Novembre 14 2015

Attacchi a Parigi: il chiasso degli esperti da salotto

Io che ho vissuto e lavorato in posti lontani, resto in silenzio per rispetto dei morti. Questa è una tragedia non un’occasione per farsi pubblicità.

Oggi voglio parlare a voi, che dalle poltrone comode, dalle vostre scrivanie lucide, parlate degli attacchi a Parigi. Voi che al massimo siete andati in vacanza in Egitto e perciò avete scritto sul CV “esperienza all’estero”. Voi che lucrate sulla morte senza rispetto, senza strategie, solo con frasi apocalittiche per un elettore in più. Sì, dico a voi che fate gli esperti di politica internazionale perché usate la curcuma e mangiate il cous- cous.

Adesso però parlo io: l’esperto di politica internazionale.

Io ho sentito l’esplosione, io ho visto una nuvola nera di polvere e detriti, io ero in un taxi con un uomo al volante ad ISLAMABAD, da sola. Io ero lì a lavorare e il venerdì pomeriggio volevo andare dal parrucchiere al Marriot, ma prima passare a ritirare i panni alla lavanderia, dove però è arrivato prima l’attentatore che si è fatto esplodere proprio lì dentro. Io ho lavorato in Pakistan, in Sierra Leone, in Libano, nella Repubblica di Macedonia, in Tunisia, in Libano. Ho lavorato con ministri panzoni e menefreghisti che venivano nel paese solo per le riunioni con i funzionari del ministero degli esteri perché “portano soldi”. Ho visto gente sorridermi, preoccuparsi perché mangiavo poco, prepararmi la paella in Pakistan portarla in bicicletta nel contenitore “preso in prestito” ad un diplomatico danese. Sono andata sulle montagne tra il Pakistan e l’Afghanistan per inaugurare un progetto e ho trovato silenzio e grandi sorrisi. Ho visto palazzi crivellati a Freetown e bambini venirmi incontro con una gamba sola per chiedere una caramella. Ho visto gente pregare il loro Dio perché ci fosse un mondo migliore.

Esperti che incitano  all’odio razziale. Brandire la spada della guerra di religione per un retweet in più.

Per il mio commento di politica internazionale sugli attacchi di Parigi, aspetto. Sì aspetto nel rispetto del dolore di quelle famiglie che non hanno più i loro cari. Aspetto che gli investigatori ci dicano di più.
In Italia è sempre così, il circo dell’esperto da salotto che non ha mai stretto la mano a nessuno che magari ha la colf filippina e allora si pensa uno multiculturale. Quelli che dicono: “dobbiamo andare in guerra”. (Giorgia Meloni dichiariamo guerra all’ISIS) Chi ci va? Tu con tutta la tua poltrona e a fare cosa?

Il terrore, quella sensazione che si ha dentro che qualcosa di tuo, di veramente tuo ti viene rubato e non lo puoi riprendere, non la puoi capire tu: politico che pensi che i perpetuatori degli attacchi di Parigi sbarchino a Lampedusa  (Salvini è convinto che si siano stipati sui barconi) e non la puoi capire tu che dici Daesh non sapendo che è l’acrononimo arabo di ISIS e quindi dici sempre lo stesso nome. La problematica dello “stato islamico” è complessa non si risolve con le bombe o incitando la caccia alle streghe. Ma oggi non è il giorno di fare analisi, oggi è il giorno del rispetto, della preghiera e del silenzio.

 

 

Novembre 14 2015

Multipli attacchi a Parigi: cosa sappiamo

Chi può aver organizzato questo tipo di attacco?

Attacchi multipli, notte di terrore, situazione in evoluzione, nessuna rivendicazione fin qui. Ci si chiede: “chi è stato?”. Possibili quattro scenari. La tecnica degli attacchi multipli nello stesso giorno è stata utilizzata dall’ISIS proprio quando ne prende il comando Abu Bakr al – Baghdadi da maggio 2010. Potrebbe aver coordinato un attacco mandando operativi e affiancandoli a locali. Ricordiamo che ci sono circa 520 cittadini francesi che combattono in Siria e 250 “ritornati”.

Secondo scenario

Potrebbero essere degli individui che non appartengono a nessuna organizzazione estremista con metodologie terroristiche, come fu il caso degli attacchi a Parigi di 10 mesi fa: Charlie Hebdo 3 giorni di terrore. Questo attacco vide coinvolti tre uomini armati locali, uno aveva dichiarato alleanza all’ISIS, ma non aveva mai avuto contatti diretti con il gruppo. Gli altri due erano fratelli e uno era fortemente collegato con Al Qaeda in Yemen. E’ stato quest’ultimo affiliato a rivendicare la responsabilità per l’attentato.

Terzo scenario

Al Qaeda. Sì, in questo momento si conduce una guerra interna al movimento jihadista globale per la leadership tra Al Qaeda e l’ISIS. Un attacco di questa portata potrebbe essere un segnale che benchè Zawahiri sia morto il titolo di “Commander of the faithful” non è vacante e risiede nelle mani di Aktar Mansor, il nuovo leader di Al Qaeda.

Quarto scenario

Attori locali, isolati. La Francia è sede di una vasta gamma di persone alienate, arrabbiate, frustate. Giovani musulmani che sono parte di gruppi informali di estremisti, violenti e non violenti. Molti tuttavia sono orientati più verso l’invio di persone in Siria che attaccare “a casa”. Pur tuttavia, la coordinazione e la precisione di questo attacco, ci fa pensare che non possono essere stati personaggi isolati. Ci ricorda l’attacco a Mumbai nel 2008 quando furono colpiti, un caffè, un centro ebreo e dei pendolari

Aspettiamo il lavoro degli investigatori e potremmo fare ulteriori analisi.

Novembre 13 2015

La brigata delle donne dello “stato islamico”

donne

Lo “stato islamico” ha creato una brigata di solo donne il cui compito è di far rispettare la Sharia. Troppo semplicistico chiamarle “spose jihadiste”

Per conto dello  “stato islamico”  chi recluta le donne è una donna ed usa nickname di: “al Khansala”. Questo nome corrisponde ad una poetessa tra le prime donne convertire all’islam ai tempi del profeta Maometto, conosciuta per aver ordinato ai suoi figli di andare in battaglia per l’Islam. Tutti e quattro sono morti. Al  Khansala è sempre stata attiva sui forum legati ad Al Qaeda, ben prima che apparisse sulla scena lo “stato islamico”. Aprì il suo primo account su Twitter nel 2012. Il suo interesse è sempre stato quello di connettere le donne che supportano la jihad una all’altra e alla rete più grande di Al Qaeda. Dopo aver defezionato da Al Qaeda si è unita allo “stato islamico” guidando una vera e propria brigata online che condivide il suo nome e si occupa di reclutare le donne che vogliono unirsi all’ISIS.

