Aprile 29 2017

Attori solitari: l’arma subdola dell’Islamic State

attori solitari
Gli attori solitari sono una delle armi più subdole dell’IS. Tornati o mai partiti, adolescenti, uomini e donne che anche senza ordine preciso dell’IS colpiscono in suo nome.

Innanzitutto chiariamo cosa vuol dire il termine “attore solitario”. Esso connota qualcuno che agisce senza connessione diretta con l’organizzazione estremista. Tuttavia, anche se potrebbe trarre in inganno, la frase è comunemente usata per riferirsi alle persone che agiscono individualmente o in piccole cellule con il minimo supporto da parte del gruppo estremista che usa la tattica del terrorismo.

La potente proiezione dell’IS esercita una spinta gravitazionale su persone vulnerabili in tutto il mondo, ma non tutte queste persone entrano nella sua orbita. Alcuni non possono viaggiare fino in Medio Oriente perché impediti da circostanze personali, ostacoli esterni o mancanza di immaginazione. Vista la non partecipazione al progetto IS all’estero, alcuni decidono di partecipare a casa, attraverso atti di violenza.

Fin dagli inizi l’IS prevede l’utilizzo di “operazioni esterne”

Nel marzo del 2014, quando in Occidente pochissimi contemplavano un intervento in Siria ed in Iraq, l’IS già si avvaleva di operativi che lavoravano alla causa del “caos” nelle società di tutto il mondo. A maggio, un cittadino francese di discendenza algerina, Mehdi Nemmouche colpisce ed uccide 4 persone nel museo ebraico del Belgio prima di sparire dalla scena. Quando fu arrestato in una stazione ferroviaria in Francia, qualche giorno dopo, la polizia trova nel suo bagaglio un video che lo ritrae con la bandiera dell’IS  mentre rivendica la responsabilità dell’attacco.
La velocità delle “operazioni esterne” dell’IS aumenta significativamente. Gli incidenti assumono diverse forme. Cittadino inglese di 19 anni  che viene arrestato per le strade di Londra con addosso un coltello, un martello e una bandiera dell’IS. In Francia due ragazze adolescenti, di 15 e 17 anni, vengono arrestate perché pianificavano di mettere una bomba della sinagoga a Lione. In Australia la polizia arresta 15 persone in una serie di interventi della polizia perché progettavano di decapitare a caso una serie di cittadini australiani e avvolgere i loro corpi con la bandiera dell’IS per poi mostrarli al pubblico. Il piano era stato diretto per telefono da un reclutatore australiano dell’ISIS in Siria.

Il richiamo ufficiale agli attori solitari di tutto il mondo

E’ il portavoce dell’IS, Abu Muhammad al Adnani (ucciso recentemente da un drone americano), che sollecita i sostenitori di tutto il mondo ad alzarsi e a rispondere agli attacchi aerei dell’occidente compiendo attentati contro ogni cittadino dei Paesi a cui appartengono e che fanno parte della coalizione anti IS:

Lone wolves

Distruggete il loro letto. Se tu puoi uccidere un miscredente americano o europeo – specialmente i perfidi francesi – oppure un australiano, un canadese o ogni altro miscredente della guerra dei miscredenti (…) poi conta su Allah, e uccidilo in ogni maniera o modo. Non chiedere a nessuno consiglio e non cercare il verdetto di nessuno. Uccidi il miscredente che sia civile o militare. Rompigli la testa con una roccia, o massacralo con un coltello, o passagli sopra con una macchina, o o buttalo giù da un posto alto oppure strangolalo o avvelenalo. Se non sei capace di farlo, allora brucia la sua casa, la sua macchina, il suo luogo di lavoro. Oppure distruggi le sue armi”.

Dal momento della diffusione di questo messaggio in poi, si sono susseguiti una serie di attacchi: un 18 enne pugnala due poliziotti; il 25 enne Martin Couture – Rouleau investe con la sua macchina due soldati canadesi in un parcheggio, in Quebec, per poi uscire dalla macchina armato di coltello. Uno dopo l’altro, giorno dopo giorno. Il 32enne americano, Zale Thompson, attacca due poliziotti newyorkesi con un’ascia; per citarne alcuni. Attacchi che continuano per tutto il 2015.

L’uso degli attori solitari pone l’IS in una posizione di supremazia rispetto agli altri gruppi estremisti di natura religiosa

Per anni Al Qaeda aveva incoraggiato questo tipo di attacchi, con raro successo. Gli attori solitari inspirati da Al Qaeda si sono sempre focalizzati su obiettivi militari ovvero edifici governativi. Molte reti ispirate ad Al Qaeda ma non connesse ad esso, hanno discusso apertamente sul loro disagio a proposito di obiettivi i civili.

La messaggistica dell’IS ha un diverso tipo di sofisticazione. Laddove Al Qaeda incastonava il tono dei suoi messaggi per potenziali reclute in termini più relativi: “fare la cosa giusta”, l’IS cerca di stimolare più che convincere. La sua propaganda e i suoi materiali di reclutamento sono enormemente viscerali, da scene di violenza grafica a visioni pastorali di una società utopica che sembra fiorire, in qualche modo, nel mezzo di una zona di guerra.

Le sfide poste dal fenomeno degli attori solitari 

Il fenomeno degli attori solitari pone essenzialmente due tipi di sfide. La prima: i combattenti  che ritornano o per accordo con la direzione dell’IS o per scelta propria, presentano in sé un alto rischio. Essi possono condurre attacchi in vece del gruppo in tutto il mondo.
La seconda sfida è quella che presenta punti più contraddittori. Nel protrarsi del conflitto in Siria ed in Iraq, soprattutto, vengono a galla sempre più rapporti di combattenti (cittadini di stati occidentali) che, disillusi dal conflitto, vogliono tornare a casa. Interesse dei governi occidentali è vedere come individui radicali si disimpegnino dalla loro causa estremista. Alcuni combattenti possono essere stati lusingati da un’offerta di un accordo di cooperazione, ma questo quasi sempre prevede che trascorra comunque un significativo lasso di tempo in prigione. Mentre un combattente può essere disilluso con la causa o con l’esperienza, potrebbe comunque disprezzare le politiche occidentali e non essere incline a tornare dai suoi amici di un tempo. La  Danimarca ha lanciato iniziative di de – radicalizzazione per ex combattenti dell’IS, altri Paesi considerano l’opportunità di adottare simili programmi, ma questi sforzi possono essere inficiati da ampi quesiti senza risposta che riguardano l’effettività e i rischi di questo tipo di programmi. Inoltre, c’è una difficile questione di responsabilità: la giustizia vuole che ci siano conseguenze per i crimini, particolarmente per quelli atroci commessi sotto la bandiera dell’IS. Per incentivare le defezioni è necessario permettere che questi crimini restino impuniti?

Gli studi condotti sul fenomeno dei combattenti occidentali che appartengono a gruppi estremisti di natura religiosa non sono confortanti. Il più famoso è quello condotto da Hegghammer nel 2013. Ci rivela che, nella storia dell’intero movimento jihadista, pochi militanti occidentali hanno lasciato perdere definitivamente la tattica del terrorismo una volta lasciato il campo di battaglia. Anzi, la presenza di ex combattenti in un piano terroristico aumenta la probabilità che il piano sia di successo e ne aumenta significativamente la letalità.

Non esistono soluzioni come prendere una medicina per far passare la febbre.  L’arma subdola degli attori solitari ha radici nella ricerca di un’identità, dell’appartenenza ad un gruppo, nel seguire una causa comune, in tutta quella messaggistica di cui parlavamo prima sull’idea di una società che fiorisce anche in zone si guerra. Non si tratta di dire è giusto o sbagliato e ricondurre tutto ai “buoni contro i cattivi”. L’identità nazionale, il senso di appartenenza, il sistema di valori sono campi a cui le nostre società “occidentali” hanno abdicato in favore del qualunquismo e del menefreghismo, del tutti contro tutti. Del denigrare a tutti costi senza un percorso di confronto costruttivo. Nel lasciare intere sacche della società abbandonate a sé stesse, sperando che qualcun’altro se ne occupi. La soluzione forse è dove non la si cerca mai, nel degrado dei valori che procede inarrestabile.

Febbraio 19 2017

I limiti delle risposte al fenomeno dei foreign fighter

foreign fighter

Prendendo spunto dall’annuale Forum sulla sicurezza tenutosi a Marrakesh, ragioniamo sul ruolo dell’intelligence rispetto al fenomeno dei foreign fighter.

Le discussioni su come prevenire il terrorismo internazionale danno luogo ad evidenti tensioni tra i governi, alla confusione sugli sforzi da compiere, esacerbata dalle politiche immigratorie discriminatorie del Presidente Trump. Inoltre, frequenti sono le liti in Europa tra paesi vicini, ma anche in Africa e nel Medio Oriente a proposito del controllo delle frontiere. Sebbene la volontà di cooperare sia forte, il disaccordo tra gli Stati verte attorno ai ruoli delle autorità giudiziarie, alle capacità che si scontrano con la natura mutevole del nemico.

Ci piaccia o no, il terrorismo internazionale è l’argomento che guida gli Stati allorquando si discute di minacce comuni alla sicurezza. Il terrorismo internazionale è il focus delle menti dei leader quando incontrano le proprie controparti, se non altro perché è il fenomeno che può distruggere più velocemente la pace e la sicurezza nazionale ed internazionale.

Mentre la guerra in Siria ed in Iraq contro lo “Stato islamico” si sta combattendo con la forza militare convenzionale, gli sforzi di contro-terrorismo, nella maggior parte dei paesi, sono guidati dall’intelligence e dall’applicazione della legge.

Perché gli Stati falliscono nella risposta alla mobilitazione dei foreign fighter? Perché essa è così difficile da contenere?

Ci sono due principali fattori che intervengono:

  1. la sfida della cooperazione tra le agenzie di intelligence nazionali a causa del conflitto di interessi tra Stati;
  2. la tensione, a livello nazionale, tra la raccolta di informazioni e il perseguimento dei crimini che si riscontrano durante le attività investigative sulle reti di foreign fighter.

Quello dei foreign fighter è un fenomeno mutevole dal punto di vista della natura e della dimensione. La dimensione di questo fenomeno, inoltre è modellata attorno da molteplici fattori: se il conflitto calza con l’ideologia jihadista o meno, la presenza di gruppi nella zona di conflitto che siano disposti e capaci di ospitare foreign fighter, connessioni transnazionali pre-esistenti oppure l’abilità di sviluppare tali connessioni e se il conflitto sia accessibile o meno.

