Febbraio 24 2018

Siria: il mutamento distruttivo dei “nuovi conflitti”

conflitto

Il conflitto in Siria è iniziato nel 2011 con delle proteste pacifiche contro il regime di Assad, tuttavia è rapidamente precipitato in uno scontro di potere globale  in quello che rimane della Siria.

La conseguenza più tragica di questo conflitto è l’uccisione di moltissimi civili siriani. Alcuni le chiamano “vittime non intenzionali”, ma in molti casi sono vittime intenzionali delle parti in conflitto.

Sembra facile considerare la guerra siriana un conflitto orribile in un modo unico: il catastrofico risultato della brutalità di Assad, il diffondersi dello jihadismo, l’intervento esterno.

In realtà la Siria è una fenditura paradigmatica e preoccupante di quello che sarà la guerra futura.

Proviamo a considerare la Siria come un modello e tracciamo alcune caratteristiche peculiari delle guerre future.

Una caratteristica distintiva è la complessità: intricata e mortale. Piuttosto che due Stati o alleanze che combattono uno contro l’altro, si verificano combattimenti multipli ed interconnessi che occupano lo stesso spazio e lo stesso tempo.

In Siria si possono individuare almeno 5 assi di conflitto:

  1. Gli Stati Uniti e le Forze democratiche siriane (dominante dai curdi) contro l’IS (a.ka. ISIS);
  2. gli Stati Uniti e le Forze democratiche siriane contro il regime di Assad;
  3. la Turchia contro le Forze Democratiche Siriane e i suoi alleati YPG (curdi);
  4. il regime di Assad e i suoi alleati esterni: Russia, Iran, Hezbollah, contro una gamma di gruppi di opposizione siriani;
  5. Israele contro l’Iran nelle Alture del Golan.

Tutto ciò spinge la violenza in direzioni imprevedibili. Assad, ad esempio, silenziosamente aiuta i curdi siriani contro la Turchia, mentre le forze pro-regime attaccano le milizie curde.

La complessità della guerra siriana impiastriccia ogni tipo di soluzione dal momento che ogni componente ha una differente motivazione, i partecipanti sono diversi e ognuno di essi ha uno scopo finale chiaramente diverso da tutti gli altri.

Inoltre, la guerra siriana ci suggerisce che i conflitti futuri comporteranno una configurazione di forze attagliata alla situazione, piuttosto che alleanze durature.

Considerate che in Siria accade questo: la Russia e l’Iran hanno sostenuto la dinastia Assad per anni;  gli Stati Uniti e la Turchia – due alleati di lungo corso nella NATO che hanno spesso combattuto assieme – sono su due lati opposti, condizione che potrebbero scivolare in un conflitto diretto.

La comunità internazionale e il pelo sullo stomaco

Il conflitto siriano mostra che, malgrado i massicci e molto ben pubblicizzati costi umani delle guerre contemporanee, la comunità internazionale ha perso la “sensibilità” per gli interventi umanitari. Ci fu un crescente interesse per l’intervento umanitario dopo le guerre nei Balcani degli anni 1990 e il fallimento nel fermare il genocidio nel Ruanda del 1994, tuttavia il fiasco dell’intervento a guida NATO nel 2011 in Libia ha depauperato gli sforzi di intervento umanitario.

Oggi, ci sono disastri umanitari non solo in Siria, ma anche in Yemen, Sud Sudan Myanmar, ma non c’è interesse nel peacemaking da parte delle Potenze nel mondo.

Dunque non è, come taluni asseriscono, la sconfitta dell’intervento umanitario, piuttosto che del diritto umanitario, ma la mancanza di volontà e di interesse  (direi più mancanza di interesse n.d.a) da parte delle Potenze nel mondo ad intervenire. 

E ancora, la Siria non dimostra che il Consiglio di Sicurezza e più in generale le Nazioni Unite siano inutili, ma palesa che i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza appongono il veto l’uno contro l’altro, non nell’interesse della pace e della sicurezza internazionale, ma per garantirsi i propri di interessi. Dunque non sono le Nazioni Unite come Organizzazione internazionale,  sebbene si possa migliorare attraverso un processo di riforma, che non funziona, ma sono i singoli Stati che pongono innanzi a tutto – compreso le migliaia di civili uccisi – i loro propri interessi.

I conflitti futuri saranno inestricabilmente complessi, comprenderanno configurazioni dei loro attori specifiche al conflitto; non ci sarà un intervento umanitario per fermarli.

Riassumendo:

i conflitti del futuro saranno combattuti  da combinazioni mutevoli di Stati e di attori non-statali. Essi getteranno le loro fondamenta su fattori come l’etnica e la religione, piuttosto che sull’ideologia politica. Gli attori dei conflitti futuri utilizzeranno la paura e il terrore per controllare la popolazione. I combattenti finanzieranno i loro sforzi attraverso il saccheggio ed il crimine, dando vita a “guerre economiche” che conferiranno loro un interesse “garantito” a tenere alta la violenza.

La Siria oggi può essere considerata una mutazione distruttiva dei  nuovi conflitti.

 

Gennaio 25 2018

Afrin: l’incursione turca in Siria e la strategia di Erdogan

Erdogan

Qual è la situazione in Siria oggi

L’opposizione a Bashar al-Assad è nel caos ed è confinata a piccoli angoli disconnessi di territorio nel Paese.
Sono soltanto due gli attori locali strategicamente rilevanti sul terreno:

  1. il regime di Assad con i suoi alleati: Iran ed Hezbollah;
  2. le Forze Democratiche siriane (FDS) sostenute dagli Stati Uniti,  dominate delle Unità di protezione del popolo curdo siriano (YPG)

Questa non è certo una situazione desiderabile o tranquillizzante per la vicina Turchia.
Sei anni fa quando la guerra civile in Siria s’intensificava, il presidente turco Erdogan avvisò Assad che i suoi giorni al potere erano contati e che, a meno che non volesse condividere lo stesso destino di Gheddafi, doveva dimettersi.

Oggi, con Assad trincerato a Damasco, Erdogan si dimena per recuperare una politica estera in Siria (e altrove). Una politica estera caratterizzata dal fatale errore di enfatizzare troppo l’influenza della Turchia.

La guerra civile siriana non ha  cambiato nulla realmente per la Turchia. Più Ankara veniva trascinata nel complesso pantano alla sua frontiera a sud, più erano i costi in cui s’imbatteva.

Fondamentalmente non aver realizzato concretamente ciò di cui Erdogan si vantava e non essere stati in grado di costringere Assad a dimettersi, ha palesato i limiti dell’influenza della Turchia nel mondo arabo.

Per un breve periodo di tempo all’inizio della guerra civile in Siria, gli strateghi turchi si trastullavano con l’idea di poter manipolare magistralmente il caos siriano ed espandere il controllo turco alle regioni confinanti ed in questo modo, prevenendo ogni movimento di indipendenza curda, avrebbero anche limitato l’influenza iraniana.

Vi era una convinzione genuina che la Turchia avrebbe potuto creare un sistema di proxy dipendenti da essa alla frontiera con la Siria, come aveva fatto con i curdi iracheni ad Erbil. La Turchia immaginava una buffer zone (zona cuscinetto) che si estendesse dal nord della Siria al nord dell’Iraq che avrebbe avuto relazioni politiche, di sicurezza ed economiche più strette con Ankara che con Damasco o Baghdad.
Questa strategia gli si è ritorta contro in maniera spettacolare. Sia in Siria che in Iraq, sono i curdi e gli iraniani che ora hanno la meglio. I curdi sono direttamente sostenuti dalle forze armate statunitensi, mentre le milizie alleate dell’Iran hanno fermamente consolidato se stesse come forze di sicurezza parallele in Siria ed in Iraq.

Le carte in mano ad Ankara per sfidare in maniera diretta l’Iran o i curdi sono limitate.

È vero che la Turchia ha sviluppato legami stretti con alcuni elementi di quello che resta del Free Syrian Army, così come con famiglie influenti all’interno della classe politica sunnita irachena. Tuttavia non ha abbastanza influenza sul terreno per alterare l’ambiento politico e di sicurezza che si sta formando in entrambi i Paesi.

Afrin

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Rex Tillerson, la scorsa settimana si impegnava ad una presenza indeterminata degli Stati Uniti nell’est della Siria con l’obiettivo ambizioso di prevenire il ritorno dell’Islamic State (IS), ma fondamentalmente per negare all’Iran un corridoio nel Mediterraneo e rimuovere il regime di Assad.

Nel frattempo, uno dei partner più importanti degli Stati Uniti, la Turchia, lancia una incursione militare, del tutto nuova, che ha come obiettivo le forze sostenute e finanziate dagli americani.

Tutto ciò avviene dopo che gli Stati Uniti annunciano dei piani per una nuova “forza di frontiera” che avrebbe addestrato e legittimato ulteriormente elementi delle FDS, la grande coalizione curda di milizie locali nell’est della Siria che era strumentale alla sconfitta territoriale dell’IS. I funzionari statunitensi hanno cercato, rapidamente, di ammorbidire il linguaggio dopo che l’annuncio aveva provocato l’ira di  Erdogan, che pubblicamente aveva denunciato il piano e promesso di fermare questo esercito del terrore prima della sua nascita.

