Ottobre 18 2015

L’Afghanistan oggi: seconda parte

Afghanistan

L’Afghanistan è oggi territorio di scontro tra i Talebani e l’ISIS per la supremazia della jihad globale.

Akhtar Mohammed Mansoor leader dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan (che conosciamo come i “talebani”), successore del Mullah Omar ex ministro dell’aviazione civile e dei trasporti durante il regime talebano dal 1996 al 2001, ex “governatore ombra” della provincia di Kandhar, manda un messaggio al leader dell’ISIS: Abu Bakr al – Baghdadi chiedendo che lo Stato Islamico combatta sotto la bandiera dei talebani in Afghanistan e porre fine alle divisioni tra i jihadisti in tutto il mondo.

ISIS in Afghanistan

Baghdadi ha stabilito lo Stato Islamico nella provincia di Khorasan lo scorso anno accogliendo tra le proprie fila talebani delusi e comandanti jihadisti. La cosidetta Khorasan region comprende: Afghanistan, Pakistan e parti dell’area circostante queste due nazioni. L’ISIS ha minacciato recentemente i Talebani, ma non si è limitato solo a questo, ci sono stati attacchi ai Talebani nella provincia di Nangarhar in Afghanistan. Recenti dati ci mostrano che più di 17.000 famiglie nel Nangarhar sono andate via a causa della violenza dell’ISIS. Alcune delle peggiori atrocità sono state perpetrate nel distretto di Achin. Entrano nei villaggi chiedendo una lista delle vedove e delle donne non sposate. In alcuni villaggi, l’ISIS ha dichiarato che i matrimoni celebrati e riconosciuti dal governo dell’Afghanistan sono invalidi.

Continuo conflitto tra Al Qaeda e l’ISIS in Afghanistan esacerbato dalla morte del Mullah Omar.

Quando il leader dell’ISIS ha rifiutato l’autorità di Al Qaeda e ha poi dichiarato il Califfato, ha diviso il già frammentato movimento jihadista.

Le 1500 Ulema (i consigli religiosi in Afghanistan) hanno scelto e promesso alleanza alla leadership dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan secondo la sharia. L’argomentazione di Mansoor sull’unità dei jihadisti in Afghanistan prende spunto dal Corano che secondo la sua tesi richiama fortemente all’unità tra i mussulmani e che l’Emirato islamico dell’Afghanistan è stato appoggiato dalla leadership mussulmana così come dal fondatore di Al Qaeda.

La conferma della morte del  Mullah Mohammed Omar alza la posta in gioco per la battaglia per la supremazia jihadista globale tra Al Qaeda e l’ISIS. Omar era la colonna portante del rifiuto di Al Qaeda delle richieste dell’ISIS di alleanza. Primo, perché Al Qaeda aveva già garantito alleanza ad Omar e quindi non poteva farlo anche al leader dell’ISIS. Secondo: Abu Bakr al Baghdadi aveva illegittimamente usurpato il titolo di Amir al Mumineen (comandante del fedele)ad Omar. La morte di quest’ultimo lascia libero chi ha promesso alleanza a lui. Tuttavia né la promessa né il titolo di Amir al Mumineen sono automaticamente ereditati dal suo successore. Il 31 agosto 2015 i Talebani confermano la morte del Mullah Omar ( Taliban officially announce Mullah Omar death), dopo aver celato di fatto la sua morte per ben due anni: Omar era morto il 23 aprile 2013.

Questo fatto aggiunge un altro fattore di attrito. Se è morto due anni fa, la posizione di Amir al Mumineen potrebbe essere stata verosimilmente vacante quando Baghdadi la rivendicò subito dopo la dichiarazione del califfato, distruggendo eleoquentemente l’argomentazione pro – Al Qaeda che l’ISIS ha usurpato l’autorità legittima di Omar. L’annuncio della morte di Omar è un bel punto a favore dell’ISIS che lo sfrutta condannando la mendacità di condurre un’organizzazione divulgando ordini e linee guida in nome di un leader morto in virtù della strategia conosciuta con il nome di: “weekend at Bernie” (il celebre film: il week end con il morto).

Se l’emiro di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri non è anche lui un “Bernie” a questo punto è davanti ad un dilemma. La sua letargica conduzione di Al Qaeda ha diminuito fortemente la sua abilità di sfidare Baghdadi direttamente sulle basi della sua autorità.  A parte la promessa al Mullah Omar, pochi sono gli argomenti contro l’egemonia dell’ISIS: brutalità della tattica, focus settario, mancanza di consultazione con gli altri gruppi di jihadisti al momento della dichiarazione del Califfato.

Zawahiri ha poche opzioni a sua disposizione: continuare ad affidarsi alla sua attuale strategia che sembra sia quella di sperare ardentemente che l’ISIS vada semplicemente via, non pare la più efficace.

La battaglia tra Al Qaeda e l’ISIS ha poco a che fare con la legittimazione da un punto di vista tecnico o con la giurisprudenza, ma piuttosto con l’anima dell’intero mondo jihadista.  La morte del Mullah Omar ha colpito Al Qaeda nei due emisferi e fornisce una via conveniente per quei sostenitori irrequieti che hanno resistito finora al richiamo dell’ISIS. Il supremo comandante dell’ISIS nel Khorasan è Hafiz Saeed Khan che era un membro dei Talebani pakistani. Con i suoi guerriglieri è scappato in Afghanistan dopo che le forze regolari del Pakistan hanno condotto un’offensiva nella aeree tribali, proprio quest’anno.

Cosa si potrebbe fare?

Sfruttare questa divisione del movimento jihadista, diminuendo la minaccia, indebolendolo. Questa guerra interna va contro quello che rivendica l’intera organizzazione e se diminuisce la presa sui volontari jihadisti perché sentono di star combattendo una guerra fratricida piuttosto che il regime di Assad, gli americani, gli sciiti o qualsiasi altro nemico, allora inizieranno i guai seri. Sfruttare la mutevolezze della fedeltà. Saaed non è un caso isolato. L’altra faccia della medaglia di questa guerra intestina al movimento jihadista è che la violenza contro gli Stati Uniti, o più in generale contro l’occidente potrebbe diventare più intensa, dal momento che sia Al Qaeda che l’ISIS vogliono dimostrare che il gruppo è più forte e rilevante dell’altro.

Non ci illudiamo: fare la stampella del governo dell’Afghanistan non è la soluzione per la minaccia che proviene da Al Qaeda e dall’ISIS e meno che mai servirà a impedire che possano verificarsi attacchi da parte delle due organizzazioni in lotta fuori dal territorio dell’Afghanistan. Ricordiamoci che l’attacco a Parigi del gennaio 2015 è arrivato dopo 14 anni di missione internazionale in Afghanistan.

Ottobre 17 2015

L’Afghanistan di oggi: prima parte

Afghanistan oggi

L’Afghanistan oggi è un governo frutto di coercizione diplomatica, un territorio insicuro e un popolazione che oscilla tra i Talebani e il governo di unità nazionale.

Afghanistan: le truppe americane rimarranno per tutto il 2016, parola di Obama! Dunque gli Stati Uniti restano: perché? Molto semplice: nell’ autunno del 2014 il segretario di stato americano John Kerry si rivolge al team di Abdullah asserendo che se non avessero trovato un accordo per un governo di unità, gli Stati Uniti non sarebbero stati più in grado di supportare l’Afghanistan. La dichiarazione di Kerry non era un’offerta che Ghani ed Abdullah potevano rifiutare. Il governo attuale non è certo un trionfo di consenso forse più un caso di studio nel campo della “coercizione diplomatica” e la sua sopravvivenza sarebbe stata in serio pericolo se gli americani si fossero attenuti alla data di completamento del ritiro fissata per la fine del 2016.

L’Afghanistan di oggi è un paese sì, dove ci sono più bambini nelle scuole, più accesso ai servizi sanitari di base che prima dell’invasione del 2001, accesso internet: più connessioni al mondo esterno. Una delle prime cose che ha fatto il nuovo presidente Ashraf Ghani è stata quella di creare un ponte con Islamabad. Differentemente dal suo predecessore, Ghani ha intuito che sarebbe stato meglio essere carino con il suo vicino piuttosto che con New Delhi.
Sia Ghani che Abdullah Abdullah cercano di far funzionare il governo di unità nazionale, ma l’avanzata dei Talebani a Faryab e a Kunduz non si è arrestata per i loro buoni propositi. Politici influenti come Rashid Dostum (vice presidente di Ghani) e Atta Nor (il potente governatore della provincia di Balkh)hanno dichiarato con forza e spesso, che secondo loro, le forze afghane da sole, non sono in grado di mettere in sicurezza l’intero paese.