La brigata rosa vestita di nero

Agli inizi di quest’anno i sostenitori online di questa brigata “rosa” hanno fatto circolare un documento dal titolo: “Women In The Islamic State: Manifesto And Case Study” redatto allo scopo di reclutare, sostenere e dissipare miti circa il ruolo delle donne. Il testo fu dapprima diffuso online in arabo poi tradotto in inglese da un think – tank anti estremista. La propaganda per il reclutamento delle donne si traduce nell’adempimento del loro ruolo spirituale e divino che è quello di essere moglie di un forte jihadista e madre della prossima generazione.

Per entrare a far parte di questa brigata è essenziale che le ragazze siano nubili e di età compresa tra i 18 e i 25 anni.  Ogni donna riceverà un salario mensile pari a meno di 200 dollari. Dopo un mese di addestramento, imbracciano le armi con l’ordine di far rispettare la legge della Sharia nelle due più grandi città conquistate dal ISIS: Raqqa e Mosul. Le punizioni vengono assegnate da Umm Hamza, una donna descritta in un’intervista/confessione di una donna appartenente alla brigata delle donne dell’ISIS.

Unirsi alla brigata al – Khansala: più motivazioni per un fenomeno complesso

E’ importante evitare la generalizzazione quando si parla di forze che spingono le donne ad unirsi a questo tipo di gruppi. Asserire che le donne si uniscono allo “stato islamico” per diventare le “spose jihadiste” è troppo semplicistico ed ignora i diversi e complessi fattori che portando un numero sempre più crescente di donne ad unirsi a questo gruppo. Idee stereotipate invece suggeriscono l’idea che le donne sono o forzate o raggirate dagli uomini e che possono unirsi a gruppi di questo tipo per le stesse ragioni di un uomo.

Fattori che possono spingere le donne “occidentali” ad unirsi all’ISIS includono dei sentimenti di isolamento politico, sia culturale che sociale che comprendono sentimenti di insicurezza legati all’appartenenza alla cultura occidentale. Un’altra ragione chiave è il sentimento che la comunità musulmana internazionale è perseguitata e quindi prevale la frustrazione della percezione per la mancanza d’ intervento.

Entrano in gioco anche fattori come obiettivi idealistici legati al dovere religioso di quello che è visto come un utopico califfato, un senso di appartenenza e di “sorellanza” nel romanticismo di un gruppo estremista.

Potrebbero essere anche essere spinte da ragioni economiche o per prendersi una rivincita da un trauma personale, come lo stupro, la tortura o la perdita di un membro della famiglia.

Storie come quelle delle due adolescenti da Vienna, età 15 anni e 16 anni che lasciarono casa per recarsi a Raqqa, in Siria, dove sono state fatte sposare a combattenti ceceni che hanno scritto alle loro rispettive famiglie perché volevano scappare, rimaste peraltro incinte, ci fanno capire la complessità di questo fenomeno. Soprattutto dovrebbero portarci a riflettere al di là del nostro naso. Gruppi estremisti di matrice religiosa come lo “stato islamico” non fanno altro che focalizzare l’attenzione di eventuali sostenitori sulla semplicità della dicotomia: buono/cattivo. Evidentemente le nostre società sono molto più cattive di quello che pensiamo se le “nostre” ragazze volano nel nero.

Novembre 11 2015

Quando a farsi esplodere è una donna.

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L’impiego di donne come attentatori ovvero suicide bomber è una realtà.

Il ruolo della donna nella jihad non è chiaro neanche nel Corano e nella comunità islamica ci sono due grandi categorie che possono essere utilizzare per caratterizzare le idee dei gruppi di estremisti di matrice islamica riguardo al ruolo della donna. Un ruolo supportivo contro un ruolo attivo.
Tra i gruppi che sostengono l’idea del ruolo attivo delle donne nella jihad c’è HAMAS, fondato nel 1987 e attiva in Palestina. Hamas ha chiaramente dichiarato la sua posizione nell’ art. 12 del suo statuto: “resistere e soffocare il nemico diviene un compito individuale di ogni musulmano, uomo o donna. Una donna può andare a combattere il nemico senza il permesso di suo marito e così anche la schiava, senza il permesso del suo padrone”. Hamas utilizza donne come suicide bombers  in numero sempre maggiore. Huda Naim una delle donne leader, membro di Hamas, asserisce che molte donne in Palestina vogliono diventare più attive nella jihad.
Un’altra organizzazione che permette alle donne un ruolo attivo nella jihad è l’Islamic Jihad Union, gruppo attivo in Afghanistan ed in Pakistan.
Dal 2005, il numero di suicide bomber al femminile in Iraq è incrementato ed è cresciuto di più ogni anno. Il 9 novembre 2005, ad Amman, Giordania, ci sono stati 3 attacchi suicidi ad Hotel occidentali, il Radisson Hotel, il Grand Hyatt Hotel e il Days Inn, che hanno ucciso dozzine di persone. L’attacco al Radisson ha visto anche un suicide bomber donna. Sajida Mubarak al – Rishawi, 35enne irachena e suo marito anche lui 35enne, cercarono di farsi esplodere in una festa di nozze che si teneva in una delle sale da ballo dell’hotel. Il marito detonò la sua cintura esplosiva per primo, ma quando la donna cercò di farsi esplodere, la sua cintura non esplose. La donna raccontò l’accaduto in una confessione registrata.
Pur tuttavia l’impiego di donne suicide bomber non è nulla di nuovo visto che  agli inizi degli anni ’80, all’età di 16 anni un membro del Partito sociale nazionalista siriano: Sana’a Mehaidli si fece esplodere in una Peugeot vicino ad un convoglio israeliano durante l’occupazione del sud del Libano.
Un altro esempio del ruolo attivo giocato dalle donne è quello delle donne cecene che combatterono dopo che i loro mariti furono uccisi dalle forze russe.

Perché le donne?

Per le donne di gruppi estremisti che usano come tecnica il terrorismo è più facile ottenere l’accesso ai luoghi degli obiettivi indossando l’esplosivo sotto i loro vestiti. Gli atti terroristici delle donne posso attrarre molta più attenzione e quindi maggiore pubblicità rispetto a quelli degli uomini. Il “pubblico” è sia ripugnato che affascinato dalle donne che uccidono. Un altro punto importante è che indossare una cintura esplosiva e farla detonare non richiede grande addestramento e questa disponibilità immediata delle donne reclutate effettivamente raddoppia il numero dei potenziali attori per la causa del gruppo estremista.
Ci sono altre organizzazioni che hanno impiegato donne come suicide bomber: Al Aqsa Martyr’s Brigade, Palestinian Islamic Jihad, Hamas, Chechen rebels, Kurdistan Workers Party, Liberation Tigers of Tamil Eelam.
Le percentuali variano enormemente da gruppo a gruppo. Al Qaeda non ha usato donne fino al 2003, invece più del 50% dei terroristi suicidi sia per i ceceni che per il Kurdistan Workers’ Part erano donne.
Se si dovesse fare una graduatoria di celebrità nell’utilizzo di donne, al primo posto possiamo senz’altro mettere le Liberation Tigers of Tamil Eelam (che combattevano per secedere dallo Sri Lanka), le quali hanno compiuto circa 200 attacchi suicidi nel periodo dal 1980 al 2003 utilizzando le donne nel 30-40% dei casi. L’unità delle Tamil Tigers di donne suicide bomber si chiama: Black Tigress. La donna delle Black Tigress con il numero più alto di vittime si chiamama Thenmuli Rajaratnan, conosciuta anche come Dhanu. Secondo alcuni Dhanu era stata stuprata, i suoi quattro fratelli uccisi, da soldati indiani che erano parte della forza di peacekeeping che era entrata nello Sri Lanka per reprimere la rivolta delle Tamil Tiger. Per Boko Haram ora affiliato dello “stato islamico” che si fa chiamare ISWA (islamic state in west africa), l’impiego delle donne come suicide bomber è una tattica comune in Nigeria da almeno due anni. Uno degli attacchi più feroci c’è stato il 27 novembre 2014: due donne hanno ucciso 78 persone e ferito molte altri a Maiduguri. Dal giugno 2014, il gruppo estremista ha impiegato almeno 52 donne di età compresa tra i 9 e i 50 anni come suicide bomber in Nigeria e in Cameroon.