La minaccia turca è il culmine di anni di tensione con Washington sulla politica siriana in generale, e le divergenze su come meglio combattere l’IS.
La Turchia si è preparata per più di un mese, apertamente, per la nuova offensiva, fin da quando ha avuto ragione di credere che il Presidente Trump avrebbe potuto promettere ad Ankara il taglio degli aiuti alle forze alleate dei curdi.
La scorsa settimana, le forze turche hanno iniziato a bombardare obiettivi turchi lungo la frontiera e condurre attacchi aerei, poi l’inizio dell’invio di truppe e delle forze del Free Syrian Army.

Il nome dell’operazione “Ramo di oliva”.

Afrin
I curdi siriani hanno cercato di costruire una rete di partner internazionali, incluso la Russia, per rafforzare se stessi contro la minaccia di una incursione turca. Ma la Turchia ha iniziato il suo assalto nel fine settimana scorso e la Russia ha ritirato le sua truppe dalla provincia Afrin.
I russi hanno richiamato alla moderazione e dichiarato che si sarebbero uniti al regime di Assad nell’opposizione all’intervento turco nel consesso delle Nazioni Unite. La risposta degli Stati Uniti è stata simile. La Francia vorrebbe che si riunisse d’emergenza il Consiglio di Sicurezza, ma Erdogan ha dichiarato che l’operazione continuerà ad avanzare fino a quando non sarà raggiunta Manbij, aggiungendo di avere un accordo con gli “amici russi” e di averne anche discusso con le forze della coalizione e gli Stati Uniti.
Le forze curde hanno dichiarato ai giornalisti di essere riusciti a gestire e respingere l’assalto, fin ora, ma che i bombardamenti e gli attacchi aerei hanno colpito i quartieri civili.

Gli scontri potrebbero minare il nuovo piano per la Siria degli Stati Uniti che comporta uno spiegamento indefinito delle truppe americane – al momento ne sono presenti 2,000 nell’est Siria – per sostenere i partner locali. Il piano formerebbe una buffer zone che preverrebbe l’Iran dallo stabilire un canale da Teheran a Beirut, una politica che funzionari israeliani e alcuni ufficiali della difesa americana hanno raccomandato per più di un anno.

Quello che Tillerson non è stato in grado di spiegare è come la presenza di 2,000 truppe americane e l’addestramento delle forze di sicurezza locali nell’est della Siria potrebbero muovere il conflitto nella direzione di una risoluzione o Bashar al-Assad verso l’uscita.

Quale corso d’azione permetterebbe alla Turchia, presumibilmente, di raggiungere i suoi obiettivi operativi?

Gli obiettivi operativi turchi consistono nella messa in sicurezza della frontiera turco-siriana, l’isolamento della città di Afrin,  il controllo della base aerea di Menagh, assicurarsi delle linee di comunicazione di terra, e stabilire una nuova linea avanzata di truppe che gli servono come futura linea di “de-intensificazione” con le forze a favore del regime di Bashar al Assad incluso la Russia.

Gli ufficiali turchi hanno anche dichiarato che attaccheranno la città del YPG Tel Rifaat. Potrebbero perseguire una seconda fase dopo aver raggiunto i loro obiettivi primari. Tel Rifaat è una priorità per i gruppi di opposizioni pro-Turchia, ma non critica per gli obiettivi della Turchia.

L’obiettivo degli Stati Uniti è presumibilmente quello di prevenire la Turchia dall’attaccare la città di Manbij, più ad est vicino al fiume Eufrate, dove sono presenti le forze statunitensi.

A corto di potenti proxy sia in Siria che in Iraq, Ankara deve scegliere.

La Turchia ha scelto di lavorare provvisoriamente con l’Iran – il quale ha interesse a tenere il nazionalismo curdo sotto controllo – piuttosto che esporsi alla minaccia di un ostile presenza curda di lungo termine sulla sua frontiera.

Ankara si è resa inevitabilmente conto che non può sperare di contenere le ambizioni di statualità curde senza lavorare anche con le autorità di Damasco o Baghdad, entrambe sempre più alleate dell’Iran. Ciò renderebbe in qualche maniera fisse le relazioni turco-iraniane, almeno geo-strategicamente.

La Turchia continuerà a bilanciare il suo strisciante affidamento all’Iran con i suoi legami con la Russia e gli Stati Uniti, i quali hanno del resto i loro propri interessi in Siria. Sviluppando dei legami con tutti e tre i Paesi, Ankara vuole poter dire qualcosa su come si svolgeranno le fasi finali della guerra in Siria.

La Turchia ha fortemente investito nel processo di Astana guidato dalla Russia per stabilire le cosidette “zone di de-intensificazione” in Siria. Per tenere i russi lontani dall’orbita dell’Iran, Ankara sta intensificando i suoi legami economici e commerciali con Mosca nelle industrie strategiche. Agli inizi del mese, il presidente russo Putin ha dichiarato che la prima centrale nucleare turca sarà completata nel 2023. (con un cospicuo finanziamento russo di circa 20 miliardi di dollari)

Se questo approccio pragmatico avesse successo, la Turchia spera di influenzare a proprio vantaggio la situazione per recuperare un po’ dell’influenza persa nel più ampio Medio Oriente. Erdogan vuole riposizionare la Turchia come un mediatore, che sia nelle tensioni regionali tra l’Iran e l’Arabia Saudita che adesso si palesano in Libano, o il continuo litigio tra il Qatar e i suoi vicini del Golfo, l’instabilità in Libia o in altri Paesi.

Tutto ciò però richiede uno status regionale ed un’influenza. I calcoli errati della Turchia in Siria l’hanno erosa come capitale geopolitica nella Regione. Per dirla in altre parole, più Erdogan consolida il suo potere “in casa” nel nome della stabilità, più la Turchia brucia la sua reputazione di “modello per il Medio Oriente”.

Erdogan, nel tentativo di sistemare quest’immagine (sebbene sia stato proprio lui a distruggerla), manterrà probabilmente legami con alleati più vicini da un punto di vista ideologico, come la Fratellanza musulmana e i suoi rami nella Regione. Tuttavia forse lui trascura il fatto che fin dalle rivolte del 2011, i gruppi islamisti allineati con la Fratellanza musulmana non solo sono stati sconfitti sul campo di battaglia siriano, ma sono stati indeboliti severamente da regimi autoritari in tutto il mondo arabo. Per cui anche questa possibile strategia, qualora scelga di utilizzarla, non lo porterà molto lontano.

Futuro probabile per la Turchia

La via più probabile che si prospetta, per il futuro, per la Turchia, è una strategia mista di pragmatismo regionale – che comporta compromessi economici e politici, il bilanciamento di alleanze geopolitiche rivali e nel breve periodo la diplomazia tattica – completata da impegni ideologici continui con gli alleati che nutrono le sue stesse opinioni. Può sembrare complicato, questo perché lo è e riuscirci non sarà facile.

 

Dicembre 12 2017

Gerusalemme, Trump, Israele e quel modo di riplasmare la realtà

Gerusalemme

 

Al momento non è possibile dire con certezza quanto ampio sarà  il contraccolpo  generato dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.

A livello regionale questo avvenimento sarà mitigato dai regimi che non vogliono concedere alcuna possibilità di dimostrazioni di ampia scala che possano sfuggire dal loro controllo, specialmente dopo quello che è accaduto con le Primavere arabe.

Ironicamente l’opposizione alla decisione di Trump ha posto l’Arabia Saudita e l’Iran dalla stessa parte  per la prima volta dopo molto tempo.

È possibile prevedere, ragionevolmente, che accadranno disordini e il malcontento crescerà, ma le implicazioni dell’annuncio di Trump vanno ben oltre quello che accade nelle strade.

Se ci si concentrasse su quanto le reazioni immediate siano “infiammatorie” si rischierebbe di perdere il punto:

la decisione di Trump di riconoscere unilateralmente Gerusalemme non solo danneggerà le prospettive di pace e la posizione nel mondo degli Stati Uniti, ma nuocerà al diritto internazionale e stabilirà un precedente per il futuro, negativo e con un potenziale devastatore.

Dalla dichiarazione di Trump risulta abbastanza palese che il Presidente degli Stati Uniti spera di evitare queste implicazioni allorquando concede una piccola rassicurazione: gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come la capitale di Israele, ma non necessariamente le frontiere della sovranità che Israele ha definito. Trump dichiara: “non stiamo prendendo una posizione sulle questioni dello status finale, incluse le specifiche frontiere della sovranità di Israele a Gerusalemme o la risoluzione della controversia sulle frontiere contestate“.

Assume un’importanza fondamentale e non dovrebbe essere sottovalutato il fatto che Israele ha passato gli ultimi 50 anni, dalla sua occupazione militare di West Bank iniziata dopo la guerra del 1967, a plasmare la realtà in flagrante violazione del diritto internazionale e del consenso internazionale.

Ciò include l’annessione unilaterale da parte di Israele dell’est Gerusalemme nel 1967 e l’espansione delle frontiere municipali in profondità nei territori palestinesi.

Il resto del mondo ha rifiutato con decisione di riconoscere queste mosse per mezzo secolo per una buona ragione: perché implicano l’acquisizione di territori attraverso la guerra, la costruzione di insediamenti a Gerusalemme, il trasferimento di israeliani nei territori occupati e la demolizione delle case dei palestinesi. Perché riconoscere queste realtà significa essenzialmente tollerare le violazioni del diritto internazionale, incluse le Convenzioni di Ginevra e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Va comunque detto che fissarsi sulla lista delle violazioni tende ad oscurare l’insieme di ciò che ha compiuto Israele: fabbricare una nuova Gerusalemme distinta da quella che ha catturato nel 1967, una città che calza nell’immagine che sta cercando di vendere al mondo e che Trump ha giust’appunto comperato. Essa è un’immagine di una città enormemente ebrea con un diretto, ininterrotto collegamento al passato biblico di cui i palestinesi non possono rivendicarne la legittimità.

