siria e Libia sta definitivamente terminando?

Il Cremlino ha scommesso molto sulla guerra proxy in entrambi i Paesi, dispiegando migliaia di contractor militari privati con il cosidetto Wagner Group per sostenere il suo uomo forte. Dopo recenti accadimenti sfortunati per il Presidente siriano, e il Generale Khalifa Haftar, sembra che la Russia non sia più in grado di monetizzare in vittorie reali nel breve termine né in Medio Oriente né in Africa del Nord .
Il segnale più significativo che il supporto della Russia per i paramilitari privati in Libia potrebbe essere una scommessa persa per il Cremlino è arrivato alla fine di maggio 2020. Il Comando militare americano per l’Africa ha accusato pubblicamente la Russia di impiegare aerei da caccia MiG-29 (Il MiG-29 è un caccia dalle linee moderne, bimotore, monoposto, con ala alta di grande superficie e raccordata alla fusoliera con ampie LERX, motori e prese d’aria sono ospitati in gondole sotto la fusoliera. Il tutto fornisce una superficie portante complessiva di considerevole ampiezza, sinonimo di eccellente manovrabilità) per proteggere gli operativi del Wagner Group e le forze dell’esercito nazionale libico che si ritiravano da Tripoli.
Per mesi, il sostegno russo all’esercito nazionale libico ha aiutato Haftar ad imporre un blocco sui giacimenti di petrolio nell’est della Libia, stringendo la sua economia in una morsa rovinosa. Per diverse settimane, le forze di Haftar aiutate dal Wagner Group si sono duramente scontrate con i mercenari siriani sostenuti dalla Turchia e dalle milizie fedeli al governo di Tripoli riconosciuto da molti Stati della comunità internazionale, noto come il governo di accordo nazionale.
Una settimana prima della fine di maggio di quest’anno, le forze sostenute dalla Turchia, con l’ausilio di attacchi da droni turchi, hanno inflitto alle truppe di Haftar delle significative perdite sul campo di battaglia, forzandole a ritirarsi e ad affidarsi molto agli aerei da caccia russi per la copertura aerea. Il 25 maggio 2020 viene diffuso un video
in cui i combattenti del Wagner Group sono trasportati dagli aerei fuori dalla città di Bani Walid, sud-ovest di Tripoli
, corroborando le rivendicazioni di funzionali libici locali che le forze russe “stanno fuggendo a gambe levate”.
Le notizie dell’apparente uscita del Wagner Group dalla Libia arrivano dopo una fuga di notizie relativa ad un rapporto di esperti delle Nazioni Unite per cui 800 dei suoi 1200 contractor erano stati impiegati in Libia fin dall’agosto del 2018. Il rapporto identificava 122 individui con un’unità speciale di cecchini del Wagner Group e un contingente di attacco e ricognizione. La Russia ha negato ogni collegamento con i dispiegamenti e ha criticato il rapporto delle Nazioni Unite.

Dal momento che la Russia ha già forze nel Mediterraneo dell’est, in una base area in Siria, una tale mossa potrebbe, almeno in teoria, permettere all’esercito russo il controllo di molto dello spazio aereo sulla costa del Nord Africa e del Sud Europa. Ora che sembra che i mercenari russi stiano iniziando a lasciare la Libia, per l’esercito nazionale libico sarà verosimilmente molto più difficile aiutare Mosca a raggiungere questo obiettivo.

Nel frattempo in Siria, il sostegno della Russia per Assad appare in disfacimento in ragione di narrazioni che sostengono come Assad si stia impantanando in una faida interna con il ricco cugino Rami Makhlouf, il prominente finanziatore del regime siriano. La spaccatura all’interno del circolo ristretto di Assad è stata resa insolitamente pubblica, con Makhlouf che su Facebook supplica Assad di non impadronirsi dei suoi beni e il governo siriano che impone un divieto di spostamento a Makhlouf per una disputa sul suo impero delle telecomunicazioni: Syriatel. Tutto ciò ha avuto come conseguenza critiche pubbliche – insolite – al regime di Assad da parte di gruppi di esperti russi.
La questione di chi detiene l’influenza sull’economia siriana in frantumi, inclusi i contratti per la futura ricostruzione, si sta sviluppando anche come un vero problema per il capo del Wagner Group, Yevgeny Prigozhin, affiliato del Cremlino, le cui società facilitano le operazioni russe in Libia e in altre parti della Regione. Per anni, Makhlouf e altri vicini ad Assad, come i magnati Ayman Jaber e George Haswani, si sono affidati al Wagner Group e al lunatico talento manageriale di Prigozhin per proteggere i loro interessi nel Paese. La società di Evro Polis e le relative imprese connesse al Wagner Group hanno guadagnato centinaia di milioni prendendo il controllo e assicurandosi così petrolio prezioso, gas e produzione mineraria dai siti in Siria.
La guerra civile siriana si trascina nel decimo anno e le sanzioni americane ed europee contro il regime di Assad continuano ad avere un costo per i partner della Prigozhin siriana.
Nel breve periodo, la posizione instabile della Russia nella Regione – il risultato di relazioni improvvisamente più volubili con Assad e Haftar, la cultura operativa disordinata del Wagner Group – potrebbe produrre modesti guadagni agli Stati Uniti ed ai loro alleati, specialmente la Turchia. Quali che siano i grovigli politici e i colpi militari che avverranno in seguito per Assad e Haftar, migliaia di siriani molto probabilmente continueranno a scappare dai combattimenti nel nord est del Paese, vicino alla frontiera turca, mentre i civili libici sono maggiormente danneggiati dai duelli ed egualmente puniti dagli attacchi aerei russi ed americani.