Un rapporto del Centro sul contro-terrorismo delle Nazioni Unite diffuso a metà 2016 fornisce dati sugli Stati che sono i maggiori esportatori di foreign fighter: Tunisia, Arabia Saudita e Russia: i maggiori Stati da cui partono su base pro capite: Tunisia, Maldive, Giordania; e i più grandi Stati non a maggioranza musulmana, da cui partono: Finlandia, Irlanda e Belgio. Con un collegamento occasionale all’Asia e all’America Latina.

I timori dei governi sull’impiego dei foreign fighter sono stati irregolari nel corso del tempo, e la maggior parte dei governi cerca di affrontare i problemi relativi alla sicurezza interna che derivano dai foreign fighter piuttosto che prevenire il loro spostamento.

L’intelligence come panacea al fenomeno  dei foreign fighter?

Le attività di risposta al fenomeno dei foreign fighter riguardano un’ampia gamma di attività governative che vanno dalla contro-propaganda alle misure giuridiche, attività di intelligence e in taluni casi l’uso della forza militare.

L’intelligence sembra essere per molti l’unico strumento in grado di rispondere a questo tipo di fenomeno. Se da un lato potrebbe essere uno degli strumenti efficaci in questo ambito, dall’altra parte sono diversi i fattori che lo rendono invece inefficace nel breve termine. Si parla spesso di cooperazione tra le agenzie di intelligence dei diversi Stati. La cooperazione, tuttavia, è basata su interessi personali, sull’utilità, sulla minaccia percepita e laddove vi è una convergenza  è soltanto temporanea in ragione della natura fluida del sistema internazionale e del mutamento della minaccia e delle priorità.

Un foreign fighter tipicamente si muove dal suo paese di origine, viaggia attraverso uno o più luoghi di transito prima di arrivare nel paese di destinazione. Spesso vengono aiutati da cosiddetti facilitatori e frequentemente questi individui utilizzano gli Stati di transito per operare. In virtù della loro presenza, gli Stati di transito sono spesso identificati come coloro che giocano un ruolo chiave nel limitarne l’accesso alle aree di conflitto.

La riluttanza da parte degli Stati di transito di fornire una cooperazione duratura di lungo termine potrebbe essere superata se lo Stato di destinazione avesse la capacità di localizzare e degradare i traffici indiretti lungo le frontiere che servono allo spostamento dei foreign fighter.

I limiti alla cooperazione tra agenzie di intelligence:

  • la differenza nella distribuzione del potere tra le agenzie che cooperano;
  • i diritti umani;
  • questioni legali;
  • l’utilizzo dell’intelligence per obiettivi non intenzionali;
  • raggiungimento di accordi su come opporsi alle strutture dei gruppi terroristici. Non tutte le agenzie d’intelligence hanno la stessa tolleranza per i rischi da correre. Ci potrebbe essere un disaccordo su quando si devono compiere gli arresti, sulle attività cinetiche da utilizzare o se un individuo debba essere catturato o farlo restare in gioco per raccogliere ulteriori informazioni.

Cosa viene condiviso

Lo scambio di informazioni di intelligence è una forma di baratto, che può manifestarsi  in molti modi.

La semplice cooperazione coinvolge due agenzie di intelligence  che si scambiano materiale su un obiettivo accordato.

Collegamento complesso: l’informazione d’intelligence è scambiata allo scopo di acquisire altri tipi di benefici, politici, economici o militari.

Questo tipo di relazioni possono essere simmetriche, dove le parti percepiscono lo scambio come un beneficio equo, oppure asimmetriche, cioè quando una parte trae un beneficio maggiore dallo scambio rispetto all’altra.

Relazioni avverse dove due agenzie d’intelligence cooperano malgrado i loro interessi  non convergano.

Preferenza per la cooperazione bilaterale

La cooperazione tra agenzie di intelligence è complicata anche dalla preferenza per quella bilaterale rispetto alla multilaterale.

In una relazione di scambio bilaterale, gli Stati sono in grado di controllare meglio e di gestire i rischi correlati allo scambio di informazioni di intelligence, la perdita delle fonti, oppure la penetrazione nel proprio sistema da parte di un’altra agenzia di intelligence. Questo tipo di preferenza, tuttavia, risulta problematica durante il movimento dei foreign fighter quando ad essere coinvolti possono essere due Stati o centinaia.

In strutture come Europol ed Interpol, l’abilità di realizzare iniziative di risposta al movimento dei foreign fighter si sono rivelate molto più complicate. Ciò è evidenziato dalla quantità di tempo che ha impiegato l’Europol per acquisire i dati di moltissimi foreign fighter da un contingente europeo stimato di circa 5000 unità. A seguito degli attacchi in Francia e in Belgio alla fine del 2015 e agli inizi del 2016 questo numero è cresciuto a 5,353 sebbene solo circa 3000 sono stati riportati da Stati appartenenti ad Europol.

Sono 9000 i foreign fighter registrati nei sistemi dell’ Interpol malgrado le stime verso l’alto di 15000 foreign fighter che restano ancora nelle zone di conflitto.

La relazione complicata con la Turchia

Fin dall’inizio dell’impiego dei foreign fighter, tra il 2011 ed il 2012, la relazione con la Turchia si è rivelata complicata. Ci sono dei fattori che hanno contribuito a renderla tale, il primo:  la protezione dei dati. Alcuni Stati dell’UE nutrono dei seri timori nel fornire alla Turchia informazioni di intelligence vista l’assenza di una legislazione nazionale che protegga i dati.

Il secondo fattore: le differenze nelle pene relative ai crimini correlati al terrorismo internazionale e nazionale.

Inoltre, un fattore che ha contribuito alla tortuosa relazione con la Turchia è rappresentato dalla sostituzione di funzionari dell’intelligence turca e della polizia a causa dei timori di Erdogan sull’infiltrazione di gulenisti. Questa “epurazione” ha avuto come risultato che alcuni Stati non possono più avvalersi di individui di cui si fidavano e che erano in grado di lavorare su questioni relative al contro-terrorismo.

Un altro elemento che rende i rapporti con la Turchia tutt’altro che fluidi è la faziosità all’interno delle agenzie di intelligence turche ed il sospetto che potrebbero aver avuto interazioni con i vari gruppi in Siria.

Contrasto, a livello nazionale, tra le risposte al terrorismo internazionale e le risposte al fenomeno dei  foreign fighter.

Gli strumenti utilizzati per rispondere al terrorismo internazionale e le pratiche di raccolta e di impegno delle agenzie statali potrebbero produrre dei risultati in contrasto con quelli desiderati. La pratica del contro-terrorismo e la burocrazia degli Stati potrebbero, nel breve periodo, consentire la mobilità dei foreign fighter. Gli sforzi per rispondere a quest’ultimo tipo di fenomeno allo scopo di mitigare il rischio di violenza sul territorio dello Stato potrebbero creare spazio di movimento per i ” terroristi volontari ” .

Proprio per questo è importante creare delle risposte per ciascun tipo di fenomeno, comprensive e che non si affidino solo ai servizi di intelligence e alle autorità giudiziare.

*immagine: fonte – Worldbullettin – 

 

Dicembre 11 2016

Terrorismo biologico e “Stato islamico”

terrorismo biologico

Trovare nuove vie per generare paura, nuovi metodi di terrorismo, sono le strategie future dello “Stato islamico”. Il terrorismo biologico è una di queste.

Partiamo da un presupposto importante: organizzazioni come lo “Stato islamico” o si rinnovano o muoiono. Per esso è necessario trarre il massimo vantaggio dalle risorse di cui gode.

Come tutte le organizzazioni che si basano sulla tattica del terrorismo, lo “Stato islamico” deve affrontare un dilemma persistente: l’abilità di generare, nel tempo, la paura. Quest’ultima potrebbe diminuire, dal momento che i potenziali obiettivi, mentalmente, si adeguano, si correggono o si aggiustano a questo tipo di minaccia.

I primi casi di alcuni tipi di attacchi: un attentatore suicida in un mercato affollato, ad esempio, hanno prodotto effetti psicologici estesi, ma la ventesima, cinquantesima, centesima volta tali effetti si sono manifestati con minore intensità.

Questo significa che i gruppi estremisti, in questo caso di natura islamica,  devono costantemente cercare nuove forme di attacchi per generare la paura  di cui si alimentano.

Qui è dove si trova lo “Stato islamico” oggi. L’orrifica, ben pubblicizzata, brutalità contro i nemici percepiti in Siria e in Iraq lo ha promosso dalla “seconda squadra” degli estremisti violenti islamici alla massima divisione. Una volta che ciò è avvenuto, il gruppo scopre che orchestrare o ispirare furia omicida in Europa, negli Stati Uniti o da qualche altra parte li eleva ulteriormente, aumentando perversamente  la sua levatura tra i violenti, arrabbiati, alienati musulmani nel mondo. Tuttavia adesso deve alzare ancora l’asticella, trovando nuove vie per creare la paura di cui ha bisogno per alimentare la sua strategia.

Perciò, lo “Stato islamico” si sta innovando, cercando la “prossima grande azione” all’interno della galassia dei gruppi estremisti islamici transnazionali che utilizzano la tattica del terrorismo.

Il problema è che non è facile trovare nuove forme efficaci di terrorismo con l’incremento dei controlli, della vigilanza nel mondo e dagli importanti miglioramenti nel contro-terrorismo, nella difesa nazionale, nelle capacità di intelligence delle nazioni che lo “Stato islamico” vuole colpire.

Tuttavia esiste il timore dell’utilizzo, da parte dell’ISIS, del terrorismo biologico.

Il terrorismo biologico

La guerra biologica è esistita per centinaia di anni. Durante la Guerra Fredda, si raggiunsero nuovi livelli quando l’Unione Sovietica costruì una massiccia capacità di guerra biologica. Per un momento gli Stati Uniti ebbero la loro capacità biologica offensiva. Oggi, sebbene, molte nazioni hanno abbandonato la guerra biologica, lo “Stato islamico” pare voglia giocare questa carta.

Il razionale etico per questo tipo di guerra è già in campo. Con la sua ideologia della “fine dei giorni”, lo “Stato islamico” crede che ogni cosa che fa avanzare i suoi interessi è accettabile, non importa quanto barbarica sia.