Allo scopo di sostenere una tale realtà si deve dire al mondo che le violazioni di cui abbiamo parlato poco fa, incluso il cambiamento demografico di Gerusalemme operato con la forza, sono solo sbagliate al momento, ma che una volta che sono state compiute, esse sono accettabili. E se il mondo non è attento, non si dovrà attendere molto fino a quando Israele non avrà raggiunto lo stesso obiettivo nell’intera West Bank e gli Stati Uniti mostreranno il loro consenso anche a questa “realtà”.

Chi è il più contento? Il primo ministro israeliano B. Netanyahu e la politica che egli rappresenta. L’ala destra israeliana non ha mai voluto le negoziazioni, un processo di pace o uno Stato palestinese e non ne ha mai fatto segreto. La sua ideologia sottostante, stabilita dal leader Ze’ev Jabotinsky prima della creazione dello Stato di Israele è quella di creare una realtà sul terreno tale per cui gli arabi dovranno arrivare ad accettarla, una strategia conosciuta come il “muro d’acciaio“: portare i palestinesi a capitolare e non a negoziare in nome di questo “gioco”.

Senza esercito e senza sovranità, i palestinesi non esercitano alcuna influenza al tavolo di negoziazione con Israele. Tutto ciò che hanno è il diritto internazionale da una parte e quello che si suppone sia un arbitro neutrale dall’altra. Con la sua decisione su Gerusalemme Trump ha rapidamente eliminato entrambe le opportunità. Adesso tutto ciò che i palestinesi hanno è la loro abilità di non accettare i termini che sono stati imposti loro o semplicemente andarsene.
E forse questo è il vero scopo di quello che è accaduto nella scorsa settimana: di ammorbidire le aspettative e spostare la responsabilità attorno a quello che non tanto tempo fa Trump chiamava ottimisticamente il suo “sommo accordo” tra israeliani e palestinesi.

Trump, come molti presidenti americani prima di lui, hanno sottovalutato l’importanza che Gerusalemme rappresenta per coloro che sono in Palestina e nella Regione.

Per i palestinesi, l’est Gerusalemme non è semplicemente la capitale desiderata per il loro Stato futuro, ma una componente centrale della loro identità e della loro connessione con la terra. Questo tipo di legame non può essere facilmente spezzato.

Sul terreno a Gerusalemme, la decisione sicuramente scatenerà confronto e spargimento di sangue. Quest’anno, l’idea che Israele avrebbe alterato lo status quo della moschea Al-Aqsa inserendo delle telecamere di sicurezza e dei metal detectors ha scatenato settimane di disordini e dimostrazioni che hanno portato la città sull’orlo di un nuovo confronto violento.

Se Trump si aspetta che i palestinesi nelle strade si plachino per poche linee conciliatorie del suo goffo discorso, allora ha terribilmente sottovalutato cosa significhi per loro essere spogliati del diritto che la città rappresenta per loro.

Tuttavia data la reazione dei palestinesi, il più grande fattore a cui dedicare attenzione è il progetto di Israele di ri-plasmare i fatti sul terreno e il consenso di Trump ad esso.

 

Luglio 15 2017

Stati Uniti e Iraq: ora non ripetete gli errori del passato!

Stati Uniti

La liberazione di Mosul dall’IS (Islamic state) è una buona notizia, ma l’IS è ben lungi dall’essere stato eliminato. A questo punto gli Stati Uniti devono valutare attentamente le prossime mosse, per evitare gli errori del passato, quando, dopo il 2007, lasciarono l’Iraq senza una strategia precisa e il paese cadde nuovamente vittima dell’estremismo religioso.          

Il primo ministro iracheno Haider al-Abadi dichiara Mosul libera dalle forze dell’IS, il risultato di una delle più lunghe e devastanti battaglie urbane del ventunesimo secolo. In altre parti dell’Iraq l’IS è vicino alla perdita di gran parte del territorio che una volta era sotto il suo controllo. Lungo la frontiera con la Siria, le Forze Democratiche Siriane, sostenute dagli Stati Uniti, stanno spingendo il gruppo fuori dalla roccaforte di Raqqa.

Le notizie sembrano buone, ma l’IS è lontano dall’essere eliminato. Molti dei suoi foreign fighters stanno tornando a casa, verosimilmente portando il terrorismo con loro. Alcuni dei suoi leader e combattenti restano in Iraq. Il gruppo sta ricorrendo alla guerriglia, incluso attacchi contro i civili in aree densamente popolate dell’Iraq.

L’operazione per riprendere Mosul, particolarmente la parte occidentale della città è stata violenta fin da febbraio, ed è giunta ad un costo incredibilmente alto. Centinaia di civili feriti ed uccisi nei combattimenti.

Mosul e i civili, incluso bambini, hanno pagato il prezzo di questa operazione.

Human Rights Watch e Amnesty International hanno diffuso un rapporto congiunto circa un mese fa in cui, rivolgendosi in particolare alla coalizione a guida americana, raccomandavano di fare più attenzione nella campagna di bombardamenti e particolarmente alle tipologie e alle dimensioni delle bombe che sceglievano di lanciare. A causa di queste grandi bombe lanciate sempre più di frequente, c’è stato un aumento nelle vittime civili sul terreno.
Questa operazione ha dislocato più di 700 mila civili che non saranno in grado di ritornare a causa dell’alto livello di distruzione.

Gli Stati Uniti stiano attenti a non ripetere gli errori del passato

Tutto ciò sta a significare che gli Stati Uniti devono valutare bene le loro prossime mosse, nella speranza che riescano ad evitare gli errori compiuti nel passato.

Alcuni anni fa, quando l’Iraq sembrava aver sconfitto i suoi estremisti interni dopo il picco della presenza di forze americane nel 2007, gli Stati Uniti ritirarono le loro forze. L’allora presidente George W. Bush firmò il SOFA (status of force agreement) con l’Iraq che stabiliva la rimozione di tutte le truppe di combattimento americane entro il 2011.
Sebbene i generali americani avessero fatto presente a Washington che né il governo iracheno né le sue forze di sicurezza erano pronte a funzionare senza un’assistenza americana di vasta scala; dopo essere entrato in carica nel 2009, il presidente Obama (che aveva corso alla presidenza nel 2008 con la promessa di ritirare le truppe dall’Iraq), non fece nulla per rinegoziare l’accordo firmato da Bush.

Va detto però che era improbabile che l’allora primo ministro dell’Iraq Nouri al-Maliki avrebbe accettato un continuo dispiegamento americano. Maliki era chiaramente impegnato a consolidare la dominazione sciita nel governo iracheno e sulle forze di sicurezza e riconosceva che una presenza militare americana avrebbe impedito ciò. Inoltre, egli sopravvalutò l’efficacia del suo apparato militare mentre sottostimava l’estensione dell’estremismo tra gli iracheni sunniti.

Adesso c’è l’opportunità di fare le scelte giuste. Abadi sembra comprendere meglio le sfide politiche e le minacce estremiste che l’Iraq deve affrontare. Questo crea un’opportunità per l’impegno americano per aiutare a prevenire la ripresa dell’IS e diminuire la dipendenza di Baghdad dall’Iran.

In altre parole le relazioni Stati Uniti-Iraq hanno un disperato bisogno di ricomporsi e di correggere gli errori compiuti tra il 2008 e il 2011.
Questo non accadrà se Trump non si impegna pienamente in ciò. Per raggiungere questo obiettivo, l’amministrazione Trump dovrebbe proporre che una forza militare americana, modesta, resti in Iraq anche dopo la sconfitta sul campo dell’IS. Una forza residuale molto simile a quella che i comandanti militari americani consigliarono a Bush ed Obama di lasciare nel paese dopo il 2007.

La missione primaria dovrebbe essere di sostenere e rinforzare le forze di sicurezza irachene e guidare le missioni di combattimento. Molta di questa forza dovrebbe concentrarsi sull’intelligence, aiutando gli iracheni ad identificare i luoghi dell’IS e informare su ogni nuova manifestazione di estremismo. Dovrebbe anche includere unità delle operazioni speciali in grado di colpire l’IS, in Iraq e in Siria, ma solo quando assolutamente necessario.

Se…

…Abadi o chiunque lo segue agiranno come Maliki, utilizzando il governo e le forze di sicurezza per reprimere gli arabi sunniti, o degradano l’apparato militare selezionando i leader su base settaria o per fedeltà politica piuttosto che per competenze professionali, gli Stati Uniti dovranno disimpegnarsi dall’Iraq una volta per tutte, magari mantenendo legami di sicurezza solo con il governo della regione curda.

Il Presidente Trump non ha dato indicazioni precise di voler mantenere un ruolo duraturo nel complesso lavoro di stabilizzazione dell’Iraq dopo la sconfitta sul campo di battaglia dell’IS. Se il Presidente degli Stati Uniti non si impegna nel reimpostare la relazione con l’Iraq, semplicemente la relazione non avrà futuro.

Senza un effettivo coinvolgimento americano, c’è una buona opportunità che l’estremismo si manifesterà nuovamente in Iraq, giocando un ruolo ancora più grande.

Se gli Stati Uniti non aiuteranno a riempire gli spazi da cui l’IS trae forza e “legittimazione” la nuova coalizione che comprende la Russia, l’Iran, Hezbollah, milizie sciite irachene e iraniane lo farà.