Da quando gli afghani hanno assunto il controllo della sicurezza del paese nel 2014, più civili sono stati uccisi, più soldati sono morti, più truppe afghane hanno disertato come mai prima e le forze di sicurezza stanno ancora torturando un terzo dei loro prigionieri. Secondo gli americani le vittime civili sono il risultato di “impegni di terra” tra gli afghani e gli “insorti” costituiscono l’8% dei primi tre mesi del 2015 comparati allo stesso periodo del 2014. L’ultimo rapporto di UNAMA (http://unama.unmissions.org/)ci dice che nella prima parte del 2015 le forze afghane hanno causato più vittime civili di quello che hanno fatto i Talebani. Le forze afghane stanno morendo a numeri da record. Nei primi 5 mesi del 2015, le vittime tra le forze di sicurezza erano del 70% rispetto allo stesso periodo del 2014. Secondo un rapporto americano la più grave lacuna è il fatto che se un soldato non si mostra a lavoro per più di un mese non viene più conteggiato come tale.
La presa di Kunduz, la sesta città più grande dell’Afghanistan, da parte dei Talebani, arriva in un momento inopportuno per il governo di unità nazionale, che ha completato il suo primo anno. Anche se pare che le forze di sicurezza afghane abbiano ripreso molto della città. In verità l’Emirato Islamico dell’Afghanistan ha ufficialmente dichiarato di essersi ritirato dalla città per il bene degli afghani in virtù dei bombardamenti americani sempre più frequenti (Taliban admit Kunduz withdrawl). L’incidente ci pone degli interrogativi circa l’efficacia dello stato afghano, l’approccio allo state – building e il piano americano di ritirare tutte le truppe.
A Kunduz, i Talebani hanno mantenuto con successo l’influenza nei distretti dove per anni hanno goduto del supporto e l’hanno capitalizzato in uno sforzo concertato per espandere la loro influenza al punto che i combattenti talebani si sono trovati essi stessi all’ingresso della città. La presa di Kunduz non è stata sviluppata notte tempo e la minaccia alla città richiederà di più che operazioni militari. Kunduz è un microcosmo dell’Afghanistan con parti uguali di tagiki, uzbeki, pashtun così come minori proporzioni di turkmeni e hazari. La provincia è una delle più stabili economicamente, baciata da una fertile agricoltura e da depositi di minerali e non da ultimo, importante crocevia logistico. Non solo è la principale via est – ovest tra le aeree del nord e lungo la via principale nord – sud verso Kabul, ma la sua frontiera con il Tagikistan fornisce una via di traffici illegali redditizia verso il centro Asia.
Importante sottolineare che i semi che hanno poi dato vita agli eventi a Kunduz sono stati piantati ben prima che il governo di unità  entrasse in carica.

Cosa si potrebbe fare?

Quello che deve necessariamente porre in essere questo governo è una politica bilanciata, assicurando un’equa distribuzione tra tutte le circoscrizioni elettorali etniche. Kunduz ci dimostra che la diversità per amore della diversità non solo può provarsi inefficace ma anche pericolosa e contro – produttiva. Come dicevamo la divisione del potere tra Ghani e Abdullah è il prodotto di una considerevole pressione diplomatica americana. Tutti gli accordi di divisione di potere sono fragili, particolarmente nelle condizioni di una guerra in corso. La maggior parte di questo genere di accordi in conflitto e post – conflitto arriva in gran parte attraverso la pressione internazionale e l’Afghanistan non fa eccezione. Gli Stati Uniti premettero su Karzai per anni e non ottennero buoni risultati. Hanno usato la pressione diplomatica per i meccanismi di divisione di potere anche in Bosnia e in Iraq ma con risultati pessimi. La vera domanda è: quanto questi accordi funzionano?  Non è possibile dare una risposta generalista. In Afghanistan Ghani e Abdullah erano i migliori candidati, si sono mossi nella direzione giusta nelle relazioni con il Pakistan. Superato il grande problema della composizione del governo, cercando le persone meno compromesse da reti di relazioni intrecciate con signori della guerra, fondamentalisti islamici, lo stato afghano ha necessariamente bisogno della stampella degli Stati Uniti per non sgretolarsi.
Il vero e unico problema, che ci ha mostrato Kunduz è la minaccia dei Talebani che oltre a costituire un pericolo per la sicurezza dello stato, affrontano una guerra con lo Stato Islamico per la leadership della jihad globale. Argomento questo che sarà oggetto del prossimo post. SEGUITEMI.

Ottobre 10 2015

Nobel per la pace alla società civile tunisina

Premio nobel per la pace 2015 alla società civile tunisina: due sindacati, la lega per i diritti umani e l’ordine degli avvocati ci raccontano una storia di democrazia. La società civile tunisina chiave di volta del processo di trasformazione politica.

“Il 9 ottobre 2015 il premio nobel per la pace è stato assegnato al quartetto tunisino”. Questa la notizia che hanno diffuso in Italia. Quartetto di archi, quartetto di cosa? Il quartetto per il dialogo nazionale tunisino, elementi della società civile tunisina.

Facciamo chiarezza.

Formato nell’estate del 2013 in piena rivoluzione dei gelsomini. Permettetemi di ricordare come iniziò questa rivoluzione. Mohammed Bouazzi, 26 anni, protestando per la corruzione del governo si diede fuoco fuori dagli uffici del municipio nella città di Sidi Bouzid. Questo ragazzo aiutava la propria famiglia vendendo frutta su un carretto, s’infuriò perchè funzionari locali pretendevano tangenti e gli confiscavano ripetutamente la merce. Il suo sacrificio simboleggia l’ingiustizia e le dure condizioni economiche in cui versavano molti tunisini sotto il regime di Ben Ali; ispirò le proteste che si estesero a tutto il paese contro la disoccupazione, la povertà e la repressione politica.

Chi fa parte del Quartetto?

L’Unione generale del lavoro tunisino assume le redini della creazione di un’alleanza della società civile. Il suo leader Houcine Abbassi, convinse il suo storico rivale: la Confederazione tunisina dell’industria, commercio e artigianato ad unire le forze. Poi si aggiunsero la Lega per i diritti umani tunisina e l’ordine degli avvocati tunisino.

Perché è così importante?

La storia della Tunisia è quella dell’abilità di attori estranei al processo politico standard di entrare nel processo e servirlo come mediatori o critici ovvero entrambi. L’Unione generale del lavoro tunisino che conta più di mezzo milione di iscritti (il 5% della popolazione totale), una branca in ogni provincia e 19 organizzate a seconda dell’attività, penetra la società fino alle radici. La sua influenza economica unita all’estesa esperienza di mediazione e negoziazione acquisita attraverso le trattative giocarono un ruolo cruciale nel 2013.

Questa storia ci insegna che il ruolo della società civile è cruciale per la trasformazione politica. Malgrado quello che pensano i grandi seduti nelle loro comode poltrone a New York nel palazzo di vetro, la società civile conta parecchio, soprattutto perché si tratta proprio di quelle stesse persone il cui destino è appeso al filo di un processo di trasformazione. La road map del Quartetto raggiunta in mesi e mesi di negoziazioni anche aspre, combinava la legittimità elettorale (solo i partiti eletti all’Assemblea Costituente erano invitati a partecipare all’accordo per il Dialogo Nazionale) e il consenso della legittimità: ogni partito aveva due rappresentanti, indipendentemente dalla grandezza del partito,  preservando le istituzioni governative (l’Assemblea non fu sciolta) mentre si modificavano le loro funzioni.

Questa è una vera storia di democrazia nel vero senso della parola. Una storia ONESTA di un dialogo nazionale promosso dagli stessi tunisini e non imposto da zelanti burocrati occidentali. Una storia in cui si è deciso il destino di un popolo non nelle stanze chiuse di partiti, storia da cui l’Italia dovrebbe prendere esempio. Peccato che il nostro presidente del consiglio pensa solo ad attaccare le organizzazioni sindacali e che si è dimenticato totalmente dell’esistenza della società civile, giacchè decide tutto lui. Attenzione perché Ben Ali non è più al suo posto proprio grazie a loro.

 

Ottobre 8 2015

In Siria non c’è solo l’ISIS.

In Siria la minaccia estremista non arriva solo dall’ISIS. Anche se fa comodo pensarla così, ci sono almeno nove gruppi di estremisti attivi presenti attualmente in Siria.

Tutti fissati con questo bombardare l’ISIS in Siria, tutti convinti di questa grande idea risolutiva. Vi siete mai chiesti se l’ISIS è l’unico gruppo di estremisti in Siria di cui avere paura? Ecco allora un quadro generale dei gruppi di estremisti di matrice islamica o se preferiti di terroristi, presenti in Siria che combattono Bashar al – Assad. Ricordiamo che Assad non si è mai fatto alcuno scrupolo a bombardare il mercato pieno di civili, usare armi chimiche, non lo considerate un santo, lui sulla via di Damasco folgora nel vero senso del termine i suoi cittadini.

estremisti Siria

Ahrar al-Sham: (conosciuta anche come Harakat Ahrar al-Sham al-Islamiyya, oppure Islamic Movement of the Free Men of the Levant) è uno dei più grandi gruppi appartenenti al Fronte Islamico, un’organizzazione di militanti islamici sunniti che combattono contro il regime di Assad. Creata alla fine del 2011,  per prima è emersa come una significativa forza sul terreno siriano nel gennaio del 2012. Molti dei membri fondatori di Ahrar al – Sham, incluso il comandante: Hassan Aboud, erano ex prigionieri politici del regime rilasciati nel maggio del 2011 a seguito dell’amnistia atta a placare le proteste religiose nel periodo in cui la primavera araba iniziava a minacciare i governi regionali. Originariamente il quartier generale era a Idlib,ma nell’estate 2013 conduceva operazioni in tutto il paese. Nel febbraio 2014 il dipartimento Americano di Intelligence ha classificato Ahrar al – Sham come uno dei tre gruppi di ribelli più efficaci in Siria. Così come tutti i più forti gruppi militanti in Siria, Ahrar al – Sham mantiene relazioni con la popolazione fornendo servizi di base nelle città che controlla. Mentre il suo obiettivo sarebbe quello di un governo basato sulla Shariah, è visto come un’alternativa moderata ad al – Nusra e all’ISIS. Riceve finanziamenti dalle reti di islamisti del golfo persico ed è supportata dal Qatar. Lo sceicco Hajjai al – Ajami, un prominente raccoglitore di fondi era nel 2012 uno dei donatori chiave. Gli sforzi umanitari sono stati sponsorizzati della Turkish Humanitarian Relief Foundation and Qatar Charity. E’ la forza di opposizione con miglior equipaggiamento. Mantiene dei contatti con la leadership di Al Qaeda, mentre il gruppo non ha mai ufficializzato una partnership con loro.