Un computer portatile catturato al gruppo nel 2014, già conteneva una fatwa di un religioso saudita che asseriva: “è permesso l’utilizzo di armi di distruzione di massa”. Nel 2015, analisti di contro-terrorismo, hanno notato che c’era una crescente discussione sui social media jihadisti sull’utilizzo del virus dell’ebola come arma.

Ad un’unità inglese che si occupa della minaccia chimica, batteriologica e radiologica, nel 2015, era stato dato il compito di analizzare la possibilità che gruppi estremisti come lo “Stato islamico” potessero utilizzare armi di distruzioni di massa. Nel rapporto si legge che questo tipo di gruppi potrebbero essere interessati all’utilizzo di armi biologiche.

Indicatori che gli strateghi dello “Stato islamico” stanno cercando di acquisire capacità per sviluppare e poi impiegare armi biologiche potrebbe essere quella della perdita dei territori che controlla.

La progressiva perdita di aeree in Siria ed in Iraq con tutta probabilità può intensificare la determinazione da parte del gruppo estremista ad ampliare gli effetti degli strumenti che ha a disposizione, possibilmente combinando la tattica del terrorismo alla guerra biologica.

La vera paura è che lo “Stato islamico” possa trovare un modo per usare la tecnologia moderna per sviluppare armi biologiche di nuova generazione.

La buona notizia è che il gruppo non sembra ancora avere acquisito una capacità effettiva di guerra biologica. Ma ne sta cercando una.

Il computer di cui parlavo poco fa conteneva un documento di 19 pagine su come rendere un’arma la peste bubbonica da animali infetti ed istruzioni per mettersi in sicurezza al momento dello sviluppo  dei microbi, in sostanza disposizioni per proteggere i tecnici del gruppo dall’esposizione.

Ufficiali di sicurezza credono che le parti di animali in decomposizione trovate in uno zaino di un estremista legato agli attacchi di Bruxelles nel 2016 erano intesi a avvelenare cibo e acqua.

Questo tipo di guerra biologica, in giro da millenni, se da un lato ha la capacità di disseminare un alto livello di paura, dall’altro risulta raramente efficace.

“Stato islamico” ad armi biologiche

L’organizzazione estremista islamica ha già un certo numero di scienziati sul suo libro paga. In Iraq, Libia, Siria, lo “Stato islamico” ha accesso ai residuati dei programmi di guerra biologica costruiti da Saddam Hussein, Moammar Gheddafi  e Hafez al – Assad (padre di Bashar al-Assad attuale presidente della Siria) con l’aiuto dei sovietici.

Il prossimo passo potrebbe essere costruire una nuova generazione di armi biologiche, geneticamente modificate, più sicura da maneggiare, più facile da distribuire e molto più letale rispetto ai vecchi materiali patogeni come l’antrace.

Limiti allo sviluppo di armi biologiche da parte dell’ISIS

Un limite allo sviluppo di questo tipo di armi è che i generatori di corrente in Iraq e in Siria non sono sufficientemente affidabili per i frigoriferi e gli incubatori necessari agli agenti biologici.

E le armi chimiche? A che punto è lo “Stato islamico” con quest’arma di distruzione di massa?

Diversi rapporti dei media indicano che lo “Stato islamico” adopera armi chimiche, specificatamente l’iprite. Questi rapporti rivelano, tuttavia, che è questo agente è grezzo e non ha prodotto gli effetti massicci tipici di un programma condotto da uno stato. Ci sono anche segnali che l’organizzazione estremista ha sviluppato almeno un programma di piccola scala di armi chimiche e potrebbe aver ottenuto armi chimiche da riserve non dichiarate o abbandonate del governo siriano.

La possibilità che  le armi chimiche usate potrebbero venire da materiale non dichiarato di riserve siriane è stato documentato da varie fonti dei media.

Al Qaeda organizzò un attacco biologico, ma non lo mise in pratica

Prima dell’11 settembre, Al Qaeda iniziò a sviluppare un dispositivo chiamato mubtakkar, che significa “invenzione”, per disseminare acido cianitrico e altri gas tossici. Nel 2003 alcuni operativi di Al Qaeda in Arabia Saudita complottavano per utilizzare un dispositivo di gas velenoso nel sistema della metropolitana di New York, ma il progetto fu interrotto dopo che l’allora vice di Al Qaeda, Ayman al – Zawahiri, decise di che non doveva essere portato a termine. La cellula aveva pianificato di disperdere quantità di acido cianitrico.

Limiti:

agenti chimici come l’acido cianitrico, il sarin sono altamente corrosivi e richiedono la conservazione in ambienti altamente controllati. Per esempio, alte temperature e umidità colpirebbero le reazioni chimiche usate per farne armi e la loro efficacia. La natura corrosiva di questi agenti rende la conservazione a lungo termine e il trasporto su lunghe distanze molto difficile, senza appropriati contenitori e un ambiente adatto. Questi limiti suggeriscono che è molto probabile che gli agenti sviluppati dall’ ISIS sarebbero impiegati immediatamente dopo la produzione e in stretta prossimità al territorio che controlla.

Mentre non può essere esclusa la possibilità che il gruppo estremista islamico impieghi un dispositivo gas velenoso rudimentale in occidente nei prossimi anni, il gruppo dovrebbe con tutta probabilità costruire il dispositivo vicino alla località dell’attacco che pianifica.

Lo “Stato islamico” molto probabilmente continuerà ad impiegare le sue munizioni chimiche, limitate, sia in Siria che in Iraq mentre cerca la capacità di espandere il suo programma per colpire un obiettivo maggiore in occidente.

L’uso da parte del gruppo estremista islamico di armi di distruzioni di massa pone una grande minaccia psicologica più di una minaccia fisica ai suoi nemici.

Il gruppo continuerà ad impiegare le più semplici e più immediatamente disponibili armi di distruzione di massa a loro disposizione: le armi chimiche. La proliferazione di questo programma rimane una preoccupazione specialmente con la disponibilità di materiali chimici tossici industriali che potrebbero essere modificati e dispersi in un attacco chimico. Mentre gli effetti di questo tipo di dispositivi potrebbero essere limitati a piccole aree geografiche, l’impatto psicologico su una nazione occidentale sarebbe significativo.

 

Settembre 3 2016

Zawahiri: cogito ergo sum.

Zawahiri

Zawahiri c’è! E con lui anche Al Qaeda, malgrado molti l’abbiano dimenticata, forse pensando che si sarebbe disintegrata per lasciare il passo allo “Stato islamico”. I nuovi messaggi di Zawahiri ci raccontano cosa pensa l’ “altra metà del cielo del jihad”.

Sebbene alcuni pensassero che Al Qaeda (AQ) sarebbe letteralmente implosa dopo la morte di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri è riuscito a tenerla insieme e in qualche maniera ha migliorato la sua posizione, malgrado la campagna di contro-terrorismo condotta incessantemente dagli Stati Uniti.

Dopo un lungo periodo di silenzio, talmente lungo che qualcuno ha addirittura pensato che Zawahiri fosse morto, nel gennaio del 2016 vengono diffusi dei nuovi messaggi di AQ. Prima però di dare un’occhiata veloce al contenuto, poniamoci questa domanda:

ZAWAHIRI è CAPACE A COMANDARE AL QAEDA?

Ayman al-Zawahiri nasce nell’élite egiziana, da padre medico, uno zio Grand Imam di al-Azhar (il centro di studi islamico in Egitto), il nonno materno presidente dell’Università del Cairo. In un tempo in cui molti dell’élite egiziana abbracciavano una identità più secolare, la famiglia di Ayman rimaneva una famiglia di pii musulmani. Ayman era uno studente brillante ma anche disinteressato a proseguire la tradizione di famiglia e diventare un dottore. Si fa coinvolgere subito dalla politica e forma la sua prima cellula rivoluzionaria all’età di 15 anni. Ispirato dall’esecuzione di Sayyd Qutb, Zawahiri si unisce ad altri giovani egiziani radicali che volevano far diventare il paese uno Stato islamico, critici dell’accordo con Israele del presidente egiziano Sadat formano l’Egyptian Islamic Jihad (EIJ). I membri di questo gruppo assassinarono Sadat nel 1981, provocando non solo una massiccia repressione ma anche l’arresto di Zawahiri stesso. Ayman fu torturato in prigione e svelò informazioni sui suoi compagni.

Per molti anni Zawahiri si focalizzò sul rovesciare il governo egiziano, appariva come il più improbabile leader di AQ. Nel 1993 dichiarò che l’obiettivo primario del gruppo era quello di stabilire uno Stato islamico in Egitto, asserendo che le finalità di EIJ si concentravano essenzialmente sul nemico vicino: i regimi apostati del Medio Oriente, e non sul nemico “lontano”: gli Stati Uniti. Avendo visto come gruppi egiziani ripetutamente fallivano nell’orchestrare un coup, scatenare una rivoluzione popolare o creare un gruppo rivoluzionario, Zawahiri sviluppa una sorta di sacro rispetto per la segretezza, la pianificazione e l’addestramento considerandole come le chiavi per il successo.

Attraverso AQ, EIJ otteneva l’accesso al denaro di Bin Laden e ai campi di addestramento, soprattutto ai cosiddetti safe heaven.

Quando EIJ si trovò sotto forte attacco da parte del governo egiziano, per Zawahiri diventò difficile pagare gli operativi, prendersi cura delle loro famiglie o più generalmente sostenere il gruppo. Coltivare legami con Bin Laden permetteva alla sua organizzazione di vivere e combattere ancora. Quando EIJ sembrava sbiadirsi, Zawahiri si associò sempre di più con AQ, prima come scusa per sfruttare Bin Laden poi per necessità e infine per convinzione. Un jihadista egiziano riporta che Bin Laden sostenne che gli attacchi in Egitto erano troppo costosi in termini di vite, di denaro e che Zawahiri avrebbe dovuto rivolgere le armi della sua organizzazione sugli Stati Uniti ed Israele. Nel corso del tempo Zawahiri abbracciò questo tipo di ragionamento. Parte di questo cambiamento potrebbe essere stato determinato da un mutamento ideologico genuino, ma il collasso degli sforzi in Egitto, unitamente all’aggressiva assistenza americana per distruggere la rete EIJ al di fuori dell’Egitto, spingono Zawahiri a cambiare l’obiettivo della sua vita. Così nel 1998 EIJ si allea con AQ, cambia le finalità organizzative per accordarle con quelli di Bin Laden e interrompe tutti gli attacchi in Egitto, nel 2001 formalmente i due gruppi si uniscono.

QUAL è LA DIFFERENZA CON BIN LADEN?