Non si può affermare con assoluta certezza che gli sforzi americani saranno sufficienti a prevenire ciò, ma sicuramente l’assenza di tali sforzi aumenterà le possibilità che questo accada a detrimento degli Stati Uniti e della pace e sicurezza internazionale.

Luglio 5 2017

Rifugiati: occhi chiusi per 6 anni e poi la colpa è del maggiordomo

rifugiati

I numeri sono questi:

65.6 milioni di persone nel mondo sono state dislocate forzosamente alla fine del 2016, di questi 40.3 milioni dislocate all’interno dei loro stessi paesi, mentre 22,5 milioni hanno varcato frontiere internazionali come rifugiati. Un ulteriore 2,8 milioni sono richiedenti asilo.

Un campo rifugiati può essere molto utile quando le persone immediatamente abbandonano la guerra o la persecuzione. È un modo per fornire cibo, vestiti e riparo. Ma la tragedia è che queste persone restano bloccate in un limbo per molti molti anni.
Oggi, circa il 54% dei rifugiati nel mondo sono in quelle che vengono definite situazioni di rifugiati protratte. Sono state in esilio per almeno 5 anni. Secondo le Nazioni Unite, la media di durata di un un esilio è di 26 anni.

Dalla prospettiva di un rifugiato, il sistema internazionale dei rifugiati di fatto dispone di tre opzioni.

  • La prima è di andare in un campo, dove usualmente non lavori. E sì, hai un grado di assistenza umanitaria, ma la tua vita è messa in attesa. E comprensibilmente, una proporzione in diminuzione di rifugiati intraprende questa opzione. Circa il 10% dei siriani, per esempio sono nei campi di rifugiati.
  • L’opzione due è spostarsi in un’area urbana. Oggi i rifugiati sono  in aree urbane che in altri posti. Circa più del 50% sono nelle città. Ma la sfida nelle città è che i rifugiati spesso non hanno il diritto di lavorare e spesso non hanno alcuna assistenza umanitaria.
  • La terza opzione è di imbarcarsi in pericolosi viaggi in Europa.

Queste opzioni sono scelte impossibili.

Un modello di sviluppo economico realizzato da rifugiati insieme ai cittadini della nazione che li ospita

Il governo inglese ha aperto la strada a questo tipo di modello con un’iniziativa per la Giordania chiamata “Jordan Compact” che è iniziata nel febbraio del 2016 al summit di Londra per la Siria.

Le basi di questo modello: il sostegno ad opportunità di lavoro simultaneamente per i rifugiati siriani e per i cittadini giordani in parte attraverso l’autorizzazione ad entrambi a lavorare nelle zone economiche speciali. Il governo inglese ha incoraggiato l’Unione Europea a fornire un segmento nel commercio a 52 categorie di prodotti per compagnie manifatturiere che operano in 18 zone economiche speciali che impiegano una certa proporzione di rifugiati siriani. Un certo numero di aziende siriane, che precedentemente operavano in Siria, stanno impiegando rifugiati siriani e cittadini giordani, dando loro accesso a permessi di lavoro assegnati in modo conveniente dal governo, che fornisce accesso alla sicurezza sociale, un salario minimo e protezione dei diritti dei lavoratori.
Quello che manca a questo progetto, al momento, è un sufficiente investimento da parte di imprese multinazionali e di imprese in Europa preparate a lavorare con queste imprese che permetterebbe un modello di crescita industriale. Il governo della Giordania e i maggiori donatori si sono impegnati a creare 200,000 posti di lavoro per i siriani dai 3 ai 5 anni. Fin’ora i permessi di lavoro sono stati concessi a 51,000 persone in solo un anno o poco più. Sebbene sia un grande passo in avanti è necessario un investimento che raggiunga il livello di sostenibilità che permetta alla Giordania, che deve affrontare grandissime sfide di sviluppo e sicurezza, di convincere il suo elettorato che la presenza di rifugiati può essere un beneficio per la società giordana e per la sua economia.

La noncuranza dell’Unione Europea rispetto ai conflitti e alle crisi nei paesi al di là del mare

È molto interessante che i movimenti dei rifugiati siriani siano iniziati intorno al 2011 e fino all’ottobre del 2014 quasi tutti i siriani sono rimasti nei paesi vicini. Ma intorno ad ottobre 2014, tutti e tre i paesi ospitanti: Turchia, Libano e Giordania, hanno introdotto restrizioni. Queste ultime e la riduzione dell’assistenza umanitaria in questi paesi ha fatto sì che per i rifugiati diventasse molto più necessario muoversi altrove o imbarcarsi in pericolosi viaggi.

Questo era evitabile.

Se i paesi europei non avessero incrociato le braccia, chiuso gli occhi e non si fossero letteralmente girate dall’altra parte e fatto così poco per aiutare questi tre paesi, si sarebbero create molte più opportunità rispetto ad oggi, opportunità per i rifugiati insieme al sostegno per i paesi ospitanti.

Del resto le politiche UE sull’asilo e l’immigrazione sono state fangose fin dall’inizio della così detta “crisi dei rifugiati” e gli stati membri continuano ad avere difficoltà nel trovare una azione collettiva sostenibile. Ovviamente è corretto che i paesi europei e i loro elettorati siano preoccupati di una migrazione irregolare non gestita, ma hanno responsabilità quando si tratta di protezione dei rifugiati.
Molte delle odierne politiche riguardano la costruzione di muri de facto e la creazione di partneriati puramente con l’obiettivo di controllare l’immigrazione. Così molti di questi partneriati con paesi terzi in Africa, Sudan Niger e Libia, per esempio, sono con regimi che hanno realmente gravi problemi con i diritti umani e che sono progettate per implementare restrizioni alla mobilità e nessuna opzione per la riammissione di migranti economici. Questa è una strada insostenibile per gestire questo movimento di persone. Se realmente vogliamo aiutare i rifugiati e fermarli nei viaggi verso l’Europa, dobbiamo creare ancore. Noi dovremmo creare ragioni per cui le persone scelgono di restare nelle loro regioni e questo vuol dire creare opportunità sostenibili per una protezione effettiva, accesso ai diritti umani ma anche opportunità socio-economiche.

Giugno 24 2017

Jihadismo: comprendere il fenomeno dai suoi stessi termini

jihadismo

L’obiettivo è quello di spiegare il jihadismo come fenomeno in se stesso, esaminando attentamente la natura e i contorni di tale movimento così come si è sviluppato nel corso del tempo e continua a svilupparsi. Per fare ciò è necessario conoscere il jihadismo nei suoi stessi termini, non in quelli di qualche altra rappresentazione.

L’etichetta “jihadista” è indicativa di un movimento riconoscibile nel moderno Islam sunnita. Lo “Stato islamico” ed Al Qaeda sono le sue principali espressioni organizzative, ma il movimento jihadista è molto più grande della somma di queste parti.

Il jihadismo è principalmente un’ideologia distinta da una particolare serie di idee elaborate da rinomati studiosi e ideologhi. È anche una cultura con la sua poesia, musica, interpretazione dei sogni.

Il principio cardine del jihadismo è abbastanza semplice: i regimi del Medio Oriente sono governati da apostati non credenti che devono essere rovesciati e rimpiazzati con un vero governo islamico.

Tuttavia l’ideologia va molto più in profondità di questo:

è un sistema di pensiero grandemente sviluppato con radici che affondano in alcuni aspetti della tradizione islamica. Gli jihadisti sono profondamente intolleranti verso i musulmani che non condividono le loro visioni, inclusi gli islamisti sunniti come i Fratelli Musulmani e Hamas.

Dagli attacchi dell’11 settembre 2001, la tendenza in occidente è stata di parlare di jihadisti in termini che non sono i loro propri. I dibattiti si sono concentrati su “terroristi” ed “estremisti violenti”, “islamisti”, “islamisti estremisti”.

L’errore occidentale

Vediamo quali sono i risvolti negativi nel concentrarsi nell’utilizzo di termini come “guerra al terrore” e di tutte le sue derivazioni.

Prima di tutto, il terrorismo non è un avversario nel senso militare. È una tattica violenta utilizzata da tanti tipi di attori. Un paese può essere in guerra con i terroristi ma non con il terrorismo, e sicuramente non con il terrore.

Un secondo lato negativo è che il terrorismo è difficile da definire e incline alla politicizzazione. Mentre il significato basilare potrebbe essere “una violenza politicamente motivata condotta da attori non-statali e intesa a infondere la paura”, non esiste una definizione univoca basata sul consenso della comunità internazionale.
A titolo di esempio il Routledge Handbook of Terrorism Research elenca 250 definizioni proposte da vari ricercatori, governi e organizzazioni. Come si nota nel manuale, il concetto di terrorismo è stato politicizzato a un tale grado che è praticamente senza significato. È evocato da governi per delegittimare un nemico, per radunare membri attorno ad una causa, per mettere a tacere o plasmare il dibattito politico e raggiungere agende differenti. Questo è assolutamente vero nel Medio Oriente. Bashar al-Assad, come è noto, si riferisce a tutti i suoi oppositori locali nella guerra civile con il termine “terroristi”.

Nel contesto del jihadismo, l’idea di terrorismo porta con sé altri due importanti aspetti negativi.

Il primo è che il terrorismo non è la ragione d’essere dei jihadisti. Il terrorismo è meramente una tattica nel paniere degli strumenti dei jihadisti per raggiungere i loro obiettivi più ampi. (paniere che include la conquista di territori e la formazione di uno Stato).