Al Qaeda: emersa dal movimento mujahidden che opponeva gli jihadisti contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1970. Osama Bin Laden arrivò in Afghanistan per unirsi alla guerra nel 1980. Figlio di un uomo d’affari saudita estremamente ricco, diventò un importante membro della jihad fornendo fondi al movimento. Nell’arco dell’occupazione, lavorò con un prominente religioso palestinese Abdullah Azzam per creare un gruppo chiamato Mektab al – Khidmat (Bureau of Services) che incanalava jihadisti in Afghanistan. Nella metà degli anni 80 il leader dell’Haqqani Network (HN), Jalaluddin Haqqani, garantì a bin Laden territori sulla regione montuosa tra l’Afghanistan ed il Pakistan. Bin Laden così stabilisce una presenza nella regione e costruisce campi di addestramento che diventeranno campi di elite per i mujahidden arabi – afghani. L’organizzazione assume il nome di Qa’ida al-‘Askariyya, ovvero “the military base”. In tutto lo sviluppo di Al Qaeda(AQ), HN continua a servire come un facilitatore, fornendogli addestramento, esperienza di combattimenti e risorse, creando luoghi sicuri per i jihadisti e facilita la creazione della rete tra AQ e altri gruppi. La CIA e l’Arabia Saudita incanalavano assistenza finanziaria verso gruppi di mujahidden attraverso l’ Inter-Services Intelligence Directorate (ISI) pakistano per tutta l’occupazione sovietica e sebbene sia i leader di AQ che i membri della CIA negarono che AQ ricevesse finanziamenti americani, alcuni conti ci dicono che più di 600 milioni di dollari in finanziamenti americani sono andati ai mujahidden che hanno lavorato vicino a bin Laden. Sunniti, l’obiettivo di AQ è quello di sradicare l’influenza occidentale nel mondo islamico, distruggere Israele e creare uno Stato Islamico che si dipana dalla Spagna all’Indonesia che impone strette interpretazioni sunnite della legge Shariah. Tuttavia, non tutti i membri di AQ e i suoi affiliati si trovano concordi sulle stesse leggi. Alcuni arguiscono che gli sciiti sono apostati, disaccordo che ha causato parecchie tensioni tra AQ e i suoi affiliati, una per tutte: AQ in Iraq uccide gli sciiti in Iraq in palese contrasto con le istruzioni di bin Laden in proposito. Inizialmente si pensava che bin Laden finanziasse personalmente la maggior parte delle attività di AQ, invece è stato scoperto che le donazioni private finanziano più di 30 milioni di dollari l’anno. Alcune organizzazioni benefiche come Al Wafa sono guidate interamente da membri di AQ e canalizzano direttamente fondi al gruppo terroristico. Il reclutamento avviene per la maggior parte attraverso tribù locali in Pakistan ed Afghanistan: si offrono tra i 1,000 e i 1,500 dollari al mese per nuove reclute più numerosi benefit e vacanze in cambio di lealtà e segretezza. All’inizio del 2014, lo Stato Islamico (IS) ha sfidato AQ per la dominanza del movimento jihadista globale e alcuni gruppi hanno iniziato a giurare alleanza all’IS in molti casi rimpiazzando cosi la loro affiliazione ad AQ. Soprattutto è il caso di Boko Haram che precedentemente affiliato ad AQ, giura alleanza al leader dello Stato Islamico nel marzo di quest’anno. Controversie sulle alleanze ha causato la frantumazione di alcuni gruppi in cui alcuni membri si sono alleati con AQ e altri con Baghdad, leader dell’IS. Nominiamo alcuni affiliati di AQ, per dare un’idea del fenomeno.
Al Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM): gruppo sunnita basato in Algeria che supporta la creazione di uno stato islamico e il rovesciamento del governo algerino.
Al Qaeda in Yemen (AQY) : affiliato di AQ nello Yemen.
Al-Qaeda nella penisola araba (AQAP): organizzazione estremista di sauditi e yemeniti, considerata una delle più grandi minacce terroristiche dagli Stati Uniti, regolarmente attacca gli interessi degli Stati Uniti in contemporanea alla sua guerra contro il governo saudita e alla partecipazione della guerra civile in Yemen.
Al Qaeda in Iraq (AQI): la prima organizzazione affiliata accettata formalmente da AQ e l’unica annunciata personalmente da bin Laden.
Al Qaeda Kurdish Battalions (AQKB): fondata nel 2007 attraverso la fusione di alcune organizzazioni terroristiche curde. Opera lungo il confine tra l’Iran e l’Iraq.

ANSAR AL-SHAM (KATAIB ANSAR AL-SHAM, “SUPPORTERS OF THE LEVANT BRIGADE”): particolarmente attiva nella distribuzione di aiuti umanitari e nel funzionamento delle scuole nelle aree che controlla. Membro fondatore dell’ Fronte Islamico, ma il più piccolo. Salafiti e sunniti, il loro obiettivo è quello di rovesciare il regime di Assad e stabilire uno stato islamico sunnita. Diversamente dagli altri gruppi di opposizione, specialmente quelli del Fronte Islamico, non ci sono chiare rivendicazioni ideologiche attribuibili al gruupo. Molti appartenenti all’organizzazione sono locali. Ci sono evidenze che l’Arabia Saudita li supporti finanziariamente.

Hezbollah: organizzazione militante politica sciita basata in Libano. Secondo il manifesto del 1985 gli obiettivi originari erano: distruggere Israele, espellere l’influenza occidentale dal Libano e più ampiamente dal Medio Oriente e combattere i nemici all’ interno del Libano, particolarmente il Phalanges party. Un nuovo manifesto del 2009 riflette cambiamenti del ruolo dell’organizzazione in Libano dal 1985: più enfasi  all’unità nazionale,denunci del settarismo, continuando a sottolineare l’obiettivo di liberare la Palestina, l’opposizione agli Stati Uniti e l’impegno a combattere l’espansione e l’aggressione di Israele. L’obiettivo di proteggere il regime di Assad, un alleato chiave nella regione, si è unito alla lotta a sostegno del governo in Siria. L’Iran è una risorsa chiave di finanziamento dell’organizzazione il cui ammontare varia dai  60,000 ai 200 milioni di dollari all’anno. Il governo siriano ha giocato un ruolo chiave come strada di rifornimento di armi dall’Iran ad Hezbollah.

Al – Nusra Front: conosciuto come Nusra Front ovvero Jabhat al – Nusra: formato verso la fine del 2011, la prima forza siriana a rivendicare gli attacchi che uccisero i civili. La loro reputazione tra i ribelli siriani è così forte che quando gli Stati Uniti li designarono come organizzazione terroristica nel dicembre 2012, un discreto numero di gruppi anti governativi incluso alcuni del Free Syrian Army protestarono. Nell’estate del 2014, l’ISIS spinge fuori dalle roccaforti di Deir Al – Zor al – Nusra e alcuni suoi alleati, zona di giacimenti di petrolio, importante risorsa e guadagno per al – Nusra. Nel 2012 un gruppo di veterani di AQ conosciuto come “Khorasan Group” arriva nei territori siriani controllati da al – Nusra ed usa questi spazi per sviluppare piani di attacchi internazionali. Nel settembre 2014 il governo statunitense annuncia che in aggiunta agli attacchi aerei contro l’ISIS l’obiettivo sarebbe stato anche la cellula Khorasan, ripensandoci poi nel novembre dello stesso anno, asserendo la possibilità di espandere gli attacchi ad Al – Nusra in generale. Obiettivo dell’organizzazione di estremisti: rovesciare il regime di Assad e rimpiazzarlo con uno stato islamico sunnita. Una grande porzione delle risorse di Al – Nusra arriva da oltremare incluso gli esplosivi e le armi. Secondo solo all’ISIS, Al – Nusra attrae la maggior parte dei foreign fighters tra i ribelli in Siria. Arrivano dal Medio Oriente, ma anche dalla Cecenia e dagli stati Europei, con un piccolo numero da paesi come l’Australia o gli Stati Uniti.

Jaish al-Islam: è il risultato della fusione tra una cinquantina di gruppi di opposizione islamista basati a Damasco, cosa che li ha resi la forza ribelle dominante a Damasco. Finanziati dall’Arabia Saudita che ha iniziato l’unificazione dei gruppi per comporre Jaish al – Islam nel tentativo di opporre l’influenza di AQ e dei suoi affiliati a Damasco.  L’Arabia Saudita ha agito come un avvocato/intermediario dell’organizzazione, chiedendo con grande urgenza agli Stati Uniti di rifornire il gruppo con missili anti carro e anti aereo ed incoraggiando Jaish al – Islam ad accettare l’autorità del Consiglio Supremo militare un affiliato del Free Syrian Army.