Bisognerebbe comprendere che giocare un gioco a somma zero non è un’opzione quando ogni giocatore ha assi nella manica e i ricchi oligarchi russi e le loro controparti locali mescolano le forze per truccare le carte a proprio vantaggio.

Che fare?

Fornire al governo di Tripoli – quello sostenuto dalle Nazioni Unite – un maggiore supporto in termini di migliori prodotti intelligence, incluso esperti finanziari, per comprendere come il Wagner Group calza a pennello con i più ampi obiettivi strategici russi. In questo modo quindi la Banca Centrale libica potrebbe monitorare meglio le entrate che fluiscono dentro e fuori la Libia tra le imprese russe e gli individui e congelare gli assetti dei libici che hanno aiutato la Russia ad ottenere un punto di appoggio nel Paese.
Sanzioni alle imprese Prigozhin, così come ad individui e compagnie statali che beneficiano del sostegno del Wagner Group agli alleati di Haftar e Assad.
Durante i colloqui con i leader dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, si potrebbe suggerire che l’aiuto militare a questi Paesi potrebbe non essere più del livello attuale se entrambi continuano a collaborare con la Russia in sostegno di Haftar e contenere le loro giocate con il regime di Assad in Siria.

Conflitti emergenti

Accanto ai conflitti persistenti vi sono nuove zone calde che stanno emergendo, inclusa l’Africa occidentale. Per una molteplicità di ragioni, dall’estremismo islamico violento, alle repressioni sui separatisti, i Paesi nella Regione hanno visto un’intensificazione della violenza armata. Il risultato è un massiccio dislocamento, che assottiglia le risorse umanitarie.

Sahel

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Le forze di sicurezza statali del Burkina Faso hanno giustiziato 31 persone disarmate nella città del nord di Djino nel mese di aprile. Un rapporto di Human Right Watch descrive le uccisioni come “una brutale derisione in una operazione di contro-terrorismo che potrebbe configurarsi come un crimine di guerra”. Le vittime erano sospettate di collaborare con gruppi estremisti islamici violenti che operano nell’area.
Un massacro del genere per quanto scioccante possa essere, non è per nulla un’anomalia in Burkina Faso e nella regione confinante del Mali centrale che è diventata l’epicentro della violenza negli anni recenti.
I gruppi estremisti islamici si sono introdotti nelle fessure politiche, sociali ed economiche, facendo leva sul malcontento locale ed intimidendo chi gli resiste. I livelli di violenza, senza precedenti, non sono stati diminuiti da risposte governative che tardano ad arrivare e ciò ha come conseguenza l’adesione di tanti se non centinaia di giovani ai gruppi estremisti islamici violenti. Le politiche statali che hanno generato forze di sicurezza che compiono abusi o affidato sub-contratti di responsabilità di sicurezza a milizie che agiscono nella totale illegalità. In Mali, ad esempio, Dan Na Ambassagou di etnia Dogon, membro di una milizia di sorveglianza, ha operato nella quasi totale impunità. Il gruppo è responsabile di massacri di ampia scala contro le comunità di etnia Fulani, incluso donne e bambini che loro accusano di collaborare con i gruppi estremisti islamici violenti locali. In un noto incidente occorso lo scorso anno, Dan Na Ambassagou ha ucciso 130 Fulani mandriani nel villaggio di Ogossagou.
In Burkina Faso, il parlamento a gennaio di quest’anno ha approvato la legge “Volontari per la difesa della patria” che fornirà armi e due settimane di addestramento per i volontari locali. La mossa ha sollevato allarme tra i gruppi in difesa dei diritti umani che temono che milizie che non devono rendere conto a nessuno esacerberanno la situazione. Una milizia la cui etnia predominante è quella Mossi, conosciuta come Koglweogo, ha già condotto attacchi sui civili Fulani.
Due gruppi di estremisti islamici violenti, in particolare: Katibat Macina e Ansarul Islam, i cui ranghi sono ampiamente, se non esclusivamente, composti da etnia Fulani, si sono provati particolarmente abili ad inserirsi nelle dinamiche socio-politiche locali.
Spezzare il ciclo di violenza nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale richiederà un approccio multiforme che comprende le iniziative di sviluppo tanto quanto la risposta militare.
Pur tuttavia le risposte governative sono arrivate in un momento in cui i gruppi estremisti violenti che operano nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale stanno dimostrando una crescente capacità militare. Laddove i tali organizzazioni si sono precedentemente affidate a tattiche asimmetriche come le imboscate “colpisci – e – scappa” su personale militare, nei due anni passati si è visto un aumento in attacchi ambiziosi coordinati a basi militari. Vi è stata una spinta da parte degli eserciti nazionali su richiesta di popolazioni locali sempre più frustrate e attori esterni come l’ex potenza coloniale, la Francia, di sradicare questo tipo di estremisti violenti dai territori che hanno occupato. Tutavia le campagne militari hanno il potenziale di trasformarsi in un abusi dei diritti umani, dal momento che i militanti di quei gruppi estremisti violenti possono sempre ritornare alla cosiddetta guerra asimmetrica e mescolarsi alla popolazione locale.
Vero è che i gruppi estremisti violenti locali, in particolare quelli islamici, hanno compiuto progressi con alcune comunità della popolazione locale attraverso il proselitismo e la fornitura di forme rudimentali di governance, le loro attività di “risolutori di problemi quotidiani” sono molto apprezzate dalla popolazione locale e la loro ideologia guadagna popolarità.