In secondo luogo, i jihadisti alle volte sono orgogliosi della parola terrorismo (tradotta in arabo irhab), dal momento che si presenta nel Corano in un passaggio a proposito della guerra. Nel verso pertinente (8:60), Dio incoraggia i primi musulmani ad inspirare timore nei loro nemici: “e siate pronti per loro con qualsiasi forza e serie di cavalli che potete per terrorizzare in tal modo il nemico di Dio e il vostro nemico, e altri tra loro di cui voi non sapete, ma che Dio conosce”. I jihadisti sostengono che perciò l’Islam non solo permette il terrorismo, ma che lo incoraggia. L’etichetta terrorista può essere indossata come un distintivo d’onore.

Estremismo violento

Cosa vuol dire estremismo violento?
Concettualmente, “estremismo violento” patisce la genericità. Mentre i suoi promotori correttamente pongono l’enfasi sull’ideologia, sono stati sempre riluttanti nel concentrarsi su un’ideologia in particolare. In questo modo il concetto di “estremismo violento” comprende una vasta gamma di attori sgraditi, dagli estremisti di estrema destra agli eco-terroristi, ai jihadisti. Spesso questo concetto suggerisce che coloro che sono stimolati all’estremismo violento siano mentalmente instabili, socialmente disconnessi o delusi. Sebbene questi fattori siano importanti, in linea di massima il jihadismo non dovrebbe essere visto come un movimento deteriorato razionalmente. Esso ha una ideologia coerente e logica e richiama ampiamente i sani. Non è irrazionale, un radicalismo amorfo.

Islamismo

Islamismo è un termine onnicomprensivo di una varietà di movimenti politici islamici moderni. Non può essere messo allo stesso livello con il jihadismo.

Tutti i jihadisti sono islamisti, ma pochi islamisti sono jihadisti.

Islamismo si riferisce a quei movimenti che cercano di accrescere in una qualche maniera il profilo politico dell’Islam, solitamente attraverso l’ “implementazione della sharia” o legge islamica. Malgrado l’accordo su questo obiettivo generale, gli islamisti discordano ampiamente.

La maggior parte, per esempio, sono favorevoli a lavorare nel moderno quadro di nazione-stato, che solitamente significa partecipare alle elezioni. I Fratelli Musulmani egiziani e il partito giustizia e sviluppo turco sono esempi di movimenti sunniti islamisti che hanno avanzato i loro interessi attraverso il mezzo delle urne elettorali. Ci sono anche esempi di tendenze autocratiche di questi movimenti.

Il punto basilare è che islamismo non è un fenomeno indifferenziato.

Il Jihadismo è una  sotto-categoria dell’islamismo sunnita con un approccio unico alla religione e alla politica.

L’identità jihadista è definita in opposizione all’islamismo convenzionale dei Fratelli Musulmani e del AKP. I jihadisti considerano questi gruppi profondamente fallaci nella metodologia e nella fede, troppo tolleranti nei confronti dei musulmani “ribelli” come gli sciiti e i governanti autocrati ritenuti eretici e troppo favorevoli a lavorare nelle strutture statali per raggiungere i loro obiettivi.

L’approccio dei jihadisti è fissato proprio in contrapposizione a queste imperfezioni: un monoteismo rigido, con un impegno incrollabile per la lotta armata, o jihad, contro lo Stato e tutti coloro che sono ritenuti non credenti. Questo rifiuto è il loro marchio, inquadrato attorno al credo del monoteismo e alla metodologia del jihad.

Breve storia della nascita del movimento jihadista

Il movimento jihadista attuale può essere tracciato a partire dal 1960, in Egitto. Una repressione nei confronti dei Fratelli Musulmani iniziata negli anni ’50 ha dato vita a spaccature radicali ispirate dagli scritti di uno dei leader della Fratellanza: Sayyd Qutb.

Prima della sua esecuzione nel 1966, Qutb formula una versione più rivoluzionaria ed elitaria del pensiero della Fratellanza. Influenzato dalle idee dell’indo-pakistano Abu al-A’la Mawdudi, Qutb asseriva che la moderna società islamica era regredita a jahiliyya, un termine coranico che indica l’età dell’ignoranza e dell’idolatria che prevaleva in Arabia prima della crescita dell’Islam nel diciassettesimo secolo. I musulmani hanno cessato di essere veri musulmani per aver fallito di attribuire la sovranità a Dio e, secondo Qutb, hanno attribuito la sovranità ad altri esseri umani, impegnandosi in pratiche innovative come tenere elezioni, formare parlamenti e approvare leggi non rivelate da Dio.
La corrente principale dei Fratelli Musulmani si distanziò dalle visioni di Qutb, ma il pensiero di quest’ultimo influenzò le formazioni che si erano staccate dalla Fratellanza negli anni ’60 e ’70. Una di queste fu il Gruppo Jihad che assassinò il presidente Anwar Sadat nel 1981 in un atto che segnò un altro importante cambiamento ideologico.

Assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat come cambiamento ideologico.

Questo accadimento segnò l’inizio dello sviluppo di una dottrina di jihad come ribellione contro governanti del tipo di A. Sadat, delineata dal leader del “gruppo jihad” Abd al-Salam Faraj. In un suo breve libro “l’assenza dell’impegno”, Faraj articola un razionale giuridico per il jihad rivoluzionario radicato nella nozione tradizionale del jihad difensivo.

Nel discorso giuridico tradizionale sunnita islamico, il jihad si articolava in due tipologie: jihad offensivo (jihad al-talab) e difensivo (jihad al-daf’). Il jihad offensivo era inteso come un dovere collettivo; fin quando alcuni sono impegnati in esso, il resto è esentato dall’esserlo.

In circostanze ideali, un califfo procedeva al jihad offensivo almeno una volta all’anno allo scopo di espandere le frontiere della fede.

Il jihad difensivo era considerato un dovere individuale che spettava a tutti i musulmani di robusta costituzione; quando il regno dell’Islam era sotto attacco esterno, tutti erano obbligati ad andare in difesa della comunità.

Faraj presentò la resistenza al governo egiziano come jihad difensivo, asserendo che dal momento che il presidente non governava attraverso la legge di Dio, il suo stato era quello di un aggressore infedele. Si affidava ad una serie di fatwa dello studioso Ibn Taymiyya, che famosamente giudicò i leader mongoli che invasero il Medio Oriente come non credenti per non essere riusciti a governare in armonia con la legge di Dio.

Faraj applicò la stessa logica all’Egitto moderno e questa è stata la base per la violenza jihadista contro i governi locali da allora in poi.

L’ultimo sviluppo ideologico è stata l’adozione da parte dei jiahdisti dei principi del salafismo, un movimento purista nell’Islam sunnita associato con Ibn Taymiyya e con il movimento wahhabita in Arabia, che risale alla metà del diciottesimo secolo. Il salafismo ha portato al movimento jihadista un punto fondamentale sul credo corretto: monoteismo stretto e intollerante, elaborato da Ibn Taymiyya e dai wahhabiti. Con questo movimento purista giunge il requisito della scomunica (takfir) dei musulmani che hanno visioni in contrasto con la teologia salafita.

Il salafismo jihadista fornì il quadro all’interno del quale il terrorismo contro l’occidente fu teorizzato e giustificato. Cospirazioni e attacchi come quello del 9/11 erano concepiti come parte di un piano più grande per rimuovere i governanti “apostati” nella regione.

La spaccatura all’interno del movimento jihadista.

Il movimento jihadista è sembrato piuttosto unito prima della crescita dell’IS nel 2013. Organizzativamente, al-Qaeda sembrava al commando con un sostegno ampio nel movimento con il controllo di rami locali dal Nord Africa allo Yemen.
La spaccatura tra AQ e IS iniziò nel 2014  anticipata da dispute precedenti tra i jihadisti.
La divisione basilare appare nella prima decade del 2000 in Iraq. Abu Mus’ab al-Zarqawi  con una rigida inclinazione dottrinale, era a capo del gruppo che nel 2004 diventa al Qaeda in Iraq. Malgrado il giuramento di fedeltà ad AQ, Zarqawi era in contrasto con esso in molte maniere. Il suo più grande rigore dottrinale era la visione degli sciiti iracheni come politeisti, concezione che alimentò una guerra civile sunnita-sciita attraverso una violenza settaria di massa.

Malgrado la leadership di AQ redarguì più volte Zarqawi egli ignorò gli ordini e proseguì nella sua strada.

Le stesse questioni di teologia e violenza ricomparvero pochi anni più tardi quando l’IS in Iraq annuncia l’espansione in Siria, nella primavera del 2013. L’annuncio del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi di proclamare lo Stato Islamico di Iraq e Siria e l’intenzione di incorporare il gruppo jihadista siriano Jabhat al-Nusra fece accelerare la frattura con AQ. Benchè Zawahiri (leader di AQ) avesse impartito precise istruzioni a Baghdadi di restare in Iraq, il leader del IS rispose che Zawahiri non aveva autorità sulla sua organizzazione e non l’avrebbe mai avuta. L’anno successivo Baghdadi annuncia il ritorno del califfato rinominando il suo gruppo “Stato islamico” e affermando la giurisdizione globale su tutto il mondo musulmano.
Nel 2014 e 2015 le divergenze tra i due gruppi crescono. Con l’aumento dei livelli di violenza dell’IS, alcuni di essi diretti contro AQ stessa, Zawahiri – assieme a molti studiosti jihadisti, denunciano l’IS come estremisti o Kharijites, in riferimento alle prime sette radicali nell’Islam. L’IS risponde etichettando AQ e i suoi sostenitori come “gli ebrei del jihad”. La divisione diventa incolmabile.