Il martirio delle donne ha un valore aggiunto.

Un atto perpretato da una persona considerata per natura non violenta può rappresentare la testimonianza che l’oppressione della sua gente è così grave che persino le donne sono disperate a tal punto da usare la violenza. Supponiamo che la società da cui viene la donna terrorista è caratterizzata da una profonda ineguaglianza di genere e che la società glorifichi il martirio per una casa giusta e suprema, come difendere la fede o difendere le persone contro una forza minacciosa. In questo quadro, un atto suicida di una donna assume un significato speciale che non è disponibile per i terroristi uomini. Questi ultimi possono diventare martiri per la fede del loro popolo oppure per la sopravvivenza come comunità. Tuttavia soltanto il martirio delle donne per la stessa causa può acquisire il valore aggiunto di promuovere una sorta di inusuale equità di genere tra i membri della società in questione.

“La violenza distrugge ciò che vuole difendere: la dignità, la libertà, e la vita delle persone.” – Giovanni Paolo II – 

Ottobre 28 2015

Kamikaze e attentatore suicida non sono sinonimi

kamikaze e terrorist suicide bomber

Kamikaze non è sinonimo di attentatore terrorista suicida, eppure in Italia si continua ancora ad usare il termine kamikaze. I kamikaze giapponesi non hanno nulla in comune con i contemporanei attentatori terroristi suicida.

La stessa notizia in Italia viene diffusa così: Turchia, attacco Kamikaze , all’estero così: Turkish troops killed in suicide blast. Evidentemente, in Italia, non solo per i giornalisti, usare un termine impropriamente è all’ordine del giorno, peccato che si fa davvero una figuraccia se si sapesse a cosa si riferisce il termine kamikaze.

Chi sono i Kamikaze

La strategia Kamikaze è emersa tra il 1944 ed il 1945, come diretta risposta al fatto che la marina imperiale giapponese aveva perso la maggior parte delle sue navi da guerra e quasi tutte le sue portaerei  ed i rifornimenti di carburante dall’Indonesia erano stati per la maggior parte tagliati. Nel 1944 le truppe dell’esercito imperiale giapponese non riuscivano a sopravvivere: senza cibo e senza munizioni. La battaglia di Leyte Gulf (23 – 26 ottobre 1944)  vide il primo attacco kamikaze: i piloti giapponesi si schiantavano con i loro aeroplani contro obiettivi militari.

La campagna Kamikaze è unica: i partecipanti ci hanno lasciato una vasta quantità di lettere, poemi, memorie. Le analisi condotte soprattutto dall’ Institute of Cognitive and Decision Sciences Evolution & Cognition Focus group dell’ Università dell’Oregon ci dicono che i piloti erano motivati dalla conoscenza che la loro morte, presumibilmente, avrebbe aiutato a migliorare le fortune dell’apparato militare giapponese in declino. La maggiore fonte di piloti kamikaze era l’ Air Force Cadet Officer System, venivano reclutati all’università e al liceo su base volontaria.

Perché non è possibile usare il termine Kamikaze come sinonimo di attentatore terrorista suicida ?

I piloti kamikaze: a) non agivano sotto coercizione; b) non erano fortemente motivati dalle attitudini culturali giapponesi verso il suicidio per se; c) non erano fortemente motivati dalla religione.

Non è possibile comparare la mentalità dei kamikaze con quella dei terroristi che si fanno saltare in aria. Un’importante differenza risiede nel fatto che gli attacchi kamikaze erano realizzati e legittimatati dall’apparato militare di uno Stato, mentre gli attacchi degli attentatori suicida sono generalmente pianificati e autorizzati da organizzazioni che si posizionano al di fuori della struttura dello Stato. In contrasto con i contemporanei attentatori suicida i loro obiettivi sono sempre stati aeroplani militari, navi e soldati, mai civili. Durante gli ultimi mesi della guerra del pacifico, gli obiettivi militari erano gli unici che i kamikaze potevano sfidare, secondo le condizioni di guerra. Per i piloti kamikaze l’obiettivo finale delle loro azioni non era uccidere i soldati nemici o raggiungere la vittoria della guerra, ma forzare gli Alleati a fare concessioni per terminare la guerra, terrorizzandoli con gli attacchi suicida.

 Le parole sono la più potente droga usata dall’uomo. (Rudyard Kipling)

Ottobre 22 2015

L’equilibrio precario dell’Iraq

Iraq

L’Iraq di oggi è in uno stato di equilibrio precario tra curdi armati dall’Unione Europea, ISIS e bombardamenti. L’errore dell’assistenza senza condizioni e senza responsabilità.

In Iraq si è cercato di accelerare la creazione di consenso e il processo di  decision making, ignorando la complessità del paese e soprattutto tenendo l’ ex primo ministro Nuri al – Maliki in carica fino al 2010. Quello che iniziò nel 2007 conosciuto come “Sunni Awakening” era il risultato di un senso di opportunità politiche create dalle promesse che i sunniti sarebbero stati inclusi nella politica di Baghdad, con l’ accesso ai posti di governo. Il primo ministro: Abadi, da un anno in carica, ha studiato ingegneria in Gran Bretagna, opposto al regime di Saddam Hussein che uccise i suoi due fratelli, nei circoli dei dissidenti iracheni si è guadagnato la reputazione di uno che cambia opinione a seconda delle circostanze.

Riprendere Mosul dalle mani dell’ISIS.