Al contrario di Bin Laden, Zawahiri non è carismatico. Nella sua persona e nella retorica che utilizza è più “laborioso” che stimolante. Non ha neppure la stessa storia personale di Bin Laden per ispirare altri. Sebbene sia rispettato per la sua dedizione al jihad, non ha direttamente combattuto i sovietici ed il suo tradimento per altri membri del EIJ (sotto tortura) diminuisce ulteriormente ogni tentativo di coltivare il mito dell’eroe. Sebbene sia differente nello stile rispetto a Bin Laden, condivide il suo pragmatismo. Più pedante e dogmatico dell’ex leader di AQ, Zawahiri ha ripetutamente mostrato che può imparare dai suoi errori e si è dimostrato capace di lavorare con gruppi che non sono ideologicamente alleati.

Cogito ergo sum. Il pensiero di Zawahiri attraverso i suoi video messaggi.

Gennaio 2016: quello che potremmo chiamare l’ufficio stampa di AQ: Sahab, diffonde tre nuovi messaggi di Ayman al Zawahiri: due messaggi audio e una dichiarazione di 7 pagine.

Nel primo messaggio audio, di 7 minuti, dal titolo: “Al Saud, assassini dei mujahideen”, Zawahiri incoraggia il popolo saudita ad insorgere contro la monarchia e critica il governo saudita per l’esecuzione di più di 40 prigionieri agli inizi del mese di gennaio. Il leader di Al Qaeda asserisce che l’uccisione di più di 40 mujahideen e del prominente religioso sciita Nimr al Nimr è stata eseguita per servire gli interessi degli Stati Uniti e dei “crociati”. Il messaggio di Zawahiri è preceduto dal filmato di una riflessione di Anwar al Awalaki, un ideologo di Al Qaeda nella penisola arabica che fu ucciso da un drone americano nel 2011. Il video serve ad enfatizzare l’importanza del martirio sulla scia delle esecuzioni del governo saudita. Awlaki afferma: “il martirio è come un albero, frutti crescono e maturano e poi arriva il tempo per raccogliere questi frutti. Questo accade in stagioni specifiche. E’ cosi che gli schiavi di Allah passano attraverso stadi fino a quando raggiungono la fase in cui è tempo per loro diventare martiri”.

Il video si conclude con un’ultima frase di Awlaki: “perciò l’albero del martirio nella Penisola Arabica ha già frutti maturi su di esso ed il tempo per raccoglierli è venuto, così l’Onnipotente Allah prenderà da questi martiri”. Queste parole, anche se sono state utilizzate in precedenza, servono a spiegare il presunto valore dei martiri di Al Qaeda.

Il secondo messaggio audio è l’episodio 8 della serie di Al Qaeda “Primavera islamica”, lungo più di 24 minuti. Zawahiri si concentra fondamentalmente sul Sud Est Asia, specialmente l’Indonesia, Malesia e le Filippine. Statuisce che la regione ha bisogno di un risveglio jihadista come le altre parti del mondo. Il messaggio si apre con un video di un’intervista rilasciata alla CNN di Amrozi Nurhasyim, indonesiano imprigionato e giustiziato per il suo ruolo negli attentati di Bali nel 2002 in cui furono uccise 202 persone di cui 88 turisti australiani. La fine del video ritrae gli autori dell’attacco a Bali e Abu Bakar Bashir, un religioso radicale jihadista.

La terza dichiarazione include la condanna scritta di Zawahiri dell’Arabia Saudita per il suo ruolo nella guerra siriana.

L’ultimo messaggio viene diffuso da Sahab il 25 agosto; è il terzo episodio della serie: “brevi messaggi per una Ummah vittoriosa”. Nel primo episodio della nuova serie Zawahiri maledice i Fratelli Musulmani egiziani, nel secondo chiama i musulmani al supporto dei talebani afghani e respinge la recente presenza dello “stato islamico” in Afghanistan. Nell’episodio: “Abbiate timore di Allah in Iraq”. Il leader di AQ si aspetta chiaramente che lo “Stato islamico” continui a perdere terreno, argomentando che i sunniti dell’Iraq dovrebbero riorganizzarsi per una guerriglia protratta allo scopo di sconfiggere l’occupazione iraniana delle regioni, cosa che hanno già fatto in precedenza.

Le critiche di Zawahiri sull’approccio dello “Stato islamico” nel dichiarare il jihad in Iraq durano in tutto 4 minuti. Ayman sottolinea come AQ e lo “Stato islamico” abbiano sviluppato strategie molto differenti nell’intraprendere il jihad. Dove AQ vuole essere vista come una forza popolare rivoluzionaria, servendo gli interessi dei musulmani, lo “Stato islamico” si propone come un regime autoritario che cerca apertamente di imporre il suo volere alla popolazione.

I leader di AQ ritengono che la metodologia dello “Stato islamico” nel portare avanti il jihad aliena le popolazioni musulmane, situazione che facilita i nemici nel distruggere i sunniti.

Zawahiri ritiene che gli jihadisti in Iraq debbano rivedere le proprie esperienze per evitare di commettere gli errori che li hanno portati alla separazione dalla comunità islamica. Questi errori hanno portato i jihadisti a cadere negli abissi dell’estremismo e del “takir” (la pratica di dichiarare altri musulmani come non credenti)”.

Zawahiri afferma che “la battaglia è una”

Il leader di AQ collega il jihad in Iraq con quello in Siria rilevando che i mercenari e le milizie appoggiate dall’Iran combattono in entrambi i paesi. Afferma, inoltre, che l’Iran e i suoi alleati cercano di annientare i sunniti in tutto il Medio Oriente. Sostiene che i sunniti sono stati torturati e decapitati in Iraq con il pretesto di combattere lo “Stato islamico” di Baghdadi, ma la vera ragione è da ritrovarsi nell’espansionismo dell’Iran.

Zawahiri afferma che gli iraniani e gli americani hanno raggiunto un accordo che permetterebbe alla “coalizione crociata-iraniana-alawita (l’alleanza occidentale, l’Iran e le forze del regime di Assad) di inghiottire l’intera regione.

Sebbene Sahab abbia sofferto di ritardi nella produzione dei comunicati negli ultimi due anni, la recente diffusione di tre episodi della serie di Zawahiri: “brevi messaggi per una vittoriosa Ummah”, indica che l’apparato ufficiale di comunicazione della leadership di AQ è tornato in pista, in grado di diffondere regolarmente contenuti.

 

Maggio 16 2016

Fratelli Musulmani: fratelli serpenti?

Fratelli Musulmani

I Fratelli musulmani, nati come movimento sociale in Egitto, sono stati banditi in diversi paesi come organizzazione terroristica. Sono davvero pericolosi?

I Fratelli Musulmani sono fondamentalmente un movimento sociale islamico, che educa i suoi membri a vedere prima di tutto il valore del servizio, attraverso le lenti della religione. Un aspetto centrale per il fondatore Hassan al – Banna e caratteristica che definisce i contemporanei Fratelli Musulmani è che il servizio ai concittadini è un atto di costruzione della proprio paese e un atto di servizio per la propria popolazione.
I movimenti islamici come i Fratelli Musulmani sono interessati nel preservare le strutture come lo stato – nazione, dall’altra parte, alcuni gruppi salafisti e molti gruppi jihadisti non condividono questa prospettiva. Questi ultimi non vedono le persone dei loro paesi come loro concittadini; non vedono gli odierni stati – nazione come i loro paesi e quindi è facile per loro decidere di smantellare quello che c’è già e stabilire quello che vedono come paesi paralleli. Condannano e denigrano il riconoscimento dei Fratelli Musulmani dello stato – nazione e rivendicano di cercare quello che loro credono essere la sola legittima forma di comunità nell’Islam: un califfato transnazionale.

Il pensiero di Banna sul califfato

L’articolazione del pensiero di Banna sul califfato è molto breve: “il califfato è un’articolazione di un’unità con base ampia“. Egli affermava che i Fratelli Musulmani cercavano di ri – stabilire un califfato ma altresì asseriva che erano molti i passi da compiere per raggiungere i prerequisiti prima che il califfato potesse iniziare ad essere una nozione realistica, come integrazione culturale, economica e sociale così come l’evoluzione di trattati che definiscano e abbraccino la mutua cooperazione che dà vita ad un’entità che assomigli alla lega delle nazioni musulmana. Attraverso la storia, i Fratelli Musulmani hanno sostenuto l’unità progressiva e vie per una più grande cooperazione tra tutte le nazioni, secondo i principi di rispetto reciproco.
Per i Fratelli Musulmani, i principali elementi chiave sono morali e religiosi. La fornitura di servizi nella forma di aiuto all’educazione accessibile o sanità, distribuzione di cibo serve diversi obiettivi: aiuta le persone bisognose, porta con sé un ritorno spirituale per gli individui coinvolti nella fornitura di assistenza e migliora la società. Se il risultato della fornitura di servizi guidata dalla Fratellanza è che il regime è spinto ad impegnarsi in ulteriori forniture di servizi e migliora la sua risposta ai bisogni della popolazione allora è un successo.

Tutto ciò mette in difficoltà l’idea di molti politici “occidentali” e scrittori che assegnano alla parola califfato il sinonimo di tutto ciò che deve essere temuto dell’Islam e dei musulmani. Sebbene alcuni timori siano credibili e sicuramente richiedono un esame approfondito: libertà religiosa, eguaglianza, altre preoccupazioni sono mere estensioni della visione dei musulmani come un lontano “altri”.

Dovremmo chiederci perché “stati” che desiderano una più perfetta unione oppure paesi europei che lavorano verso una più grande unione sono visti sia come neutrali che lodevoli, ed invece le nazioni musulmane che lavorano verso lo stesso obiettivo siano viste con sospetto e richiedano molta attenzione.
L’inabilità di molti analisti nel comprendere una motivazione spirituale, basata sulla fede per le scelte che gli islamisti fanno, individualmente o collettivamente, rappresenta una barriera alla comprensione dell’“islam politico”.

Fratelli musulmani: movimento sociale e politico

Hassan al – Banna era interessato prima al cambiamento e alla riforma dell’ordine sociale e poi al cambiamento dell’ordine politico. Come risultato, l’attenzione era primariamente diretta alla “ummah” piuttosto che all’autorità.

Tuttavia, nel 2004, l’ex guida suprema Mohammed Mahadi Akef annuncia che il gruppo intraprende una nuova fase sotto il nome di “apertura alla società”. Questa nuova fase è stata caratterizzata da una vasta partecipazione politica competitiva e un impegno nella sfera pubblica senza precedenti.