Settembre 29 2015

I soldi dell’ISIS

L’ISIS guadagna due milioni di dollari. Conoscere e interrompere la loro rete di finanziamento sembra essere più razionale che tirare bombe in Iraq e Siria.

Il terrorismo (sia internazionale che nazionale) è come ogni altra forma di crimine organizzato, altamente determinato e calcolatore. Molta della forza delle organizzazioni terroristiche risiede nell’ interdipendenza, in particolar modo quella economica, che essi instaurano tra loro stessi e le regioni in cui operano. Diventando parte integrante di una regione i loro crimini  vengono sfruttati in maniera tale da generare profitto.

Il denaro “sporco” è un grande potere. Estorsione, assassini, rapimenti, traffico di esseri umani, contraffazione,  il commercio della droga e di opere d’arte (per dirne alcune) valgono una considerevole quantità di denaro. Questo contraddistingue il terrorismo internazionale come una vera e propria azienda che fa affari e anche con un considerevole successo.

Molti dei nomi di gruppi terroristici che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni ha mantenuto un alto livello di gioco di potere proprio attraverso robusti finanziamenti. E’ il supporto finanziario che si procurano attraverso affiliati che contribuisce al fiorire di questo giro di affari.

Partendo dal presupposto che è difficile tracciare somme di denaro che sono intese per non essere rintracciate e che per questa ragione molti dei soldi che appartengono alle organizzazioni terroristiche costituiscono una stima dei loro guadagni , vediamo chi sono i gruppi terroristici più ricchi al momento.

  • Boko Haram: oltre 70 milioni di dollari. Gruppo nigeriano che combatte per rovesciare il governo nigeriano per implementare un regime islamista. Ci ricordiamo forse che hanno sequestrato più di 200 ragazzine in una scuola della Nigeria in difesa di un loro slogan: “l’educazione occidentale è peccato”.
  •  Al-Qaeda: oltre 100 milioni di dollari all’ anno. Più di 30 milioni di dollari li ha avuti attraverso donazioni. Bin Laden era un multimilionario.
  • ISIS: 2 miliardi di dollari.

Per farci un’idea di come l’ISIS possa fatturare una tale somma di denaro vediamo brevemente da dove arrivano questi soldi.

Considerevoli somme provengono dal saccheggio di depositi di armi e di banche. Per mantenere la sua economia “nera”, l’ ISIS opera come una catena base di rifornimento compresa la predisposizione e implementazione di accordi con i proprietari dei camion che trasportano il greggio così come il controllo dei percorsi dei traffici di petrolio. Il greggio, sotto il loro controllo in Iraq e in Libia, è inviato a rudimentali raffinerie sotto controllo ISIS  (cosa che richiede un rifornimento sostenibile) tale per cui poi l’ISIS è in grado di vendere il prodotto raffinato. L’ ISIS fa inoltre affidamento anche su prodotti petroliferi trafficati illegalmente dal sud Turchia in cambio di greggio.

Chiariamo che l’impatto del controllo dell’ISIS sul commercio illecito di petrolio dal Nord Iraq e Est Siria non ha un significativo impatto sulle forniture del mercato globale di petrolio nel breve e medio termine. Questo perché il principale giacimento di petrolio nel nord dell’Iraq, a Kirkuk, che produceva approssimativamente 600,000 barili al giorno prima che fosse spento nel 2014, riacceso a dicembre a seguito di un accordo tra Baghdad e il governo regionale curdo è sotto protezione delle forze curde. Il resto della produzione di petrolio irachena che costituisce circa l’80% della produzione totale, è locata nel sud e continuerà ad essere disponibile  vista la distanza dei territori controllati dall’ISIS.

Ogni impedimento continuativo da parte dell’ISIS di bloccare gli sforzi governativi di raggiungere l’obiettivo di produrre 9 milioni di barili al giorno per il 2020 avrà un impatto deleterio sull’ abilità del mercato internazionale di petrolio  di prevedere e pianificare la disponibilità di rifornimenti di petrolio globali.

Il controllo e la vendita di petrolio rendono all’ISIS qualcosa come 1 milione di dollari al giorno.

I seguaci dell’ISIS sono stati perfettamente in grado di sviluppare una rete interna dedicata al sostegno finanziario e l’auto – sufficienza unitamente all ’indipendenza da potenziali donatori esterni vulnerabili.

Estorsione e tassazione illecita costituiscono una significativa fonte di guadagno. Prima della cattura di Mosul, l’ISIS già guadagnava circa 12 milioni di dollari al mese soltanto nella città. Ciò è stato replicato, in maniera più organizzata, nel territorio controllato dall’ISIS e ufficiosamente anche in aree di parziale influenza. Per fare un esempio: è stato sviluppato un sofisticato sistema di tassazione sulla via principale tra la Giordania e Baghdad che rimpiazza la tassa governativa di importazione facendo pagare tasse ridotte per il trasporto dei beni nella capitale irachena. Il sistema d’affari dell’autotrasporto lungo l’Iraq occidentale è principalmente controllato dai sunniti per cui, imponendo minori tasse, l’ISIS guadagna un entrata regolare e offre ai suoi garanti un’ opportunità di aumentare i loro guadagni. Sistemi  simili ci sono anche nell’est della Siria, con questo doppio focus nel guadagnare denaro e contemporaneamente comprarsi il favore delle tribù su cui l’ISIS fa affidamento per la sua sopravvivenza nella società.

Finora ci si è concentrati sulla circostanza che l’ISIS è particolarmente dipendente dal vendere il petrolio a clienti stranieri (Turchia, Kurdistan iracheno, Giordania per fare alcuni nomi). Invece non esiste un focus di mercato, l’ISIS si è progressivamente concentrato nello stabilire un durevole mercato interno per la produzione di petrolio, assicurandosi un’affidabile fonte di carburante per il suo parco veicoli e creando una fonte di dipendenza tra i civili e la sua capacità di fornire petrolio a prezzi inferiori.

Tutto ciò detto, ribadisco l’inutilità degli attacchi aerei che hanno avuto come obiettivi il petrolio alla sua fonte, piuttosto che i suoi mezzi di trasporto ovvero la vendita. Qualcuno lo compra questo petrolio, qualcuno fa passare i camion su strade e siamo così ingenui da credere che siano invisibili.

Ritengo che sia un punto importante il fatto che centinaia di membri ISIS abbiano un passaporto occidentale. Questo li rende portatori di interessi di servizi finanziari, legali, di sviluppo di proprietà. Controlli e legislazioni più rigide sul riciclaggio di denaro potrebbero sostituire le bombe che cadono inesorabili su territori oramai ridotti a cenere. Verificare che paesi come il Qatar e l’Arabia Saudita implementino seriamente quelle poche norme che hanno varato contro il terrorismo finanziario, sarebbe molto meglio che litigare su chi si unisce alla carovana dei bombaroli.

Settembre 27 2015

Attacchi aerei in Siria: ce ne accorgiamo solo ora?

Dopo 7,002 bombardamenti tra Siria e Iraq, l’opinione pubblica si accorge degli attacchi aerei e nessuno condanna una coalizione di bombaroli inutile e dannosa.

Questa notizia che viene rimbalzata ovunque come lo scoop del secolo, della Francia che ha iniziato attacchi aerei in Siria contro obiettivi riconducibili allo Stato Islamico o ISIS (nell’acrononimo più diffuso) mi fa veramente incazzare. Primo perché non si impara dalla storia, non basta l’emergenza umanitaria in Siria no, si deve ancora bombardare e le bombe non sono intelligenti e se lo fossero certo chi le sgancia non lo è affatto.

Secondo, una coalizione che conduce attacchi aerei (non da ieri) esiste già da un po’ e nessuno ne ha mai parlato.

La coalizione denominata: ” Operation Inherent Resolve” guidata dagli Stati Uniti contro l’ISIS, secondo dati diffusi dal ministero della difesa americano al 22 settembre 2015 ha condotto un totale di 7,002 attacchi aerei, BOMBARDAMENTI così divisi: Iraq = 4, 444; Siria= 2,558. Gli americani da soli hanno compiuto un totale di 5,461 attacchi in entrambi i paesi e specificatamente: 3,304 in Iraq e 2,427 in Siria.

La coalizione invece ne ha condotti: 1,541 di cui 1,410 in Iraq e 131 in Siria.

Sorprendiamoci ora per la composizione della coalizione:

In Iraq:  Australia, Canada, Danimarca, Francia, Giordania, Olanda e Gran Bretagna 

In Siria: Australia, Bahrain, Canada, Giordania, Arabia Saudita, Turchia e Emirati Arabi Uniti

Per chi ha la memoria corta la Francia è stato il primo paese ad unirsi alla coalizione a guida americana conducendo attacchi aerei su obiettivi riconducibili allo Stato Islamico (ISIS) in Iraq. La Francia, inoltre, ha fornito armi a quello che IL GOVERNO FRANCESE considera ribelli moderati che combattono il regime del presidente Assad. 