Alla fine del 2014, il governo iracheno in concerto con gli Stati Uniti pianifica una massiccia operazione per riprendere il controllo di Mosul, la più grande città del paese nelle mani dell’ISIS. Ma l’ISIS è più veloce dei piani iracheni e così  il focus si sposta a Tikrit, ripresa dalle forze regolari irachene  a marzo 2015. A maggio l’ ISIS prende il controllo della città di Ramadi e il governo iracheno si trova costretto ad impiegare più truppe ad Anbar, ritenendo che il controllo di questa provincia fosse più importante per la sicurezza dei dintorni di Baghdad e la città sacra degli sciiti: Karbala. Un’altra città da riprendere sotto il controllo del governo di Baghdad è Baiji, 200 km a sud, collegamento tra i guerriglieri ISIS di Anbar e la provincia siriana di Raqqa che fornisce combattenti e depositi armi per lo Stato Islamico. Anche se è più piccola di Mosul, la battaglia per Baiji ha stremato l’esercito iracheno e la Forza Popolare di Mobilitazione nonostante il supporto aereo della coalizione a guida americana (attacchi aerei in Siria e Iraq). Il 15 ottobre le forze irachene hanno dichiarato di aver ripreso molto del controllo della raffineria di petrolio della città di Baiji, punto focale delle operazioni. Lo stesso sindaco della città ha dichiarato che la polizia federale irachena ha ripreso il controllo di molte parti della città (difficile sapere se è vero perché è una zona molto pericolosa in cui i giornalisti non hanno accesso). – Le forze irachene riprendono la raffineria -Baiji
E’ difficile determinare il numero dei guerriglieri dell’ISIS che difendono Mosul (data l’abilità del gruppo nel manovrare le truppe di riserva dalla città di Raqqa ad Anbar) stime ci dicono tra i 10,000 e i 30,000. Ufficiali curdi riferiscono che l’ISIS potrebbe mettere a difesa di Mosul un numero di guerriglieri pari a 20.000 unità. In contesti militari di solito, una forza offensiva dovrebbe essere tre volte più forte di come ci si aspetti sia quella difensiva. Questo però non è il solo problema: combattere in zone residenziali neutralizzerebbe la potenza aerea della coalizione e il suo vantaggio e renderebbe le forze offensive vulnerabili alle mine dell’ISIS e farebbe in modo che i residenti locali combattano a fianco dello Stato Islamico.
Il parlamento iracheno è ancora riluttante nel creare una forza sunnita (National Guard Forces) che potrebbe fornire sicurezza alla città. In assenza di ciò, i residenti di Mosul, molti dei quali sunniti, restano opposti all’intervento delle forze sciite del regime, perché temono che con la scusa di prendere la città potrebbero esercitare ritorsioni con il pretesto che supportavano l’ISIS. Per la stessa ragione sono contrari alle forze peshmerga, soprattutto perché le ambizioni nazionaliste curde crescono ed è sempre più forte il desiderio di annettere territorio.

I gruppi paramilitari sciiti

Abadi si è avvalso del supporto dei gruppi paramilitari sciiti per combattere l’ISIS. Questi gruppi sono conosciuti come Popular Mobilisation Commitee ovvero Hashid Shaabi, comandano circa 100,000 combattenti e sulla carta ricevono più di un miliardo di dollari dal budget dello stato iracheno. Grandi somme di denaro le ricevono dall’Iran, che stando ad ufficiali delle milizie, li finanzia dal 2011. Ci sono tre grandi gruppi di milizie: 1) Amiri’s Badr Organization; 2) Asaib al – Haq; 3) Kataib Hezbollah, fedeli al leader religioso iraniano, Khameini, di cui usano l’immagine su manifesti e volantini. La crescita della potenza di questi gruppi è direttamente proporzionale alla crescita della minaccia dell’ISIS. Ed è stato proprio il più alto religioso sciita iracheno: Ali al – Sistani ha chiamare volontari per combattere l’ISIS. Elementi di questi gruppi paramilitari sciiti hanno preso, anche se in maniera parziale, il controllo del Ministero dell’Interno.

La forza combattente dei curdi iracheni

Conosciuta con il nome di “peshmerga”, che è il nome curdo per indicare: “coloro che affrontano la morte“. I curdi iracheni risiedono in tre province che formano il Governo Regionale del Kurdistan. I curdi iracheni hanno l’autonomia de facto dal 1991 quando la coalizione a guida statunitense stabilì la no – fly zone sull’area curda per proteggerli dagli attacchi di Saddam Hussein. Il Governo Regionale del Kurdistan fu ufficialmente riconosciuto come regione semi – autonoma nella costituzione del 2005.  I curdi si sono rivelati essere la migliore forza di terra contro l’ISIS. I peshmerga contano 15,000 truppe mentre l’esercito iracheno 271,500, controllano un territorio di 25.750 km. Le riserve di petrolio della regione curda ammontano a 4 miliardi di barili.

La strategia europea: armare i curdi

I ministri degli esteri dell’Unione Europea, in un incontro di emergenza accolgono favorevolmente la decisione di diversi governi europei di armare i curdi. La ragione? “Ce l’ ha chiesto il presidente della Regione del Kurdistan iracheno“. Masoud Barzani, ha fatto un appello, ecco chi ha risposto:

  • Italia
  • Repubblica Ceca
  • Gran Bretagna
  • Olanda
  • Germania (la più generosa)
  • Francia
  • Albania

La politica estera europea si fa così mandando armi ai curdi e non al governo centrale iracheno. L’esercito iracheno ha solo 5 divisioni funzionanti, la cui prontezza di combattimento si aggira tra 60% e il 65%. La Nato nel 2004 si fece carico di assistere lo sviluppo delle istituzioni e strutture di addestramento delle forze di sicurezza irachene. I due maggiori contributori sono l’accademia militare irachena e i Carabinieri, ebbene sì, i Carabinieri italiani si occupano dell’addestramento della polizia federale. Recentemente proprio i Carabinieri hanno avviato un corso per la formare professionisti in grado di proteggere le infrastrutture economiche critiche. Oltre questo nulla. Mi chiedo quindi cosa pensa di fare il nostro ministro della Difesa quando dice che i nostri tornado dovrebbero cambiare il loro coinvolgimento in Iraq. A parte questi pochi corsi tutto il resto dell’assistenza internazionale si concentra sulla vendita di armi ai curdi iracheni. Viene da pensare che i burocrati occidentali preferiscano che il governo di Baghdad si sgretoli sotto il peso delle differenze etniche e che l’Iran prenda il controllo del paese, riproponendo una dittatura, prima che se lo prenda l’ISIS.

Esiste una via di uscita?

Una via potrebbe essere quella della costruzione di una rete di residenti locali opposti all’ISIS. Il problema è che Abadi è riluttante, benché si fosse dimostrato più aperto, a concedere più spazio ai sunniti nella vita politica e soprattutto ad armarli, condizione che gli permetterebbe di riprendere il controllo di Mosul.
La scelta di Abadi è limitata o l’aiuto americano o la dipendenza solo dall’Iran. Il fatto che Abadi pochi giorni fa abbia dichiarato che vorrebbe che i russi conducessero attacchi aerei anche in Iraq ci dimostra solo che lui vuole rinforzare la sua posizione. La coalizione capitanata dagli Stati Uniti che bombarda l’Iraq nel vano tentativo di contenere l’ISIS non ci offre un Iraq migliore. Il grande errore è stato proprio questo: concedere assistenza al governo di Baghdad senza che si mettessero in campo le riforme istituzionali necessarie, senza che prima Maliki e ora Abadi si assumessero alcuna responsabilità del processo decisionale.

