Febbraio 13 2019

Stati Uniti e Africa: la strana similitudine con la strategia della Cina

Africa e Stati Uniti

La nuova strategia degli Stati Uniti in Africa, svelata lo scorso dicembre, ha come scopo complessivo quello di contenere l’influenza economica della Cina nel Continente.

Secondo il consulente di sicurezza nazionale americano John Bolton, le “pratiche predatorie della Cina inibiscono la crescita economica in Africa, minacciano l’indipendenza finanziaria delle nazioni africane, bloccano le opportunità di investimento degli Stati Uniti, interferiscono con le operazioni militari degli Stati Uniti e pongono una minaccia significativa agli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Fino al 1990, i politici americani hanno visto l’Africa attraverso le lenti delle rivalità della Guerra Fredda ed il Continente era generalmente assente dai calcoli strategici geopolitici. Agli inizi degli anni 1990, le priorità di Washington sono cambiate verso la good governance, democratizzazione e sviluppo di capacità locali per fornire servizi pubblici come sanità ed istruzione. Nel 1998, gli attacchi di Al Qaeda alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya hanno aggiunto la sicurezza ed il contro-terrorismo all’equazione. Fino al Summit del 2014 che portò 50 capi di Stato africani a Washington per discutere di opportunità economiche, gli interessi americani nel promuovere gli affari, la crescita del commercio e del settore privato in Africa erano minimi.

La strategia degli Stati Uniti in Africa

La strategia degli Stati Uniti è costruita su tre pilastri:

1.l’accrescimento della prosperità americana e africana attraverso l’incremento dei legami economici degli Stati Uniti in Africa; l’aumento della sicurezza attraverso sforzi di contro-terrorismo;

2.la promozione sia degli interessi americani che dell’autonomia africana attraverso un utilizzo più selettivo degli aiuti esteri degli Stati Uniti;

3.il miglioramento del clima degli affari e l’espansione del settore privato e del ceto medio africano.

L’influenza cinese in Africa sta crescendo più rapidamente di quella americana, ma l’ossessione degli Stati Uniti per la Cina avrà come risultato solo quello di minare gli sforzi di controllo della Cina e compromettere lo sviluppo di un Continente africano prospero attraverso gli investimenti americani.

L’aver ammesso, palesemente, che l’Africa non è ancora una priorità della politica estera americana, renderà più difficile per le imprese americane incontrare la benevolenza dei mercati africani o vincere contratti governativi.

È opportuno evidenziare che l’incremento dei legami commerciali con i Paesi africani allo scopo di accrescere la prosperità, la sicurezza e la stabilità è esattamente ciò che la Cina già sta facendo in Africa da decadi.

Sostanzialmente la nuova strategia dell’amministrazione Trump consolida le riforme esistenti dell’aiuto estero degli Stati Uniti compiute in tutto lo scorso anno. Agli inizi del 2018, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale degli Stati Uniti ha lanciato la “trasformazione” della sua struttura organizzativa per gestire al meglio l’apparato di aiuto estero del settore privato. USAID ha svelato la sua nuova politica di impegno nel settore privato che afferma: “il futuro dello sviluppo internazionale è guidato dalle imprese” ed incoraggia lo staff a sostenere approcci imprenditoriali allo sviluppo. Lo scorso ottobre gli Stati Uniti hanno revisionato i loro strumenti di investimento nel settore privato all’estero attraverso la creazione di una nuova International Development Finance Corporation. Essa raddoppierà il tetto dei crediti per gli investimenti nel settore privato a 60 miliardi di dollari, permetterà pratiche di credito più flessibili.

Ironicamente, gli Stati Uniti, perseguendo una relazione con l’Africa guidata più dai mercati, stanno abbracciando molti dei principi che sorreggono la strategia della Cina in Africa.

Pechino ha iniziato incoraggiando le sue imprese statali e le imprese del settore privato ad “andare fuori” e cercare nuovi mercati in Africa agli inizi degli anni 1990 e si è dotata di diverse grandi istituzioni finanziare di sviluppo per fornire il sostegno finanziario necessario alle imprese cinesi. Investimenti di imprese piccole, medie e grandi in Africa ha avuto come risultato il sorpasso degli Stati Uniti da parte della Cina come principale partner commerciale del Continente già nel 2009.

Non è mai stato un segreto che Pechino destini il suo aiuto, che per definizione include accordi di investimento e commercio, a seconda dei suoi interessi di politica estera.

In linea generale, la nuova strategia degli Stati Uniti in Africa riflette il tradizionale, lento, spostamento della comunità dei Donatori dall’aiuto verso l’investimento, spronato parzialmente dalla crescita in Africa di nuovi attori non-tradizionali guidati, ma non limitati, dalla Cina. Questi nuovi attori vedono i Paesi africani come partner economici e non come destinatari di aiuto e portano molte proprie differenti esperienze di sviluppo.
Se gli Stati Uniti vogliono competere con successo con la Cina in Africa, dovrebbero rendere disponibile molto più sostegno finanziario e diplomatico.
Il limite principale degli Stati Uniti è che Washington continua a considerare l’aiuto allo sviluppo della Cina all’interno dei suoi paradigmi di come l’aiuto estero dovrebbe essere.

Piuttosto che fissarsi sulla Cina, Washington, come del resto qualsiasi Stato che voglia investire in Africa, dovrebbe concentrarsi sui Paesi africani ascoltando non solo di cosa hanno bisogno, ma anche cosa vogliono loro. Oltre a più sviluppo finanziario, dovrebbe essere offerto più supporto per le imprese africane costante nel tempo. In questo modo è possibile rivaleggiare con la Cina per l’influenza economica, mentre si promuove una reale prosperità dei Paesi del Continente africano.

Febbraio 6 2019

Il petrolio àncora di salvezza del Venezuela?

Venezuela

Si stima che 3 milioni di venezuelani siano scappati nei Paesi vicini e molti altri li seguiranno.

Lo scorso autunno la Federazione Farmaceutica del Venezuela ha stimato che solo il 20% delle medicine necessarie sono disponibili; la Federazione Medica riferisce che circa 1/3 dei medici venezuelani ha lasciato il Paese. Il tasso di mortalità dei bambini al di sotto dell’età di 5 anni è simile a quello che si registra in Siria, Paese, quest’ultimo, dilaniato da una guerra civile da almeno 8 anni. Più di 1 bambino su 10 soffre di acuta malnutrizione, circostanza che può avere conseguenze per la vita in termini di sviluppo fisico e mentale.

Juan Guaido che si è dichiarato Presidente ad interim lo scorso mese, sta cercando di convincere le forze di sicurezza del Venezuela che Maduro deve andare via.
Guaido asserisce che la ri-elezione di Maduro, lo scorso anno, è illegittima e che il suo incarico sia terminato i primi di gennaio.

Le sanzioni dell’amministrazione Trump

Dopo aver rapidamente riconosciuto la legittimità di Guaido, l’amministrazione Trump ha colpito il regime di Maduro imponendo sanzioni per schiacciare le esportazioni di petrolio del Venezuela: congelamento degli assetti  negli Stati Uniti della compagnia petrolifera di cui è proprietaria lo Stato del Venezuela: PDVSA; divieto per entità degli Stati Uniti di condurre affari con essa.

Se, come è presumibile, questo tipo di sanzioni, in particolare al settore petrolifero, accelereranno la caduta decisiva di Maduro, non avranno con tutta probabilità l’effetto di far uscire il Venezuela dalla palude in cui si trova.

Innanzitutto visto che PDVSA è paralizzata dai debiti, il settore privato dovrà dare conto per la vasta maggioranza dell’aumento della produzione petrolifera. La compagnia petrolifera statale ha un debito pari a 34,6 miliardi di dollari. Da quando Hugo Chavez è stato eletto presidente nel 1999, la produzione del PDVSA è caduta di 2/3. La produzione del settore privato ha relativamente attraversato la tempesta, rimanendo per la maggior parte costante dal 2006 al 2017 dopo una decade di iniziale, rapida, crescita.

Per riportare l’industria petrolifera in piedi, suoi propri piedi, gli esperti stimano che ci sia bisogno di investimenti pari a circa 20 miliardi di dollari all’anno, per tutto: dall’esplorazione petrolifera alla produzione, raffinazione e distribuzione.