Il rationale degli americani per gli attacchi aerei in Siria è il seguente: “siccome forniamo supporto e addestramento alle forze siriane è sensato fornire anche una copertura aerea contro ogni attacco”.
Partendo dal presupposto che in Iraq la questione fu diversa perché ci fu il consenso del governo agli attacchi contro obiettivi dell’ ISIS, è veramente dubbia la legalità di questo genere di operazioni in Siria. Gli Stati Uniti tirano la coperta dell’autorizzazione all’uso della forza militare del 2001 che secondo loro li legittima ad attaccare lo Stato Islamico, ma seppure vogliamo tirare questa coperta si scoprono i piedi del diritto internazionale dove non trova giustificazione l’attacco armato in un paese violando peraltro la carta delle Nazioni Unite. Può darsi che a me sia sfuggita la risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizza l’uso della forza in Siria.

Ridicolo è poi l’attacco dell’ “occidente” alla Russia che in Siria pare abbia mandato i propri soldati in difesa di Assad. Certo è deprecabile la Russia che manda soldati e non chi bombarda. La tragedia di questi attacchi aerei è che non risolvono nulla. La situazione in Siria è questa: http://www.barbarafaccenda.it/siria-il-vostro-tavolo-da-gioco/ e l’idea che il nemico sia sempre e solo l’ISIS è  confezionata unicamente per mettere a tacere le proprie opinioni pubbliche. In nemico giurato ora sono loro, cosa importano i danni collaterali, cosa importa non trovare una soluzione, l’importante è annientarli. Radiamo al suolo tutto e diamo l’impressione ai nostri cittadini che noi stiamo facendo qualcosa di buono. Questo è in soldoni quello che pensa la Francia e tutti quelli che hanno aderito a questa folle coalizione. Bombardare la Libia con la scusa della responsabilità di proteggere fu un disastro e il risultato ce lo abbiamo sotto gli occhi, ma questo non basta perché fare una conferenza stampa e dire: abbiamo bombardato lo Stato Islamico rende potenti e tutti felici e contenti.

“Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo”. Sun Tzu “l’arte della guerra”.

Settembre 20 2015

Libia: situazione politica

La complessità della situazione politica in Libia tra colloqui di pace svolti fuori dalla Libia, un accordo di unità nazionale pieno di lacune e la crescente minaccia del radicalismo religioso.

Poco più di mille km da Roma, la situazione politica della Libia è di poco interesse per nostri politici e per la stampa italiana., sottovalutando enormemente  la minaccia che potrebbe emergere da una Libia permanentemente instabile.
La situazione in Libia, merita un sunto di quello che è successo finora perché evidentemente ci siamo dimenticati cosa accade in un paese che quando fa comodo è l’amico del cuore dell’Italia, quando non fa comodo perché i nostri politicanti non hanno neanche idea di cosa fare allora via, la mettiamo fuori da ogni tipo di informazione.
La guerra civile libica è iniziata con proteste contro il regime di Gheddafi, durate dal 15 febbraio al 23 ottobre 2011 e finite con la morte di Gheddafi e la vittoria delle forze pro – opposizione. Gruppi di attivisti denunciarono il numero delle persone uccise: da 30,000 a 50,000, molti di questi erano civili le cui morti erano state causate dalle forze di Gheddafi. Questi numeri sono stati dimenticati in fretta.
Dopo la fine delle guerra, fu formato un governo ad interim (National Transitional Council) nel novembre 2011 e nel luglio 2012 viene eletto il General National Congress (GNC). Tuttavia, quello che seguì fu un diffuso collasso dell’ordine e una cronica mancanza del rispetto della legge di cui approfittarono gli ex gruppi di ribelli che conquistarono il controllo a livello locale. Molti di questi gruppi rifiutarono di allearsi con un comando militare unificato, riferendo invece a consigli militari locali che divennero dei governi locali de facto. Le milizie rivali frequentemente si scontravano l’un l’altro per il controllo del territorio, mentre omicidi per rappresaglia, furti, travolgevano la popolazione locale. 7.000 persone accusate di essere sostenitori di Gheddafi, la maggior parte civili (compreso donne e bambini), rimasero in prigione e furono torturati. Si formò un gruppo armato pro – Gheddafi chiamato Green Resistance che combatteva contro altri gruppi di ribelli.
La proliferazione delle armi divenne un grande problema: molti dei depositi di armi dell’era Gheddafi furono saccheggiati. L’influsso di armi in mani private ebbe effetti ben al di là delle frontiere della Libia, contribuendo ad irrobustire le capacità dei separatisti che presero il controllo del Mali nel 2012, così come di estremisti religiosi.
In questo periodo, il radicalismo religioso cresce e l’11 settembre 2012, estremisti attaccano il Consolato americano a Benghazi, uccidendo 4 americani. Tra i morti l’ambasciatore americano Stevens e due agenti della CIA.
Le forze islamiste e non, si sono contestate a lungo su chi fosse il legittimo “cuore” della rivoluzione del 2011. Le fazioni islamiste come il Partito Justice and Construction legato alla Muslim Brotherhood e il Loyalty to the Martyrs Bloc hanno dominato il GNC fino all’estate del 2013, quando l’aver approvato forzatamente la Political Isolation Law che di fatto espelleva tutti i membri dell’ex regime di Gheddafi (anche quelli che avevano combattuto contro il regime) dalla partecipazione nel governo per 10 anni. Alcuni membri più secolari come l’Alliance National Forces furono susseguentemente cacciate dal GNC. Sia per strategia che per conseguenza, le forze armate furono costrette a rimanere ai margini mentre il GNC autorizzava le milizie islamiste, sia ufficialmente e che semi- ufficialmente, a mettere in sicurezza il paese. Milizie non – islamiste basate a Zintan che si opponevano al Political Isolation Law, minacciarono di dissolvere il GNC.
Il 23 dicembre 2013 l’autorità legislativa della Libia: il GNC, unilateralmente estese il suo mandato di un anno basandosi sull’ interpretazione della Dichiarazione Costituzionale del 2011. Così si rifiutarono di tenere nuove elezioni previste per il gennaio 2014. A seguito di ciò, ci furono proteste pubbliche contro il GNC. Il malcontento originava da una presunta dominanza all’ interno dello stesso dei religiosi conservatori, soppressione dei dibattiti “non convenienti” e l’imposizione della segregazione di genere, pressando per l’introduzione di leggi islamiche come base ufficiale della legge nazionale.
Entra ora prepotentemente sulla scena il Generale Haftar. Brevemente vi spiego chi è. Insieme a Gheddafi era parte dei quadri di giovani ufficiali dell’esercito che presero il potere al Re Idris nel 1969. Gheddafi ripaga la sua lealtà dandogli il comando del conflitto contro il Ciad. Nel 1987 Haftar e 300 dei suoi uomini furono catturati dai ciadiani. Avendo precedentemente negato la presenza di truppe libiche nel paese, Gheddafi rinnega il generale. Tradimento che è causa due decadi più tardi della dedizione del generale alla deposizione del leader libico. Di tutti i posti del mondo Haftar si dedicò alla causa dall’esilio nello stato americano della Virginia. La sua prossimità al quartier generale della Cia a Langley diede adito a parecchie voci circa uno stretto rapporto con i servizi di intelligence americani che pare gli diedero il supporto in diversi tentavi di assassinio di Gheddafi.
La mattina del 16 maggio 2014, le forze sotto il comando del generale Haftar (che lui chiamò Operation Dignity) attaccarono le milizie più radicali dentro e intorno a Benghazi, dando la scintilla a quella che ora qualcuno chiama la seconda guerra civile libica. Il 25 giugno, si tennero nuove elezioni legislative per il Consiglio dei Deputati (anche conosciuto come House of Representative). Nazionalisti e liberali vinsero la maggioranza dei seggi nelle elezioni. Tuttavia, il blocco dei religiosi conservatori si autoproclamo il nuovo GNC, formato da politici che erano la parte perdente delle elezioni e si approfittarono del supporto della coalizione di milizie conosciuta come Libya Dawn per prendere il controllo della capitale: Tripoli. Subito dopo, l’appena eletto Consiglio dei Deputati (HoR) mosse la sede nella città dell’est: Tobruk con il supporto del generale Haftar. Nel corso dell’anno successivo, il GNC mise la propria base di potere nella parte occidentale del paese, controllando Tripoli, Misrata e Zliten e altre città. Invece l’ HoR che “guadagnò” il riconoscimento internazionale si stabilì nell’est e nel sud del paese con la sua capitale de facto a Tobruk, controllando la maggior parte degli oleodotti del paese. Forze alleate controllano anche delle citta nelle montagne a sud ovest di Tripoli. Una forza di guerriglieri Tuareg, alleate a Libya Dawn, prese controllo del pezzetto sud occidentale della Libia, contestandosi la più grande città: Sabha con i combattenti Tebu allineati al governo di Tobruk. Forze locali presero il controllo della fortezza di Gheddafi: Bani Walid.
Lo Shura Council dei Rivoluzionari di Benghazi, una coalizione di milizie di gruppi religiosi radicali prese il controllo di parti est della città di Derna e continuarono a contestare Benghazi con le forze di Operation Dignity (Haftar). In questo periodo la Libia ha assistito all’entrata del così detto Stato Islamico, che inizialmente si è stabilito a Derna, ma fu successivamente cacciato dallo Shura Council. Poi presero il controllo della città di Sirte, la città di Gheddafi, e l’area che la circonda, dopo aver espulso le forze del GNC. L’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti hanno condotto bombardamenti aerei in diverse occasioni sia contro il GNC che contro l’IS, in supporto del governo di Tobruk, mentre il Qatar e la Turchia danno il proprio supporto al GNC.
Ricapitoliamo quindi alcuni avvenimenti più significativi occorsi dal 2014 al 2015.
13.07.2014: i rappresentanti dei religiosi conservatori, il Libyan Central Shield con un milizia conservatrice alleata decisero di lanciare “Operation Libya Dawn”, una battaglia per il controllo dell’aeroporto di Tripoli (controllato dalle Zintan Brigade alleate ad Haftar). La battaglia continua per più di un mese, mentre la coalizione conservatrice cresce progressivamente, e acquisisce il supporto della Muslim Brotherhood e si fa chiamare Libya Dawn dal nome della sua missione “inaugurale”.
31.07.2014: lo Shura Council of Benghazi Revolutionaries, una nuova coalizione di milizie religiose radicali che include Ansar al – Sharia (il gruppo legato all’attacco del 2012 all’ambasciata Americana) prende il controllo di molta parte di Benghazi. Questo accade il giorno dopo che Ansar al – Sharia dichiara che Benghazi è un “emirato islamico”.
04.08.2014: il nuovo parlamento eletto si riunisce per la prima volta. A causa delle battaglie che si svolgevano a Tripoli e a Benghazi, il nuovo governo si riunisce nella città di Tobruk, ad est, una roccaforte del generale Haftar. Il numero dei rappresentanti nel parlamento scende da 200 a 115.
13.08.2014: il nuovo parlamento vota ufficialmente la revoca dell’appoggio a tutte le milizie, incluso le due parti coinvolte nella battaglia per l’aeroporto di Tripoli.
19-20.08.2014: le città occidentali di Nalut e Kabaw, seguite da Tarhouna, rifiutano l’autorità del nuovo parlamento, dichiarando il proprio supporto alle forze di Libya Dawn che assediavano l’aeroporto di Tripoli. I rappresentati delle maggiori città occidentali, incluso Misrata, Khoms e Zliten esprimono anche loro l’opposizione al nuovo parlamento.
23.08.2014: malgrado i duraturi bombardamenti di misteriosa origine, le forze di Libya Dawn ottengono pieno controllo dell’aeroporto di Tripoli dopo un mese di combattimenti. Il giorno dopo controllano l’intera città di Tripoli, dove esortano il GNC a tornare al potere.
01.09.2014: una settimana più tardi il GNC riconviene parzialmente a Tripoli con il supporto di Libya Dawn e nomina il suo primo ministro: Omar al – Hassi. Hassi diventa diretto rivale di Abdullah al – Thani che era stato scelto per guidare il nuovo parlamento a Tobruk. Il parlamento di Tobruk, appoggiato da Haftar rimane il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite (NU), mentre il parlamento in competizione a Tripoli ha il supporto di milizie che controllano molte parti del paese.
05.11. 2014: i combattenti Tuareg che supportano Libya Dawn, con l’aiuto da Misrata, prendono il controllo del oleodotto di Shararah.
07.01.2015: lo “Stato Islamico” stabilisce ufficialmente una sua branca in Libia.
16.01.2015: Libya Dawn (GNC) dichiara un cessate il fuoco con le forze allineate a Tobruk in vista dei colloqui di pace di Ginevra, supportati dalle NU.
27.01.2015: attacco al Corinthia Hotel di Tripoli da parte di un affiliato dello Stato Islamico.
08.02.2015: guerriglieri allineati allo Stato Islamico rivendicano la cattura di Nawfaliya, una città vicino al terminale dell’oleodotto di Sidra in un combattimento con le forze di Libya Dawn. Nei mesi successivi, il controllo della città resta conteso tra i due gruppi.
11.02.2015: colloqui di pace supportati dalle NU si tengono a Ghadames con l’obiettivo di formare un governo unificato tra il GNC di Tripoli e la HoR di Tobruk.
11-13.02.2015: guerriglieri che dicono di essere membri dello Stato Islamico muovono dentro Sirte, prendendo parti della città senza incontrare alcuna resistenza.
20.02.2015: milizie affiliate allo Stato Islamico fanno esplodere bombe all’interno di autovetture a Qubbah, presumibilmente per una rappresaglia per i bombardamenti egiziani nelle vicinanze di Derna, controllata dallo Stato Islamico.
02.03.2015: il parlamento di Tobruk nomina il generale Haftar come il comandante ufficiale delle forze armate libiche.
03.03.2015: gli impianti petroliferi di Mabrouk e Bahi sono controllati da combattenti religiosi estremisti, presumibilmente riconducibili allo Stato Islamico.
06.03.2015: rappresentanti da Tobruk e Tripoli s’incontrano in Marocco per un altro round di colloqui di pace con una sessione aggiuntiva in Algeria e in Belgio.
24.03.2015: guerriglieri dello Stato islamico attaccano soldati governativi a Sirte e Benghazi, uccidendo sia combattenti fedeli al governo di Tripoli che a quello di Tobruk.
12.04.2015: attacco all’ ambasciata del Sud Corea a Tripoli.
13.04.2015: attacco all ’ambasciata del Marocco a Tripoli da parte di miliziani affiliati allo Stato Islamico.
29.05.2015: militanti dello Stato Islamico prendono il controllo dell’aeroporto a Sirte.
09.06.2015: guerriglieri dello Stato Islamico catturano una centrale energetica a Sirte completando il controllo della città.
27.07.2015: il portavoce del governo di Tobruk asserisce che “tutti gli oleodotti” in Libia sono sotto il controllo delle forze militari governative. Nessuna specifica informazione viene data a proposito dei giacimenti di Mabrouk e Bahi presi a marzo dallo Stato Islamico.
13.08.2015: gruppi di ribelli sudanesi combattono a fianco del Generale Haftar a Kufra.