Contrastare il jihadismo

Il jihadismo non può e non deve essere confuso con l’Islam in generale. Neppure dovrebbe essere confuso con il più grande fenomeno dell’Islamismo. È un movimento distinto, non solo discernibile, ma anche cosciente e orgoglioso della sua separazione. Sebbene i jihadisti ammettano adesso delle divisioni, il jihadismo pone ancora una sfida unica e pressante. Esso è rivoluzionario, sostenuto da un fervore ideologico, è ha visto una tremenda crescita nella passata decade e mezza.
In termini di seguito numerico, i progressi del jihadismo sono veramente sorprendenti.
I numeri esatti sono difficili da determinare, ma gli aderenti al jihadismo si possono contare in decine di migliaia concentrati negli Stati arabi. Questi numeri includono anche coloro che scelgono di non imbracciare le armi da subito, preferendo un ruolo di sostegno da casa, ad esempio.

Sarà una lunga lotta quella contro il jihadismo, ma è necessario avere come punto di partenza la comprensione del nemico nei suoi stessi termini.

Maggio 21 2017

Relazioni di vicinato: l’Iran e la Turchia nel “dopo Mosul”

relazioni

Dopo la piena riconquista di Mosul quali saranno le relazioni tra  due vicini eccellenti dell’Iraq: Iran e Turchia?

La Turchia è preoccupata che tutto quello che ha ottenuto finora il governo iracheno a maggioranza sciita, amico dell’Iran, sia parte di una più ampia strategia di Teheran per espandere la propria influenza nelle aree sunnite dell’Iraq del nord.

Quello che inquieta maggiormente il presidente turco Recep Tayipp Erdogan è il potenziale asse pro-iraniano lungo la frontiera del nord dell’Iraq che comprende elementi del Kurdistan Workers’ Party o PKK così come le milizie yazide dell’area.

Per questo motivo la retorica turca si è alzata di livello, inasprendosi, tanto che Erdogan si è riferito, lo scorso mese, alle milizie irachene pro-governative (al-Hashad al-Shaabi – unità di mobilitazione popolare) come un’organizzazione terroristica.

Erdogan ha certamente le capacità di anticipare ogni imminente asse iraniano-curdo nel nord dell’Iraq. L’esercito turco ha una stima di 2,000 truppe all’interno dell’Iraq. Una buona parte di questa forza è focalizzata nel combattere i militanti del PKK sulle montagne Qandil del Kurdistan iracheno, con altre 500 truppe stazionate nel campo Bashiqa, circa 50 chilomentri dalla periferia di Mosul.

Ankara ha anche una influenza politica e militare sul clan Barzani dominante nel Kurdistan iracheno e sulle famiglie influenti arabe sunnite intorno a Mosul, incluso la famiglia Nujaifi.  Infine, Erdogan ha segnalato la sua volontà di utilizzare bombardamenti aerei per dissuadere un significativo consolidamento delle forze pro-iraniane; l’aviazione turca ha recentemente colpito posizioni del YPG, la principale milizia curda siriana a Sinjar.

La Turchia, teoricamente, potrebbe chiedere aiuto ad altri paesi. L’Arabia Saudita e i suoi alleati arabi del Golfo hanno anche loro preoccupazioni circa l’espansione dell’Iran nelle aree irachene sunnite. Il potenziale per un’alleanza più stretta e coordinata nell’area tra queste potenze sunnite non può essere esclusa.

I rischi della strategia turca

Se la Turchia volesse lanciarsi a capofitto in uno scontro con le milizie alleate dell’Iran dovrebbe affrontare un nemico molto capace e ben equipaggiato. Inoltre, proprio queste milizie hanno già minacciato di ingaggiare direttamente le forze turche se Erdogan dovesse ordinare ulteriori incursioni nel territorio iracheno.

La profondità strategica dell’Iran in Iraq fornisce a queste milizie un rifornimento illimitato di combattenti: sciiti motivati da reclutare e far combattere per una lunga e sanguinosa campagna contro la Turchia.

Gli interessi della Turchia e dell’Iran 

Primo: la Turchia e l’Iran abilmente utilizzano la loro relazione come un contrappeso alla presenza (e potenza) occidentale nella Regione. In questo contesto si vedono l’un l’altro come una sorta di valvola di sicurezza contro la pressione esterna esercitata dall’occidente.

Erdogan non è certamente spaventato dal “gioco” di Iran e Russia contro Stati Uniti, ad esempio, nell’intento di esercitare pressione su Washington affinché non sostenga più l’YPG (che ha legami con il PKK; ma partner americano affidabile sul terreno contro lo “Stato islamico”). Questo tipo di “gioco” si è pienamente manifestato  a dicembre 2016, quando la Turchia ha contribuito ad un nuovo corso di colloqui di pace sulla Siria con l’Iran e la Russia senza il coinvolgimento degli Stati Uniti.

L’Iran, dalla parte sua, conta sulla Turchia per resistere agli sforzi occidentali di isolarla completamente nella regione.

Secondo: sebbene la Turchia e l’Iran appoggino elementi curdi separati in Iraq, entrambi i paesi condividono delle valutazioni ampiamente sovrapposte sulla questione del nazionalismo curdo. Mentre Ankara ha recentemente mostrato una maggiore volontà di lavorare con il Kurdistan iracheno semi-autonomo, la sua posizione è improbabile che cambi quando deve opporsi alla piena indipendenza curda. La visione dell’Iran è simile. Lo scorso mese, entrambi i paesi hanno fortemente protestato contro la decisione del governo regionale curdo di Irbil di alzare la bandiera curda vicino a quella irachena su un palazzo governativo locale a Kirkuk; alcuni politici curdi hanno interpretato questi messaggi come delle velate “minacce”.

Gli interessi economici che non possono essere ignorati

Consideriamo ad esempio i legami energetici: la Turchia al momento importa 30 milioni di metri cubici di gas Iraniano, volume che entrambe le parti sembrano intenzionate ad accrescere nei prossimi anni.

Per cui malgrado qualche retorica accesa tra la Turchia e l’Iran, il risultato più probabile è qualche sorta di accordo in Iraq.

L’Iran potrebbe accordarsi nel “trattenere” i leader delle milizie più anti-turche nelle forze popolari di mobilitazione irachene, mentre limita il loro supporto agli elementi del YPG in Iraq. La Turchia in cambio potrebbe accordarsi nel migliorare le sue relazioni tese con il governo centrale a Baghdad e coordinare meglio la lotta all’IS con l’Iraq e l’Iran.

Se e quando l’IS sarà sconfitto nel nord dell’Iraq, l’immediato vuoto politico nel cuore sunnita sicuramente sarà un banco di prova per le relazioni turco-iraniane.

Sebbene i legami tra due vicini eccellenti dell’Iraq continueranno a flettersi, è improbabile che si spezzino.

Ankara e Teheran hanno una storia di compartimentalizzazione delle loro relazioni nelle passate decadi. Continueranno ad essere profondamente in disaccordo su certe questioni nella regione, ma nessuna parte ha al momento un interesse profondo nel permettere che questi disaccordi mettano a rischio le loro funzionanti relazioni bilaterali.

Aprile 9 2017

Gli Stati Uniti e il dilemma dei dittatori “amici”

dittatori

Il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, per gli Stati Uniti torna il dilemma del “dittatore amico”.

Per tutta la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno lottato con il dilemma dei “dittatori amici”. Per un lungo periodo gli americani hanno creduto non solo che la democrazia fosse il solo sistema politico possibile ed il più giusto, ma che fosse quello che potesse rimanere stabile nel corso del tempo.

I dittatori potrebbero imporre l’ordine per un periodo, ma alla fine, la naturale necessità di  libertà provoca la loro caduta. Nelle giuste condizioni, la caduta di un dittatore potrebbe essere relativamente pacifica. Altre volte, invece scatena una pericoloso spasmo di violenza.

Malgrado ciò, nell’era della Guerra Fredda i politici americani hanno accettato ed anche abbracciato dittatori amici. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il problema non era stato risolto, ma si era sbiadito con le nascenti democrazie.

Ora che il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, il dilemma del dittatore amico è tornato.

Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump ha ripetutamente dichiarato che i recenti eventi  nel Medio Oriente hanno mostrato che i regimi autoritari sono caduti, il risultato è stato spesso l’instabilità che ha aperto la strada all’estremismo violento.

Dopo tutto lo “Stato islamico” non esisterebbe se il Presidente George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein dal potere.

Ritengo quantomai opportuno a questo punto fare una breve parentesi chiarificatoria sulla nascita dello “Stato islamico”, se non altro per coloro che come me non credono ai complotti, ma si basano su fatti realmente accaduti.

L’affermazione: “ lo – stato islamico – non esisterebbe se George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein” è vera, ma sarebbe più corretto articolarla in questo modo:

se l’amministrazione Bush non avesse deciso, a quel tempo, anche di radere al suolo, il 9 giugno 2006, la leadership di Al Qaeda in Iraq (AQI), gettando nelle mani del Mujahidin Shura Council le sorti del movimento jihadista locale. Questa organizzazione “ombrello” che coordinava i vari insorti combattenti a Falluyiah annunciò, il 12 ottobre 2006, l’alleanza di altre fazioni e di leader sunniti conosciuta come “the alliance of the scented ones”, gruppo dedicato a combattere l’occupazione americana. Fu quest’ultimo gruppo che il 15 ottobre 2006 annunciò la creazione di “Islamic State of Iraq.