Inoltre, le sanzioni non serviranno a molto, dal momento che la corruzione è radicata in Venezuela ed il Paese è imbrigliato dai debiti che Maduro ha contratto principalmente per salvare se stesso.

Maduro dipende dai guadagni del petrolio per mantenere i militari e i suoi sostenitori suoi alleati ed ha ipotecato il futuro del Paese sottoscrivendo accordi finanziari a dir poco disperati con la Cina e la Russia.

Le esportazioni di petrolio verso la Cina, per la maggior parte, servono a ripagare i miliardi di dollari dei prestiti cinesi che Maduro ha chiesto quando i mercati internazionali finanziari gli hanno voltato le spalle. Il gigante energetico russo Rosneft ha fornito miliardi di prestiti in cambio di partecipazioni nell’industria petrolifera venezuelana. I ricavi di questi accordi hanno tenuto Maduro al potere.

La Cina e la Russia è inverosimile che vengano pienamente ripagate. Un futuro governo legittimo a Caracas potrebbe tuttavia essere bloccato da questi accordi perché i costi di indebitamento sarebbero più alti se li rigettasse.

Le sanzioni al settore petrolifero imposte da Trump presumibilmente accelereranno la caduta di Maduro, tuttavia è necessario rilevare che se fossero state imposte delle sanzioni preventive in risposta ai contratti e accordi scellerati stipulati da Maduro, quando era già chiara la strada verso il disastro che stava percorrendo il Venezuela, si sarebbero potuti proteggere i venezuelani almeno dai costi dei debiti che si ripercuoteranno su di loro.

Il settore petrolifero come àncora di salvezza?

Il Venezuela ha le riserve petrolifere – verificate – più grandi al mondo.

Anche se Guaido o un’altra figura dell’opposizione alla fine prendessero in mano le redini del Paese e iniziassero a sanare il settore petrolifero, ci vorranno anni prima che le esportazioni petrolifere potranno fornire la spinta economica di cui ha bisogno il Venezuela per uscire dalla palude.
L’industria petrolifera venezuelana è stata seriamente danneggiata e vi sono persino degli interrogativi a proposito della sostenibilità economica di lungo-termine dei suoi giacimenti petroliferi.

La legge sugli idrocarburi progettata da Guaido permetterebbe una maggioranza privata dei progetti, termini fiscali competitivi e la creazione di un organo regolatore indipendente che condurrebbe gare per assegnare i giacimenti petroliferi. Va registrato che questo tipo di azioni sono attività standard per questo tipo di industria a livello mondiale per attrarre investimenti privati.

Il furto di materiale petrolifero, dai cavi ai computer, da parte del crimine organizzato è diventato un problema costoso. Ogni investimento in equipaggiamenti, presumibilmente, dovrà essere accompagnato da importanti risorse in personale di sicurezza, aggiungendo costi alle imprese che vogliono operare nel Paese.

Le riserve di capitale umano del Venezuela sono state anch’esse devastate dalla crisi economica. Imprese petrolifere internazionali dovranno sperare che i lavoratori venezuelani del settore petrolifero che hanno lasciato il Paese, tornino quando la situazione si stabilizzerà – una prospettiva sempre più improbabile dal momento che il tempo passa e con esso l’età degli ex lavoratori PDVSA – o saranno costrette a reclutare, rilocare lavoratori a livello internazionale.

Non è chiaro se la domanda per  “greggio pesante” extra del Venezuela si sosterrà per la prossima decade o due.

Il mercato di punta per le esportazioni del Venezuela è quello degli Stati Uniti dove la nuova capacità di raffinazione è rivolta alla lavorazione del “petrolio leggero” che è prodotto a livello locale dalle vaste riserve di scisto in Texas e da altri Stati. La conquista di Citgo, la raffineria PDVSA situata negli Stati Uniti, da parte dei suoi creditori rimane una grande minaccia per il settore petrolifero venezuelano e priverebbe PDVSA del suo accesso garantito ai sistemi di raffinazione e distribuzione degli Stati Uniti. Inoltre, alcune imprese petrolifere internazionali, sotto pressione a causa dei cambiamenti climatici, potrebbero diminuire le occasioni di investimento in “petrolio pesante”, che emette più gas serra a causa delle grandi necessità di energia ed emissioni associate con l’estrazione da riserve non convenzionali.

Ogni futuro leader del Venezuela deve essere in grado di gestire le aspettative e preparare i cittadini per una lenta ripresa. Il petrolio potrebbe sembrare  un àncora di salvezza, ma il  risveglio dell’industria petrolifera dipenderà da come il governo e l’industria stessa affronteranno i portatori di altre sfide.

Febbraio 3 2019

Mali: il conflitto che non trova pace

Mali

Fin dagli inizi del 2017, più di 1200 civili, per la maggior parte di etnia Fulani, sono stati uccisi negli scontri nel Mali centrale.

La violenza viene perpetrata, spesso, utilizzando questa tattica: uomini armati conducono raid letali bruciando i villaggi e rubando tutto il bestiame che possono. Questo tipo di violenza è attribuibile ai membri delle cosidette milizie di autodifesa create dai gruppi etnici Dogon e Bambara, sebbene anche gli estremisti islamici e i soldati con la complicità dell’esercito del Mali abbiano condotto assassini.
In risposta a ciò anche i Fulani hanno creato i loro propri gruppi di autodifesa i quali sono stati implicati nella morte di dozzine di Dogon.
Per lunghi anni si sono verificate tensioni tra le differenti comunità del Mali centrale per l’accesso alla terra e alle risorse idriche, attriti esacerbati dai cambiamenti climatici.

Le milizie di autodifesa sono, relativamente, un nuovo fenomeno. Molte di esse si sono formate nel contesto del conflitto che è iniziato nel nord del Paese nel 2012, l’anno in cui gli estremisti islamici hanno preso il controllo di metà del Mali. I ranghi delle milizie di autodifesa hanno continuato ad ampliarsi in risposta alle uccisioni extragiudiziali ad opera delle forze di sicurezza del Mali e la relativa assenza dello Stato nella Regione.
Human Right Watch rivela che nel giugno del 2018 nell’attacco a Gourou la milizia di autodifesa conosciuta come Dan Na Ambassagou, ha aperto il fuoco su dozzine di abitanti del villaggio nel momento in cui stavano riunendosi per un battesimo nella casa del capo villaggio. Sebbene il motivo preciso dell’attacco sia ignoto, Human Right Watch nel suo rapporto fa notare che Gourou è nota per l’abbondanza di bestiame e che dopo l’attacco, i miliziani hanno depredato gli animali così come le riserve di cibo e i gioielli.

Questo tipo di violenza rappresenta l’ultima manifestazione dell’insicurezza cronica che affligge parti del Mali da più di una decade.

Mali

Non vi è solo la sfida della sicurezza che il governo del Presidente Ibrahim Boubacar Keita, salito al potere nel 2013 e rieletto lo scorso anno, deve affrontare. Oltre alla violenza etnica nel Mali centrale, l’amministrazione Keita è alle prese con una ribellione Tuareg di lungo corso nel nord del Paese e con la crescente rete di gruppi estremisti islamici che possono condurre attacchi in ogni luogo del Paese.
In questo ambiente di fragile sicurezza, i funzionari governativi stanno cercando di stabilire un equilibrio tra riconciliazione e giustizia; sostenuti dalle Nazioni Unite e da donatori internazionali, hanno intrapreso una serie di iniziative per cercare di andare oltre il conflitto. Azioni che includono il disarmo, una Commissione di Verità, e sforzi per portare i perpetratori davanti ai giudici e rompere il ciclo di impunità.

I gruppi armati

Il conflitto in Mali, che per molte persone non è mai realmente terminato, è iniziato nei primi mesi del 2012, quando l’etnia Tuareg nel nord del Paese, marginalizzata, ha lanciato una rivoluzione e dichiarato il suo proprio Stato indipendente – Azawad -, che comprendeva tutto il nord Mali.
I ribelli avanzavano velocemente, spingendo fuori un esercito del Mali poco equipaggiato e disorganizzato. Infuriati con l’allora Presidente Amadou Toumani Toure per la sua incapacità di gestire la crisi, un gruppo di soldati, a Bamako, organizzano quello che alcuni hanno descritto come un “coup accidentale”, marciando verso il Palazzo presidenziale incitando Toure alla fuga.