Settembre 7 2015

Migranti: guida all’uso corretto dei termini

Non è vero che si possono usare termini come migranti, rifugiati, richiedenti asilo indistintamente come fa comodo per attirare l’attenzione.

Bono, noto cantante, ci fa una lectio magistralis su tutti i termini che può ricordarsi, uno dopo l’altro, asserendo che lui li ha letti sul vocabolario (mica ci vuole un minimo di competenza) e sa perfettamente poi elencarli: migrante, rifugiato, richiedente asilo e sa perfettamente applicarli al caso. LUI LO SA. Una cosa che in assoluto detesto più del massacro di Assad al mercato della settimana scorsa è il TUTTOLOGO. Accidenti! Se io mi rompo le scarpe vado dal calzolaio, pago un professionista del mestiere per una cosa che io non so fare. Se voglio riparare un rubinetto chiamo un idraulico: professionista. Bono, come tanti altri del resto, è sicuro che aprendo un vocabolario o wikipedia possa trovare la soluzione a tutti i problemi, ma allora perché fai il cantante? Non voglio ora qui entrare nel merito della sua filantropia perché non è poi così chiara. La questione è che non si può sempre pensare che quando si parla di politica internazionale o di diritto internazionale o di qualsiasi altro ambito che richiede una preparazione scientifica o tecnica  si possa improvvisare. Raccontare una notizia è un fatto, ma esprimere poi pareri tecnici è un altro e ci sono i professionisti per questo. Non è possibile che se si guarda il telegiornale o si legge un giornale ci siano sempre termini a caso usati indistintamente così perché fa figo o perché impressiona l’ascoltatore o il lettore.

Per cui oggi vi propongo un piccolo glossario di termini utile a tutti per destreggiarsi nel mondo dei migranti.

Prima di tutto chiariamo una volta per tutte questo termine. profugo /’profugo/ [dal lat. profŭgus, der. di profugĕre “cercare scampo”] (pl. m. -ghi). – ■ agg. [che è costretto ad abbandonare il proprio paese in seguito a eventi bellici, a calamità naturali, ecc.] ≈ esiliato, esule, fuggiasco, fuggitivo, rifugiato. ↔ rimpatriato. ■ s. m. (f. –a) [chi è profugo] ≈ e ↔ [→ PROFUGO agg.] (dal Vocabolario Treccani). Profugo in inglese si dice: refugee = rifugiato. Quindi vediamo di attenerci a termini internazionalmente riconosciuti e codificati in convenzioni.

La Convenzione di Ginevra sullo Status dei rifugiati del 1951, (resa esecutiva nell’ordinamento italiano con L.24 luglio 1954 n. 722) modificata dal Protocollo di New York del 1967 (autorizzata la ratifica in Italia con L. 14 Febbraio 1970 n.95) ci da una definizione di rifugiato all’art. 1, lett.A, n.2.:”chiunque nel giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trovi fuori dallo stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto stato, oppure chiunque, essendo apolide o trovandosi fuori dal suo stato di residenza abituale in seguito a tali avvenimenti, non può o, per timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.” Definizione che è usualmente impiegata nella prassi ed è ripresa da altri strumenti internazionali, anche se altri se ne discostano e ne accolgono una più ampia, come la Convenzione sugli aspetti specifici del problema dei rifugiati in Africa del 10 settembre 1969 entrata in vigore nel giugno 1974“.ConvGinevra1951

La Convenzione non obbliga lo stato parte a riconoscere una persona come rifugiato, ma obbliga a valutare se possa essergli riconosciuto tale status e nel caso in cui lo Stato glielo riconosca,  è tenuto ad accordare alla persona una serie di diritti. Importante poi è l’art. 33,1 che stabilisce il principio di non – refoulement, cioè il divieto di espellere o respingere verso stati in cui la persona e’ (appunto dopo averlo accertato) a rischio di persecuzione. Il divieto si estende anche al fuori dal territorio, ma entro la giurisdizione dello stato, anche a bordo di navi in alto mare. Ricordiamo che la Corte Europea ha recentemente condannato l’Italia nella sentenza Hirsi c. Italia per aver violato il divieto di espulsione collettiva.