Torniamo ai giorni nostri e alle dichiarazioni di Trump a proposito dell’essere più tollerante con i dittatori del Medio Oriente.

Un giorno dopo aver dichiarato “la mia attitudine verso la Siria ed Assad è cambiata molto”, Trump ordina un attacco missilistico su una base aerea siriana nella provincia di Homs.
La domanda sorge spontanea: “l’amministrazione Trump adesso lavorerà per la rimozione di Assad? Solo una settimana dopo averlo definito “una realtà politica che dobbiamo accettare?”

I dittatori rimossi: cosa ci insegna il passato

Una potenziale lezione dal passato potrebbe essere tratta dal rovesciamento di Saddam Hussein e del dittatore libico Mohammar Gadhafi. Questi casi suggeriscono che mentre gli uomini forti del Medio Oriente cadono, il potere scivola nelle mani degli estremisti. Con tutti i loro difetti, i despoti iracheni e libici, hanno tenuto sotto controllo il jihadismo e così, dalla loro prospettiva, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto far altro che tollerarli.

La rivoluzione iraniana del 1970 ci suggerisce qualcosa di molto differente. Quando lo Shah sostenuto dagli Stati Uniti, Mohammad Reza Pahlavi, fu rovesciato, il regime teocratico rivoluzionario che lo rimpiazzò, era fortemente anti-americano.

Gli Stati Uniti continuano a pagare il prezzo per aver sostenuto così fortemente lo Shah.

La lezione qui è che, nel lungo periodo, una stretta associazione con un autocrate è una cattiva idea.

Adesso la questione è: quale lezione dovrebbe guidare la politica americana, quella che viene dall’Iraq e dalla Libia o quella dell’Iran?

Se le lezioni della Libia e dell’Iraq contano di più, allora forse i legami più stretti con el-Sissi sono una buona idea per Washington e dovrebbe smettere di dichiarare di rimuovere Assad dal potere.

Ma se la lezione dell’Iran resta valida, allora abbracciare el-Sissi e tollerare Assad danneggerà gli interessi degli Stati Uniti quando questi dittatori cadranno e i dittatori inevitabilmente cadono.

La politica dell’ “abbraccio ai dittatori amici” ci avverte di costi ed effetti avversi che potrebbero verificarsi al di fuori del paese nel quale viene applicata: scoraggia potenzialmente i movimenti democratici nascenti e diminuisce la percezione di moderatezza da parte dei dittatori.

Se la domanda è: la minaccia proveniente dall’estremismo violento islamico giustifica i rischi di “abbracciare” i dittatori del Medio Oriente?

Suggeriamo come risposta: no.

Nei casi in cui gli Stati Uniti sono rimasti fuori e forze interne hanno fatto cadere i regimi autoritari, Egitto sotto Mubarak, Tunisia sotto Zine al Abidine ben Ali, i risultati lontani dall’essere perfetti, non hanno avuto come conseguenza nazioni governate da estremisti o  che direttamente sostengono l’estremismo transnazionale.

Le linee  con 56 sfumature di rosso

Trump  dovrebbe specificare quali sono le linee rosse, e se non altro farci capire se lui le vede sfumate o no. All’indomani dell’attacco chimico in Siria dichiara che questa situazione ha varcato tutte le linee quando solo una settimana prima aveva dichiarato che Assad è una realtà politica da accettare. Forse le linee di Trump sono sfumate? E el-Sissi? quante sfumature di rosso repressione da parte del regime egiziano sarà disposto a tollerare Trump?

Forse dovrebbe concentrarsi sul fatto che avere a che fare con i dittatori è sempre una situazione colma di pericolo. Lui e i suoi advisor dovrebbero aprire un libro di storia e ricordarsi che in Iran nel 1970 gli Stati Uniti fecero un errore strategico talmente grande di cui ancora pagano il prezzo.

Febbraio 4 2017

Emirati Arabi Uniti accrescono la relazione bilaterale con l’India

Emirati Arabi Uniti

Le prospettive di crescita dell’India e i timori degli Emirati Arabi Uniti circa la radicalizzazione potrebbero indurre la monarchia del Golfo a considerare una più pronunciata inclinazione verso l’India, lontano dal Pakistan. Ciò potrebbe avere un considerevole impatto sul Medio Oriente e sul Sud dell’Asia.

L’attentato a Kandahar (Afghanistan) come messaggio diretto agli Emirati Arabi Uniti  vista la loro crescente cooperazione sul contro-terrorismo con l’India.

Quando, a metà gennaio 5 diplomatici degli Emirati Arabi Uniti sono stati uccisi in un attacco a Kandahar, le autorità afghane hanno subito dichiarato che i responsabili appartengono della rete di Haqqani, sospettata di avere legami con l’intelligence pakistana.

Il primo attacco in Afghanistan a diplomatici di uno Stato del Golfo sembra essere decisamente un messaggio diretto agli Emirati Arabi Uniti in ragione della loro crescente cooperazione con l’India sul contro-terrorismo. La tempistica dell’attentato sostiene questa tesi perché è avvenuto qualche settimana prima della partecipazione del potente principe ereditario di Abu Dhabi: lo sceicco Mohammed Bin Zayed Al Nahyan, che è anche il vice comandante delle forze armate degli Emirati, alle celebrazioni del giorno della Repubblica in India come ospite d’onore. Un gesto simbolico riservato ai partner più vicini all’India.
Il principe ereditario era il primo “non-capo” di Stato ad essere ospite d’onore per la parata del giorno della Repubblica indiano. Inoltre, durante la visita, ha firmato circa una dozzina di accordi con il Primo Ministro indiano Narendra Modi che spaziavano dall’energia, all’accordo per le riserve strategiche di petrolio, fino agli investimenti e alla cooperazione nel settore della difesa.

La visita ha segnato una rinnovata, ufficiale, relazione tra i due paesi a livello di partneriato strategico che ha, inoltre, gettato le basi per la costruzione di una significativa relazione sul commercio che entrambe le parti vogliono ulteriormente rafforzare.

Le relazioni India – EAU tra stabilità e interessi geo-economici

Sebbene accresciuti i legami India – Emirati Arabi Uniti certamente contengono in sé una logica d’interessi particolari propri di ciascuno Stato. Condividono timori riguardo alla stabilità, hanno interessi convergenti per il sostegno di interessi geo-economici, tuttavia resta da vedere quanto gli Emirati Arabi Uniti s’inclineranno verso l’India nelle loro relazioni con il Sud Asia, oppure la monarchia del Golfo suddividerà  le sue relazioni sulla sicurezza tra l’India ed il Pakistan.

Gli Emirati si sono avvicinati, senza dubbio,  alle posizioni dell’India per quanto riguarda la lotta al terrorismo internazionale. Attualmente il più prominente paese arabo sembra sia deciso a sostenere una proposta di trattato: Comprehensive Convention Against International Terrorism, sostenuta dall’India, nel quadro delle Nazioni Unite. Proposta che è rimasta a lungo sul tavolo.

Gli Emirati dal 2015  hanno espulso più di 10 individui sospettati di terrorismo di origine indiana. Inoltre, sembra, dalla diffusione di alcuni rapporti, che gli Emirati Arabi Uniti abbiano congelato gli assetti del malvivente (sospettato anche di terrorismo) e ricercato Dawood Ibrahin, che, al momento, si ritiene che risieda in Pakistan. Sebbene l’ambasciatore degli Emirati in India non abbia confermato questi rapporti, si ritiene che gli Emirati Arabi Uniti abbiano iniziato ad occuparsi delle reti di organizzazioni terroristiche basate a Dubai come Lashkar-e-Taiba*, evidentemente questo un gesto di umiliazione nei confronti del Pakistan.

Il commercio come fondamento dei legami India-Emirati Arabi Uniti

La crescita della relazione India-Emirati Arabi Uniti ha come caposaldo il commercio: l’India è il principale partner commerciale degli Emirati Arabi Uniti, mentre quest’ultimo Stato è tra i tre principali partner commerciali dell’India. Entrambe le parti hanno annunciato piani ambiziosi per incrementare il commercio bilaterale: fino al 60% del livello attuale che è di circa 60 miliardi di dollari.

Con tutta probabilità, proprio quest’anno, si darà vita all’accordo bilaterale che impegnerà gli Emirati Arabi Uniti ad investire fino a 75 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali in India in un periodo di 10 anni.

Nel complesso, l’India sta cercando di attrarre sempre più investimenti da parte delle imprese degli Emirati Arabi Uniti ad esempio nel settore immobiliare e petrolchimico, mentre gli Emirati desiderano dall’India informazione tecnologica ed expertise ingegneristica.

Sebbene per gli Emirati Arabi Uniti, l’India è, e continua ad essere, un cliente chiave per le esportazioni di petrolio e gas, ora gli Emirati vedono l’India anche come un partner ideale per la diversificazione economica.

Entrambe le parti hanno interesse nella stabilità regionale e tutto ciò detto, cioè i modelli verso cui si delineano le relazioni bilaterali tra questi paesi, rivelano la loro marcia più profonda e geostrategica. Inoltre, sono già in corso esercitazioni militari e addestramenti congiunti India-Emirati Arabi Uniti, con Nuova Delhi e Abu Dhabi che esplorano strade per la co-produzione di hardware militare, come i sistemi di difesa aerea.