La confusione prodotta da tale evento ha come conseguenza l’ulteriore intensificazione del conflitto, con i Tuareg che perdono quasi i due terzi dei territori, per poi vedere gli stessi territori e con essi la loro ribellione, sottratti dai gruppi armati estremisti islamici.

Gli estremisti islamici prendono il controllo delle città di Kidal, Gao, Timbuktu, impongono la legge della Shariah nella loro maniera e modalità, ma quando essi minacciano di avanzare su Bamako agli inizi del 2013, la Francia invia le sue truppe che, con l’aiuto degli alleati africani, riprendono rapidamente il controllo delle città del nord del Mali. Tuttavia anche se i gruppi estremisti islamici si erano ritirati nelle aree rurali, essi restano una presenza giacché da questa parte del Paese migrarono nelle parti centrali.

Nel 2015 colloqui di pace tenuti ad Algeri producono un accordo tra le tre parti principali: il governo del Mali, i gruppi armati arabi e Tuareg pro-indipendenza facenti parte del Movimento di coordinamento Azawad; gruppi armati pro-governativi  indipendenti dalle forze armate del Mali. L’accordo prevede l’utilizzo di due strumenti principali per dirigere il conflitto verso la fine: disarmo e giustizia transitoria.
La componente disarmo comprendeva il consentire ai gruppi armati di deporre le loro armi ed essere integrati nell’esercito del Mali o ritornare alla vita civile. Uno degli obiettivi di questo sforzo di integrazione era quello di creare un esercito nazionale che poteva essere più rappresentativo della società del Mali, vale a dire meno dominato da coloro che abitavano il sud del Paese.

A nord un totale di 36,000 combattenti di diversi gruppi armati si registrano per il disarmo; di questi solo 15,000 sono parte del processo perché registrati con un’arma; gli altri si presentano soltanto con munizioni.

Il processo di disarmo prevede la creazione di un’unità speciale denominata “Meccanismo operativo di cooperazione” composta da tre battaglioni: uno a Timbuktu, uno a Gao e uno a Kidal.
Nei primi giorni del gennaio 2017, quando 600 membri del battaglioni stavano aspettando il loro primo impiego, i gruppi estremisti islamici fanno esplodere la loro caserma, uccidendo 77 persone, nell’attacco più sanguinoso che sia mai accaduto sul territorio maliano. L’attacco, rivendicato dal Gruppo al-Mourabitoun legato ad Al Qaeda, ha sottolineato una delle più grandi minacce all’accordo di pace: il fatto che i gruppi estremisti islamici restano la più grande sfida alla sicurezza e al disarmo.

Il Sistema giudiziario

La presa del potere da parte dei gruppi estremisti islamici ha spinto molti giudici alla fuga verso il nord del Paese, altri sono stati attaccati prima che potessero scappare, molti uccisi o rapiti. Gli estremisti hanno creato un sistema di giustizia parallelo che ha distrutto la già fragile infrastruttura giuridica della Regione. Malgrado la firma dell’accordo di Algeri, la persistente insicurezza ha avuto delle serie conseguenze nelle azioni volte a ristabilire la legge e l’ordine nel nord del Mali. A settembre dello scorso anno, secondo la missione delle Nazioni Unite di peacekeeping, un terzo dei giudici nel nord non si trovava al loro posto di lavoro, mentre coloro che erano impiegati non andavano spesso a lavoro ovvero venivano ricollocati per ragioni di sicurezza.
Allo scopo di mantenere in funzione il sistema di giustizia durante il conflitto, la Corte Suprema ha trasferito la giurisdizione per alcuni crimini commessi nel Nord ai due tribunali a Bamako – uno per i reati di violenza sessuale e l’altro per i crimini legati al terrorismo. Nel 2015, la Corte Suprema ha ripristinato la giurisdizione per i tribunali del Nord, ma essi non erano operativi. Come risultato, la documentazione di molti casi giaceva ancora nei tribunali a Bamako che non avevano l’autorità legale per perseguire i criminali.
L’accordo di Algeri prevede la creazione di una Commissione di Verità, Giustizia e Riconciliazione per fare luce sugli abusi di diritti umani commessi dal 1960, quando terminarono circa sette decadi di governo coloniale francese. La Commissione doveva creare una politica di indennizzo ed indagare le cause alla radice del conflitto.
La Commissione ha iniziato ad ascoltare i testimoni nel 2016 e ha raccolto più di 10,000 accuse di illeciti da tutto il Paese, tuttavia deve ancora iniziare le indagini per produrre un rapporto con le raccomandazioni indirizzate alle autorità.

Così come per i tribunali, la mancanza di sicurezza ha investito le operazioni della Commissione. L’apertura dell’ufficio a Kidal è avvenuta solo lo scorso mese e i membri della Commissione sono riluttanti nello spostarsi a nord perché ritengono di poter essere obiettivo dei gruppi estremisti islamici.
I tribunali locali e la Commissione non sono gli unici apparati che indagano i crimini commessi in Mali. Una commissione d’indagine internazionale, con mandato delle Nazioni Unite, al momento nella fase di pianificazione, indagherà crimini di guerra, crimini contro l’umanità e la violenza sessuale legati al più recente conflitto allo scopo di produrre un rapporto per il Segretario generale delle Nazioni Unite per l’ottobre 2019.

Ciò che più preoccupa è una legge promossa dal Presidente Keita, per concedere l’amnistia a coloro che presero parte alla ribellione del 2012. L’amnistia si applicherebbe a tutti i reati, anche ai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e la violenza sessuale. Secondo i termini della proposta di legge, gli ex combattenti avrebbero sei mesi per ammettere i loro crimini e deporre le armi ai giudici, sindaci e commissari di polizia.
Il voto era previsto per dicembre, ma il dibattito è stato rimandato ad aprile dopo proteste di organizzazioni non governative internazionali.

Gennaio 23 2019

Sud Sudan: l’ennesimo accordo di pace

Sud Sudan

In Sud Sudan la guerra civile  imperversa da ben 5 anni: abusi di diritti umani, violenze, una situazione umanitaria drammatica.

Un nuovo accordo di pace, firmato lo scorso anno, sembra essere l’unico strumento in grado di porre fine alla guerra. Tuttavia sono poche e fragili le speranze che questo accordo regga.

Il governo e l’opposizione hanno 5 mesi per implementare l’accordo e formare un governo transitorio.

Sulla carta, l’accordo di pace del Presidente del Sud Sudan Salva Kiir e dell’ex vice-Presidente, Riek Machar, che poi è diventato il leader dell’opposizione armata  (il 12 settembre 2018), ha fermato un conflitto che conta  383,000 morti e per cui la maggior parte della popolazione versa in condizioni di malnutrizione e severa insicurezza alimentare.

Nel 2015, un accordo di pace molto simile a quest’ultimo, tra gli stessi leader, è miseramente fallito nel luglio 2016, a causa di violente proteste che hanno devastato la capitale Juba e spinto Machar a lasciare il Paese e trovare ospitalità nella Repubblica Democratica del Congo. Nei due anni successivi Machar è stato agli arresti domiciliari in Sud Africa.

In quel periodo, il conflitto è peggiorato: i gruppi armati si sono moltiplicati, le condizioni umanitarie sono diventate tragiche. In questo quadro le forze governative e l’opposizione si sono rese colpevoli di atrocità nella più totale impunità.

L’accordo prevede che il governo transitorio assuma i poteri nel maggio di quest’anno prima che si tengano le elezioni nazionali tra tre anni.

Sud Sudan

Un accordo di pace implementato parzialmente aumenta i rischi di un ritorno al conflitto.

Sebbene questi rischi potrebbero essere mitigati, in qualche maniera, dalle continue misure di “costruzione della fiducia” e presumibilmente attraverso emendamenti all’accordo stesso allo scopo di concedere più tempo, ogni ritardo potrebbe introdurre incertezza in quella che già è una situazione volatile.

Gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali si sono mostrati molto più moderati nel promettere finanziamenti per l’implementazione dell’accordo. Tuttavia, se da una parte l’amministrazione Trump ha già dichiarato che rivaluterà molto attentamente l’intera assistenza al Sud Sudan, la Cina, dall’altra, resta il principale investitore nel settore petrolifero del Paese e la nazione che contribuisce maggiormente alla missione di peacekeeping nel Sud Sudan.

Fondamentalmente l’accordo resta un patto tra le elite politiche che proteggono coloro che sono i maggiori responsabili per la violenza in Sud Sudan e come tale la sua sostenibilità è discutibile.

Il governo, da parte sua, ha iniziato a ricalibrare i suoi sforzi allo scopo di attrarre investimenti esteri, soprattutto nel settore petrolifero. L’impresa russa Zarubezhneft ha firmato un Memorandum of Understanding per esplorare quattro blocchi petroliferi; mentre un Fondo del Sud Africa ha promesso di investire 1 miliardo di dollari incluso la costruzione di una nuova raffineria e il miglioramento dell’esistente infrastruttura dell’oleodotto. La Oranto Petroleum International della Nigeria ha accordato un investimento di 500 milioni di dollari, mentre la Petroliam Nasional Bhd della Malesia ha concordato di investire 300 milioni di dollari.

Tutto ciò è interessante, ma restano delle promesse e non vi è garanzia che tali investimenti si materializzeranno o, se sarà quello il caso, l’ammontare sarebbe identico.

Violazioni documentate all’embargo delle armi e continui abusi dei diritti umani, in particolar modo la violenza sessuale, contribuiscono a minare la probabilità che l’accordo regga. Gli Stati Uniti e le Nazioni Unite hanno imposto l’embargo sulle armi agli inizi dell’anno scorso, l’Unione Europea ne ha imposto uno nel 2011, l’anno in cui il Paese ha ottenuto l’indipendenza. Il governo del Sud Sudan ha lavorato con Paesi regionali, particolarmente l’Uganda, in un sistema che, allo scopo di fornire garanzie agli utilizzatori finali, permette la manifattura di armi in Romania, Bulgaria e Slovacchia in maniera tale da soddisfare i requisiti legali. Una volta che queste armi arrivano in Uganda, esse poi vengono “ri-trasferite” nel Sud Sudan. Anche i gruppi di opposizione hanno utilizzato questa tattica per acquisire armi.

Diversamente dal 2015, vi è un forte interesse regionale a porre fine alla guerra civile in Sud Sudan. I leader dell’Africa dell’Est sono sempre più stanchi del conflitto, così come dei flussi migratori che ne derivano e dell’instabilità che tali flussi creano.

Il Sudan e l’Uganda hanno forti incentivi economici per sostenere l’accordo, dal momento che il Sudan otterrebbe nuovamente il controllo delle preziose aree petrolifere nella Regione dell’alto Nilo, mentre l’Uganda godrebbe del quasi monopolio delle risorse naturali nell’Equatoria nel sud del Sud Sudan (la regione del Nilo Bianco).

Tutto è nelle mani dei leader del governo e dell’opposizione del Sud Sudan, ancora, come nel 2015.

 

Gennaio 16 2019

Al-Shabaab chi sono, cosa vogliono

Al-Shabaab
Al-Shabaab chi sono e cosa vogliono?

Al-Shabaab ha come obiettivo quello di rovesciare il governo di Mogadiscio, utilizzando regolarmente attentatori suicidi contro il governo, i militari ed i civili.

Al Shabaab significa “la giovinezza” in arabo; è la più grande organizzazione militante che cerca di controllare il territorio somalo per stabilire una società basata sulla rigida interpretazione della Shariah. Tuttavia, il gruppo conduce attacchi anche in Paesi vicini come il Kenya.

Origini

Shabaab è emerso come organizzazione indipendente intorno al dicembre del 2006 dopo il dissolvimento dell’Unione delle Corti islamiche (UCI), per la quale rappresentava il braccio militare.

Prima di ciò le origini del gruppo restano ambigue. Il suo primo leader: Aden Hashi Ayro, in un primo momento si era unito ad un movimento islamista chiamato Al Ittihad Al Islamiya (AIAI) nel 1991, un movimento all’interno del sistema giudiziario somalo, che voleva prendere il controllo della Somalia. Ayro potrebbe aver guidato un gruppo blando di militanti AIAI e ciò significherebbe che Al-Shabaab potrebbe essere esistito in una qualche forma prima di costituire la branca militare dell’Unione delle Corti. Tuttavia, Al-Shabaab principalmente si è sviluppato come parte dell’UCI ed Ayro ha contribuito al reclutamento e all’addestramento dei militanti. Le prime attività del gruppo includevano multipli assassini di lavoratori internazionali nel Somaliland tra il 2003 ed il 2005 così come il disseppellimento del cimitero italiano nel 2005. Inoltre, Al Shabaab ha sostenuto l’utilizzo della violenta rappresaglia contro i lavoratori del Governo Federale Transitorio della Somalia dopo che diversi membri dell’ICU furono assassinati nel 2005, presumibilmente dal GFT.
A metà del 2006, l’UCI ottenne il controllo della Somalia centrale e del Sud. Ayro voleva connettere la battaglia somala con l’agenda del jihad globale, ma altri leader dell’UCI invece volevano piuttosto focalizzarsi su obiettivi nazionalisti e creare uno Stato islamico in Somalia. Alla fine del 2006, le Nazioni Unite con le truppe etiopi spingono l’UCI fuori da Mogadiscio, circostanza che fa collassare l’Unione che presto si scioglie. Ayro e Al Shabaab rimangono però attivi.

L’invasione etiope della Somalia rappresenta un evento cruciale per Al-Shabaab, alimentando risentimento contro una forza straniera occupante e permettendo ad Al-Shabaab di diventare la maggiore forza di resistenza in Somalia.

Sebbene Al-Shabaab si focalizzasse sull’attacco alle forze etiopi e dell’Unione Africana, il gruppo cercava anche di connettere la sua causa con il movimento globale jihadista, specialmente attraendo combattenti stranieri e promuovendo una relazione con Al Qaeda. I leader di Al Shabaab e di Al Qaeda raggiunsero relazioni reciproche positive, Al Shabaab offrì rifugio a membri di Al Qaeda nella regione.
Nel 2008 la relazione tra i due gruppi si stringe. Nel Maggio dello stesso anno, Ayro viene ucciso in un bombardamento americano e Ahmed Abdi Godane, chiamato anche Mukhtar Abu Zubeyr, diventa il leader del gruppo. Pubblica una dichiarazione in cui elogia Al Qaeda ed esplicitamente si sposta verso l’enfatizzazione della battaglia in Somalia come parte del jihad globale.

Al Shabaab inizia ad allinearsi ad Al Qaeda sia nell’ideologia che nella tattica e ad avere come obiettivi i civili con attacchi suicida molto più frequenti. La leadership dell’organizzazione inizia ad includere molti dei membri Al Qaeda. Al-Shabaab fa leva sulla sua relazione con Al Qaeda per attrarre combattenti stranieri (c.d. foreign fighters) e donazioni in denaro dai sostenitori di Al Qaeda. Inoltre, membri di Al-Shabaab viaggiano all’estero per addestrarsi con Al Qaeda.

2009: Al-Shabaab giura alleanza ad Al Qaeda

All’inizio del 2009, dopo una serie di attacchi contro obiettivi americani e delle Nazioni Unite in Somalia e contro le truppe etiopi, Al-Shabaab diffonde un video in cui formalmente giura alleanza ad Al Qaeda.

2012: Al Qaeda annuncia formalmente una fusione tra le due organizzazioni.

Pur tuttavia Al Shabaab e ad Al Qaeda continuano ad identificarsi come organizzazioni separate.
Nell’aprile del 2015, i militanti di Al Shabaab attaccano l’università Garissa in Kenya uccidendo almeno 147 persone. Il gruppo rivendica l’attacco come mezzo per spingere le truppe keniote a ritirarsi dalla Somalia.
Nel 2015, lo “Stato islamico” (IS) diffonde un video in cui invita Al Shabaab, come il più prominente gruppo jihadista dell’Est Africa, a giurare alleanza a loro, l’IS. Qualcuno ha sussurrato che Al Shabaab potrebbe accettare la richiesta, ma per ora Al Shabaab resta “fedele” ad Al Qaeda.