 

Ottobre 18 2015

L’Afghanistan oggi: seconda parte

Afghanistan

L’Afghanistan è oggi territorio di scontro tra i Talebani e l’ISIS per la supremazia della jihad globale.

Akhtar Mohammed Mansoor leader dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan (che conosciamo come i “talebani”), successore del Mullah Omar ex ministro dell’aviazione civile e dei trasporti durante il regime talebano dal 1996 al 2001, ex “governatore ombra” della provincia di Kandhar, manda un messaggio al leader dell’ISIS: Abu Bakr al – Baghdadi chiedendo che lo Stato Islamico combatta sotto la bandiera dei talebani in Afghanistan e porre fine alle divisioni tra i jihadisti in tutto il mondo.

ISIS in Afghanistan

Baghdadi ha stabilito lo Stato Islamico nella provincia di Khorasan lo scorso anno accogliendo tra le proprie fila talebani delusi e comandanti jihadisti. La cosidetta Khorasan region comprende: Afghanistan, Pakistan e parti dell’area circostante queste due nazioni. L’ISIS ha minacciato recentemente i Talebani, ma non si è limitato solo a questo, ci sono stati attacchi ai Talebani nella provincia di Nangarhar in Afghanistan. Recenti dati ci mostrano che più di 17.000 famiglie nel Nangarhar sono andate via a causa della violenza dell’ISIS. Alcune delle peggiori atrocità sono state perpetrate nel distretto di Achin. Entrano nei villaggi chiedendo una lista delle vedove e delle donne non sposate. In alcuni villaggi, l’ISIS ha dichiarato che i matrimoni celebrati e riconosciuti dal governo dell’Afghanistan sono invalidi.

Continuo conflitto tra Al Qaeda e l’ISIS in Afghanistan esacerbato dalla morte del Mullah Omar.

Quando il leader dell’ISIS ha rifiutato l’autorità di Al Qaeda e ha poi dichiarato il Califfato, ha diviso il già frammentato movimento jihadista.

Le 1500 Ulema (i consigli religiosi in Afghanistan) hanno scelto e promesso alleanza alla leadership dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan secondo la sharia. L’argomentazione di Mansoor sull’unità dei jihadisti in Afghanistan prende spunto dal Corano che secondo la sua tesi richiama fortemente all’unità tra i mussulmani e che l’Emirato islamico dell’Afghanistan è stato appoggiato dalla leadership mussulmana così come dal fondatore di Al Qaeda.

La conferma della morte del  Mullah Mohammed Omar alza la posta in gioco per la battaglia per la supremazia jihadista globale tra Al Qaeda e l’ISIS. Omar era la colonna portante del rifiuto di Al Qaeda delle richieste dell’ISIS di alleanza. Primo, perché Al Qaeda aveva già garantito alleanza ad Omar e quindi non poteva farlo anche al leader dell’ISIS. Secondo: Abu Bakr al Baghdadi aveva illegittimamente usurpato il titolo di Amir al Mumineen (comandante del fedele)ad Omar. La morte di quest’ultimo lascia libero chi ha promesso alleanza a lui. Tuttavia né la promessa né il titolo di Amir al Mumineen sono automaticamente ereditati dal suo successore. Il 31 agosto 2015 i Talebani confermano la morte del Mullah Omar ( Taliban officially announce Mullah Omar death), dopo aver celato di fatto la sua morte per ben due anni: Omar era morto il 23 aprile 2013.

Questo fatto aggiunge un altro fattore di attrito. Se è morto due anni fa, la posizione di Amir al Mumineen potrebbe essere stata verosimilmente vacante quando Baghdadi la rivendicò subito dopo la dichiarazione del califfato, distruggendo eleoquentemente l’argomentazione pro – Al Qaeda che l’ISIS ha usurpato l’autorità legittima di Omar. L’annuncio della morte di Omar è un bel punto a favore dell’ISIS che lo sfrutta condannando la mendacità di condurre un’organizzazione divulgando ordini e linee guida in nome di un leader morto in virtù della strategia conosciuta con il nome di: “weekend at Bernie” (il celebre film: il week end con il morto).

Se l’emiro di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri non è anche lui un “Bernie” a questo punto è davanti ad un dilemma. La sua letargica conduzione di Al Qaeda ha diminuito fortemente la sua abilità di sfidare Baghdadi direttamente sulle basi della sua autorità.  A parte la promessa al Mullah Omar, pochi sono gli argomenti contro l’egemonia dell’ISIS: brutalità della tattica, focus settario, mancanza di consultazione con gli altri gruppi di jihadisti al momento della dichiarazione del Califfato.

Zawahiri ha poche opzioni a sua disposizione: continuare ad affidarsi alla sua attuale strategia che sembra sia quella di sperare ardentemente che l’ISIS vada semplicemente via, non pare la più efficace.

La battaglia tra Al Qaeda e l’ISIS ha poco a che fare con la legittimazione da un punto di vista tecnico o con la giurisprudenza, ma piuttosto con l’anima dell’intero mondo jihadista.  La morte del Mullah Omar ha colpito Al Qaeda nei due emisferi e fornisce una via conveniente per quei sostenitori irrequieti che hanno resistito finora al richiamo dell’ISIS. Il supremo comandante dell’ISIS nel Khorasan è Hafiz Saeed Khan che era un membro dei Talebani pakistani. Con i suoi guerriglieri è scappato in Afghanistan dopo che le forze regolari del Pakistan hanno condotto un’offensiva nella aeree tribali, proprio quest’anno.

Cosa si potrebbe fare?

Sfruttare questa divisione del movimento jihadista, diminuendo la minaccia, indebolendolo. Questa guerra interna va contro quello che rivendica l’intera organizzazione e se diminuisce la presa sui volontari jihadisti perché sentono di star combattendo una guerra fratricida piuttosto che il regime di Assad, gli americani, gli sciiti o qualsiasi altro nemico, allora inizieranno i guai seri. Sfruttare la mutevolezze della fedeltà. Saaed non è un caso isolato. L’altra faccia della medaglia di questa guerra intestina al movimento jihadista è che la violenza contro gli Stati Uniti, o più in generale contro l’occidente potrebbe diventare più intensa, dal momento che sia Al Qaeda che l’ISIS vogliono dimostrare che il gruppo è più forte e rilevante dell’altro.

Non ci illudiamo: fare la stampella del governo dell’Afghanistan non è la soluzione per la minaccia che proviene da Al Qaeda e dall’ISIS e meno che mai servirà a impedire che possano verificarsi attacchi da parte delle due organizzazioni in lotta fuori dal territorio dell’Afghanistan. Ricordiamoci che l’attacco a Parigi del gennaio 2015 è arrivato dopo 14 anni di missione internazionale in Afghanistan.

Ottobre 17 2015

L’Afghanistan di oggi: prima parte

Afghanistan oggi

L’Afghanistan oggi è un governo frutto di coercizione diplomatica, un territorio insicuro e un popolazione che oscilla tra i Talebani e il governo di unità nazionale.