Fratelli Musulmani
foto del clarionproject.com

Dopo la rivoluzione del 2011 in Egitto la capacità di ogni organizzazione sociale di mobilitare le masse rimane limitata nei confronti di uno stato potente. La centralizzazione dello stato moderno, particolarmente nei regimi autoritari, incoraggia la sua dominazione nella sfera pubblica, incluso l’educazione, i media e le istituzioni ufficiali religiose. Inoltre, un numero crescente di membri della Fratellanza, particolarmente i giovani attivisti, si convinsero che raggiungere obiettivi “rivoluzionari” come cambiamenti di regime non possano essere raggiunti attraverso mezzi deboli di “riforma graduale” suggeriti dal fondatore del movimento.

Ci sembra, tuttavia piuttosto improbabile che coloro che sono coinvolti fedelmente a servire le loro società, indipendentemente dalle loro differenze di fede o di linee politiche, potrebbero cambiare a tal punto dal voler distruggere le stesse società attraverso la violenza o il terrorismo.

La Fratellanza sta conducendo un’ampia revisione delle sue pratiche, particolarmente negli ultimi 5 anni dalla rivoluzione di gennaio. Il coup militare del luglio 2013 in Egitto ha forzato i Fratelli Musulmani a ritirarsi in un clima di segretezza dopo che il gruppo ha lavorato apertamente ed al potere durante la presidenza Morsi. Le autorità egiziane l’hanno designato come organizzazione terroristica e bandito circa 1200 istituzioni civili che erano affiliate del gruppo o i suoi membri, per non dire delle centinaia di persone uccise o imprigionate. La Fratellanza fu lasciata senza nessuna opzione se non quella di protestare. Il coup militare ha colpito i Fratelli Musulmani in modi che potrebbero sostanzialmente cambiare l’aspetto del gruppo nei prossimi anni. Fino ad ora il gruppo non ha delineato una visione politica chiara, non ha neppure gli strumenti per rimuovere i militari. Tutto ciò non esclude la possibilità che il clima politico in Egitto possa forzare più individui o gruppi non organizzati ad abbracciare la violenza. Le priorità di questi gruppi non saranno la fornitura di servizi sociali, piuttosto obiettivi politici e relativi al rovesciamento del regime odierno, con la convinzione dell’impossibilità di sfidarlo attraverso mezzi pacifici.

Finanziamento

Durante l’anno di presidenza di Morsi, il Qatar ha prestato al governo egiziano all’incirca 2.5 milioni di dollari. Sempre durante la presidenza Morsi, somme di denaro equivalenti a 850 mila dollari sono state trasferite segretamente ai Fratelli Musulmani dallo sceicco del Qatar Hamd bin Jasim bin Jaber Al Thani. Altri e numerosi trasferimenti di denaro sono intercorsi tra al Thani e i leader della Fratellanza agli inizi del 2013.
La Fratellanza possiede assetti di valore e fonti di guadagno in tutti i paesi in cui opera. In Egitto riscuote tasse e canoni da approssimativamente 600 mila membri e leader come Khairat el – Shater che possiede imprese commerciali come supermercati o negozi di mobili costituiscono un ingente profitto per l’organizzazione.
Il governo dell’Arabia Saudita ha sostenuto finanziariamente la Fratellanza per decadi ma ha ridotto il suo finanziamento dopo che i Fratelli Musulmani sostennero il dittatore Saddam Hussein nell’invasione del Kuwait del 1990.
In tutta la sua storia, la Fratellanza ha imposto, talvolta, la tassa per i non musulmani, sui cristiani o su altre minoranze religiose.

I Fratelli Musulmani in altri paesi

Siria
La Fratellanza siriana fu vietata e esiliata prima della rivoluzione contro Bashar al – Assad. Al momento dell’inizio delle proteste nel marzo del 2011, la Fratellanza si è rimobilitata e mossa per consolidare il potere politico e militare tra l’opposizione. Nell’inverno del 2011, la Fratellanza siriana era uno dei gruppi più potenti nel Syrian National Council. Nel giugno del 2013 fonda un partito politico, il Waad, lanciato ufficialmente nel marzo del 2014.
Giordania
La Fratellanza giordana ed il suo partito politico, l’Islamic Action Front è la più larga forza di opposizione in Giordania. Tuttavia, la Fratellanza è stata fedele alla monarchia, cooperando per molte delle sue politiche.

Attività violente

  • Giugno 1980, tentativo di assassinare Hafez al – Assad usando granate e fucili.
  • Agosto 2013, rubano e mettono a fuoco le chiese egiziane e le stazioni di polizia in risposta alla morte di centinaia di membri e all’imprigionamento di altre migliaia.
  • Marzo 2014: membri della Fratellanza sparano ad un generale ed un colonnello egiziani in una continua rappresaglia contro le forze di sicurezza a seguito della rimozione di Morsi.
  • Giugno 2014: membri della Fratellanza fanno detonare una bomba vicino all’ufficio presidenziale del Cairo, uccidendo due poliziotti.

Nelle liste di organizzazioni terroristiche di:

Bahrain: li ha indicati come organizzazione terroristica nel marzo del 2013; l’Egitto nel dicembre dello stesso anno. La Russia ha vietato che la Fratellanza operasse in Russia nel 2003 e li ha aggiunti alla lista di organizzazioni terroristiche nel luglio 2006. L’Arabia Saudita nel marzo del 2014 e la Siria nel 1980. Gli Emirati Arabi Uniti nel novembre del 2014, nello stesso periodo hanno indicato altri gruppi affiliati alla Fratellanza incluso il Consiglio per le relazioni americane – islamiche, l’International Islamic Relief Organization, Muslim American Society.

Chi li sostiene

Qatar
Il Qatar per lungo tempo ha sostenuto la Fratellanza attraverso vie finanziarie, di diplomazia e attraverso i media.
Turchia
La Turchia è stata un centro per l’organizzazione internazionale della Fratellanza. Soprattutto dopo la caduta di Morsi, Istanbul ha visto la riorganizzazione del gruppo e gli sforzi logistici per rafforzare la comunità internazionale della Fratellanza. La Turchia ha anche fornito armi e intelligence all’organizzazione in Egitto. Quando Sisi è salito al potere, le relazioni tra la Turchia e la Fratellanza si sono indebolite a causa dei timori turchi di rappresaglia da parte dell’Egitto e degli stati del golfo.
Recep Tayyip Erdogan è un loro sostenitore di lungo corso. Erdogan è stato un oppositore vocale della rimozione di Morsi e del regime militare che ha preso il suo posto.

Conclusioni

Quando si tenta di rispondere alla domanda: “i Fratelli Musulmani sono pericolosi?” bisogna tenere bene a mente che la chiusura dello spazio per i servizi sociali, quando è fatta in combinazione con la chiusura di altri modi di vita in Egitto, potrebbe dare luogo all’estremismo da parte di alcuni.

*immagine in evidenza: www.english.ahram.org.eg

Aprile 29 2016

Boko Haram: l’erba cattiva non muore mai

Boko Haram

Boko Haram, come altre organizzazioni simili, ha in sé una sorta di genialità: avanzare verso obiettivi politici attraverso il raggiungimento di enormi effetti psicologici con il minor investimento di risorse possibile.

In realtà quello che aiuta questi gruppi nel recuperare dalle sconfitte militari è la mancanza di attenzione che si dedica alle questioni principali che li sottendono e li fanno crescere.

Verso la fine del marzo di quest’anno, in Italia, rimbalza su tutti i mezzi d’informazione un video in cui Boko Haram dichiara di arrendersi. Chiaramente malgrado la stampa internazionale abbia deciso di non diffondere il video in attesa della conferma dell’autenticità dello stesso, in Italia si dice sempre di tutto. Il gruppo estremista però non tarda a diffondere un video in cui dichiara che non si arrenderà mai. Quest’ultimo video non viene peraltro diffuso in Italia, tanto per lasciare il pubblico nella confusione.

Chi è Boko Haram?

Eccovi una scheda riassuntiva.

Boko Haram

 

Boko Haram è ancora una minaccia

Malgrado i rapporti che dicono che Boko Haram sia stato allontanato da tutti i territori che controllava all’inizio del 2015, il gruppo continua a porre una seria minaccia alla sicurezza delle popolazioni dei quattro paesi attorno al lago Chad: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà ad accedere alle aree dei 26 governi locali nel nord Adamawa, sud Borno e est Yobe, più del 30%  della nord est rurale della Nigeria, a causa della persistente presenza dei militanti di Boko Haram.

Oggi Boko Haram assomiglia più ad un’impresa criminale piuttosto che a un gruppo jihadista. Coloro che vivono nei territori controllati dal gruppo, dichiarano che molti degli appartenenti all’organizzazione estremista conoscono solo in maniera rudimentale l’ideologia del gruppo stesso. Radicato nell’influenza, sin dal 2009, del nuovo leader Abubakar Shekau, questa metamorfosi è iniziata con l’espulsione nel 2013 di jihadisti dalle roccaforti urbane a Borno ad opera del personale di sicurezza nigeriano e di vigilanti indigeni conosciuti come Civilian Joint Task Force. In risposta Boko Haram ha iniziato a lanciare raid punitivi sulle comunità che sospettava appoggiassero i vigilanti. Boko Haram si è trovato ad operare in città e villaggi le cui popolazioni non erano musulmane e neanche mosse da visioni di un violento Islam come quelle del gruppo. Per cui Boko Haram ha dovuto ricorrere sempre di più a incentivi materiali, coercizione, rapimento dei minori per riempire i suoi ranghi, cambiando fondamentalmente la composizione del movimento. Malgrado il loro territorio invaso e le linee di comunicazione compromesse, le figure più anziane del gruppo sopravvissute sono ancora attive e per la maggior parte si sono ritirate nei boschi. Lì pare che abbiano abbandonato tutte le pretese di essere impegnati in una guerra santa, saccheggiando le comunità rurali lasciate senza la protezione dell’esercito nigeriano.