Al-Shabaab: la leadership

Hassan Dahir Aweys. Ci si riferisce a lui come al leader spirituale del gruppo, ma la sua precisa relazione con il gruppo non è chiara. Aweys ha guidato il braccio militante dell’AIAI. Arrestato dal governo somalo nel giugno del 2013, l’anno successivo fu trasferito dalla prigione agli arresti domiciliari.

Mahad Mohammed Karate. Capo di Amniyat, il ramo intelligence del gruppo, che fu responsabile dell’attacco all’università Garissa. Qualche volta Karate è stato descritto come il vice comandante di Al Shabaab. È stato ucciso dalle forze di difesa keniote nel febbraio del 2016, ma il gruppo nega la sua morte.

Ahmad Umar. Chiamato anche Abu Ubaidah, nominato nuovo leader nel settembre del 2014, subito dopo che Godane fu ucciso in un bombardamento americano. Non ci sono molte informazioni disponibili su di lui.

Al-Shabaab: ideologia e obiettivi

Ideologia: islamista, jihadista, salafista.
L’obiettivo principale è quello di far cadere il governo somalo e di stabilire un emirato islamico nel paese basato su una stretta interpretazione della Sharia.

In aggiunta ad i suoi obiettivi in Somalia,

Al Shabaab ha adottato in maniera sempre maggiore un orientamento che prevede l’inquadramento della battaglia somala come parte del movimento jihadista globale.

Il primo leader del gruppo, Ayro, aveva ricevuto l’addestramento in Afghanistan e ha modellato il principi del gruppo intorno agli obiettivi dei Talebani. Nei territori che controlla, Al Shabaab, ad esempio ha messo in pratica un sistema di punizione tale per cui i ladri sono puniti con l’amputazione delle mani e le donne accusate di adulterio con la lapidazione. Il gruppo ha anche vietato attività come la musica, i video, radersi. Nello sforzo di liberare il paese dall’influenza straniera, Al-Shabaab ha chiuso la BBC accusandola di promuovere un’agenda colonialista anti- musulmana.

Al-Shabaab: risorse

Ha ricevuto finanziamenti e addestramento da jihadisti stranieri di Al Qaeda. Ha ottenuto fondi anche da comunità della diaspora somala, incluso quella che si trova negli Stati Uniti. Nel 2010, ad esempio, 14 americani sono stati accusati di sostenere materialmente e di raccogliere fondi per Al-Shabaab.
I governi americano e somalo hanno accusato l’Eritrea di sostenere Al Shabaab attraverso armi e finanziamenti. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che altri paesi e gruppi forniscono al gruppo missili, armi e addestramento in violazione dell’embargo sulle armi imposto alla Somalia del 1992. I gruppi e i paesi accusati includono: Djibouti, l’Iran, la Siria, la Libia, l’Eigitto, l’Arabia Saudita ed Hezbollah.

Al-Shabaab: un pericolo molto maggiore rispetto allo “Stato islamico” in Somalia

Lo “Stato islamico”(IS) ha ricevuto una buona notizia dalla Somalia l’anno scorso, quando ad ottobre, una piccola fazione militante, allineata allo “Stato islamico” ha preso il controllo di Qandala, una città portuale nel nord del paese, per più di un mese, per poi ritirarsi. È stata la prima volta che un gruppo legato all’IS ha occupato una città in Somalia.

Al-Shabaab resta un gruppo molto più pericoloso dell’IS.

Lo “Stato islamico” desidera una presenza in Somalia e ha fatto la corte ad Al-Shabaab per due anni. Tuttavia Al-Shabaab controlla strisce di territorio in Somalia, in una regione piena di paesi pro – occidentali.
Come abbiamo visto Al-Shabaab ed Al Qaeda condividono una lunga storia. Molti fondatori del gruppo somalo si sono addestrati nei campi afghani di Al Qaeda, da quando il primo leader del gruppo ha incontrato Osama bin Laden nel 1998. Un gran numero di prominenti membri di Al Qaeda in Africa dell’Est si sono associati ad Al-Shabaab, incluso Fazul Abdullah Mohammed, uno degli individui coinvolti nell’attentato all’ambasciata di Nairobi; era anche dietro all’attentato del 2002 al hotel e alla compagnia aerea nella costa del Kenya.

Se Al-Shabaab avesse dovuto unirsi all’IS, l’avrebbe fatto da un bel pezzo quando i benefici erano più chiari.

Il marchio dell’IS recentemente è stato macchiato dalle sue perdite in Siria, Iraq e Libia ed ha meno capacità, adesso, di fornire ad Al-Shabaab un supporto operativo significativo.
Al-Shabaab probabilmente ha notato quanto poco beneficio il gruppo estremista nigeriano Boko Haram ha ottenuto dall’essersi unito ufficialmente all’IS nel 2015. La scorsa estate l’IS ha accelerato un potenziale scisma all’interno di Boko Haram nominando un emiro rivale di Abubakar Shekau, che ha guidato Boko Haram dal 2010.
Al-Shabaab ha reso chiaro a chi è fedele, resistendo alle aperture dell’IS e cacciando letteralmente i suoi stessi membri sospettati di simpatizzare con l’IS.

Voci dell’apertura allo “Stato islamico” da parte del leader di Al-Shabaab (che non si sa se sia vivo o meno)

Tuttavia l’odierna fedeltà del gruppo estremista somalo con Al Qaeda non preclude per sempre uno spostamento verso l’IS. Ci sono voci che Mahad Karate, il potente leader dell’unità Amnyat nutra delle simpatie per lo “Stato islamico”. Sebbene non si sappia per certo se sia vivo o meno, se sostenesse l’unione con l’IS, e se ciò avvenisse, richiederebbe molto probabilmente un’operazione di purga della maggior parte dell’odierna leadership del gruppo somalo.
Va detto che dopo che Abdiqadir Mumin, il leader della fazione che per poco ha preso il controllo di Qandala, ha dichiarato la sua alleanza all’IS (ottobre 2015), i militanti di Al-Shabaab hanno attaccato alcuni dei suoi uomini, costringendoli a nascondersi per venire fuori solo per prendere la città portuale.

Le lusinghe dello “Stato islamico” al popolo somalo

Da parte sua l’IS adesso pare che cerchi di aggirare il gruppo rivolgendosi direttamente al popolo somalo. Ha infatti diffuso un video, lo scorso anno, in cui rivolgendosi ai somali promette una governance migliore rispetto al draconiano regno di Al-Shabaab.
Molto difficile da vendere!

Nel caotico ambiente della Somalia, i gruppi militanti e i movimenti estremisti tradizionalmente hanno costruito le lealtà o essendo al forza dominante, oppure fornendo servizi alla popolazione, in taluni casi: facendo entrambi.

Vincere il consenso o la fedeltà dei somali è, al momento, al di fuori della capacità dello “Stato islamico”.

Tutto ciò fa sì che Al-Shabaab resti la minaccia più rilevante in Somalia e resterà così per il prossimo futuro. 

Il suo principale antagonista: la missione dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM) è sempre più fragile e fratturata.
Il governo somalo, che dovrebbe essere il più forte competitore di Al Shabaab per vincere i cuori e le menti dei somali, non si fa amare dai suoi cittadini per la corruzione che lo pervade.

Cosa si potrebbe cercare di fare?

Le forze militari che combattono Al-Shabaab dovrebbero mantenere, se non incrementare, la loro pressione per creare uno spazio sufficiente allo state – building somalo. Questo includerà lo screditare la violenta interpretazione dell’Islam che motiva la leadership del gruppo estremista e che attira reclute.
Uno dei maggiori sforzi dovrebbe essere condotto dal governo somalo nella direzione di fornire più governance competente e al più presto.

Gennaio 8 2019

La competizione tra Stati Uniti e Cina si amplierà nel 2019

competizione Stati Uniti e CIna

Alla domanda: “Qual è, nella politica internazionale, la sfida più importante che si pone in questo nuovo anno?”, la risposta è abbastanza facile: l’intensificazione della competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia vi è una sottile, ma drammatica prova a cui il sistema delle relazioni internazionali è sottoposto: il rapido deterioramento del quadro di controllo delle armi nucleari.