India utile per gli Emirati nella gestione delle tensioni con l’Iran

Per gli Emirati Arabi Uniti, l’India è anche vista utile alla gestione delle tensioni con l’Iran, specialmente dato l’interesse di Nuova Delhi nel tenere aperti blocchi nel nord dell’Oceano indiano.

Gli Emirati Arabi Uniti potrebbero essere, ragionevolmente, interessati al partenariato con l’India per lo sviluppo del porto strategico Chahbahar in Iran, dato che gli Emirati sono già il secondo più importante partner commerciale dell’Iran, malgrado le tensioni.

Cosa ne sarà della relazione Emirati-Pakistan?

Il ruolo potenziale che l’India può giocare in maniera più ampia, come facilitatore della cooperazione tra Emirati Arabi Uniti e Iran è in netto contrasto con la posizione del Pakistan. Stato quest’ultimo che mantiene collegamenti con le reti di organizzazioni terroristiche e si rifiuta di trovarsi coinvolto in dispute con Teheran all’interno del quadro del  Consiglio di Cooperazione del Golfo.

Le relazioni tra Emirati Arabi Uniti e il Pakistan hanno iniziato a contrarsi con il rifiuto del Pakistan, nel 2015, di impegnare truppe nella coalizione a guida saudita per combattere gli Houti in Yemen (dove gli Emirati hanno giocato un ruolo importante).

Non va trascurata la circostanza che il Pakistan e gli Emirati hanno una lunga storia di profondi legami militari, e non sarà così semplice per ciascuna parte scioglierli. Non è un caso che l’India abbia dovuto rifiutare l’offerta dagli Emirati di inviare un contingente di paracadutisti per la marcia della parata nel giorno della Repubblica indiano, proprio in virtù della stretta relazione di addestramento tra forze speciali pakistane e paracadutisti degli Emirati. Sebbene le forze armate degli Emirati Arabi Uniti fossero presenti ugualmente alla parata indiana con un contingente dell’aeronautica.

Dal canto suo il Pakistan cercherà di utilizzare, con tutta probabilità, la promessa del Corridoio economico Cina-Pakistan per fornire un incentivo economico agli Emirati e quindi tenere alto l’interesse al mantenimento di forti legali con loro.

*Fondata agli inizi degli anni novanta da Hafiz Mohammed Sa’id, agli inizi attivo soprattutto nella regione di Jammu e Kashmir, al confine tra Pakistan e India, Lashkar-e Taiba è prevalentemente composta da radicali religiosi pakistani che professano un’ideologia sunnita ultraortodossa.
È attualmente locata vicino a Lahore (Pakistan) e sono operativi in diversi campi di addestramento militare in Kashmir. Alcuni membri di questa organizzazione hanno compiuto attentati contro l’India il cui obiettivo primario era quello di cacciare l’amministrazione indiana dal Kashmir.

Foto: fonte Al Jazeera

Gennaio 5 2017

PKK: lo stesso messaggio per Erdogan e per Trump

PKK

La una soluzione pacifica per il conflitto curdo sembra essere più distante che mai. Il PKK ha poche opzioni a sua disposizione: la soluzione militare alla questione curda sembra essere quella per cui ha optato. Il messaggio dal PKK, dal TAK, al governo turco e all’entrante amministrazione Trump sembra essere forte e chiaro.

Una settimana prima di Natale la Turchia aveva subito un altro attacco terroristico, una bomba in una macchina la cui esplosione ha causato la morte di 13 soldati e ne ha feriti 55 nella città di Kayseri. Sebbene, messo in ombra dall’assassinio, qualche giorno più tardi, dell’ambasciatore russo in Turchia, la bomba è esplosa qualche settimana dopo un doppio attacco suicida che aveva ucciso 44 poliziotti e ne aveva feriti 150 fuori dallo stadio di Istanbul.

Mentre non c’è stata una rivendicazione immediata per l’attentato di Kayseri, evidenze abbastanza solide segnalano che si tratta degli stessi perpetratori dell’attacco del 10 dicembre: il Kurdistan Freedom Falcons (TAK), un ramo molto ben conosciuto, del PKK ovvero il partito dei lavoratori curdo. La rapida successione degli attacchi ci indica che malgrado 20 mesi di combattimenti nell’est della Turchia tra PKK ed esercito turco, il PKK è ben lontano dall’essere sconfitto.

E qualche ora fa c’è stato un attentato con un’autobomba e un uomo armato nella città di Smirne, gli ufficiali turchi hanno già indicato i militanti curdi come i responsabili.

Sembra che l’elezione di Trump negli Stati Uniti abbia trasformato una brutta situazione, in Turchia, in un incubo per il PKK e che l’unica opzione a disposizione dei curdi sia attaccare lo Stato turco.

Chi è il TAK?

Il TAK ha aumentato la sua levatura nel 2005 con attacchi ai resort della costa turca, intesi a colpire il settore del turismo. Mentre alcuni analisti di sicurezza credono che il TAK si sia separato dal PKK, la maggior parte degli studiosi del gruppo come Vera Eccarius-Kellu, Metin Gurcan, lo identificano come affiliato “genericamente” al PKK.

È stato sostenuto che il PKK si “affida” al TAK per attacchi su soft target che potrebbero danneggiare la reputazione del gruppo o esercitare una pressione sullo Stato turco durante le negoziazioni di pace.

Mentre si crede che sia finanziato e sostenuto logisticamente dal PKK,

il TAK sembra essere indipendente nel selezionare gli obiettivi e nella tempistica degli attacchi.

La narrativa della divisione PKK-TAK contiene il beneficio di una verosimile negabilità, da parte del PKK, delle azioni del TAK.

Nel caso degli attacchi di Kayser e Istanbul, c’è ragione di credere che gli attentati siano stati pienamente coordinati con il comando del PKK nelle montagne Qandil che confinano con l’Iraq e che il destinatario inteso del messaggio contenuto negli attacchi non solo era il presidente Erdogan, ma il presidente–eletto americano.

Sebbene sia prematuro affermare quali politiche l’amministrazione Trump perseguirà con la Turchia e per il conflitto curdo, c’è una buona ragione per credere che, per il PKK, Trump a Washington sia una sciagura.

Le dinamiche politiche e militari sul terreno e quello che si conosce delle priorità strategiche di Trump ci suggeriscono un riavvicinamento Trump, Erdogan, Putin quando si tratta di Siria.

Trump non ha lasciato dubbi sul fatto che, se la sconfitta dello “Stato islamico” e la stabilizzazione della Siria significassero Assad ancora al potere, pagherà il prezzo che ci sarà da pagare.

Questo cambiamento nella politica americana ovviamente si armonizza con gli obiettivi russi in Siria.

A ciò si deve aggiungere la dichiarazione aperta di Erdogan che la rimozione di Assad non è più una priorità per Ankara. Il Presidente turco dichiara, piuttosto, che una priorità è prevenire che il Syrian Kurdish Democratic Union Party, o PYD, un affiliato del PKK,  stabilisca un “quasi – State” autonomo nel nord della Siria, simile al Kurdistan iracheno.

Cosa interessa a Trump

Questo tipo di riallineamento di interessi tra gli Stati Uniti, la Turchia e la Russia si preannuncia come una vera e propria calamità per il PYD e per estensione per il PKK, che ha beneficiato dall’avere come alleato il PYD, attore chiave nella coalizione internazionale contro lo “Stato islamico”.

Per l’amministrazione Trump, il PYD e i curdi siriani importano solo fino a quando forniscono le forze sul terreno per combattere lo “Stato islamico” esplosione dopo esplosione.
Una volta che lo “Stato islamico” sarà stato sconfitto o degradato significativamente, lo scenario per i curdi siriani sarebbe, verosimilmente, quello di essere scaricati dai nuovi sostenitori siriani e lasciati  in balia di Turchia e Assad.

Ci sembra improbabile che Trump si preoccupi molto della situazione dei diritti umani in Turchia, soprattutto perché quello che veramente importa a Trump è la posizione strategica della Turchia nello sconfiggere lo Stato islamico e nel controbattere la crescente influenza iraniana nella regione, non il destino della libertà di stampa, la minoranza curda o i diritti dei dissidenti politici.

Tutto questo concede ad Erdogan briglie sciolte per occuparsi del PKK e del PYD in Siria come si sente più a suo agio. In Siria, la battaglia per la città strategica a nord, al-Bab, vicino alla frontiera turca, continua ad infuriare, ponendo le forze ribelle pro-turche e l’esercito turco contro la milizia PYD, conosciuta come YPG (People’s protection Unit), così come contro lo “Stato islamico”. Nel frattempo Erdogan continua il suo giro di vite sul HDP, il Peoples’ Democratic Party a radice curda. I suoi leader più importanti sono stati arrestati e i fedelissimi di Erdogan hanno perquisito tutti gli uffici del partito nel paese.

In questo contesto, con una soluzione pacifica per il conflitto curdo più distante che mai, ci sono poche opzioni a disposizione del PKK. Sembra che quest’ultimo abbia scelto la soluzione militare ed il messaggio dal PKK, dal TAK, al governo turco e all’entrante amministrazione Trump sembra essere forte e chiaro.

Non ci sfugge neanche che gli Stati Uniti hanno considerato il PKK un gruppo terroristico dal 1997 e che preoccupazioni per i diritti curdi, l’autodeterminazione che sia in Turchia o in Siria, non è stata mai una priorità per gli Stati Uniti.