La visibile assenza di un fervore ideologico tra i combattenti di Boko Haram non presagisce necessariamente la caduta del gruppo. Esiste ancora un cuore jihadista determinato a portare avanti la sua lotta contro la Nigeria ed i suoi vicini. Al di là di questi fanatici ci sono numerosi ribelli che, mentre forse non sono interessati nel condurre il jihad, restano fedeli all’alto comando di Boko Haram. Le unità individuali di Boko Haram godono di un grado di autonomia operativa che gli permette di conservare la loro coesione e le capacità militari anche quando isolate da gruppi militanti. La distruzione delle linee di rifornimento di Boko Haram ha creato delle sfide logistiche per il gruppo, anche se saccheggiare le comunità vulnerabili ha in qualche modo mitigato questo fatto. E malgrado le recenti sconfitte, Boko Haram non ha sofferto di defezioni in larga scala. Questo ci suggerisce che i militanti di Boko Haram conservano un senso di solidarietà di gruppo oppure che hanno paura di violente rappresaglie da i loro compatrioti o dalle forze di sicurezza nigeriane.

La locazione dei rifugi di Boko Haram, particolarmente la foresta Sambisa, lago Ciad, le montagne Mandara lungo la parte nord della frontiera Cameroon – Nigeria, presenta un grande ostacolo alle operazioni per contrastarli ed eliminarli. Nel loro inaccessibile territorio, queste aree hanno ospitato a lungo gruppi che cercano di evitare il controllo dello stato, sette islamiche dissidenti, tribù, banditi.

A pagare il prezzo sono le comunità distrutte

Per le comunità distrutte, abbandonate a sé stesse nel migliorare i fattori socio – economici, sarà impossibile ricostruire la loro vita, soprattutto se continua la depredazione ad opera di Boko Haram.

La presidenza Buhari è appesa a due minacce: Boko Haram e la corruzione che sottrae linfa vitale alle fondamenta del governo nigeriano e alla società.  Tuttavia, avendo fallito nel riconoscere i due fenomeni e le loro connessioni ci sembra che abbia esigue possibilità di successo.

Mettere in sicurezza il nord – est richiede un livello di presenza dello stato senza precedenti nella regione. Presenza che l’amministrazione Buhari non sembra dare, a parte aver dichiarato che Boko Haram è stato sconfitto, ed esprimere il desiderio di iniziare a ricollocare più di 2 milioni di Internally Displaced Persons, anche se molto del nord est non è colpito dal conflitto. Buhari con la sua pressione sugli aspetti militari del contro – estremismo sta facendo lo stesso errore degli americani che uccidono i combattenti, che sono il sintomo e non la malattia.

Curare il sintomo e non la malattia

Il principale elemento chiave sottostante a Boko Haram è la corruzione.  Un decennio di ricerca sulle motivazioni dei gruppi estremisti dimostra che la povertà non è correlata alla probabilità di unirsi a queste tipologie di gruppi. Una governance inefficiente, l’ingiustizia, specialmente quando combinate con profonde fratture sociali, sono invece motivazioni che spingono gli individui a far parte di queste organizzazioni.

A marzo 2016, il Benin annuncia che contribuirà con 150 soldati alla Multinational Joint Task Force (MJTF), una coalizione dell’Africa occidentale la cui missione è quella di combattere Boko Haram. La Task Force ha approssimativamente un totale di 9,000 truppe, ciononostante è un appoggio primariamente politico piuttosto che un gruppo militare integrato. Le forze armate nazionali perseguono le loro campagne: esplicitamente supportano la narrativa della cosiddetta “soluzione africana ai problemi dell’Africa”, ma implicitamente facilitano il coinvolgimento occidentale nella battaglia contro Boko Haram, spesso su base bilaterale. L’approccio regionale rafforza anche le posizioni politiche di governanti autoritari nella regione.

La MNJTF resta una buona idea in principio: Boko Haram è diventato un problema regionale; tuttavia da un punto di vista politico rimane un’ennesima distrazione rispetto alle situazioni e problematiche oggettive dell’Africa Occidentale.

Aprile 23 2016

Contro – narrativa all’ISIS: quando la iniziamo?

contro-narrativa

Contrastare i messaggi di organizzazioni estremiste, come l’ISIS, è di vitale importanza. Le parole fanno molto più male delle bombe.

Alla domanda: “qual è lo strumento più adatto per combattere l’estremismo, ovvero organizzazioni come l’ISIS?”, molti risponderanno senza esitare “le bombe”. In questa risposta personalmente vedo sempre la superficialità con cui si guarda il fenomeno di organizzazioni complesse, transnazionali violente che si incarnano in ideologie conservatrici, estreme. Trovo, inoltre, che chi risponde che le bombe sono l’unica soluzione possibile, sottovaluti quanto calcolo ci sia dietro ogni singola mossa, piccola o grande di organizzazioni di questo tipo.

I programmi di nation building che costruiscono solo le case di chi si intasca i soldi

Governi di tutto il mondo hanno investito ed investono grandi quantità di denaro in iniziative di contrasto al terrorismo. La panacea a tutti i mali è sempre stata finanziare la famosissima community building, malgrado la totale mancanza di alcuna evidenza che queste iniziative di finanziamento abbiamo in qualche modo prevenuto l’estremismo violento in modo significativo. Se spostiamo la lente più in alto vediamo come a livello mondiale, gli esercizi di nation building e quindi programmi di riforme democratiche, di educazione, sono stati foraggiati di grandi somme di denaro verso regioni e paesi convinti che potessero andare dritti al eradicazione dell’estremismo violento. Il fatto che la Germania e la Gran Bretagna appaiono essere i maggiori fornitori di foreign fighter per l’ISIS rispetto alla Somalia, dovrebbe far riflettere o perlomeno far porre una serie di domande sulla validità dei programmi di cui si parlava poco fa.

Contro-narrativa

Piuttosto che spendere risorse in programmi di nation building il percorso più sensato sarebbe quello di classificare, elencare, la messaggistica che l’ISIS utilizza per raggiungere i suoi obiettivi e in seguito distruggere sia l’integrità del contenuto che la distribuzione.
La macchina della propaganda dell’ISIS è un affare calcolato. Ha 5 obiettivi principali che implicano sempre lo sforzo di semplificazione della complessità del mondo reale in una battaglia stile cartone animato tra il buono e il cattivo. Vediamoli:

–  proiettare un’immagine di forza e vittoria,
– stimolare coloro che hanno tendenze violente abbinando la violenza estrema alla giustificazione morale della costruzione di una sua presunta società utopica,
– manipolare le percezioni di cittadini ordinari in Occidente o nei paesi che il gruppo categorizza come nemici, affinché richiedano e incitino l’azione militare, ed instillare, allo stesso tempo, il dubbio che queste azioni possano avere successo,
– incolpare altri di ogni conflitto e far in modo che il conflitto sia dipinto come risultato dell’aggressione di governi occidentali,
– rielaborare ogni azione contro l’ISIS come un azione contro i musulmani in generale, specificatamente evidenziando le vittime civili.

La messaggistica offensiva

Ognuno di questi obiettivi è vulnerabile alla messaggistica offensiva, ma alcuni messaggi che provengono dall’Europa come dagli Stati Uniti, rinforzano gli obiettivi dell’ISIS. Ad esempio: le nuove storie che descrivono ripetutamente i video dell’ISIS come terrificanti o descrizioni ingigantite della minaccia che presenta l’organizzazione. Coloro che fanno dichiarazioni, anche i programmi televisivi, attraverso cui pensano di combattere il messaggio dell’ISIS con una simile narrativa semplificata, non sanno, evidentemente, che finiscono per rinforzare l’obiettivo dell’organizzazione estremista e cioè di inquadrare il mondo come parte di una battaglia cosmica tra il bene supremo e il male supremo. Non so se avete presente quei programmi tipo tavole rotonde dove sedicenti esperti, aiutati evidentemente dalla voglia di apparire, continuano a brandire lo spettro della guerra di religione, della guerra di civiltà, continuando appunto a perpetrare lo stesso messaggio dell’ISIS: il bene contro il male.

Esposizione delle vulnerabilità

Se attacchi mirati alle infrastrutture di comando e controllo dell’ISIS risultano essere utili, nelle priorità si dovrebbe inserire l’esposizione delle vulnerabilità dell’organizzazione estremista.

Si potrebbero sfruttare le immagini aeree, la sorveglianza elettronica per mostrare quello che realmente accade nella pancia dell’organizzazione. Si dovrebbe dedicare molta attenzione alla documentazione di crimini di guerra e atrocità contro i sunniti nelle regioni controllate dall’ISIS.
Evidenziare semplicemente la barbarie dell’ISIS è inadeguato perché non c’è dubbio che l’organizzazione voglia mandare il messaggio di come tratta i nemici. Per diminuire la forza dell’ISIS si dovrebbero documentare i suoi fallimenti, particolarmente all’interno dei territori che controlla: incidenti in cui le persone si ribellano al loro controllo, corruzione, povertà, infrastrutture inadeguate.
Soprattutto potremmo controbattere alle priorità dei messaggi dell’ISIS rifiutandoci di giocare nella sua narrativa di apocalisse.

Ascoltando la conferenza stampa di Papa Francesco dopo la sua visita a Lesbo mi sono accorta che quella sì, era una contro – narrativa all’estremismo violento. Indipendentemente dalla religione, che come avete visto negli obiettivi dei messaggi dell’ISIS non compare, Papa Francesco ha mandato un messaggio di integrazione, di aiuto per i bisognosi, di accoglienza, di speranza, di un modello di società che abbracci tutti (“siamo tutti figli di Dio”). Ve la propongo, così che la possiate guardare e ascoltare anche da questo punto di vista di contro – narrativa.

 

Marzo 22 2016

Riflessione a caldo sugli attentati a Bruxelles

Bruxelles

Bruxelles colpita da esplosioni, la tattica terroristica c’è, in attesa di altre notizie e della rivendicazione, rifletto, a caldo sulla situazione.

ore 7;45 del 22 marzo 2016 l’aereoporto di Bruxelles viene sconvolto da due esplosioni, una mezzora più tardi giornali online, televisioni, social media ci rivelano che un’altra esplosione avviene nella metro di Maelbeek, che corrisponde al cuore delle istituzioni europee.

E da qui inizia un rincorrersi di notizie di tutti i generi, dai nomi sbagliati della metro, ai twitter: ” Rettifichiamo”. E ancora immancabile in Italia: solo in Italia: kamikaze! E’stato un kamikaze. Ricordiamo qui che è del tutto errato parlare di kamikaze, basta semplicemente dire: attacco suicida. Non è difficile!

E i social come Facebook si scatenano in un tripudio di bandiere cuore belga. La Farnesina si affretta a dire che finora non ci sono italiani morti, la solita orribile agenzia di stampa che ci fa sembrare il paese che se non sono morti italiani se ne frega. Scorrendo su twitter trovo una cosa che mi ha veramente stupito. Qualcuno Bruxellessi domanda perché i bombardamenti russi in Ucraina, che pure fanno vittime civili, non ricevono la stessa copertura mediatica degli attentati di Bruxelles di oggi.