Gli Stati Uniti e la Cina sono in rotta di collisione nel sistema multilaterale dall’inizio dell’amministrazione Trump. Il Presidente degli Stati Uniti e i suoi consulenti sembrano condividere due percezioni basilari a proposito della politica internazionale. La prima è che la Cina è un competitore strategico ed economico totale che deve essere contrastato. La seconda è che le organizzazioni internazionali e la legislazione internazionale sono per natura faziosi  nei confronti degli Stati Uniti e che c’è bisogno di tornare al passato o solamente ignorare le regole internazionali.
Non sorprende il fatto che funzionari americani di più alto livello abbiano ora unito questi due presunti problemi in un’unica ipotesi di lavoro: “la Cina sta utilizzando il sistema multilaterale per superare in astuzia gli Stati Uniti“.

Dunque, Washington mira a respingere Pechino su molti fronti, dalla proiezione di potenza nel Mare del Sud della Cina, allo sviluppo di intelligenza artificiale. La priorità numero uno è limitare la crescente influenza cinese negli organismi multilaterali.

Non vi è dubbio che, ultimamente, la Cina abbia acquisito molta influenza negli organismi multilaterali. Ironicamente una delle ragioni per cui Pechino ha aumentato la sua sfera d’influenza è l’allontanamento dell’amministrazione Trump da ampie porzioni del sistema delle Nazioni Unite; ciò ha creato lo spazio politico in cui la Cina, scaltramente, si è posizionata.

Sebbene i politici cinesi insistano nel non aver alcun desiderio di usurpare il ruolo degli Stati Uniti come leader globale, se Washington cercasse di minare la posizione raggiunta a livello multilaterale dalla Cina, lo scontro diplomatico che ne risulterebbe potrebbe paralizzare la cooperazione internazionale in ogni settore: dall’arbitrato sul commercio, alla gestione di scenari complessi come quello del Sud Sudan.

Il controllo delle armi nucleari mette a repentaglio l’architettura della sicurezza internazionale

Le tensioni sulle armi nucleari tra gli Stati Uniti, la Russia e le altre Potenze mettono a repentaglio molta dell’architettura di sicurezza internazionale. Gli Stati Uniti recederanno presto dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) per presunte violazioni da parte dei russi. Mentre Mosca respinge queste accuse, entrambe le parti sono occupate nell’ammodernamento dei loro arsenali nucleari.

Una competizione bilaterale questa in cui vi sono molte frizioni su come affrontare, attraverso meccanismi multilaterali, le sfide poste dalla proliferazione nucleare sia da parte della Corea del Nord che da parte dell’Iran. Cina e Russia non sono convinte della necessità di mantenere il pieno regime sanzionatorio previsto dalle Nazioni Unite per la Corea del Nord.

Lo sgretolamento  dell’accordo con l’Iran sul nucleare, durante l’amministrazione Trump, potrebbe accrescere lo spettro del ritorno di Teheran al suo programma nucleare, allontanando ulteriormente gli Stati Uniti e le altre Grandi Potenze sulle modalità di risposta a tale possibilità.
Se i colloqui sul nucleare con la Corea del Nord, che spesso appaiono bizzarri, implodessero, l’amministrazione Trump potrebbe sfidare la Cina e altri giocatori a punire ulteriormente Pyongyang.

Non è trascurabile la circostanza per cui sarebbe abbastanza difficile che gli Stati Uniti redigano un accordo con la Russia sulla guerra nell’est dell’Ucraina, se le tensioni sul nucleare aumentassero, per non parlare di raggiungere un accordo decisivo e finale sul futuro della Siria con l’Iran e la Russia.

Sono più importanti, nel quadro del sistema internazionale, le rivalità locali, i conflitti che si generano per la percezione che un determinato gruppo ha di aver subito dei torti nei confronti di un altro gruppo, rispetto a quella che può essere la visione d’insieme di Washington o Pechino.

L’esistenza permanente di un sistema multilaterale che è in grado di impegnarsi efficacemente in crisi come quelle sopra menzionate, dipende necessariamente dall’accordo, almeno sulle forme basilari, di cooperazione e dalla fissazione di regole, tra le Grandi Potenze all’interno del sistema internazionale.

In questo inizio d’anno vi sono dei segnali preoccupanti che indicano che sia gli Stati Uniti che i loro rivali non vedano più nello stesso modo le regole del sistema multilaterale.

 

Dicembre 30 2018

Perché è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS

vittoria IS

L’impronta fisica dello Stato Islamico (IS) e la sua leadership di più alto livello sono state erose dalla coalizione globale che è stata in grado di limitare le capacità dell’organizzazione nei teatri di conflitto in un modo tale per cui le possibilità che l’IS lanci un’altra offensiva di vasta scala in Siria ed Iraq risultano essere sempre più esili.

Tuttavia, è troppo presto per dichiarare di aver sconfitto l’IS : secondo stime ufficiali, tra i 20 e i 30 mila militanti IS, incluso migliaia di Foreign Fighters, restano in Siria ed in Iraq.

L’IS con tutta probabilità si è ritirato in aree meno popolate e rurali e ha iniziato ad operare in maniera più nascosta e decentralizzata.

Molte delle previsioni fatte dopo il collasso dello Stato islamico nel 2017, per cui ci furono dichiarazioni di vittoria di alcuni, tra cui i Presidenti degli Stati Uniti, dell’Egitto, dell’Iraq, della Russia e delle Filippine, non raggiungevano una precisione ed un’accuratezza tale per cui poi si sono materializzate pienamente.

Il 9 dicembre 2017, la sconfitta dell’IS in Iraq fu proclamata fragorosamente dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e dalla sua controparte irachena, il Primo Ministro Haider el-Abadi.

La loro dichiarazione è giunta davvero troppo presto.

L’IS è un gruppo multidimensionale che simultaneamente opera sia come un proto-Stato che come una rete transnazionale estremista che utilizza la tattica del terrorismo. (Per un approfondimento sulla struttura e la composizione di questo gruppo vi rimando al libro: “Governare l’estremo“).

Le azioni cinetiche di successo contro la prima dimensione non hanno risolto la minaccia della seconda. Se volessimo ragionare secondo categorie è possibile affermare che se IS non è più uno Stato, esso resta una potente organizzazione estremista religiosa.

La minaccia globale, inoltre, potrebbe essersi incrementata, dal momento che i Foreign Fighters di ritorno drenano intelligence, risorse politiche e simpatizzanti nei loro Paesi di origine. Essere stati lasciati senza un Califfato a cui fare ritorno,  vuol dire che potrebbero invece rivolgere la loro attenzione ad obiettivi nei loro Paesi e focalizzarsi su nuovi modus operandi.

La prospettiva dell’IS di cooperare con altre organizzazioni jihadiste come Al Qaeda, è improbabile perché, malgrado siano entrambe parte del movimento jihadista globale, esse differiscono troppo in termini di ambizioni ideologiche e strategiche.

Inoltre, dal momento che IS, senza un suo proprio proto-Stato, sarebbe incapace di imporre tasse ai civili, probabilmente cercherà di trovare altri mezzi con cui finanziarsi.

Malgrado il  collasso materiale dell’IS – cioè del suo territorio – sia innegabile,

l’ideologia su cui si basa rimane viva e vegeta.

Agli occhi dei suoi sostenitori più devoti, non esiste qualcosa come uno stato “post-Califfato”. Al contrario, l’IS è diventato abile ed esperto ad etichettare i suoi fallimenti come meramente fasi di una strada più lunga verso la vittoria. Ed è cruciale che i decisori politici tengano nella dovuta considerazione tutto ciò.

La battaglia per sconfiggere completamente l’IS sarà difficile.

L’organizzazione ha, ora, solo cambiato traiettoria; si concentra su operazioni “colpisci-e-fuggi” calibrate verso l’indebolimento della stabilità e il discredito dello Stato. Tutto questo è realizzato attraverso un’attenta strategia di destabilizzazione: le reti di cellule “dormienti” stanno lavorando in maniera sistematica allo scopo di sovvertire la sicurezza nei territori liberati dalla presenza dell’IS. Ad esempio a Raqqa e nei suoi dintorni, in località come Kirkuk nell’est dell’Iraq,  attacchi IED (Improvised Explosive Device) e assassini vengono perpetrati su base quasi quotidiana; l’IS sta continuando a prendere slancio, apparentemente senza freni. Perciò, anche senza le sue ultime roccaforti urbane, l’IS continuerà, presumibilmente, a fare tutto quello che può per perpetuare l’instabilità regionale.