Afghanistan: le truppe americane rimarranno per tutto il 2016, parola di Obama! Dunque gli Stati Uniti restano: perché? Molto semplice: nell’ autunno del 2014 il segretario di stato americano John Kerry si rivolge al team di Abdullah asserendo che se non avessero trovato un accordo per un governo di unità, gli Stati Uniti non sarebbero stati più in grado di supportare l’Afghanistan. La dichiarazione di Kerry non era un’offerta che Ghani ed Abdullah potevano rifiutare. Il governo attuale non è certo un trionfo di consenso forse più un caso di studio nel campo della “coercizione diplomatica” e la sua sopravvivenza sarebbe stata in serio pericolo se gli americani si fossero attenuti alla data di completamento del ritiro fissata per la fine del 2016.

L’Afghanistan di oggi è un paese sì, dove ci sono più bambini nelle scuole, più accesso ai servizi sanitari di base che prima dell’invasione del 2001, accesso internet: più connessioni al mondo esterno. Una delle prime cose che ha fatto il nuovo presidente Ashraf Ghani è stata quella di creare un ponte con Islamabad. Differentemente dal suo predecessore, Ghani ha intuito che sarebbe stato meglio essere carino con il suo vicino piuttosto che con New Delhi.
Sia Ghani che Abdullah Abdullah cercano di far funzionare il governo di unità nazionale, ma l’avanzata dei Talebani a Faryab e a Kunduz non si è arrestata per i loro buoni propositi. Politici influenti come Rashid Dostum (vice presidente di Ghani) e Atta Nor (il potente governatore della provincia di Balkh)hanno dichiarato con forza e spesso, che secondo loro, le forze afghane da sole, non sono in grado di mettere in sicurezza l’intero paese.

Da quando gli afghani hanno assunto il controllo della sicurezza del paese nel 2014, più civili sono stati uccisi, più soldati sono morti, più truppe afghane hanno disertato come mai prima e le forze di sicurezza stanno ancora torturando un terzo dei loro prigionieri. Secondo gli americani le vittime civili sono il risultato di “impegni di terra” tra gli afghani e gli “insorti” costituiscono l’8% dei primi tre mesi del 2015 comparati allo stesso periodo del 2014. L’ultimo rapporto di UNAMA (http://unama.unmissions.org/)ci dice che nella prima parte del 2015 le forze afghane hanno causato più vittime civili di quello che hanno fatto i Talebani. Le forze afghane stanno morendo a numeri da record. Nei primi 5 mesi del 2015, le vittime tra le forze di sicurezza erano del 70% rispetto allo stesso periodo del 2014. Secondo un rapporto americano la più grave lacuna è il fatto che se un soldato non si mostra a lavoro per più di un mese non viene più conteggiato come tale.
La presa di Kunduz, la sesta città più grande dell’Afghanistan, da parte dei Talebani, arriva in un momento inopportuno per il governo di unità nazionale, che ha completato il suo primo anno. Anche se pare che le forze di sicurezza afghane abbiano ripreso molto della città. In verità l’Emirato Islamico dell’Afghanistan ha ufficialmente dichiarato di essersi ritirato dalla città per il bene degli afghani in virtù dei bombardamenti americani sempre più frequenti (Taliban admit Kunduz withdrawl). L’incidente ci pone degli interrogativi circa l’efficacia dello stato afghano, l’approccio allo state – building e il piano americano di ritirare tutte le truppe.
A Kunduz, i Talebani hanno mantenuto con successo l’influenza nei distretti dove per anni hanno goduto del supporto e l’hanno capitalizzato in uno sforzo concertato per espandere la loro influenza al punto che i combattenti talebani si sono trovati essi stessi all’ingresso della città. La presa di Kunduz non è stata sviluppata notte tempo e la minaccia alla città richiederà di più che operazioni militari. Kunduz è un microcosmo dell’Afghanistan con parti uguali di tagiki, uzbeki, pashtun così come minori proporzioni di turkmeni e hazari. La provincia è una delle più stabili economicamente, baciata da una fertile agricoltura e da depositi di minerali e non da ultimo, importante crocevia logistico. Non solo è la principale via est – ovest tra le aeree del nord e lungo la via principale nord – sud verso Kabul, ma la sua frontiera con il Tagikistan fornisce una via di traffici illegali redditizia verso il centro Asia.
Importante sottolineare che i semi che hanno poi dato vita agli eventi a Kunduz sono stati piantati ben prima che il governo di unità  entrasse in carica.

Cosa si potrebbe fare?

Quello che deve necessariamente porre in essere questo governo è una politica bilanciata, assicurando un’equa distribuzione tra tutte le circoscrizioni elettorali etniche. Kunduz ci dimostra che la diversità per amore della diversità non solo può provarsi inefficace ma anche pericolosa e contro – produttiva. Come dicevamo la divisione del potere tra Ghani e Abdullah è il prodotto di una considerevole pressione diplomatica americana. Tutti gli accordi di divisione di potere sono fragili, particolarmente nelle condizioni di una guerra in corso. La maggior parte di questo genere di accordi in conflitto e post – conflitto arriva in gran parte attraverso la pressione internazionale e l’Afghanistan non fa eccezione. Gli Stati Uniti premettero su Karzai per anni e non ottennero buoni risultati. Hanno usato la pressione diplomatica per i meccanismi di divisione di potere anche in Bosnia e in Iraq ma con risultati pessimi. La vera domanda è: quanto questi accordi funzionano?  Non è possibile dare una risposta generalista. In Afghanistan Ghani e Abdullah erano i migliori candidati, si sono mossi nella direzione giusta nelle relazioni con il Pakistan. Superato il grande problema della composizione del governo, cercando le persone meno compromesse da reti di relazioni intrecciate con signori della guerra, fondamentalisti islamici, lo stato afghano ha necessariamente bisogno della stampella degli Stati Uniti per non sgretolarsi.
Il vero e unico problema, che ci ha mostrato Kunduz è la minaccia dei Talebani che oltre a costituire un pericolo per la sicurezza dello stato, affrontano una guerra con lo Stato Islamico per la leadership della jihad globale. Argomento questo che sarà oggetto del prossimo post. SEGUITEMI.

Ottobre 10 2015

Nobel per la pace alla società civile tunisina

Premio nobel per la pace 2015 alla società civile tunisina: due sindacati, la lega per i diritti umani e l’ordine degli avvocati ci raccontano una storia di democrazia. La società civile tunisina chiave di volta del processo di trasformazione politica.

“Il 9 ottobre 2015 il premio nobel per la pace è stato assegnato al quartetto tunisino”. Questa la notizia che hanno diffuso in Italia. Quartetto di archi, quartetto di cosa? Il quartetto per il dialogo nazionale tunisino, elementi della società civile tunisina.

Facciamo chiarezza.

Formato nell’estate del 2013 in piena rivoluzione dei gelsomini. Permettetemi di ricordare come iniziò questa rivoluzione. Mohammed Bouazzi, 26 anni, protestando per la corruzione del governo si diede fuoco fuori dagli uffici del municipio nella città di Sidi Bouzid. Questo ragazzo aiutava la propria famiglia vendendo frutta su un carretto, s’infuriò perchè funzionari locali pretendevano tangenti e gli confiscavano ripetutamente la merce. Il suo sacrificio simboleggia l’ingiustizia e le dure condizioni economiche in cui versavano molti tunisini sotto il regime di Ben Ali; ispirò le proteste che si estesero a tutto il paese contro la disoccupazione, la povertà e la repressione politica.