Qualcun’altro si chiede perché i morti degli attentati in Turchia non hanno ricevuto la stessa attenzione dai media internazionali.

Bruxelles

Quello che sappiamo è che la tattica terroristica usata è ancora quella degli attacchi simultanei contemporanei su luoghi a grande frequentazione di civili. Non sappiamo null’altro per ora, solo una notizia su Telegram che farebbe capo allo stato islamico, ancora da confermare. Non c’è stata nessuna rivendicazione, le uniche dichiarazioni che abbiamo sentito sono quelle del premier belga.

Come in un copione oramai riprodotto a memoria iniziano le interviste e le opinioni di esperti da salotto, degli interventisti da poltrona, di coloro che sanno già tutto, che lo sapevano. Sì, quelli che lo sapevano che colpivano Bruxelles. E immancabili in Italia, puntuali come orologi svizzeri: è colpa dei migranti! Di quelli che in questo momento annegano nel Mediterraneo. Non si può pensare minimamente, come confermano le indagini sugli attentati di Parigi, che sono immigrati di seconda generazione, gente perfettamente integrata nei paesi europei. Perché non si dice? Presto detto: dimostrerebbe il fallimento dei processi d’integrazione finora adottati. Che il pericolo non era al di fuori delle frontiere europee, ma dentro. Che ci sono tante problematiche irrisolte all’interno del carrozzone dell’Unione Europea, come una struttura condivisa di informazioni di intelligence. Che ogni paese se la canta e se la suona da solo senza agire nel quadro delle istituzioni belghe. Ed indipendentemente da chi rivendicherà gli attentati hanno vinto nel dimostrare la debolezza delle istituzioni belghe nel coordinarsi insieme nel fornire la sicurezza.

E nessuno mai ci dirà che bombardare a tappeto la Siria non è servito a niente. Che uccidere con i droni un leader dello stato islamico non ha fermato niente, che le bombe senza strategia non servono proprio a niente!

 

 

Marzo 17 2016

Tunisia: preoccupati della sicurezza interna

Tunisia

La Tunisia non dovrebbe negare a sé stessa i problemi di sicurezza interna e concentrarsi sulle regioni del sud, possibile fucina di estremisti.

Ricordiamo gli scontri nella città tunisina di Ben Guerdane di qualche settimana fa quando sono stati attaccati posti militari e di polizia. Civili uccisi, 13 ufficiali di sicurezza e 46 estremisti morti. L’assalto, accaduto a circa 32 km dalla frontiera con la Libia è l’ultimo esempio di una pericolosa ricaduta del conflitto libico attraverso una frontiera porosa. L’attacco rivela che anche se lo stato islamico prende piede in Libia, la più significativa minaccia alla sicurezza tunisina risiede all’interno delle sue frontiere. Questo perché i militanti che hanno rivendicato la presa della città come “liberatori” avevano accento locale, secondo i residenti, aumentando i timori che cellule non identificante “dormienti” siano aumentate. I funzionari tunisini hanno ammesso che nessuno dei perpetuatori dell’attacco a Ben Guerdane aveva attraversato la frontiera dalla Libia, piuttosto erano tunisini che vivevano in Tunisia. 

Tunisia maggior esportatore di foreign fighters

La lodevole transizione della Tunisia verso la democrazia dopo il 2011 è stata rovinata da episodi di violenza con picchi nel 2015 con un’ondata di attacchi terroristici, incluso quelli diretti contro il settore del turismo in una già fragile economia. La Tunisia è anche diventata il maggior esportatore di foreign fighters per lo stato islamico e altri gruppi estremisti in Siria.
La Tunisia si affida al contro – terrorismo convenzionale e a tattiche di guerra, andandoci con la mano pesante in assalti su scala militare. La strategia tende ad aumentare l’ostilità e ad alimentare la narrativa anti – statale, perpetrando il problema.
La Tunisia sta facendo il classico errore di rifiutarsi di riconoscere che focalizzandosi su un incidente isolato, si negano le linee che guidano le azioni sistematiche verso la radicalizzazione.
La frustrazione di molti tunisini discende dalle prestazioni governative inefficienti nell’incrementare l’occupazione e dalla gestione dell’economia, particolarmente nelle regioni più povere che sono state il punto focale delle proteste che poi portarono alla caduta di Bel Ali. A gennaio ci sono state delle manifestazioni per la disoccupazione nella provincia di Kasserine che si sono allargate fino alla capitale, Tunisi. Le manifestazioni che durarono per settimane furono spente con la mano mortale della polizia. Sebbene sia difficile identificare gli esatti fattori chiave della radicalizzazione, i tunisini marginalizzati, frustrati da una persistente povertà e un apparente governo inefficace, vedono gruppi come lo stato islamico come una risposta alle loro lamentele.

Tunisia + problematiche sociali irrisolte = risposta aggressiva all’estremismo religioso

Invece di avere come obiettivo le problematiche sociali che aiutano a nutrire l’estremismo a casa, la Tunisia ha adottato una risposta aggressiva di contro- terrorismo in risposta a minacce domestiche – interrogando o mettendo sospetti terroristi agli arresti domiciliari e istituendo un divieto di viaggio che ha impedito a centinaia di tunisini, particolarmente i giovani, dal lasciare il paese. Misure che erano tipiche del regime di Ben Ali.

Costruire una recinzione (con i buchi) non è la panacea per tutti i problemi

Tunisia

Con il supporto statunitense ed europeo, la Tunisia ha completato la recinzione lungo la frontiera con la Libia, costruzione iniziata dopo l’attacco al resort di Sousse. (la stessa Europa che si stupisce perché i suoi stati membri costruiscono recinzioni, finanza la costruzione di recinzioni fuori dalle sue frontiere. Evidentemente è nel filo spinato che si intravedono le soluzioni europee a qualsiasi problema).

Mentre il ministro della difesa tunisino si è detto entusiasta del successo della recinzione, dicendo di aver sequestrato ingenti somme di materiale illegale tra dicembre 2015 e gennaio 2016, la recinzione non è una panacea per i problemi di sicurezza tunisini. Essa copre solo metà della frontiera ed appare più come una trincea; inoltre si parla dell’esistenza di buchi costruiti sulla recinzione per mantenere le rotte di traffici illegali così come frequenti furti delle guardie di frontiera. Molte delle città tunisine di frontiera dipendono dai traffici illegali per sopravvivere economicamente. Mentre beni illeciti (droga, armi e persone) dovrebbero essere prevenuti in entrata, la Tunisia dovrebbe trovare una via per replicare il commercio frontaliero di beni non illeciti.
Sicuramente la roccaforte dello stato islamico a Sirte è una minaccia per la Tunisia, è importante non dimenticare che gli estremisti che conducono attacchi sul territorio tunisino sono quasi esclusivamente tunisini non libici. Si è notato che i tunisini iniziano a ricoprire alte posizioni all’interno dello stato islamico in Libia e che la sua base a Sirte ha incoraggiato alcune migliaia di tunisini che hanno viaggiato verso l’Iraq e la Siria a ritornare nel Nord Africa, ponendo una maggiore, diretta, minaccia alla Tunisia.

Continuare a negare il problema interno alla Tunisia, le difficoltà economiche, particolarmente nelle regioni del sud, la disoccupazione giovanile non farà altro che alimentare la retorica di reclutamento di organizzazioni estremiste come lo stato islamico. Non è colpa della Libia se estremisti, cittadini tunisini, conducono attacchi nel loro paese!

Febbraio 16 2016

Guerra dell’acqua, dighe e ISIS

guerra dell'acqua

Le risorse idriche sono un’arma molto potente, ci sono guerre che si conducono solo utilizzando dighe, corsi d’acqua. L’ISIS è in grado di utilizzarle? La diga di Mosul era stata presa dall’ISIS e poi riconquistata dai curdi, molto prima che l’impresa italiana vincesse l’appalto per lavori di manutenzione.

Ci tengo a fare una premessa a questo post. Ho lavorato per conto del Ministero degli affari esteri italiano in Africa ad un progetto di una diga idroelettrica, i cui lavori erano stati interrotti a causa di una guerra civile che aveva insanguinato il paese. Era la mia prima missione, che non dimenticherò mai. L’acqua è un bene primario, le dighe idroelettriche allo stesso modo sono necessarie per l’economia, la vita di qualsiasi popolazione. Troppe volte si crede che le guerre si combattano solo con le armi, con le bombe, invece ci sono armi più devastanti di quelle, come l’utilizzo delle dighe o delle risorse idriche per conquistare territori o legittimare il proprio potere nei confronti della popolazione locale.

La diga di Mosul

Il ministro delle risorse idriche ha, in un’intervista alla al – Sumaria TV, recentemente smorzato le preoccupazioni che la diga di Mosul crollerà, stimando che la probabilità di cedimento è di “uno a mille”, sostenendo inoltre che tutte le dighe del mondo hanno un certo livello di rischio. Nel frattempo, gli operai stanno rimuovendo dalle 5 alle 6 tonnellate di calcestruzzo al costo di circa 6 milioni di dollari al giorno.

guerra acquaLa diga (idroelettrica) lunga 3.6 km è locata vicino al territorio controllato dallo stato islamico nel nord del paese. I militanti dello “stato” islamico hanno preso il controllo del nord e dell’ovest dell’Iraq e agguantato la diga di Mosul nell’agosto del 2014, facendo crescere le paure che potessero farla esplodere e far sprofondare sott’acqua Mosul e Baghdad uccidendo migliaia di persone nella valle densamente popolata del fiume Tigri.
I combattenti curdi, i così detti Peshmerga, hanno ricatturato la diga due settimane dopo con l’aiuto dei bombardamenti aerei degli americani e con il supporto delle forze governative irachene. Il deterioramento della diga aveva spinto le forze americane ad abbozzare un contingency plan per il potenziale cedimento. Molta della retorica militare sulla diga di Mosul si è focalizzata sul potenziale di una deliberata distruzione della struttura, rilasciando una catastrofica onda d’acqua che raggiungerebbe 4.6 metri di altezza fino a valle, a Baghdad, che dista 350 km. Tuttavia, politicamente ed economicamente è il controllo dell’idroelettricità della diga che ne definisce la priorità. Gli ingegneri, hanno notato che la montatura del bacino idrico poco ortodossa – su carsico solubile (fatto di roccia calcarea tipica delle zone con flussi d’acqua sotterranei) possa determinare una rottura accidentale della diga, se non fosse realizzato un lavoro: tempestivo, vitale, geo-tecnico, inclusa l’iniezione di intonaco impermeabile.