In che modo la proliferazione delle armi guida il conflitto mandriani-agricoltori nel Sahel?

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La regione africana del Sahel che si estende dalla Mauritania al Sudan è emersa come una zona calda – critica – globale negli anni recenti dal momento che i governi nazionali lottano per contenere la crescente insicurezza, la criminalità dilagante e ondate di estremismo violento. Gli sforzi per stabilizzare questa cintura transcontinentale proprio a sud del Sahara hanno ampiamente sottovalutato un conduttore critico di tensioni: le dispute vecchie di secoli, ma sempre più violente, tra i mandriani nomadi e le comunità sedentarie di agricoltori. Un recente influsso di armi ha dato a questi conflitti una forza nuova e mortale con gravi implicazioni per la sicurezza internazionale.
La portata della recente violenza che si manifesta da questo tipo di tensioni è scioccante. La proliferazione di armi in ogni parte del Sahel ha trasformato quelle che una volta erano dispute locali sulla terra e le risorse in cicli intricati di violenza che si intensifica.
In Nigeria il conflitto mandriani-agricoltori ha ucciso sei volte tanto quanto il gruppo estremista islamico violento: Boko Haram nel 2018.
Nel Sahel, le comunità di mandriani e agricoltori stanno ottenendo armi da fonti differenti, incluso armi artigianali prodotte localmente, così come armi fabbricate a livello industriale da riserve nazionali o da fornitori stranieri. Un recente studio condotto da Conflict Armament Research, un’organizzazione indipendente di investigazione, ha seguito le tracce di armi che sono state recentemente utilizzate in violenza di larga scala dalle comunità di mandriani ed agricoltori in Nigeria arrivando lontano fino a Paesi come l’Iraq, la Turchia; armi commerciate illecitamente attraverso reti sofisticate di trafficanti di armi. Le armi prodotte artigianalmente, che si procurano a livello regionale e confezionate tipicamente a mano in quantità relativamente piccole, hanno, storicamente, contribuito alla proliferazione di armi in tutto il Continente.
I meccanismi tradizionali di composizione di dispute persistenti, attraverso la giustizia locali, processi di riconciliazione che spesso esistono al di fuori delle strutture statali tradizionali – il clan o la famiglia colpevole, ad esempio, offre un certo numero di capi di bestiame come restituzione delle vite perse – faticano a mantenere la pace vista la portata della violenza. Queste dinamiche non fanno altro che esacerbare altre tensioni nelle relazioni mandriani – agricoltori, incluso l’alta competizione per le risorse, risultato di una governance inadeguata, cambiamenti climatici e crescita della popolazione.
L’accesso maggiore alle armi ha distrutto il delicato equilibrio di potere tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori. I membri di queste comunità rurali che sono state storicamente marginalizzate, come i giovani, non si sentono più obbligati ad aderire ad accordi di pace o accordi sulla terra composti ed attuati dai più anziani. Essi possono trattare le questioni di giustizia e rivincita a modo loro, cioè armandosi.
La proliferazione delle armi minaccia anche di aggravare la tendenza crescente nella Regione verso il neo pastoralismo. Le élite politiche e militari ricche che vivono nei centri urbani di Abuja, la capitale della Nigeria, Ndjamena, la capitale del Ciad, stanno accumulando enormi mandrie di bestiame come modo per mettere da parte la loro ricchezza, dal momento che i sistemi bancari sono spesso inaffidabili. Questi proprietari di bestiame assenti poi assumono e armano dei mandriani e li istruiscono affinché proteggano i loro investimenti a tutti i costi. Nell’assenza di regolamentazioni nazionali o locali, questi mandriani di bestiame militarizzati sono inclini a sfruttare eccessivamente il bestiame e ad altre pratiche insostenibili e in alcuni casi sconfinano nelle terre possedute dagli agricoltori, distruggendo coltivazioni e innescando il conflitto.
Questi pastori armati (pesantemente) non rappresentano tutti i mandriani, ma hanno innescato la diffusione della narrativa di “assassino mandriano” o “pastori invasori” tra molte delle comunità di agricoltori e tutto ciò non fa altro che rafforzare le tensioni etniche e alimentare le mentalità del noi-contro-loro.