Pur volendo porre Siria e Iraq da una parte, la marea di sfide presentante dalla rete globale dell’IS continuano a metastatizzarsi. I suoi affiliati continuano ad affermare se stessi al di là della Regione del Medio Oriente, particolarmente in Paesi in cui mancano istituzioni statali forti; in alcuni casi, hanno accelerato le loro operazioni. In Afghanistan, ad esempio, la “Provincia Khurasan” del Califfato è stata ascendente nel 2018. Sebbene operativamente sia confinata ad un piccolo territorio nell’est del Paese, la sua capacità di impiegare il terrorismo suicida nel resto dell’Afghanistan è sconcertante e, in maniera preoccupante, mostra pochi segnali di indebolimento.

Qualcuno ha pensato alla minaccia derivante da altri gruppi jihadisti?

L’IS è lontano dall’essere il solo gruppo jihadista lì fuori. Sebbene abbia dominato molto del discorso concernente l’impatto di lungo termine del conflitto siriano e la politica di contro-terrorismo, lontani dall’attenzione pubblica ci sono gruppi come Hay’at Tahrir al-Sham (HTS) che, basato nella provincia siriana di Idlib, si è sviluppato e ha impiegato un’agenda politica pragmatica e scaltra rivelatesi funzionale con le popolazioni locali. In netto contrasto con l’IS, HTS è stato relativamente permissivo sulla questione delle politiche religiose. Inoltre, perseguendo una strategia di socializzazione concepita per primo da Abu Firas al-Suri – un ex ufficiale della Shariah in Jabhat al – Nusra (predecessore di HTS), il gruppo ha sospeso l’implementazione delle punizioni corporali e capitali per promuovere una misura di interdipendenza tra esso e la popolazione che governa. Dato che questo tipo di pene, conosciute come hudud, sono considerate una parte centrale del codice penale islamico, pene che si applicano a crimini e reati contro Dio (non contro lo Stato o gli uomini), ciò è controverso, e ampiamente criticato all’interno della comunità jihadista. Tuttavia ciò sembra aver pagato: HTS è, adesso, profondamente inserito nel cuore della Siria del nord, e, proprio come fece l’IS, fornisce servizi essenziali di governance. Ha creato consigli locali e gestisce (e quindi sfrutta) le risorse locali. Mentre HTS non è più parte di Al Qaeda, la sua ideologia jihadista rimane strettamente allineata ad esso. Resta preoccupante che esso sia stato in grado di stabilirsi come gruppo politico e militare predominante nella Regione. Mentre, a questo stadio, le sue priorità appaiano più interne alla Siria, esso potrebbe un giorno cambiare e i decisori politici dovrebbero prenderlo in considerazione.

Altre forme di estremismo

Ultimamente si è verificato uno sbilanciamento politico strutturale per cui si rischia di considerare il contrasto ai gruppi jihadisti come la priorità a spese del contrasto ad altre forme di estremismo. Negli anni recenti, l’estremismo ispirato dall’IS ha assorbito la porzione più grande di forze di sicurezza e di risorse di intelligence – e giustamente, vista l’estensione della minaccia del gruppo. Tuttavia, ciò è avvenuto ad un costo: quello di non investire quelle risorse da qualche altra parte e, nel frattempo, in Europa, gruppi estremisti di -estrema-  destra si sono sviluppati e attivati. Essi hanno beneficiato sia della crescente polarizzazione nelle società europee che di un ambiente di sicurezza inattivo, in cui i governi sono incapaci di rispondere in maniera appropriata alla loro ascesa. È cruciale che più risorse sia devolute verso la mitigazione di questa sfida emergente.

L’IS sta praticando un gioco lungo, dunque le politiche di contro-terrorismo devono continuare ad esercitare una pressione sulle reti logistiche di supporto all’organizzazione

L’IS sta praticando un gioco lungo, e i suoi leader sono ben consci del fatto che le loro capacità materiali sono legate ad un flusso di ascesa e discesa nel corso della battaglia. Con questo a mente, le politiche di contro-terrorismo in Europa devono continuare ad esercitare un alto grado di pressione sulle reti logistiche di supporto dell’IS, anche se il gruppo appare essere inattivo. Sebbene la prassi operativa dei jihadisti sembra essere diventata meno tecnologica rispetto al 2016 e al 2017, assalti complessi sono ancora nella lista. Inoltre, ora vi è un incentivo a (ri)tornare ad operazioni più sofisticate e di vasta scala, dato che le notizie ed il discorso pubblico iniziano ad essere assuefatti ad attacchi con coltelli e veicoli. Ragionando nel lungo-termine, i decisori politici devono cercare di sviluppare una legislazione efficace e strumenti sociali che affrontino la minaccia potenziale dei militanti estremisti di ritorno e degli ideologhi – e questo dovrebbe includere lo sviluppo di istituzioni penali all’interno dei Paesi in cui questi personaggi vivono.

Ora non è il momento di lanciarsi in dichiarazioni di vittoria. Anche se la minaccia IS appare essere meno pressante di quanto lo fosse nel 2016 e nel 2017, la minaccia che esso rappresenta è reale e durevole.

La pressione del contro-terrorismo deve tenere il passo, anche continuando ad incoraggiare le società ad essere resilienti ed inclusive. Per fare ciò è necessario che gli interessi di breve-termine che ci concentrano sulle politiche elettorali non ostruiscano la realizzazione di politiche efficaci di lungo termine.

 

Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.

Novembre 20 2018

La fragile democrazia nell’Europa centrale e dell’est

Europa centrale

La democrazia è fragile nei Paesi post-comunisti dell’Europa centrale e dell’est, dove lo spettro dell’autoritarismo e della corruzione sta crescendo. Anche secondo le migliori delle condizioni, la “costruzione della democrazia” è difficile ed incerta.

L’esperienza storica mostra che il fallimento è molto più comune del successo, anche in periodi in cui la democrazia liberale ha pochi rivali.
Le trasformazioni dei Paesi dell’Europa centrale e dell’est successive al 1989,  dal comunismo alla democrazia, sono spesso presentate come un modello di democratizzazione di successo. Malgrado l’iniziale pessimismo circa la prospettiva di stabilire una democrazia liberale, diversi Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno sviluppato consolidati sistemi democratici, delle economie di mercato funzionanti, degli Stati democratici efficienti con politiche di benessere estese e con un grado di ineguaglianza relativamente basso.

Inoltre, le conquiste politiche ed economiche si sono poste in aspro contrasto con i fallimenti di altri Paesi post-comunisti. Malgrado le iniziali speranze e le reali vittorie politiche, una maggioranza di questi Paesi o sono ritornati all’autoritarismo o hanno perseverato in uno Stato semi-riformato e non consolidato.

Quali sono le cause di queste strade così divergenti?

Perché alcuni Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno avuto successo mentre altri incarnano i fallimenti delle politiche e delle economie dell’Europa dell’est?

I Paesi dell’Europa centrale e dell’est sono, ora, una cornice centrale nella battaglia globale tra la democrazia liberale e l’autocrazia.

Pochi Paesi hanno visto la democrazia perdere terreno costantemente come nel caso dell’Ungheria. È qui, con l’arrivo al potere del Primo Ministro Viktor Orban e del suo partito Fidesz, che le speranze per un’espansione inarrestabile della democrazie nei Paesi post-comunisti si è infranta in maniera decisiva. Orban ha costruito il sostegno per le sue politiche nazionaliste ponendo in risalto le questioni dell’identità e offrendo al suo pubblico una potente arma: “la paura per gli estranei”.
Nulla ha fortificato le credenziali nazionaliste del Primo Ministro ungherese più delle sue virulente filippiche anti-migranti e le politiche in risposta all’ondata di rifugiati (per la maggior parte musulmani) arrivati in Europa come conseguenza della guerra in Siria, che Orban chiama “invasori musulmani”.
Un’altra importante componente dell’erosione ininterrotta della democrazia liberale in Ungheria è stata la campagna (velata) di Orban di cooptazione dei media indipendenti. Un esempio esplicativo di come è stato possibile ciò è accaduto in un sabato mattina dell’ottobre del 2016, quando il sito web Nepszabadsag, il massimo quotidiano politico ungherese e una delle sue pubblicazioni di lunga data, sono state messe offline. Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, il sito web è tornato online con un messaggio che annunciava la sospensione della pubblicazione. Due settimane dopo Nepszabadsag è stato venduto e il giornale è stato chiuso poco dopo. La chiusura di Nepszabadag è il momento di svolta per il panorama dei mezzi di comunicazione ungheresi.
Accanto all’Ungheria, vi è la Polonia, che è stata, recentemente, accusata di utilizzare le riforme giudiziarie e i regolamenti statali in materia di comunicazione per infrangere i principi della democrazia liberale.