Chi fa parte del Quartetto?

L’Unione generale del lavoro tunisino assume le redini della creazione di un’alleanza della società civile. Il suo leader Houcine Abbassi, convinse il suo storico rivale: la Confederazione tunisina dell’industria, commercio e artigianato ad unire le forze. Poi si aggiunsero la Lega per i diritti umani tunisina e l’ordine degli avvocati tunisino.

Perché è così importante?

La storia della Tunisia è quella dell’abilità di attori estranei al processo politico standard di entrare nel processo e servirlo come mediatori o critici ovvero entrambi. L’Unione generale del lavoro tunisino che conta più di mezzo milione di iscritti (il 5% della popolazione totale), una branca in ogni provincia e 19 organizzate a seconda dell’attività, penetra la società fino alle radici. La sua influenza economica unita all’estesa esperienza di mediazione e negoziazione acquisita attraverso le trattative giocarono un ruolo cruciale nel 2013.

Questa storia ci insegna che il ruolo della società civile è cruciale per la trasformazione politica. Malgrado quello che pensano i grandi seduti nelle loro comode poltrone a New York nel palazzo di vetro, la società civile conta parecchio, soprattutto perché si tratta proprio di quelle stesse persone il cui destino è appeso al filo di un processo di trasformazione. La road map del Quartetto raggiunta in mesi e mesi di negoziazioni anche aspre, combinava la legittimità elettorale (solo i partiti eletti all’Assemblea Costituente erano invitati a partecipare all’accordo per il Dialogo Nazionale) e il consenso della legittimità: ogni partito aveva due rappresentanti, indipendentemente dalla grandezza del partito,  preservando le istituzioni governative (l’Assemblea non fu sciolta) mentre si modificavano le loro funzioni.

Questa è una vera storia di democrazia nel vero senso della parola. Una storia ONESTA di un dialogo nazionale promosso dagli stessi tunisini e non imposto da zelanti burocrati occidentali. Una storia in cui si è deciso il destino di un popolo non nelle stanze chiuse di partiti, storia da cui l’Italia dovrebbe prendere esempio. Peccato che il nostro presidente del consiglio pensa solo ad attaccare le organizzazioni sindacali e che si è dimenticato totalmente dell’esistenza della società civile, giacchè decide tutto lui. Attenzione perché Ben Ali non è più al suo posto proprio grazie a loro.

 

Ottobre 8 2015

In Siria non c’è solo l’ISIS.

In Siria la minaccia estremista non arriva solo dall’ISIS. Anche se fa comodo pensarla così, ci sono almeno nove gruppi di estremisti attivi presenti attualmente in Siria.

Tutti fissati con questo bombardare l’ISIS in Siria, tutti convinti di questa grande idea risolutiva. Vi siete mai chiesti se l’ISIS è l’unico gruppo di estremisti in Siria di cui avere paura? Ecco allora un quadro generale dei gruppi di estremisti di matrice islamica o se preferiti di terroristi, presenti in Siria che combattono Bashar al – Assad. Ricordiamo che Assad non si è mai fatto alcuno scrupolo a bombardare il mercato pieno di civili, usare armi chimiche, non lo considerate un santo, lui sulla via di Damasco folgora nel vero senso del termine i suoi cittadini.

estremisti Siria

Ahrar al-Sham: (conosciuta anche come Harakat Ahrar al-Sham al-Islamiyya, oppure Islamic Movement of the Free Men of the Levant) è uno dei più grandi gruppi appartenenti al Fronte Islamico, un’organizzazione di militanti islamici sunniti che combattono contro il regime di Assad. Creata alla fine del 2011,  per prima è emersa come una significativa forza sul terreno siriano nel gennaio del 2012. Molti dei membri fondatori di Ahrar al – Sham, incluso il comandante: Hassan Aboud, erano ex prigionieri politici del regime rilasciati nel maggio del 2011 a seguito dell’amnistia atta a placare le proteste religiose nel periodo in cui la primavera araba iniziava a minacciare i governi regionali. Originariamente il quartier generale era a Idlib,ma nell’estate 2013 conduceva operazioni in tutto il paese. Nel febbraio 2014 il dipartimento Americano di Intelligence ha classificato Ahrar al – Sham come uno dei tre gruppi di ribelli più efficaci in Siria. Così come tutti i più forti gruppi militanti in Siria, Ahrar al – Sham mantiene relazioni con la popolazione fornendo servizi di base nelle città che controlla. Mentre il suo obiettivo sarebbe quello di un governo basato sulla Shariah, è visto come un’alternativa moderata ad al – Nusra e all’ISIS. Riceve finanziamenti dalle reti di islamisti del golfo persico ed è supportata dal Qatar. Lo sceicco Hajjai al – Ajami, un prominente raccoglitore di fondi era nel 2012 uno dei donatori chiave. Gli sforzi umanitari sono stati sponsorizzati della Turkish Humanitarian Relief Foundation and Qatar Charity. E’ la forza di opposizione con miglior equipaggiamento. Mantiene dei contatti con la leadership di Al Qaeda, mentre il gruppo non ha mai ufficializzato una partnership con loro.