Richiedente asilo: il diritto internazionale generale non prevede l’obbligo di concedere l’asilo territoriale. Il diritto di asilo è enunciato in alcuni strumenti internazionali non vincolanti, è previsto anche dall’art. 10, 3°comma Costituzione italiana.

Determinazione dello status di rifugiato: un procedimento condotto dall’UNHCR o dallo Stato  che determina se un individuo possa essere riconosciuto come un rifugiato in accordo con le leggi nazionali e internazionali.

Refugee in orbit: anche se non ha fatto ritorno direttamente nel paese dove potrebbe essere perseguitato, non si trova uno Stato che voglia esaminare la sua richiesta oppure gli è negato l’asilo e quindi la persona in questione viene mossa da un paese all’altro in cerca di asilo.

Refugee in transit: ammesso temporaneamente nel territorio di uno Stato a condizione di essere rilocato altrove.

Refugee sur place: non erano rifugiati quando hanno lasciato il loro paese di origine, ma  sono diventati rifugiati più in là nel tempo, per esempio per un colpo di stato avvenuto nel loro paese o l’introduzione ovvero l’intensificazione di misure repressive o persecutorie dopo la loro partenza.

Migrante: non esiste una definizione accettata universalmente; il termine usualmente è utilizzato in  tutti i casi in cui la decisione di migrare è presa individualmente per ragioni di “convenienza personale”. Si applica quindi a persone o membri della propria famiglia che si muovono in un altro paese o regione per migliorare le condizioni materiali e sociali.

Migrazione: processo di movimento sia attraverso frontiere internazionali o all’interno di uno Stato. Movimento che include anche coloro che si spostano per ragioni economiche.

A questo punto vale la pena ricordare che stime dell’Organizzazione mondiale delle migrazioni ci offrono i seguenti dati ufficiali: 47,449 migranti arrivati in Italia dal mare tra gennaio e maggio 2015 di questi:

Eritrei: 10.985

Somali: 4.958

Nigeriani: 4.630

Siriani: 3.185

Gambiani: 2.941

Senegalesi: 2.328

Le principali nazionalità che sono arrivate in Grecia sono siriane e afghane.

 

Settembre 4 2015

La crisi dei migranti in Europa: non esiste

L’afflusso dei migranti in Europa nel 2015 è dello 0.068% della popolazione europea. Esiste la crisi politica dell’Unione Europea dovuta all’incapacità di gestione dell’afflusso dei migranti da parte dei politicanti nostrani ed europei.

La retorica apocalittica, la foto di corpi alla deriva, di bimbi morti, ha preso la mano a molti, soprattutto ai populisti, ai giornalisti in cerca di un momento di gloria. Ignoranti, nel senso che ignorano se veramente esiste una crisi di migranti. Dopo aver pubblicato su facebook, su twitter, la foto del piccolo Aylan Kurdi e commentato con frasi strappa lacrime, vi siete chiesti se questa crisi esiste davvero?  Esiste solo una crisi politica e basta!

I numeri ci suggeriscono che molti dei migranti in Europa provengono da Afghanistan, Iraq, Siria, Somalia ed Eritrea. Un flusso che è più simile ad una goccia nella terra  che dovrebbe assorbirla. La popolazione europea è di circa 500 milioni, l’ultima stima del numero di coloro che entrano attraverso mezzi illegali in Europa (quest’anno), via Mediterraneo o Balcani, è approssimativamente di 340.000. In altre parole l’afflusso di quest’anno è solo dello 0.068 % della popolazione europea. Facciamo un parallelo: gli Stati Uniti. Popolazione di 320 milioni, ha qualcosa come 11 milioni di immigrati senza documenti, circa il 3,5 % della popolazione. Per contro, l’Unione Europea (UE) ha tra 1.9 e 3.8 milioni si immigrati senza documenti  (dati 2008  gli ultimi disponibili, secondo uno studio sponsorizzato dalla Commissione Europea), meno dell’1% della sua popolazione.

Quindi perché questo panico in Europa? Molti paesi europei affrontano un profondo problema di calo delle nascite, con pochi giovani lavoratori a cui è chiesto di supportare troppi pensionati. Un afflusso di persone con una provata perseveranza sembrano fornire un’ iniezione di energia di cui l’Europea sinceramente ne ha bisogno. Ci sono diversi argomenti che fomentano il populismo della crisi dei migranti in Europa. Parlano (impropriamente) di “terrorismo”.  I gruppi estremisti ci hanno ampiamente dimostrato che sono capaci da soli e anche parecchio bene, di inviare i loro affiliati/seguaci in Europa o addirittura di reclutarli direttamente in Europa attraverso mezzi molto più convenzionali. Come nessun rifugiato sarebbe così coraggioso da attraversare il mediterraneo o negoziare una via di terra attraverso i Balcani se ci fosse stata un’alternativa disponibile, queste rotte sono del tutto improbabili come miglior passaggio per gruppi che godono di ingenti finanziamenti.

Cultura. Molti europei hanno paura che l’afflusso di stranieri mini la loro “confortevole cultura”. Ricerche ci suggeriscono che questo è il maggior argomento di cui si servono i partiti populisti in molti paesi Europei. In Francia hanno Marine Le Pen, in Olanda Geert Wilders, noi Matteo Salvini, la Repubblica Ceca Milos Zeman, il partito UKIP in Gran Bretagna. Paura che viene accentuata dalla grande “Europa Cristiana” contrapposta alla religione musulmana: Polonia, Bulgaria e Slovacchia hanno espresso una forte preferenza per soli rifugiati cristiani.

È una sfida politica, che richiede una leadership politica, non è una questione della capacità di assorbire i recenti immigrati. Dovrebbero ricordarsi quando altri hanno risposto generosamente durante la Seconda Guerra Mondiale, quando molti europei vittime di persecuzione sono diventati rifugiati. L’UE ha fallito nella responsabilità di gestione delle crisi e il suo Common Security and Defence Policy è solo un enorme distributore di fumo dietro il quale soldi e consulenze sostituiscono un pronto, deciso e robusto intervento nelle aree di crisi. Si sono seduti nelle loro confortevoli sedie e hanno aspettato che qualcun’altro facesse qualcosa. Gli stati membri dell’UE pagano i 2/5 del budget delle missioni di peacekeeping; la European Commision African Peace Facility è stata una fonte cruciale per il finanziamento delle missioni dell’Unione Africana negli ultimi 10 anni, fornendo circa 1 miliardo di euro principalmente per Darfur e Somalia. Pianificano sì, quanto so bravi a fare i Joint Plan UE/ONU e poi in pratica? In Libia aspettiamo che Leon (rappresentante ONU) porti a termine dei negoziati a cui una volta sì e una no una delle due parti non partecipa. In Siria, figuriamoci, l’Africa ce la siamo dimenticata, il Mali boh e poi ci chiediamo: “ma perché arrivano?”

Si sente poi parlare di frontiera al flusso migratorio...no, mi dispiace il Mediterraneo o i Balcani non sono la frontiera. Visto che ho iniziato con i numeri che contano più del populismo: secondo le Nazioni Unite, alla fine di maggio c’erano circa 4 milioni di rifugiati siriani (la popolazione, pre – guerra di Damasco era di 1,7 milioni). Molti sono ospitati dai paesi vicini e l’impatto è qualcosa di sconvolgente. In Libano la popolazione prima della crisi siriana era di 4.4 milioni adesso ospita 1.1 milioni di siriani. Persino il paese più ricco del mondo avrebbe difficoltà ad assorbire e gestire questo tipo di afflusso. La Turchia ne ospita 1.7 milioni e la Giordania 628.000. Ricordiamo che la terra del Medio Oriente è arida e spesso inabitabile con una cronica mancanza di sviluppo di infrastrutture per cui molte delle popolazioni dei paesi arabi tendono a concentrarsi in aree urbane e dipendono da beni di prima necessità importati. La Giordania importa l’87% del suo cibo e all’improvviso ha centinaia di migliaia di bocche da sfamare. L’ esodo siriano è arrivato dopo la crisi dei rifugiati iracheni. Nell’aprile 2007 UNHCR ha riportato che c’erano più di 4 milioni di iracheni in giro per il mondo di cui 2 milioni nel Medio Oriente. La Giordania ne ha ospitato 750.000. La Siria ne ospitava 1.1 milioni, cifra che è scesa nel 2013 a 146.000. L’anno scorso il consiglio dei ministri turco ha approvato il rilascio ai rifugiati siriani di carte d’identità che gli consentono l’accesso al sistema sanitario e ai servizi di educazione, offrendo una speranza per un permesso di lavoro condizionale. Ma questo è un’ eccezione nella Regione perchè la Turchia vuole entrare nell’UE anche se poi ultimamente li ha colpiti con i cannoni ad acqua. Gli altri stati li tollerano: sono l’intera frontiera della crisi siriana per la loro collocazione geografica e non fanno molto altro.  L’ UNHCR ci dice che i donatori governativi internazionali hanno contribuito solo per il 20% sulla cifra di 4.5 miliardi di dollari di cui hanno bisogno i rifugiati siriani in questi paesi.