L’Unione Europea ha iniziato a percorrere dei passi verso il contrasto alle ricadute anti-democratiche negli Stati membri dell’Europa centrale e dell’est. Nelmaggio di quest’anno, le proposte di budget di lungo termine, ampiamente anticipate, per il 2021-2027 includeva piani per un “legame rafforzato tra i finanziamenti dell’Unione Europea e lo Stato di diritto”. Sebbene non sia stato incluso un riferimento a Paesi specifici, la proposta è stata vista come avere esattamente ad obiettivo la Polonia e l’Ungheria, i cui governi populisti e nazionalisti si sono impegnati negli ultimi anni in ripetuti battibecchi con Bruxelles su tutto: dalla libertà di stampa al trasporto del legname. La Polonia e l’Ungheria, tra le altre nazioni nell’Europa centrale e dell’est, hanno beneficiato grandemente dei finanziamenti dell’Unione Europea, che li hanno aiutati a migliorare le infrastrutture e a sostenere gli investimenti.

Le ultime tensioni ci suggeriscono che ogni riavvicinamento conterrà dei limiti.

Ottobre 19 2018

Il peacekeeping è sull’orlo del baratro?

peacekeeping

Il 70° anniversario delle missioni di peacekeeping non ha, comprensibilmente, destato particolare entusiasmo (e neanche tanto risalto).
Nel lontano 1948 il Consiglio di Sicurezza inviò osservatori militari in Medio Oriente come supervisori della fine della prima guerra arabo-israeliana, dando il via a più di 70 missioni delle Nazioni Unite (NU), diventate un vero e proprio tratto distintivo dell’Organizzazione.
Le operazioni NU sembra che stiano entrando in una nuova, difficile, fase. Nelle due passate decadi, le forze di peacekeeping hanno svolto un lavoro solido, sebbene raramente citato, allo scopo di stabilizzare Paesi di piccole e medie dimensioni come la Sierra Leone o Timor Est. Agli inizi di quest’anno, hanno portato a conclusione un’altra, ampia, missione di successo in Liberia. Con la chiusura di queste operazioni, le NU adesso si trovano a concentrare in maniera maggiore i propri sforzi di peacekeeping su 5 grandi e problematiche operazioni in Africa. In ogni caso, gli elmetti blu restano sparsi in contesti dove si trovano di fronte ad una violenza endemica.
Gli esperti delle NU sono avvezzi alle regolari crisi che scuotono l’organizzazione, pur non sovvertendola. Dal Mali alla Siria, le NU rivelano  serie difficoltà non solo a porre fine ai conflitti, ma a mantenere la pace. Tuttavia, malgrado gli attacchi all’Organizzazione, che indicano una frustrazione diplomatica, il Consiglio di Sicurezza persiste nel portare avanti questi processi. Non ci sembra di poter escludere in maniera definitiva che le NU siano, al momento, sull’orlo di una batosta nel Medio Oriente e ciò potrebbe creare una rottura decisiva a New York.
Dieci anni fa, storie di violenza endemica nella Regione del Darfur del Sudan spesso erano, in Occidente, i titoli di stampa, le notizie con cui si aprivano i telegiornali. Sebbene questo conflitto continui in maniera sporadica, oggi esso è del tutto dimenticato. A luglio, il Consiglio di Sicurezza ha deciso di tagliare il numero delle forze di peacekeeping nella missione UNAMID (missione africana delle Nazioni Unite in Darfur), di circa la metà, con l’idea di chiudere completamente la missione nel 2020. La decisione ha creato un mormorio intorno al Consiglio. Nondimeno, la riduzione di UNAMID potenzialmente segna un punto di svolta per le operazioni di peacekeeping.

Dalla Siria al Burma (Myanmar) le forze armate stanno perseguendo campagne militari inarrestabili e, nella loro ricerca di vittoria, puniscono indiscriminatamente i civili. In entrambi i casi la “pace” che ne risulterebbe sarebbe caotica.

Queste crisi minacciano di turbare alcune delle norme basilari che sono maturate attorno alla risoluzione delle guerre civili nel periodo post-Guerra Fredda. Per restare rilevanti, le operazioni di peacekeeping, si dovranno senz’altro adattare ai nuovi scenari di post-conflitto. Se i “peacemakers” vogliono avere una qualsiasi possibilità di porre fine alle guerre odierne, essi devono imparare a ragionare come degli assassini a sangue freddo.
Le tre passate decadi sono state un periodo di raro successo per il peacemaking internazionale. Nel periodo della Guerra Fredda, gli sforzi diplomatici e di mediazione significavano che la maggior parte dei conflitti si concludeva in accordi negoziati piuttosto che in vittorie decisive di una parte o dell’altra.
Sebbene molti di questi accordi siano stati fragili e non sostenibili, essi hanno contribuito ad un declino complessivo delle guerre e delle morti che hanno causato.

Le principali potenze nel sistema internazionale del post-Guerra Fredda, guidate dagli Stati Uniti, hanno deciso di adottare “un trattamento standard” all’insorgere della violenza, caratterizzato dalla convinzione che un accordo mediato e negoziato, l’uso delle forze di peacekeeping e l’aiuto estero fosse la strada giusta per risolvere i conflitti futuri.

Anche i governi e i gruppi di ribelli che erano desiderosi di utilizzare la violenza di massa per raggiungere i loro obiettivi si sentivano obbligati a lavorare con mediatori esterni e permettere alle agenzie umanitarie di assistere i civili che soffrivano.
Anche gli Stati Uniti, pur essendo intervenuti in Iraq e in Afghanistan, alla fine hanno riconosciuto che non possono utilizzare solamente la forza per pacificare entrambi e hanno investito di più nella ricerca di accordi politici.

L’odierna decade ha visto un’importante inversione quando gli sforzi politici per porre fine alle ondate di conflitti nel mondo arabo hanno iniziato a vacillare.

Dall’altra parte, uomini forti come Assad e i suoi sostenitori internazionali hanno generato un aumento degli sforzi militari, utilizzando le campagne internazionali contro l’IS per giustificare il loro approccio senza regole ignorando sistematicamente le condanne esterne alle loro azioni. I sostenitori di Assad adesso, presumibilmente, pur considerando le accuse di oltraggio alle regole internazionali come inevitabili, sono persuasi che non avranno né alcun effetto e né alcun costo sulle loro operazioni.
Per fare un esempio tra i tanti: lo scorso anno l’offensiva in Myanmar lanciata contro i Rohingya conteneva in maniera inequivocabile la convinzione che ci sarebbe stato un criticismo esterno, ma che esso non avrebbe avuto alcun effetto sulla tempistica delle operazioni.

Resta chiaro che i leader politici e militari nelle zone di guerra si curano sempre meno delle condanne per il loro comportamento, considerandole come un piccolo prezzo da pagare per ottenere delle decisive vittorie.

Oggi, le guerre civili durano più a lungo ed è sempre più probabile che si concludano con la vittoria di una parte piuttosto che con un accordo negoziato.
Pur tuttavia gli accordi negoziati non si sono ancora estinti definitivamente. Recenti storie di successo come il processo di pace colombiano mostrano che c’è ancora uno spazio politico per i peacemakers per creare accordi complessi.

In molti casi i mediatori dovrebbero accettare un ruolo meno ambizioso ma ugualmente urgente, vale a dire quello di ridurre i rischi in cui incorrono le comunità e i ribelli nel processo di disarmo o di dislocamento.