Al Qaeda: emersa dal movimento mujahidden che opponeva gli jihadisti contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1970. Osama Bin Laden arrivò in Afghanistan per unirsi alla guerra nel 1980. Figlio di un uomo d’affari saudita estremamente ricco, diventò un importante membro della jihad fornendo fondi al movimento. Nell’arco dell’occupazione, lavorò con un prominente religioso palestinese Abdullah Azzam per creare un gruppo chiamato Mektab al – Khidmat (Bureau of Services) che incanalava jihadisti in Afghanistan. Nella metà degli anni 80 il leader dell’Haqqani Network (HN), Jalaluddin Haqqani, garantì a bin Laden territori sulla regione montuosa tra l’Afghanistan ed il Pakistan. Bin Laden così stabilisce una presenza nella regione e costruisce campi di addestramento che diventeranno campi di elite per i mujahidden arabi – afghani. L’organizzazione assume il nome di Qa’ida al-‘Askariyya, ovvero “the military base”. In tutto lo sviluppo di Al Qaeda(AQ), HN continua a servire come un facilitatore, fornendogli addestramento, esperienza di combattimenti e risorse, creando luoghi sicuri per i jihadisti e facilita la creazione della rete tra AQ e altri gruppi. La CIA e l’Arabia Saudita incanalavano assistenza finanziaria verso gruppi di mujahidden attraverso l’ Inter-Services Intelligence Directorate (ISI) pakistano per tutta l’occupazione sovietica e sebbene sia i leader di AQ che i membri della CIA negarono che AQ ricevesse finanziamenti americani, alcuni conti ci dicono che più di 600 milioni di dollari in finanziamenti americani sono andati ai mujahidden che hanno lavorato vicino a bin Laden. Sunniti, l’obiettivo di AQ è quello di sradicare l’influenza occidentale nel mondo islamico, distruggere Israele e creare uno Stato Islamico che si dipana dalla Spagna all’Indonesia che impone strette interpretazioni sunnite della legge Shariah. Tuttavia, non tutti i membri di AQ e i suoi affiliati si trovano concordi sulle stesse leggi. Alcuni arguiscono che gli sciiti sono apostati, disaccordo che ha causato parecchie tensioni tra AQ e i suoi affiliati, una per tutte: AQ in Iraq uccide gli sciiti in Iraq in palese contrasto con le istruzioni di bin Laden in proposito. Inizialmente si pensava che bin Laden finanziasse personalmente la maggior parte delle attività di AQ, invece è stato scoperto che le donazioni private finanziano più di 30 milioni di dollari l’anno. Alcune organizzazioni benefiche come Al Wafa sono guidate interamente da membri di AQ e canalizzano direttamente fondi al gruppo terroristico. Il reclutamento avviene per la maggior parte attraverso tribù locali in Pakistan ed Afghanistan: si offrono tra i 1,000 e i 1,500 dollari al mese per nuove reclute più numerosi benefit e vacanze in cambio di lealtà e segretezza. All’inizio del 2014, lo Stato Islamico (IS) ha sfidato AQ per la dominanza del movimento jihadista globale e alcuni gruppi hanno iniziato a giurare alleanza all’IS in molti casi rimpiazzando cosi la loro affiliazione ad AQ. Soprattutto è il caso di Boko Haram che precedentemente affiliato ad AQ, giura alleanza al leader dello Stato Islamico nel marzo di quest’anno. Controversie sulle alleanze ha causato la frantumazione di alcuni gruppi in cui alcuni membri si sono alleati con AQ e altri con Baghdad, leader dell’IS. Nominiamo alcuni affiliati di AQ, per dare un’idea del fenomeno.
Al Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM): gruppo sunnita basato in Algeria che supporta la creazione di uno stato islamico e il rovesciamento del governo algerino.
Al Qaeda in Yemen (AQY) : affiliato di AQ nello Yemen.
Al-Qaeda nella penisola araba (AQAP): organizzazione estremista di sauditi e yemeniti, considerata una delle più grandi minacce terroristiche dagli Stati Uniti, regolarmente attacca gli interessi degli Stati Uniti in contemporanea alla sua guerra contro il governo saudita e alla partecipazione della guerra civile in Yemen.
Al Qaeda in Iraq (AQI): la prima organizzazione affiliata accettata formalmente da AQ e l’unica annunciata personalmente da bin Laden.
Al Qaeda Kurdish Battalions (AQKB): fondata nel 2007 attraverso la fusione di alcune organizzazioni terroristiche curde. Opera lungo il confine tra l’Iran e l’Iraq.

ANSAR AL-SHAM (KATAIB ANSAR AL-SHAM, “SUPPORTERS OF THE LEVANT BRIGADE”): particolarmente attiva nella distribuzione di aiuti umanitari e nel funzionamento delle scuole nelle aree che controlla. Membro fondatore dell’ Fronte Islamico, ma il più piccolo. Salafiti e sunniti, il loro obiettivo è quello di rovesciare il regime di Assad e stabilire uno stato islamico sunnita. Diversamente dagli altri gruppi di opposizione, specialmente quelli del Fronte Islamico, non ci sono chiare rivendicazioni ideologiche attribuibili al gruupo. Molti appartenenti all’organizzazione sono locali. Ci sono evidenze che l’Arabia Saudita li supporti finanziariamente.

Hezbollah: organizzazione militante politica sciita basata in Libano. Secondo il manifesto del 1985 gli obiettivi originari erano: distruggere Israele, espellere l’influenza occidentale dal Libano e più ampiamente dal Medio Oriente e combattere i nemici all’ interno del Libano, particolarmente il Phalanges party. Un nuovo manifesto del 2009 riflette cambiamenti del ruolo dell’organizzazione in Libano dal 1985: più enfasi  all’unità nazionale,denunci del settarismo, continuando a sottolineare l’obiettivo di liberare la Palestina, l’opposizione agli Stati Uniti e l’impegno a combattere l’espansione e l’aggressione di Israele. L’obiettivo di proteggere il regime di Assad, un alleato chiave nella regione, si è unito alla lotta a sostegno del governo in Siria. L’Iran è una risorsa chiave di finanziamento dell’organizzazione il cui ammontare varia dai  60,000 ai 200 milioni di dollari all’anno. Il governo siriano ha giocato un ruolo chiave come strada di rifornimento di armi dall’Iran ad Hezbollah.

Al – Nusra Front: conosciuto come Nusra Front ovvero Jabhat al – Nusra: formato verso la fine del 2011, la prima forza siriana a rivendicare gli attacchi che uccisero i civili. La loro reputazione tra i ribelli siriani è così forte che quando gli Stati Uniti li designarono come organizzazione terroristica nel dicembre 2012, un discreto numero di gruppi anti governativi incluso alcuni del Free Syrian Army protestarono. Nell’estate del 2014, l’ISIS spinge fuori dalle roccaforti di Deir Al – Zor al – Nusra e alcuni suoi alleati, zona di giacimenti di petrolio, importante risorsa e guadagno per al – Nusra. Nel 2012 un gruppo di veterani di AQ conosciuto come “Khorasan Group” arriva nei territori siriani controllati da al – Nusra ed usa questi spazi per sviluppare piani di attacchi internazionali. Nel settembre 2014 il governo statunitense annuncia che in aggiunta agli attacchi aerei contro l’ISIS l’obiettivo sarebbe stato anche la cellula Khorasan, ripensandoci poi nel novembre dello stesso anno, asserendo la possibilità di espandere gli attacchi ad Al – Nusra in generale. Obiettivo dell’organizzazione di estremisti: rovesciare il regime di Assad e rimpiazzarlo con uno stato islamico sunnita. Una grande porzione delle risorse di Al – Nusra arriva da oltremare incluso gli esplosivi e le armi. Secondo solo all’ISIS, Al – Nusra attrae la maggior parte dei foreign fighters tra i ribelli in Siria. Arrivano dal Medio Oriente, ma anche dalla Cecenia e dagli stati Europei, con un piccolo numero da paesi come l’Australia o gli Stati Uniti.

Jaish al-Islam: è il risultato della fusione tra una cinquantina di gruppi di opposizione islamista basati a Damasco, cosa che li ha resi la forza ribelle dominante a Damasco. Finanziati dall’Arabia Saudita che ha iniziato l’unificazione dei gruppi per comporre Jaish al – Islam nel tentativo di opporre l’influenza di AQ e dei suoi affiliati a Damasco.  L’Arabia Saudita ha agito come un avvocato/intermediario dell’organizzazione, chiedendo con grande urgenza agli Stati Uniti di rifornire il gruppo con missili anti carro e anti aereo ed incoraggiando Jaish al – Islam ad accettare l’autorità del Consiglio Supremo militare un affiliato del Free Syrian Army.