Quando Saddam Hussein costruì la diga tre decadi fa, serviva come simbolo della sua leadership e della forza dell’Iraq. I generatori della diga di Mosul possono produrre 1010 megawatt di elettricità, secondo quanto riporta il sito della Commissione di Stato irachena per le dighe e i bacini idrici. La struttura contiene anche 12 miliardi di metri cubici di acqua che sono cruciali per l’irrigazione delle aeree agricole dell’ovest Iraq, nella provincia di Nivive.
E’ dal suo completamento nel 1980 che la diga ha richiesto una regolare manutenzione incluso delle iniezioni di cemento in aeree di perdita. Il governo americano ha investito più di 17.9 m dollari sul monitoraggio e le manutenzioni, lavorando assieme ai team iracheni. Già nel 2007 l’allora comandante generale delle forze americane in Iraq, David Petraeus, e l’allora ambasciatore americano in Iraq, Ryan Crocker, avevano avvertito il primo ministro di quel tempo Nouri Maliki, che la struttura era molto pericolosa perché era stata costruita su una base di terreno instabile. Nella lettera inviata al primo ministro iracheno si leggeva: “assumendo il caso dello scenario peggiore, un cedimento istantaneo della diga di Mosul che è riempita ed operativa al suo massimo livello potrebbe risultare in un’onda di 20 metri che sommergerebbe la città di Mosul”.

Poi arriva la Trevi che gareggia per l’appalto dei lavori di manutenzione, Renzi dice pubblicamente che manderà 450 soldati a protezione della diga mentre si svolgeranno i lavori et voilà la Trevi vince l’appalto. Gli altri concorrenti non avevano fatto proclamare ai quattro venti al presidente del consiglio dei ministri che avrebbero mandato un apparato di sicurezza dei soldati regolari dell’esercito dello stato. (mi chiedo che status avranno quei soldati, visto che non si tratta di una missione internazionale sotto egida ONU o NATO). Mi chiedo (anche se conosciamo già la risposta) se l’appalto l’avesse vinto una ditta, che ne so tedesca, Renzi avrebbe mandato tutti quei soldati italiani a protezione. Ritengo che proteggere una sola diga non risolva il problema, forse risolve una sciocca credenza secondo cui al “popolo” va fatto credere che si combatta il terrorismo internazionale.

Guerra dell’acqua: un fantasma che minaccia il Medio Oriente.

I combattenti dell’ISIS controllano le parti superiori dei fiumi Tigri ed Eufrate, che scorrono dalla Turchia nel nord nel Golfo a sud. Tutto l’Iraq e grandi parti della Siria contano su questi fiumi per cibo, acqua e industria. Molti analisti (compreso chi scrive) prevedono che i tentativi dello stato islamico di controllare le risorse idriche arabe porterà ad una crisi d’acqua che metterà in ombra il conflitto che si svolge sul petrolio, perché l’acqua è una questione di vita o di morte.
Sfugge a molti purtroppo che non leggono i report degli analisti, perché evidentemente preferiscono le riviste di gossip o le fantasticherie di Renzi, che il controllo dei fiumi e delle dighe è considerato dall’ISIS un’arma molto più importante del petrolio.
In questa ottica si possono leggere gli annunci del gruppo estremista transnazionale nell’estendere il controllo del territorio dal Levante all’Egitto, Etiopia e Maghreb. Questo “stato” islamico si vuole estendere alle sorgenti del Nilo. L’alleanza giurata da Boko Haram nel marzo del 2015 ha probabilmente come obiettivo quello di sostenere la cospirazione dello “stato” islamico per controllare le sorgenti del Nilo. Sebbene le popolazioni povere della regione sono le sole a pagare il prezzo per il conflitto del petrolio, le guerre d’acqua  non risparmiano nessuno.

Strategicamente, l’uso della diga per determinare i livelli di acqua e di rifornimenti a larghe parti del paese la rende il più grande prezzo in quello che gli analisti della sicurezza descrivono come “la battaglia per il controllo dell’acqua” e che molti vedono come la definizione degli obiettivi dell’ISIS in Iraq.
Questo piano appare evidente, dopo l’estensiva inondazione causata dalla deliberata chiusura della diga Nuaimiyah nell’ovest di Baghdad.
Ma questa non è la prima volta che l’acqua è stata usata come un’arma nella “fertile mezzaluna” alla convergenza dei fiumi Tigri ed Eufrate. Saddam Hussein ebbe come obiettivo le risorse idriche durante la guerra Iran – Iraq e la sua oppressione per i Maʻdān (معدان‎) – abitanti dei terreni paludosi del Tigri e dell’Eufrate nel sud e nell’est dell’Iraq e lungo la frontiera iraniana – durante gli anni ’90 centrata sul drenaggio di 6,000 km² di terreno acquitrinoso, distruggendo un’economia di sussistenza vecchia forse di 10,000 anni. Secondo l’ingegnere Azzam Alwash, premio ambientale Goldam del 2013 per il suo lavoro post – 2003 per ristabilire i terreni paludosi, era una guerra “con altri mezzi”.
L’uso tattico di rifornimenti d’acqua in guerra risale ad almeno quanto la civilizzazione stessa. Limitare ed esaurire I rifornimenti d’acqua è stato usato come un’arma d’assedio nel corso della storia.
Un esperto di politiche delle risorse idriche nel Medio Oriente, Mark Zeitoun ha sviluppato una teoria sull’ “idro – egemonia” in cui il controllo dei rifornimenti d’acqua è una componente intrinseca delle relazioni ineguali di potere. In quest’ottica, l’acqua è una parte integrante di tutti i tipi di conflitti, dall’antagonismo culturale all’aggressione militare. Ne segue che come la domanda globale di acqua cresce le aree che già fanno esperienza di stress d’acqua soffrono di più per cambiamenti imprevedibili del clima, quindi l’importanza delle tensioni sulle risorse idriche ad ogni livello crescerà proporzionalmente.

L’acqua è il cuore di molti conflitti nel mondo, sia che siano tra nazioni come l’Egitto e l’Etiopia, dove le tensioni diplomatiche sono alte, che siano tra le comunità del mondo in via di sviluppo e le imprese multinazionali come la Coca Cola in India, o tra regioni, tra paesi nell’occidente come gli Stati uniti dove vari stati sono coinvolti in battaglie legali sul rio Grande.

L’ISIS e l’arma delle risorse idriche

I militanti dell’ISIS, oltre alla diga Nuaimiyah, hanno sprangato 8 chiuse della diga di Fallujah che controllano il flusso del fiume, sommergendo d’acqua i terreni fino al fiume Eufrate e riducendo i livelli d’acqua nelle province del sud da dove passa il fiume. Molte famiglie sono state forzate ad andare via dalle loro case. I militanti dell’ISIS riaprirono 5 delle chiuse, temendo che la loro strategia potesse ritorcersi contro.
Sebbene l’ISIS non abbia dimostrato la capacità di operare da un punto di vista tecnologico nelle strutture idriche, l’organizzazione continua a perseguire il controllo delle dighe e dei sistemi idrici in Iraq e in Siria, che se acquisiti e adeguatamente mantenuti possono parzialmente legittimare il loro governo o alternativamente essere sfruttati come arma.
Istituzionalizzare la gestione delle risorse idriche e dei sistemi è un mezzo realistico per l’ISIS per espandere le sue fonti di finanziamento. Diversamente dalla produzione di petrolio dello “stato islamico”, che (illegalmente) opera nel mercato globale, l’acqua è un bene regionale che è grandemente dipendente dall’operatività di dighe idroelettriche locali. Per lo stato islamico queste dighe sono le più importanti locazioni strategiche nel paese.
L’ISIS ha iniziato a controllare le infrastrutture idriche nel 2013 con l’occupazione della Diga Tabqa, la più grande diga idroelettrica siriana che fornisce elettricità anche alla città di Aleppo. Durante l’invasione di Fallujah, l’ISIS effettivamente ha impiegato le vicine dighe,canali e bacini come armi, negando l’acqua ad aeree al di fuori del suo territorio. L’ISIS ha utilizzato la forza distruttrice dell’inondazione anche quando ha chiuso la diga di Thathar vicino Fallujah. L’ISIS riaprì almeno una delle chiuse della diga per inondare le aree limitrofe un attacco che uccise 127 soldati iracheni. Nella città dell’est della Siria, Raqqa, lo stato islamico ha esaurito le riserve d’acqua e distrutto le reti di distribuzione, forzando i residenti a contare su risorse idriche non trattate e dando vita alla diffusione di malattie trasmesse attraverso l’acqua, come l’epatite A e la febbre tifoidea.

Il comportamento dell’organizzazione in Fallujah, Raqqa e Mosul ci indica che lo stato islamico non possiede le risorse che servono per impiegare il soft power della governance attraverso la gestione delle infrastrutture tecnologiche della regione. Diversamente dalle comuni forme di finanziamento dell’ISIS, la ricchezza acquisita dal controllo e comando delle risorse come il petrolio o l’acqua ha bisogno di una pianificazione contingente sulle infrastrutture e di una forza lavoro molto qualificata. La supervisione delle dighe richiede un set di alta specializzazione di cui non c’è indicazione che l’ISIS le possieda.
Sfortunatamente, l’insicurezza delle risorse idriche si diffonde al di là dell’Iraq e della Siria, verso la Giordania. I rifugiati siriani ed iracheni si stanno radunando in una delle zone più stressate a livello di risorse idriche nel Medio Oriente, la regione ora perde acqua al secondo tasso più veloce del mondo. La Giordania che ha visto l’influsso di 750,000 rifugiati siriani e 60,000 rifugiati iracheni, sta esaurendo i suoi rifornimenti d’acqua di tre volte il tasso di ricarica, affrontando estreme siccità sistemando 3,000 nuovi rifugiati al giorno. Se l’ISIS diventa vincente nel governo delle infrastrutture, i rifugiati possono essere costretti a tornare a casa dove ci sono fonti idriche su cui possono contare e simpatizzare per l’ISIS, similmente alla crescente simpatia per lo “stato” islamico nella popolazione di Yarmouk in Siria, che ha sofferto delle tattiche estreme di Assad che erano il risultato di carenze di cibo ed acqua.