L’intensificazione della violenza tra mandriani e agricoltori ha avuto catastrofiche conseguenze per coloro che vivono nel Sahel, contribuendo a conflitti più ampi nella Regione, dal Mali alla Repubblica Centrafricana al Sudan, che a sua volta hanno spesso scatenato atrocità di massa e primi segnali di avvertimento di genocidio.
L’instabilità ha dislocato milioni di persone, scatenato crisi umanitarie devastanti e costose, minacciato rotte di commercio fondamentali e risorse naturali che sono essenziali ai mercati globali e messo a rischio miliari di aiuti e di investimenti.
Gestire questo problema non significa il facile e semplice disarmo delle comunità di mandriani e agricoltori nella Regione. Questi non sono gruppi armati strutturali o uniformi, ma sono comunità di milizie allineate in modo lasco e opportunisti violenti. Inoltre, attori che sono stati incoraggiati dall’afflusso di armi, come giovani marginalizzati o neopastoralisti, è improbabile che siano desiderosi di abbandonare le loro armi appena comperate. Nel frattempo, governi regionali che sarebbero determinanti nella realizzazione di campagne di disarmo di successo sono attualmente distratti dal combattere contro i gruppi estremisti violenti e stanno affidando esternamente la sicurezza ad attori civili o a gruppi informali di sicurezza.

I governi (stranieri) che si sono impegnati nel Sahel dovrebbero essere cauti nel cercare di affrontare questo problema con maggiori aiuti militari nella Regione. Senza una governance complementare, integrativa e l’assistenza allo sviluppo, l’assistenza militare straniera si potrebbe provare controproducente. Le armi che sono vendute in tutta la Regione in modo legittimo, attraverso alleati internazionali speranzosi di sostenere gli Stati nel Sahel, hanno trovato una loro strada nelle mani di criminali e milizie di comunità, alimentando cicli di violenza ed impunità.
Ogni assistenza militare supplementare, quindi, potrebbe essere completata attraverso un sostegno diplomatico e tecnico allo scopo di diminuire le tensioni e mitigare il conflitto tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori.
Francia, Germania, Svezia e l’Unione Europea nel suo insieme hanno promesso di aumentare la presenza militare nella Regione.
Le dispute tra le comunità di mandriani e di agricoltori in tutto il Sahel stanno evolvendo in conflitti più complessi e letali con implicazioni globali, sia gli Stati dell’Unione Europea che gli Stati Uniti rischiano di restare svogliatamente in attesa mentre la violenza si intensifica e più vite vengono perse. Un approccio concentrato su opzioni di impegno non-militare potrebbe aiutare a fermare un’ulteriore instabilità in questa fragile regione dell’Africa.

Settembre 21 2020

Normalizzazione Medio Oriente: siamo sicuri?

normalizzazione

La narrativa della normalità e della normalizzazione è stata presente per diverso tempo nei più ampi dibattiti di relazioni internazionali, ma si è registrata la carenza di uno sforzo esplicito di teorizzare il loro significato nella pratica. La normalizzazione difficilmente può essere considerata un contributo alle politiche di legittimazione semplicemente perché la sua stessa logica è situata su un binario: da una parte le forze che posseggono la conoscenza e l’autorità di normalizzare altri, e dall’altra i sottovalutati, gli screditati che sono anomali e che hanno bisogno di cure. Ogni pratica di normalizzazione ha come conseguenza la marginalizzazione e l’esclusione di altre pratiche giudicate anormali.

La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.

Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica.
Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.

Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.

Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.

Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.

Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.

Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.


Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).

Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.

Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.

L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.


L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.

Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.


Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana – è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.

Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così,
favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.

Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti.
E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.

Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.