Quindi cosa abbiamo? Una crisi di retorica, di populismo, di ignoranza. L’Unione Europea con i suoi valori predicati ai quattro venti con un carrozzone per miliardi di milioni di euro che non è capace di gestire l’afflusso di migranti e inetta nel rivedere la sua politica di sicurezza e di difesa. Inappropriata nel gestire le crisi ai suoi confini, quelle vere, di conflitti che non risparmiano nessuno e le cui foto non commuovono nessuno. Poi ci sono gli Stati del Golfo che tollerano milioni di persone senza fornire servizi e neanche speranza. Ma perchè credete che queste persone fuggano da paesi molto più vicini e attraversino l’inferno per venire in Europa? L’Europa dei diritti, della Commissione Europea dei diritti umani, l’Europa della pubblicità: non esiste. Quello che esiste è un nuvolo di politicanti e di funzionari ignoranti, questa è la vera tragedia.

Agosto 27 2015

Siria: il vostro tavolo da gioco

La Siria è diventata un tavolo da gioco dove il rumore delle armi e il potere dei soldi dell’Iran, Russia, Arabia Saudita, Giordania, Turchia, Israele hanno soffocato, nel silenzio complice della comunità internazionale, il sangue di 4 anni di guerra civile.

Pensate ad tavolo rotondo marrone di quelli antichi, massicci, con sopra la mappa della Siria, plastificata lucida, i nomi delle città, le strade i confini. Intorno al tavolo sedie grandi rivestite di quel tessuto stampato in velluto con i fiori bordeaux, poggiate su enorme tappeto persiano, bello grande. Sul tavolo giusto perpendicolare un lampadario di quelli antichi con tante lampadine. Seduti su quelle sedie se ne stanno quelli che per denaro, per potere, spudoratamente continuano a giocare in un paese oramai dimenticato da tutti. Vediamo chi gioca e come.

Iran: i primi di agosto il ministro iraniano degli affari esteri, Zarif, visita Damasco, dove incontra anche il leader di Hezbollah, Nasrallah, poi si dirige in Pakistan ad Islamabad. Il suo ruolo principale: chiarire le implicazioni dell’accordo di Vienna sul nucleare (ricordo che quell’accordo è poi stato ripreso in toto e annesso alla risoluzione n. 2231 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, quindi vincolante per tutti e dico: tutti). Il commercio delle armi dell’Iran è molto importante per la Siria di Assad. La priorità di Khameini è quella di migliorare la propria difesa, negli ultimi anni si è visto come la sua stessa sicurezza sia inestricabilmente legata ad una rete di alleati regionali e di proxies che ha coltivato in Iraq, in Libano, e nella stessa Siria. Questo include Assad e una serie di milizie pro – governative, giusto per fare qualche nome, e lo farò in inglese perché mettersi a tradurre i nomi mi pare decisamente fuori luogo: National Defence Forces (la più grande rete di milizia), the Jerusalem Brigade, the Syrian Resistance, Syrian Social Nationalist Party, Popular Front for the Liberation of Palestine – General Command, Desert Falcons. Con tutti i miliardi spesi per il supporto ad Assad è assai improbabile che Teheran si faccia da parte. Aprile 2015, il presidente russo Putin, evidenziando i progressi nelle negoziazioni per l ‘accordo con l’Iran sul nucleare, dichiara d’avere una buona ragione per togliere il divieto di vendita degli S – 300 all’Iran, un potente sistema di difesa aerea, visto come un utilissimo mezzo per compensare la superiorità aerea degli americani e degli israeliani. Qualche giorno fa il presidente iraniano Rouhani ha rivelato che il paese ha prodotto il suo ultimo modello di SSM: il Fateh (vincitore) 313, missile balistico con un raggio di 500 km. Per Assad l’accordo di Vienna con tutta probabilità assicurerà la crescita di influenza politica e finanziaria del suo più affidabile alleato. Tanto per essere chiari: l’Iran con i suoi contatti politici, organizzazione e finanziamento sostiene il traffico di autocisterne che tengono a galla l’economia, le infrastrutture di Assad . Il sostegno finanziario dell’Iran, le spedizioni, hanno permesso l’acquisto di petrolio e di altri beni d’importazione essenziali. Tanto per capirci: all’inizio del 2013 la banca centrale siriana ha raggiunto un accordo con l’Iran di 3 miliardi di dollari di credito per coprire i rifornimenti di petrolio, parte di una più ampia linea di credito per un valore di circa 7 miliardi di dollari. Un totale di 17 milioni di barili di crudo sono stati spediti alla raffineria di Baniyas tra il febbraio e l’ottobre del 2013, finanziate da lettere di credito iraniane e trasportate da autocisterne dall’Iran e Iraq via l’oleodotto Sumed che attraversa l’Egitto. Il 19 maggio di quest’anno l’Iran e la Siria hanno firmato un accordo per una linea di credito di un miliardo di dollari che è per Assad una gran bella mano. E’ vero che tutte le sanzioni multilaterali e unilaterali secondo l’accordo di Vienna e la risoluzione verranno revocate non prima di 8 anni, immagino che però molti partner e molti ex partner commerciali dell’Iran, tra cui alcuni paesi membri dell’Unione Europea, possano chiudere un occhio sulla politica regionale iraniana se questo è il prezzo per prendere un pezzo della torta. Morale della storia: più soldi all’Iran, più soldi ad Assad.

Russia:  come abbiamo visto vende gli S- 300 all’Iran e si garantisce un bel controllo dell’area, ma contemporaneamente previene un intervento armato americano, perché diciamocelo la Russia è sempre rimasta fissata con l’idea della guerra fredda. Importantissimo, la Siria è sempre stata un cliente fisso dell’industria di difesa russa, tra l’altro molti ufficiali siriani sono stati addestrati in Russia, sposati a donne russe. Putin ha bisogno di quei soldi, ricordiamoci che le sanzioni per la storia dell’Ucraina hanno un costo per l’ economia russa e i soldi servono. La Siria è centrale per le aspirazioni geopolitiche russe, continuano a tenere una struttura di riparazione e rifornimento per la marina russa al porto di Tartus, dove peraltro avevano investito molto denaro per la ristrutturazione poco prima che iniziasse la guerra civile nel 2011. Le aspirazioni russe nel rivestire un ruolo importante nel Mediterraneo dell’est e nel medio oriente sono vive e vegete. Così si è offerta recentemente di ospitare colloqui di pace a Mosca ricevendo Khaled Khoja, il presidente del National Coalition for Syrian Revolution e le forze opponenti.

Arabia Saudita: l’attività diplomatica continua ad avere un profilo molto alto, il ministro degli esteri e della difesa da giugno si focalizzano sul trovare una posizione comune con la Russia. La sicurezza è cruciale e la Siria è terreno fertile di estremisti islamisti non graditi alla monarchia.

Giordania: la sicurezza delle sue frontiere è la sua preoccupazione maggiore. Rinforza la sorveglianza delle frontiere e si allea con gli Stati Uniti nella coalizione anti Stato Islamico.

Turchia: l’assillo di Erdogan, a parte le sue personali aspirazioni di leader regionale, è quello di prevenire la formazione di un Kurdistan nel nord della Siria e con la scusa di fermare lo Stato Islamico, una bomba a loro ed una ai curdi. Una cosa diversa però Ankara l’ha fatta: diminuire le relazioni con Israele. Sì perché Israele ultimamente ha avuto non pochi problemi con l’accordo sul nucleare. Continuano le relazioni commerciali certo, ma la diplomazia sembra essersi imbalsamata.

Israele: non gli è andato giù per niente l’accordo di Vienna, definendolo un errore storico, ripete che il più grande pericolo per Israele é l’arco strategico che si estende tra Teheran, Damasco e Beirut. Raid israeliani  bombardano un’importante via di rifornimento usata da Hezbollah  nelle montagne di Qalamon (area che include una serie di strade che Hezbollah usa per trasferire esseri umani e supporto logistico dentro e fuori dal territorio siriano). Ha bombardato poi 14 postazioni del regime siriano nella parte siriana delle alture del Golan tutto in risposta ad un bombardamento del regime in un villaggio del nord di Israele.

NATO:  con un annuncio a sorpresa del 16 agosto  in cui si dichiara che il dispiegamento dei Patriot finirà a gennaio 2016, si evidenzia un crescente vuoto, oserei dire, tra gli Stati Uniti e i suoi alleati che non è compensato dal recente accordo che consente che aerei americani possano decollare per missioni di combattimento dalla base di Incirlik in Turchia.

Sul tavolo di questo gioco c’è lo Stato Islamico e una serie di gruppi estremisti, piccoli e grandi che si muovono in questo vuoto di potere. Non fanno più notizia i bombardamenti al mercato di Douma di Assad, le foto dei bambini morti. Da poco qualcuno si è accorto che ci sono i profughi siriani e li accolgono perchè sono in fondo dei filantropi. La disgrazia di questo paese è essere un tavolo da gioco, un punto geopoliticamente importante dove il rumore delle armi e quello silenzioso, ma potente dei soldi, coprono il sangue, la miseria, la distruzione. E così Signori, fate il vostro gioco, rien ne va plus.